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Autore: ellacowgirl in Madame_Butterfly    15/09/2014    0 recensioni
Raccolta di momenti di vita quotidiana di varie coppie, piccoli anfratti che vogliono evidenziare i loro rapporti ed i loro sentimenti scavando nel profondo, dai gesti più semplici alle parole non dette.
Ossessioni, paure, passioni, tutto ciò che li rende protagonisti della loro vita e fa di loro una piccola perla di cui vale la pena parlare.
~ Always: Unohana x Zaraki
~ I'll be there for you: Yoruichi x Soifon
~ You give love a bad name: Gin x Rangiku
~ In these arms: Unohana x Isane
(Ogni capitolo ha come titolo una canzone di Bon Jovi. Cercherò di trattare ogni coppia. Pubblicherò regolarmente e con immagine personalizzata.)
[Storia partecipante alla Challenge "Slice of Life" di areon sul forum di efp]
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Shoujo-ai | Personaggi: Gin Ichimaru, Rangiku Matsumoto, Un po' tutti, Yoruichi Shihoin, Zaraki Kenpachi
Note: Lime, Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Kenpachi's moments'
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Prompt: Bicchiere di vino
Titolo: You give love a bad name
Autore: ellacowgirl in Madame_Butterfly
Fandom: Bleach
Personaggi: Gin x Rangiku
Genere: Malinconico – Introspettivo - Sentimentale
Raiting: Verde
Avvertimenti: nessuno
Lunghezza: 1.513 parole (4 pagine)
Note autore: Momento trattato prima del tradimenti di Aizen, Gin e Tousen, quando questi erano ancora Capitani, anche se il rapporto fra i due protagonisti resta comunque travagliato.
Ps. Come tutte le altre storie, anche questa prende spunto da una canzone di Bon Jovi.
[ Questa fan fiction partecipa anche alla Challenge “500 prompt per una callenge” di Saru_Misa col prompt 241 “ubriaco/a”]
 
You give love a bad name

An angel’s smile is what you sell
You promise me heaven,
then put me through hell
Chains of love got a hold on me
When passion’s a prison,
you can’t break free
You give love a bad name
 



Finiva così molte sere – troppe - attaccata a quel boccale di sakè come non potesse farne a meno, nella locanda più squallida che ci fosse in circolazione… e sola.
Maledettamente sola.
Era sempre solare, Rangiku, il suo sorriso portava spensieratezza in ogni dove nella Sereitei, eppure anche lei aveva i suoi limiti – limiti imposti da un peso troppo grande da portare, s’intende – che ogni tanto le si imponevano con maggior forza di quanta ne possedesse nel proprio animo.
Non diceva dove andava – al suo stimato Capitano tantomeno -, aveva bisogno di svuotare la mente, liberarsi dei pensieri che ogni notte la tormentavano.
Ridicolo. Come sperasse di poter svuotare anche il cuore, un tentativo che falliva puntualmente ogni singola sera.
Eppure continuava a tentare, forse più disperata che determinata, chiedendo continuamente che il bicchiere le venisse riempito di un liquido che ormai non sapeva nemmeno più distinguere dall’acqua.
Se ne stava lì, in un tavolino buio ed isolato, una mezza candela ad illuminarle il volto troppo bello per essere ignorato – troppo bello per continuare a piangere – e quella scollatura sempre più evidente.
Era abituata agli sguardi promiscui degli uomini e non gliene fregava un accidente.
Che guardassero pure, niente di ciò che vedevano sarebbe mai stato loro, nemmeno lontanamente!
Perché era bella, tanto bella ed affascinante che avrebbe potuto avere chiunque ai suoi piedi…
Chiunque tranne lui.
 
