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Autore: peetahugme    12/09/2014    0 recensioni
Le vicissitudini di quattro ventenni, divisi tra lavoro in palestra e università, Lettere Classiche e Moda, ma soprattutto alle prese con le difficoltà comportate dal vivere una vita a tutto tondo, esponendosi a quelli che possono essere i dolori ma, alla fine, riuscendo a trarne profonda gioia; impareranno ad amarsi l'un l'altro, impareranno i veri valori, ma soprattutto impareranno che, nonostante tutto, la loro sia una bella vita.
Genere: Demenziale, Fluff, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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Circa una settimana dopo, tutti quegli avvenimenti sembrano essere distanti anni luce: le paranoie che Elena e Matteo si erano fatti riguardo ai due ragazzi conosciuti in modi un po’ bizzarri, rappresentavano ormai un problema passato e i due ragazzi erano ritornati alla vita di tutti i giorni. Entrambi stavano dando i loro primi esami, che neanche a dirlo andavano a gonfie vele, e la Vasari si era mossa per trovare quel lavoro a cui stava pensando.

Fin da ragazzina, aveva sempre pensato che per lei, che adorava immergersi fra gli scaffali pieni di libri, il lavoro perfetto fosse all’interno della biblioteca più conosciuta della città: la S. Giovanni per lei era sempre stato un luogo importante, dato che fin da piccola era stata abituata a frequentarlo, prima solo per il piacere di trovare i libri che le interessavano senza doverli pagare e poi, negli ultimi mesi, anche per studiare. Così un giorno si era decisa a mettere da parte imbarazzo e timidezza, difetti che da sempre le creavano un’assurda situazione di ansia impedendole di vivere con leggerezza. La sua vita era un’ansia gigante: da sempre anche chiedere aiuto ad una commessa per lei costituiva una situazione problematica, figuriamoci andare a chiedere un lavoro dove magari non ce ne era neanche bisogno. Preso il suo curriculum, uscì di casa e nel giro di due minuti raggiunse la sua meta. Varcando la soglia, rallentò giusto un secondo per controllare che in lei fosse tutto a posto; indossava ancora il cappotto di feltro blu scuro, e decise di non toglierselo nel caso fosse stata subito respinta da un semplice “Non siamo interessati, grazie”. I jeans che aveva scelto quella mattina, che mettevano in risalto le sue gambe sottili, e le Clarks beige che portava ai piedi la facevano sembrare proprio la stessa quindicenne che più di quattro anni prima andava lì per prendere in prestito le sue prime tragedie greche. Passato il baretto, si ritrovò dritta davanti al banco informazioni. Riconobbe la donna dai capelli corti e brizzolati che le stava di fronte, seduta davanti ad un monitor, e si ricordò del suo strano accento. Un tempo lavorava alla sezione bambini, quindi aveva forse ottenuto un incarico più prestigioso.
“Salve”, esordì la giovane.
“Buonciovno”, disse di rimandò la donna. Brasiliana o tedesca?
“Ehm, io ero venuta qui per domandare se aveste per caso bisogno di… qualcun altro per, ehm, lavorare?”. Si era resa conto che la sua frase era risultata priva di sintassi nella parte finale, ma purtroppo mentre già stava parlando si era resa conto di non sapere come si chiamassero precisamente coloro che lavorano in biblioteca. Per dire, chiedere lavoro ad un alimentari sarebbe stato molto più semplice: “Salve, vi serve una commessa?”; certo, avrebbe potuto dire bibliotecaria, ma le suonava un po’ troppo altisonante, come se lei desse già per scontato di esserlo, o fosse a capo di tutta la struttura. Ecco, questi erano i pensieri che le affollavano la mente mentre stava facendo la sua prima specie di colloquio. Nessuno capiva mai per davvero quando lei parlava della sua ansia e delle sue cosiddette seghe mentali. Erano davvero destabilizzanti. Per farla breve, in ogni caso, non appena la tipa-dallo-strano-accento accennò un “Atesso sentiamo con il tivettove”, lei mormorò un “okay, grazie” in risposta per poi rimanere lì ferma impalata, torcendosi le dita della mani. Non appena la donna ebbe finito di parlare al telefono con il suo superiore, le annunciò che di lì a pochi mesi un signore sarebbe andato in pensione dopo 30 anni, e che in effetti alla Biblioteca poteva servire un suo sostituto, che lui stesso avrebbe istruito. Per tutta la durata del discorso, la brunetta tentò di non lasciarsi distrarre troppo dall’assurdo accento-brasiliano-o-tedesco, e si limitò ad annuire con convinzione crescente. Conclusione? Era stato fissato per lei un vero e proprio colloquio con Paolo Righetti, il proprietario della baracca, lì in biblioteca il giorno seguente, verso le 15.30. Dopo essersi profusa in ringraziamenti spropositati e saluti cordiali (che sulle sue labbra risultarono parecchio strani, dato che era abituata da sempre al solito grazie mille, ciao), fece la strada a ritroso e non appena fu fuori dall’edificio alzò gli occhi al cielo, tirò un bel sospiro e si avviò di nuovo verso casa.

