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Autore: nevermore997    17/09/2014    4 recensioni
Vittoria Baudelaire è una Calfornia Girl a tutti gli effetti: snob, piuttosto antipatica ed abituata a vivere tra tutti gli agi e tutte le comodità. Per lei la decisione dei suoi genitori di trasferirsi da San Francisco a Foggy Hollow, desolante e gelida cittadina dello sperduto Wyoming, è una vera e propria doccia fredda. Senza volerlo si ritroverà catapultata in una vita completamente diversa da quella a cui è abituata, circondata da nuovi bizzarri amici, troppa neve per i suoi gusti, pianisti misteriosi e le mura di una casa inquietante che cela un terribile mistero.
La storia di una sedicenne in un mare di guai che si ritrova costretta ad adattarsi, a dimostrarsi coraggiosa, ad agire e anche a cambiare. Se in meglio o in peggio, lo scoprirete solo leggendo.
Questa storia è un esperimento, uno sporadico tentativo di fondere assieme due generi che nulla hanno a che vedere tra di loro: l’horror e il comico. Nella speranza che questo strano miscuglio vi incuriosisca, vi auguro buona lettura.
Genere: Comico, Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 3
Tempo di festa
 
Le parole di Owen avevano avuto un effetto confortante su di me, così, quando, quella sera mi infilai a letto, ero piuttosto tranquilla e mi addormentai senza fatica, determinata a non farmi abbindolare da stupide leggende e sicura che quella notte niente mi avrebbe disturbata. Mi spaventai a morte quando venni svegliata per la seconda volta dal suono di un pianoforte.
«Non può essere!»
Questa volta la musica era diversa, più rabbiosa, più angosciante, come se chiunque stesse suonando fosse stato in preda ad una tremenda ansia ed allo stesso tempo di un’incontrollabile rabbia. Rimasi immobile, ad occhi sbarrati, pietrificata dalla paura sotto il piumino mentre quella musica mi penetrava nel cuore e nell’anima, trasmettendomi le stesse sensazioni di cui sembrava alimentarsi. Intanto, un fiume di domande mi si riversava impetuosamente in testa. Chi stava suonando? Perché lo stava facendo? Ma soprattutto, che diamine ci faceva in casa mia?
Sapevo che, come avrebbe fatto un’impavida protagonista di film horror che si rispetti, avrei dovuto afferrare il coraggio a due mani, scendere al pianterreno ed acciuffare l’intruso, ma la verità era che non ero mai stata particolarmente nota per il mio cuor di leone, e in quel momento quasi non respiravo. Mi sentivo le gambe di piombo e mi sembrava che ogni singolo neurone presente nel mio cervello si fosse abbandonato all’oblio. Riuscivo solo a pensare come quella canzone suonata da tasti bianchi e neri mi stesse penetrando dritta nell’anima.
Improvvisamente però qualcosa cambiò. Ebbi una sorta di scatto, uno spasmo, tutto il fascino che provavo nei confronti di quella melodia e che mi teneva incatenata al letto si dissolse di colpo e venne sostituito da una paura ancora più grande. In preda al terrore, schizzai in piedi e mi fiondai fuori dal letto, giù dalla torre, correndo veloce come mai avevo corso prima d’allora in direzione della camera dei miei genitori. Spalancai impietosamente la porta per poi saltare a pesce nel loro baldacchino, svegliandoli con un urlo belluino ed un tremito spasmodico che mi aveva colta in tutto il corpo.
«Ma cos… Vittoria?»
«Sei decisamente troppo cresciuta per fare capolino nel lettone tutte le volte che hai un incubo», bofonchiò papà, con voce impastata dal sonno, nascondendo la testa sotto il cuscino.
«Lo avete sentito?», ansimai, ignorando completamente le loro lamentele, ancora con gli occhi spalancati dallo spavento.
«Sentito cosa?»
«Il pianoforte! Qualcuno lo stava suonando! Ma come avete potuto non sentirlo?!», gridai, frustrata.
Per qualche secondo i miei si misero in ascolto, ma fu ben presto evidente anche per me che chiunque fosse il misterioso pianista, non avrebbe ripreso a suonare. Mia madre mi squadrò severamente.
«Vittoria, abbiamo capito che vuoi tornare in California, ma cercare di convincerci che ci siamo trasferiti in una casa stregata mi sembra azzardato persino per te».
«Pensala come vuoi, ma io in camera mia non ci torno», replicai, incrociando le braccia. Che mi credesse oppure no, era cosa certa che mai e poi mai mi sarei mossa di lì. Non avevo la benché minima intenzione di trascorrere la notte da sola. Ero terrificata anche al solo pensiero di percorrere il corridoio a ritroso.
«Non fare la stupida. Torna in camera tua.»
«Dovrai trascinarmici di peso.»
Mamma alzò gli occhi al cielo e fece un lunghissimo sospiro. Non ci voleva un genio per capire che in quel momento si stava appellando a tutti i santi esistenti per trovare la forza di non strangolarmi.
«Va bene, Vittoria», disse alla fine, stampandosi in faccia un orribile sorrisino da rettile. «Ti accompagnerò nella tua stanza. E ti farò anche una camomilla per tranquillizzarti».
Avrei dovuto capirlo subito, che stava tramando qualcosa, ma sul momento fui talmente ingenua che pensai che magari aveva finalmente deciso di diventare una buona madre ed impegnarsi per davvero nelle cure verso la prole. Così accettai di buon grado la proposta e lei, come promesso, mi scortò fino in cima alla torre e mi preparò anche un infuso. Capii cosa c’era sotto solo quando ne ebbi già bevute due lunghe sorsate.
«E’ molto dolce… quasi troppo dol - OH MIO DIO!»
Alzai sbigottita lo sguardo su mia madre, che ghignava maligna, con le palpebre che iniziavano già ad appesantirsi.
«Ci hai messo dentro il sonnifero di papà!», la accusai, mentre sentivo la lucidità lentamente venir meno. Lei mi guardò, trionfante.
«Dieci gocce, per essere sicura di stroncarti per il resto della notte. Sogni d’oro, Vittoria!», ed uscì dalla stanza.
L’ultimo pensiero di senso compiuto che formulai prima di sprofondare nel sonno fu che mia madre era la peggior genitrice che si fosse mai vista.
 