Bevve un altro sorso, più intenso e sentito, quel liquido che le percorreva delicatamente la gola sino ad infiammarle lo stomaco, dandole una vana e fittizia sensazione di calore.
Quanto bottiglie si era già scolata?
Non se lo ricordava, non le importava nemmeno di questo.
Desiderava soltanto allontanare quel volto da sé e, se questo non le riusciva come nella maggior parte dei casi, vederlo quantomeno appannato… appannato tanto da non distinguere quel maledetto sorriso ironico, ambiguo, che mai le aveva fatto capire cosa pensasse o provasse per davvero.
«Stupido Gin.»
Biascicò a denti stretti, i lunghi capelli di un arancione dorato che le ricadevano ai lati del volto, quasi volesse nascondersi in essi.
Bevve, bevve ancora mentre una musica insignificante e stonata aleggiava per il locale.
Cercava di dare al suo ricordo un nuovo suono, un nuovo sapore, qualcosa che fosse tanto evanescente che, al sol pensiero, come tale sarebbe svanito.
Illusa.
Lasciò che i suoi meravigliosi occhi ghiaccio si specchiassero nel boccale che aveva dinnanzi, vedendovi riflesso solo un volto di disillusione, privo di speranza.
Sì, il tentativo era fallito anche quella sera.
Rabbiosa, lanciò quel tazzone oltre il tavolino: c’era tanta di quella confusione che nessuno s’accorse che si ruppe in mille pezzi, inumidendo il pavimento di quell’avanzo di malinconia.
Si alzò troppo velocemente, un capogiro la colse alla sprovvista ma pareva abituata anche a questo, tanto che con prontezza si tenne stretta al muro, sostenendosi.
Attese qualche attimo, il tempo di concedere ai sensi di riprendersi appena – soprattutto la vista – per poi dirigersi fuori dal locale nel più breve tempo possibile.
Un vento freddo l’accolse oltre la porta, ma si lasciò disorientare solo per un attimo – non che avesse un’idea precisa del dove andare, naturalmente.
Si limitò a barcollare nel buio, in fondo non sembrava poi così diverso che nei sogni – o meglio dire incubi – che faceva ogni notte, svegliandosi con l’angoscia che quel volto che tanto aveva maledetto d’improvviso sparisse senza dirle nulla, come aveva fatto tante volte.
Perché doveva dannarsi in quel modo?
 
Non seppe esattamente quanto camminò, il tempo passato a barcollare senza meta ed i momenti successivi vennero scanditi da alcune risate chiaramente udibili alle sue spalle.
Uomini, certamente tre. L’avevano seguita.
Era ubriaca, ma non abbastanza per non percepire un Raietsu piuttosto scarso, tanto che se fosse stata sobria non avrebbe nemmeno dovuto estrarre la Zanpakuto per farli fuori, eppure le sue condizioni non erano delle migliori.
Avanzò, finse di non accorgesse, ma quei passi si avvicinavano.
«Ehi, bellezza! Dove scappi?» Gridò uno tra una risata e l’altra.
Rangiku imprecò.
«Dai, fermati, conosciamoci meglio!» Continuavano.
Strinse i denti e maledisse quel genere maschile per cui serbava un particolare rancore.
Di nuovo un capogiro, fu costretta a fermarsi e ad appoggiare una spalla al muro per non cadere rovinosamente a terra.
Ma la raggiunsero, ovviamente, anche piuttosto rapidamente.
L’accerchiarono come si fa con le prede, il più spavaldo – il più idiota – le prese i polsi e non esitò a tenerla ferma al muro, anche se di sforzi non doveva farne poi molti.
E la guardò, dal basso all’alto, con un’espressione tanto strafottente che in quel momento gli augurò ogni peggior male.
Partirono i commenti, quelli sottili e tutt’altro che velati ad un corpo formoso e troppo bello per rimanere intoccato così a lungo.
Strinse le labbra e gli sputò in faccia, così, senza remore né timori.
Il tizio in questione si infuriò immediatamente, come ogni gasatello che si rispetti, ma la bella Luogotenente aveva ancora un po’ di lucidità per approfittare dei momenti buoni: gli mollò un calcio nel più maschile più delicato, costringendolo a lasciarla.
Si spostò di lato, peccato che nel mentre avesse perso i conti su quanti fossero.
«Puttana!» Gli inveì contro, mentre gli altri due tentavano nuovamente di fermarla.
Avrebbe lottato, ma era in trappola.
Sarebbe dunque finite così?
Ubriaca per colpa degli uomini e poi ferita ancora una volta da loro?
 