Quello stesso giorno, preparando il borsone, si guardò bene dall’arrivare in anticipo in palestra, ovviamente, perché non voleva più ritrovarsi nella stessa scomoda situazione di qualche giorno prima: temeva anche che il ragazzo l’avrebbe potuta ri-salutare, e che tutti i saluti non fossero solo stati fatti per educazione ma per prendersi gioco di lei, del tipo: “ciao sfigatella ti sto salutando così solo per ricordarti la figuraccia che hai fatto prima e farò così all’infinito per metterti in imbarazzo così impari a fare gli scout e impari anche ad arrossire ogni volta che uno sconosciuto ti rivolge la parola”. No, okay, quest’ultima parte l’aveva aggiunta lei e c’entrava ben poco, però il concetto era quello. Inutile dire che ringraziò Santi e Beati di tutto il Paradiso nel momento in cui raggiunse lo spogliatoio senza che lui la vedesse; a dire la verità la imbarazzava un po’ dare così tanto peso alla cosa, perché ciò significava che lei vedeva per forza qualcosa in quel saluto quando in realtà non si sarebbe dovuta mostrare così coinvolta e così via. Credo che ormai voi tutti abbiate capito che quando lei andava in ansia iniziava a parlare più veloce, o pensare più veloce, come se stesse scrivendo senza punteggiatura. Si fece una doccia veloce, e dopo essersi asciugata, cambiata e vestita iniziò a radunare tutte le sue cose, e con sgomento si accorse di aver dimenticato la bottiglietta d’acqua di sotto, su una delle panchine ai lati della palestra. Lo sapeva che avrebbe dovuto continuare a bere dal rubinetto del bagno! Per lei la bottiglietta d’acqua era solo un inutile spreco di spazio ma, dato che eccezionalmente per quel giorno se ne era trovata una a casa, aveva deciso di portarla. Ma di certo non aveva fatto i conti con la sua sbadataggine. Così, dopo aver chiuso le zip di giubbotto e borsa, si avviò di sotto per le scale. Ovviamente per lei anche incontrare delle persone costituiva una fonte di ansia non indifferente, per questo era abituata a camminare quasi sempre a testa bassa non appena vedeva qualcuno che poteva conoscere. Fece così anche in quell’occasione, ma purtroppo la ruota gira, e se quel giorno le era già andata bene col lavoro, non poteva aspettarsi anche di non fare figure di merda. Agguantò le bottiglietta d’acqua e in men che non si dica, ruotando su se stessa usando il piede destro come perno si voltò per percorrere il percorso contrario, ma non fece neanche in tempo a muoversi in avanti di un passo che un pallone da basket le arrivò dritto in faccia. Barcollò un attimo, e le forti luci azzurrine appese al soffitto si raddoppiarono. Giustamente, avendo la testa bassa, non aveva visto chi precisamente era stato a colpirla, perciò sentendo un “Oh Gesù, scusa!” si limitò a fare un cenno in direzione della voce mormorando un “Niente”, sperando che il naso non fosse visibilmente danneggiato. Beh, direte voi, una pallonata? Tutti ‘sti problemi per una pallonata? Eh sì, alla nostra Elena bastava molto per considerare una discreta giornata come una brutta giornata. Non sapeva che ciò che le stava per succedere sarebbe stato il triplo più imbarazzante. Nell’andar via così di fretta, infatti, non si era accorta che l’artefice del disastro le si stava avvicinando. Lei stava già salendo l’unico gradino che portava al pianerottolo quando lui la raggiunse. Le toccò leggermente la spalla destra con la mano, e quando si fu girata del tutto verso di lui, questi appoggiò la mano libera sull’altra spalla, guardandola dall’alto al basso. Gli occhi di lei erano in realtà all’altezza del petto, cosicché poteva benissimo vedere una canotta da basket blu con le scritte arancioni. Bastekminkia?