Il giorno dopo, il 24 dicembre, mi svegliai a mezzogiorno in una pozza della mia stessa bava. Non avevo mai dormito così a lungo in vita mia. Nell’aria aleggiava un delizioso profumino di biscotti di Natale, che mia madre era solita cucinare in quantità industriali per poi distribuirli a chiunque incontrasse lungo il suo cammino. Quando scesi in cucina, infatti, stava infornando due teglie contemporaneamente, in compagnia del gatto, che strisciava sul pavimento in cerca di qualche avanzo.
«Buongiorno Vittoria, dormito bene?», mi chiese, con voce melliflua. «Per la cronaca, alla prossima trovata del genere lo sciroppo per dormire verrà sostituito dal cianuro. Donna avvisata…»
«Parliamo da meno di un minuto e sono già stufa di te», borbottai, addentando un biscotto.
Per un attimo pensai di riprovare a convincerla che quello che avevo sentito era autentico, ma poi decisi di lasciare perdere: sarebbe stato inutile. C’era una sola persona con cui potevo parlare liberamente degli strani eventi che si verificavano a casa mia, e quella persona era Owen.
 
Se fosse stato per me, quel giorno, non avremmo neanche fatto tardi: alle tre in punto ero pronta, pettinata e profumata davanti alla porta di casa. Ci pensò mia madre a farci tardare, trascinando nel vero e proprio senso della parola Owen in cucina, dove lo ingozzò di biscotti come la strega di Hansel e Gretel. Morale della favola, quando uscimmo di casa erano già le tre e mezza.
«Adoro tua madre», esclamò, mentre ci affrettavamo lungo le stradine del villaggio. Era la prima volta che lo vedevo alla luce del giorno. Le case erano tutte piccole villette dal tetto spiovente, tutte avvolte da lucine, renne di plastica, Babbi Natale ed addobbi. Tutto sommato era piuttosto pittoresco come posto, ma avrebbe dovuto congelarsi l’inferno prima che dessi quella soddisfazione a mia madre. Soprattutto dopo il tiro mancino del sonnifero.
Guardai Owen. Aveva la bocca tutta circondata di briciole di pastafrolla. Pensai di dirglielo, ma poi decisi di non farlo. Gli davano un’aria più infantile, un po’ meno terribilmente geniale ed un po’ più simile a me.
«Se ti trattasse come tratta me la tua opinione in merito sarebbe ben diversa.»
«Oh, non vedo l’ora di sentire delle vostre scaramucce madre-figlia.»
Lo aggiornai brevemente sugli eventi di quella notte, e lui passò una buona metà del tragitto casa-parco ridendo a crepapelle.
«Non posso crederci, i tuoi genitori ti hanno drogata per farti tenere la bocca chiusa! Non vedo l’ora di passare il Natale con degli individui del genere!»
Lo colpii alle costole con la borsetta.
«Lascia perdere i miei genitori e concentrati sulla faccenda del pianoforte!»
A fatica, tornò serio.
«Dunque, vediamo. Per quanto tu sia assolutamente fuori di testa e per i miei gusti anche parecchio strana, sono certo che tu non sia una bugiarda. Perciò, quello che senti deve succedere davvero, in qualche modo.»