Poi un suono stridulo attirò la loro attenzione, tutto ciò che i suoi occhi stanchi riconobbero fu una lama affilata esposta al chiarore della luna.
«Penso che la serata sia finita, signori… che dite?»
Prima ancora che il cervello riconoscesse quella voce il cuore aveva già perso un battito.
Si sentì piccola, maledettamente piccola e si vergognò della situazione, quei due occhi azzurri sicuramente puntati su di lei.
I tre biascicarono qualcosa ma Rangiku non comprese nulla, o meglio, la poco attenzione di cui disponeva pareva totalizzata da tutt’altro.
Udì solo dei gemiti ed un’implorazione rotta a metà, prima che quella figura vestita di bianco le si avvicinasse.
Brividi.
Brividi le percorsero la schiena mentre alzava lo sguardo su di lui: era serio, maledettamente serio.
«Copriti.»
 
Perse alcuni momenti ed ebbe una vaga idea del tragitto che percorse dopo, si ritrovò semplicemente distesa sul letto della propria stanza, ancora vestita degli abiti di quella sera, ma con un haori bianco a coprirla.
Come aveva fatto a sapere dove si trovasse?
Si mise seduta di scatto, lo cercò subito con lo sguardo e lo trovò dinnanzi alla finestra, lontano da lei… come sempre.
«Gin…» Bisbigliò quel nome così corto eppure capace di morirle fra le labbra carnose.
Si voltò a guardarla solo per un attimo, quasi a controllare che stesse bene – decentemente -, per poi dirigersi silenzioso verso la finestra, incurante del resto.
Di nuovo perse un battito.
«Gin aspetta!» Quasi gridò tendendo una mano verso di lui, mentre l’altra stringeva il lenzuolo.
Si fermò, ma non si volse verso di lei, rimase semplicemente immobile davanti a quella finestra.
Sapeva farla morire d’angoscia anche quando era lì con lei, dannazione.
Deglutì d’istinto, sentendosi la bocca secca.
«Resta…» Disse a voce bassa, in una supplica sentita, tutt’altro che velata.
Si stava rendendo debole davanti a lui – e lo detestava – ma in quel momento desiderava tutto fuorché rimanere sola, lì, ancora mezza ubriaca.
«…ti prego.» Abbassò il capo, il respiro perse la sua regolarità ed un’insana sensazione di vuoto cominciò a squarciarle il petto.
Per l’ennesima volta.
Pochi istanti dopo percepì qualcosa di freddo avvicinarsi a lei, un corpo troppo magro e troppo alto le si sdraiava accanto, immobile, rigido per natura.
Cominciò a pensare di essersi ridotta davvero male, se quell’apatico - ironico insopportabile - di Gin Ichimaru le aveva miracolosamente dato ascolto.
Ma non si fece troppe domande, l’alcol se non altro in questo aiutava: si accoccolò a lui, sul suo petto gelido, addormentandosi come una bambina che non teme alcun incubo.
 
Si svegliò mugolando qualcosa di incomprensibile, allungando un braccio per stringere poi soltanto aria.
Di nuovo il nulla.
Ma non si allarmò, si limitò a dischiudere appena gli occhi, passandosi una mano fra i capelli scomposti: c’era abituata, ormai, a far delle domande ormai ci rinunciava.
Lo sguardo le cadde sul comodino affianco al letto, dove una bottiglia era stata posata di recente ed un bicchiere semipieno di un liquido rosso se ne stava in bellavista.
Sentiva stranamente le labbra umide.
Inarcò un sopracciglio e con un certo sforzo prese mano alla bottiglia, per leggerne l’etichetta, quando s’accorse di aver scostato un bigliettino lasciato proprio lì accanto.
Lo prese con quella sua solita viva curiosità, leggendo distrattamente le poche parole riportate:
“Che ne pensi di cominciare a bere qualcosa di decente?”
E solo in quel momento comprese, sfiorandosi le labbra con la punta delle dita, mentre lanciava uno sguardo inquisitorio al bicchiere di vino lasciato sul comodino.
Si lasciò cadere di nuovo sul cuscino, sospirando pesantemente e socchiudendo le iridi.
«Stupido Gin.»
 
Shot through the heart
And you’re to blame
You give love a bad name
I play my part and you play your game
You give love a bad name


 
  
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