“Davvero, stai bene?”, continuò, una zazzera di capelli neri che ondeggiava ad ogni suo movimento del capo. Alla Vasari non ci volle nulla per identificare il ragazzo che l’aveva colpita. Il bidello. Il dannatissimo bidello che l’aveva salutata forse per educazione o forse per prenderla in giro che proprio in quel momento aveva smesso di fare il bidello e aveva deciso di tirare a canestro. Era una di quelle sfighe/coincidenze che potevano capitare solo a lei. Prima che le uscisse un qualsiasi tipo di risposta passò qualche secondo, tanto che il ragazzo sollevò le sopracciglia, continuando a mantenere un’espressione preoccupata.
“Stavo meglio prima, ma comunque sì, tutto bene”. Decisamente, dati il suo carattere mansueto e la sua timidezza, quella risposta era stata un affronto. Soprattutto visto che era stata data ad uno sconosciuto. Soprattutto se questo sconosciuto era sostanzialmente un figo. Pregò il cielo che il colorito rosso peperone che avevano assunto le sue guance non si notasse troppo.
“Aspetta, siediti qui”. Non demorde, il bastardo, pensò la ragazza, seguendo con lo sguardo la direzione indicata dalla mano di lui: una cattedra di legno vicino alla porta.
“Non credo di essermi rotta niente”.
“Sei una scout, ciò significa che la tua soglia del dolore è alta. Quindi è probabile che il tuo naso sia rotto ma che tu non te ne sia accorta”.
Decisamente, la situazione stava prendendo una piega bizzarra. Quindi lui si ricordava della loro conversazione. E al novantanove percento delle possibilità quella sua ultima affermazione non era altro che un altro modo per sfotterla. La Vasari, giusto per fare un po’ la preziosa e far vedere che si era totalmente dimenticata del loro primo incontro, fu tentata per un secondo di fare la gnorri e chiedere come facesse a sapere che lei frequentava gli scout. Poi si rese conto che sarebbe stata una cosa ipocrita. Con una risatina, iniziò a controbattere.
“Non tutti gli scout hanno una bassa soglia del dolore. Io sì, ma le due cose non sono collegate. La natura mi ha creata resistente”. Che cazzata da dire, realizzò nell’attimo stesso in cui pronunciava quelle parole. Lei era ancora in piedi a torcersi le mani, indecisa su cosa fare, mentre l’altro sembrava scomparso nello stanzino del materiale. Elena si concesse un piccolo momento di gioia perché forse lui poteva non aver sentito l’insulsa frase che aveva appena detto. Egli tornò poco dopo sventolando un ghiaccio secco con un’espressione da pazzo psicopatico.
“Beh, allora vuol dire che la natura quando ti ha creata sapeva già che avresti fatto gli scout”. La studentessa corrugò la fronte per un secondo, sorridendo. Prese al volo il ghiaccio che le veniva lanciato e se lo rigirò tra le mani per un secondo. “Uhm, non… Non serve, davvero. E’ una pallonata. Non mi serve il ghiaccio.”, ma lui sembrava deciso a sprecare parte del suo kit medico di pronto soccorso, quindi le rispose: “Se stai dicendo così solo perché non sai come fare diventare ghiacciato quel coso, faccio io, eh”. Lo disse con tutta la naturalezza del mondo, senza traccia di malizia.