Apprezzai che, per quanto fosse sfiduciato nei confronti delle leggende, si stesse sforzando di credere a ciò che gli dicevo. Io stessa mi rendevo conto di quanto fosse inverosimile come storia.
«Possiamo andare in biblioteca oggi?»
«E’ la vigilia di Natale, dubito fortemente che sia aperta.»
Era vero. Mi mordicchiai il labbro, preoccupata.
«Ho paura», confessai.
Owen stava per rispondere qualcosa, ma non ne ebbe il tempo, dal momento che eravamo arrivati al parco giochi, dove gli altri  ci accolsero rumorosamente e calorosamente come se non ci vedessero da giorni.
«Tanti auguri, tanti auguri!», dicevano tutti in coro.
Kimberly e Lucy mi vennero incontro con dei giganteschi sorrisi di complicità ed un pacchetto arancione in mano.
«Abbiamo un pensiero per te», mi dissero, tutte allegre. «Come regalo di benvenuto e nella speranza che tu voglia diventare membro ufficiale del nostro gruppo.»
Arrossii, leggermente imbarazzata. Io non avevo proprio pensato a fare loro dei regali.
«Oh, ragazze, ma io non ho preparato nulla!»
«Oh, non fa niente!», mi risposero in coro, ed apprezzai quanto fosse evidente che lo pensavano veramente. A San Francisco “oh, non fa niente” significava più o meno “lurida schifosa, ti infilerò vermi nell’armadietto per il resto dei tuoi giorni per farti pentire di avere osato farmi questo”.
Scartai il pacchetto e scoprii che conteneva una sciarpa con applicazioni di stoffa a forma di fiori che normalmente non avrei indossato nemmeno con una pistola puntata alla tempia. Ma non quel giorno. Quel giorno me la avvolsi attorno al collo e risi dell’aspetto ridicolo che mi conferiva.
«La adoro», dissi, ed il tono sincero che mi uscì sorprese persino me.
Trascorsi il resto del pomeriggio ad assistere allo scambio di regali del gruppo. Toad, che era un intellettuale, aveva preso libri per tutti, mentre Max aveva creato per ognuno un animale di plastilina. Ne aveva uno anche per me, uno strano coso azzurro che ricordava vagamente un delfino. Lo accettai con un sorriso e lui ne fu molto felice. Kimberly e Lucy avevano fatto tutti i regali in coppia, per lo più vestiti, ma i doni più apprezzati in assoluto restavano quelli di Owen. Sembrava aver trovato per ognuno la cosa che desiderava di più in assoluto. Osservai Kimberly saltare di gioia per un CD di una band pop, Lucy commuoversi per una lozione per capelli schiarente e Max e Toad gioire come bambini rispettivamente per i loro cappello dei Lakers ed enciclopedia medica nuovi. Ma la migliore notizia della giornata doveva ancora arrivare.
«Vittoria, nella mia famiglia facciamo il veglione natalizio il 24. Ti va di venire? Sarà molto divertente e, se vuoi, potrai fermarti anche a dormire».
Regalai a Lucy un sorriso di dimensioni esorbitanti. Chiunque mi offrisse una notte lontana dalla mia casa meritava un trattamento a dir poco principesco.
 