“Io…”, iniziò lei, premendo il sacchettino nel mezzo e sperando che la sua forza da pettirosso riuscisse a spaccare quello che c’era da spaccare. “…So come accenderlo. Ecco fatto”. Sorrise soddisfatta e alzò il ghiaccio come se fosse un trofeo di caccia verso il punto in cui prima si trovava il bidello. Ma era scomparso. Stava in pratica parlando al nulla. Beh, che dire…
Fece un segno di saluto con la mancina e si avviò verso la porta. Quello era proprio uno di quegli aneddoti che andavano raccontati a Matteo. Aiutata dalla luce del lampione già accesa, frugò nella borsa alla ricerca dello smartphone e non appena l’ebbe trovato entrò nella chat con lui. Avviandosi verso la bici iniziò a digitare il racconto. “Aspetta!” Gesù, pensò lei,  cazzo c’è ancora? Rivuole indietro il ghiaccio mezzo usato? “Sì?”
“Penso che dovremmo andare a mangiare qualcosa”. La ragazza si accorse solo in quel momento che non aveva più i pantaloncini in tessuto sintetico e la canotta, bensì un paio di jeans con uno strappo poco sopra al ginocchio e una camicia di cotone blu scuro. “Sai, nel caso continuasse a farti male il naso…”
“Uhm, cosa? Mi salveresti con un incantesimo?”
“A quello ci sto ancora lavorando. Ma potrei tipo portarti al pronto soccorso.”
“Oddio”, fece Elena, trattenendo una smorfia di divertimento. “La cosa sta diventando ridicola”.
“Forse, ma dico sul serio”. La seguì fuori dall’edificio, chiudendo la porta dietro di sé. “Andiamo.”
“E qui, lasci tutto così?”
“No, il coglione che si è scansato quando gli ho tirato la palla facendo sì che ti arrivasse in faccia è quello che fa il turno dopo di me.”
GRAZIE, COGLIONE, GRAZIE! “Capisco”.
“Conosco una panineria poco distante. Tutte le cose che ti vengono in mente dentro ad un panino, ci sono. Cioè, non so di preciso a cosa tu stia pensando, ma c’è un sacco di roba”. Il fatto che fosse così impacciato e che si impappinasse ad ogni frase era adorabile, a parere di Elena.
“Uhm, okay”.
“Va bene…”
“Oddio, però, aspetta! Quando vado in palestra non porto mai via il portafoglio, perché conto di tornare sempre a casa!”. La smorfia di terrore che aveva dipinta sul viso veniva parzialmente nascosta dal buio.
“Quindi?”
“Beh, quindi… Non ho soldi”.
“Tanto era già previsto che offrissi io.”
“Ehm, lo era?”
“Già. Sai, la pallonata…”
La Vasari distolse lo sguardo dalla strada, scuotendo impercettibilmente la testa. “E’ solo una pallonata. Se tutte le persone da cui ne ho ricevuta una dovessero pagarmi la cena, sarebbe figo”.
“Non è una regola, non sono obbligate. Io lo faccio: sai, per rimorchiare e cose del genere”.
“Wow, che galanteria…”. Disse lei con ironia. La sua frase rimase per un po’ sospesa nel vuoto e nel silenzio. Che bei silenzi distesi, questi, pensò la brunetta, annuendo con le labbra strette di fronte ad una evidente mancanza di argomenti. Si vedeva proprio che non era abituata ad uscire coi ragazzi.
“Mi chiamo Elena”. Al momento le sembrò la cosa più intelligente da dire, visto che non si erano ancora presentati.
“Questa è stata carina…”
“Già…”
"Davide. Mazzini.”
“Bene, Davide Mazzini.”
“Sì.”
“E quindi, ti… ti piace il basket?”. Sperava che non avrebbe dovuto fare lei le domande per tutta la serata, e sperava che lui non le rispondesse a monosillabi. Uno dei suoi più grandi amici lo faceva spesso, e non era per niente una bella cosa.
“Sì.” Nonononono i monosillabi ti prego no cazzo cazzo perché sempre io cio---- “Sì, cioè, non sono proprio un esperto, ma me la cavo, nel senso che ho ventun anni, se non me la cavassi bene in diversi sport sarebbe un problema. Però non conosco molti giocatori, se non quelli famosi. Il mio sport è il calcio.”
“Ah”. Passata la paura dei monosillabi, lei rilassò i nervi, in quanto aveva piacevolmente scoperto che il ragazzo era stato dotato di parlantina facile, e quindi per quella sera la conversazione non sarebbe stata a senso unico. “Giochi?”
“Giocavo”, iniziò lui, grattandosi la nuca con la mano sinistra. “Adesso alleno. Cioè, allenavo. O forse alleno. Dipende cosa scelgono i capi. Se mi rivogliono eccetera.”
“Non per dire, ma siamo a Gennaio, non pensi che, se avessero voluto…”. Non continuò la frase, le dispiaceva dire che se avessero voluto richiamarlo per allenare l’avrebbero già fatto, visto che la stagione era ormai iniziata da un pezzo.
“Wow, siamo a Gennaio, che osservazione acuta!”
“Ah ah.”
“No, comunque, ti spiego: a fine campionato, l’anno scorso, ho detto ai dirigenti che siccome mio padre non era più disposto a mantenermi e cose così, per prima cosa mi sarei dovuto trovare un lavoro.”
“Ma fare l’allenatore è un lavoro.”
“Un lavoro serio.”
“Beh, è un lavoro serio!”
“Magari per qualche anno sì, ma fra un po’ vorranno gente più giovane e fresca, non riuscirei a costruirmi un futuro.”
“Ah, e invece con un lavoro precario da bidello sì!” Quanto mai le avranno potuto dare fastidio i ragionamenti insensati e ipocriti?
“Elena, Elena…”, il suo nome suonava dolce sulle sue labbra. “Ti sarei grato se evitassi di interrompermi. Ricordati che potrei sempre piantarti qui con il tuo naso rotto.”
“Io non ho il… Oh cielo, vai, continua”. Fece la finta esasperata e si concesse anche uno sbuffo spazientito, ma la verità era che trovava troppo dolce quel ragazzo di nome Davide intento a parlare di futuro. “Dicevo che non appena ho rimediato quel posto in palestra, li ho subito contattati per dare la mia disponibilità. Hanno detto le faremo sapere.”
“Aia.”
“Già, non suona troppo bene. E’ come quando una ragazza ti dice ci sentiamo. Cioè, se volessi davvero risentirmi, faresti qualcosa, fisseresti un appuntamento, mi daresti il tuo fottuto numero o che so io, no?”
“Sono d’accordo.” Disse lei annuendo con finta convinzione; in realtà era davvero del suo stesso parere, ma le faceva troppo ridere il modo in cui si era infervorato per una causa così sciocca. “Quindi vivi da solo?”
“Sì, da inizio Settembre. Per due mesi sono stato da un amico, presente quelli che conosci da una vita, con i genitori che chiami per nome e con cui hai passato del tempo…”
“Sì, ho presente.”
“Eh, in pratica un giorno alla fine di Agosto si sono riuniti, tutta la famiglia, pure la cazzo di sorellina che non c’entrava niente, e tutti seri e tristi hanno detto che Luca, che sarebbe questo mio amico, iniziava l’Università e quindi sarebbe stato impossibile tenermi con loro in casa, senza contare le spese e bla, bla bla.”
“Beh, hanno ragione…”
“Lo so che avevano ragione, Elena, lo so, ma perché fare tutti i dispiaciuti per poi pugnalarmi dandomi cinque fottutissimi giorni per sloggiare? Perché, non so se tu te ne intendi, ma un posto per dormire non lo trovi in cinque giorni.”
“Immagino.”
“Eh, immagini.”
“Quindi come hai fatto?”
“Sembrerà assurdo ma alla fine l’ho trovato.”
“Lol.”
“Eh, mia sorella conosceva uno disposto a farmi un buon prezzo per l’affitto, così con quei pochi soldi del calcio ho pagato i primi mesi, e poi ho trovato questo lavoro, quindi per un po’ dovrei essere a posto.”
“Figo.”