Il veglione a casa di Lucy fu piacevole. Mia madre, che era sempre grata quando scorgeva all’orizzonte un’occasione per liberarsi di me, mi accordò il permesso in un battibaleno, a patto che il giorno dopo tornassi in tempo per aiutarle nei preparativi per il cenone. Così passai la serata con i genitori e la sorella di Lucy, che furono tutti quanti estremamente gentili nonostante la loro indiscrezione, che ormai avevo etichettato come tipica del Wyoming.
«Sei davvero coraggiosa, ad abitare in quella casa», mi disse la madre di Lucy durante la cena. Quanto ha ragione, avrei voluto rispondere, ma mi trattenni, improvvisamente folgorata da un’idea migliore. Dovevo cogliere quell’occasione per indagare.
«Lucy mi ha detto che lei conosceva la famiglia che ci ha abitato prima di noi», commentai, fingendo noncuranza. La cinquantenne rabbrividì.
«Si, tesoro, li conoscevo, ma stiamo parlando di ormai otto anni fa. I Carmichael. Oh, erano brave persone. Un intera famiglia di pianisti. Il bimbo più piccolo poi, era delizioso, il più talentuoso che avessi mai visto. Suonava che era una meraviglia. Che disgrazia, la sua morte».
In testa mi si accese un campanello d’allarme. Una famiglia di pianisti. Quindi c’era, un collegamento!
«Che ne è stato del resto della famiglia?»
«Non ti saprei dire dei genitori, ma so per certo che il fratello maggiore si è dato alla vita eremitica. Vive in una cascina abbarbicata su una montagna, sopra un paesino a una trentina di chilometri da qui. Creepford, se non sbaglio».
Creepford. Ebbi la sensazione che, quel nome, avrei fatto meglio a non dimenticarlo.
 
Quando, il mattino dopo, mi alzai, fui estremamente felice di constatare che avevo dormito sonni tranquilli. Alla luce dei fatti avrei voluto restare a casa di Lucy per sempre, ma sapevo che mia madre mi avrebbe riservato tutt’altro che un trattamento di cortesia se avessi scelto proprio il giorno di Natale per sparire dalla circolazione. Così ringraziai la famiglia di Lucy e me ne tornai ad Avary Manor.
 
Mettere piede in casa fu più o meno l’equivalente di entrare nel magico laboratorio di Babbo Natale. Mia madre era riuscita ad agghindare con lucine ed agrifoglio ogni singolo pezzo dell’arredamento. Anche il gatto era stato decorato con un nastrino rosso ed un campanellino, del quale non sembrava affatto contento, dal momento che stava cercando di mangiarselo. Un abete gigantesco torreggiava nel salone accanto al pianoforte, che era stato anch’esso travolto dall’ingombrante Natale di mia madre, ovvero tappezzato di pupazzi di neve di carta. Anche così ridicolizzato, mi ritrovai a pensare che fosse piuttosto inquietante.
«Sei tu, Vittoria? Vieni immediatamente in cucina!», mi gridò mia madre. La trovai intenta a cuocere quella che supponevo essere la milionesima teglia di biscotti, nel panico più totale.
«E’ un disastro! Siamo indietro sul programma! Non c’è niente di pronto! Il Natale è rovinato!»
Feci appello a tutta la mia pazienza per cercare di placarla.
«Mamma, come puoi dire che non c’è niente di pronto? Questa casa sembra arredata dagli elfi.»
In tutta risposta mi tirò un mestolo
«Chiudi il becco e scaldati le dita, Vittoria. Hai qui duecento biscotti da glassare. Impiega le tue abili manine da truccatrice per qualcosa di utile.»
Mi indicò eloquente il suo set di glasse multicolori (sissignori, mia madre possiede un set di glasse multicolori) e non ebbi altra scelta se non mettermi all’opera.
«Ma perché non lo fai fare a papà?», protestai, per quanto sapessi che sarebbe stato completamente inutile.
«Tuo padre è a malapena in grado di colorare un disegno coi pastelli senza uscire dai bordi. E poi, l’ho mandato ad appendere gli addobbi sulle scale. Lì se la cava egregiamente».
Esattamente in quel momento si senti un tonfo di palline di vetro infrante e qualche imprecazione.
«Oh, si, egregiamente», feci eco.
Ma mamma sembrava essere improvvisamente diventata sorda, così fui costretta a passare l’intera giornata disegnando sulla pastafrolla Babbi Natale, regali, alberelli, renne dal naso rosso e berrettini da elfo. Mia madre nel frattempo era intenta a cucinare una cena che doveva per forza essere destinata ad una legione di insaziabili orchi, vista l’abbondanza. Quattro antipasti, affettati, formaggi, insalate, risotto ai funghi, lenticchie… stava tagliando il tacchino quando mi decisi ad intervenire.
«Mamma, stai preparando una cena per sette, non per quattrocento. Di questo passo ci ciberemo degli avanzi di oggi fino a quando sarò vecchia.»
Mi guardò come se fossi stata una completa deficiente.
«Non essere stupida, Vittoria.» (era la sua frase preferita in carica) «Non conoscendo la famiglia di Owen, devo per forza cucinare qualcosa di un po’ vario.»
«Appunto. Qualcosa di un po’ vario. Non ogni singola ricetta mai inventata dall’uomo.»
Non si prese neanche la briga di rispondermi e se la svignò in sala, probabilmente a tormentare papà per come stava svolgendo una qualche piccolezza che lei giudicava di vitale importanza. Quando tornò, qualche minuto dopo, iniziò a borbottare tra sé e sé.
«Mah, dove l’avrò messo? Eppure ero sicura… ma dove..?»
«Che cosa succede?»
«Hai visto il mio coltello? Ero convinta di averlo lasciato qui, ma non c’è più. Oh, non fa nulla, ne prenderò un altro.»
Ma io non l’ascoltavo più. Fissavo con tanto d’occhi il tagliere di legno abbandonato accanto al lavandino, da dove la grossa mannaia da cucina che si usa per tagliare la carne era scomparsa nel nulla.
 
 
 
Buonasera a tutti quanti. Ecco a voi il terzo capitolo della storia di Vittoria (che bello fa anche rima). Fatemi sapere cosa ne pensate con qualche recensione. Sempre se ne avete voglia. E tempo. E qualcosa da dire. Oh insomma, se recensite a me fa molto molto piacere.
Informo gli interessati (vedi: nessuno) che non ho superato l’esame del debito di matematica che la stesura di questa storia mi ha regalato. Questo significa che c’è un’alta possibilità che i miei genitori mi travino (questa cosa si dice anche da voi o solo nel mio remoto paese?) e che mi sequestrino tutto il sequestrabile, incluso il computer. Quindi se non dovessi aggiornare per tempo non preoccupatevi per la mia incolumità, significa semplicemente che i miei genitori mi hanno condannata ad un’esistenza di arresti domiciliari, disequazioni fratte e teorema di Ruffini. Così è la vita. Piena di algebra.
Baci baci baci
  
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