“Diavolo, se lo è. Eccoci, comunque, è questo.” Il ristorante, se così si poteva definire, aveva un che di anonimo e squallido che non piacque per niente alla Vasari. Sembrava uno di quei posti che finivano su Cucine da Incubo. Anche l’interno avrebbe decisamente avuto bisogno di una rinfrescata. I muri erano completamente imbiancati e scrostati in alcuni punti. I tavolini e le sedie, queste ultime di quel tipo che si può aprire e chiudere, sembravano presi da un baretto chiuso per fallimento. Le luci al neon, l’unica cosa in tutto l’ambiente che sembrava nuova, emanavano decisamente un bagliore troppo forte. “So che non è il massimo, ma è una specie di amico di famiglia.”
“Figurati. Come si mangia?”, chiese lei, mentre insieme a Davide seguiva il cameriere, diretto al loro tavolo.
“Seduti.”
“Ah ah. Invece la risposta seria qual è?”
“Uhm, boh, onestamente credo bene, ma è tutto super saporito, non a tutti piace.”
“A me sì. Adoro le cose saporite.”
“Siamo in due.” Dopo un secondo lo stesso cameriere che li aveva accompagnati al tavolo tornò per prendere l’ordinazione. Già pregustando il suo saporito hamburger, la ragazza chiese a colui che aveva davanti, in tono scettico e sorpreso: “Panino con la cotoletta?”
“Che c’è?”
“Boh, nulla, ma mi sa tanto da bimbo di sette anni in visita allo zoo con il cestino del pranzo al sacco.”
“Se ti interessa, lo prendevo anche a sette anni.” La cena continuò piacevolmente come era iniziata. La Vasari si era resa conto che Davide non era il tipo da rispondere a monosillabi, anzi: anche lui faceva di tutto per mantenere viva la conversazione, e non lasciava mai cadere il discorso, ponendo sempre qualche domanda. Dal momento in cui arrivarono i panini che avevano ordinato, disquisire si fece più difficile, ed entrambi preferirono sì aprire la bocca, ma solo per staccare i morsi dal loro piatto. Alla fine, tutto era davvero molto saporito e gustoso, e la carne sembrava essere di ottima qualità, in netto contrasto con l’arredamento, che al contrario lasciava presagire un menù scadente. Dopo aver ultimato tutto, si alzarono, pagarono e uscirono. “Dopotutto si mangia bene, davvero. Quando sono entrata mi sembrava uno di quei locali a cui fa visita Chef Ramsey”, fece lei, allungando la falcata per portarsi di fianco a lui.
“Sarebbe quello biondo sempre incazzato?” Una risatina. “Esattamente.”
“Non posso crederci.”
“Cosa?”
“Guardi Real Time?”
“Già…”; in effetti, non c’era da andarne fieri. La maggior parte dei programmi erano americanate, e più il tempo passava, più se ne creavano sempre di nuovi, ancora più stupidi. “Tu cosa guardi in tv?”
“Rai Storia. E le partite.”
Il tutto aveva dell’incredibile. “Serio? Mi fa strano che un ragazzo di ventun anni possa apprezzare un canale del genere. Fin ora, l’unica persona di mia conoscenza che lo guardava era mio padre.”
“Devo conoscerlo, allora.”
“Ahah, okay, è l’idolo di tutti i miei amici!”
“Anche di tutti i tuoi ragazzi?”
“Non ho una vita sentimentale poi così estesa”. Altra cazzata, sto battendo il record di gaffe fatte in un’ora, davvero. Sicuramente mostrarsi la sfigatella di turno non era la cosa giusta da fare con un ragazzo molto carino ad un quasi-appuntamento. Il “quasi” era necessario, perché forse la cena e tutto erano dovuti soltanto alla faccenda del naso. Ricordandosi di quest’ultimo, la ragazza se lo toccò per controllare se le facesse ancora male, o se avesse qualche ulteriore bozzo oltre alla solita gobba.
“Beh, comunque”, riprese lui, ignorando il silenzio imbarazzato che era sceso tra i due, “Sai, qualcuno forse ha degli interessi più… Culturalmente elevati, diciamo, rispetto agli obesi che dimagriscono.”
Elena realizzò che un ragazzo che usava termini come culturalmente elevati nel parlato, e che lo faceva con così grande naturalezza, era da sposare. “Ah. Studio Storia e Filosofia alla Sapienza.”
“Oh.”
“Già.”
“Mi scusi, dottoressa.”
“Raccogli i dentini.”
“Dopo. Cioè, sono andato a cena con una studentessa universitaria! Della Sapienza! Una studentessa universitaria!”
“Chiusa nella sua stanzetta umida?”
“Anche a me piace quella canzone. Cremonini, giusto?”
“Cristicchi.”
“Sì, sì, mi confondo fra i due.”
“Capisco. Ma è così strano usci… Beh, andare a cena con una che fa l’università?”. Sperò che l’indecisione che aveva mostrato nel pronunciare il termine uscire non si fosse notata troppo: sarebbe stato un problema, in caso contrario, soprattutto se quello, alla fine, non fosse stato un vero appuntamento.
“Non lo so. Gli universitari mi sembrano sempre superiori. Tipo un gradino sopra, capisci? E poi è il mio sogno proibito, che ovviamente non posso condividere con la gente che frequento perché altrimenti mi prenderebbero per un finocchietto secchione.”
“Non sono d’accor---”
“Nemmeno io, ma lasciami finire. Dicevo che è tipo il mio sogno proibito perché io ho sempre odiato studiare, e odio la scuola, odio i voti, odio gli orari, le scadenze…”
“E credi che ti sarebbe piaciuta l’Università?”
“No, infatti. Io odio studiare, no? E credo che un universitario medio studi come uno stronzo.”
“Ma?”
“Ma… Mi piace imparare. Mi piace sapere, scoprire, informarmi, vedere le cose da punti di vista corretti, farmi le mie idee… Adoro tutto questo. Ma non basta per fare l’Università.”
“Forse no. Che scuola hai fatto?”
“Ragioneria. Mi sono diplomato per il rotto della cuffia, dopo essere stato bocciato in quarta, o forse perché i prof non ne volevano più sapere di avermi lì. Però un po’ di gente che conosco dice che sarei stato da Classico in pieno, se mi fossi applicato un po’ di più.” La ragazza cominciava finalmente a capire come fosse possibile che un bidello precario sfoggiasse con tanta semplicità espressioni come quella di prima. Era uno con la testa.
“Mio padre era identico a te. Adorava storia e materie umanistiche, ma odiava studiare. Alla fine non si è manco diplomato, ma ne sa più di storia che un sacco di laureati e cazzi vari. E’ la passione che conta.”
“Lo devo proprio conoscere, tuo padre.”
“Sì, e poi vi farò fare una sfida su chi sa più aneddoti sull’incidente di Pearl Harbor.”
“Incidente? Non dirmi che…?”
“No, no, non penso sia un incidente. Credo di credere anche io che quello, e la caduta delle Torri Gemelle, e un mucchio di altre robe siano tutti complotti, per quella storia che la Costituzione americana vieta di dichiarare guerra se non dopo essere stati attaccati eccetera.” Con quel suo discorso sui complotti degli USA credeva di aver fatto centro su un fanatico della storia, ma Davide sembrava rimasto colpito da qualcos’altro. “Credo di credere?”, disse, accennando una risata.
“Sai, nella mia mente c’è sempre un po’ di indecisione.”
“Sei piena di sorprese!”

La serata continuò nel modo più piacevole possibile. Camminarono per le vie del centro per un’altra oretta circa, non badando alle vetrine ma soltanto a conoscersi meglio. Parlarono del probabile lavoro in Biblioteca e del colloquio del giorno dopo, dei loro libri preferiti, cibi preferiti, luoghi dove compravano i vestiti, della loro infanzia, dei loro amici, degli ambienti che frequentavano, dei luoghi che avrebbero voluto visitare, del loro lavoro ideale, e di tante altre cose. Il tutto venne arricchito con una serie di battute squallide e di commenti ironici che sembravano appartenere solo alle loro conversazioni, come se nessun altro al mondo fosse in grado di scherzare a quel modo, con la stessa loro semplicità.






Nota dell'autrice: ehilà! Eccoci ormai con il quinto capitolo... La storia inizia a svilupparsi ben bene! ^^ Che ne pensate di Davide? 
Grazie mille per aver letto fin qui.
  
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