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Autore: Nyktifaes    22/09/2014    4 recensioni
Mi risvegliai di soprassalto con la sensazione di essere sbalzata. Mi aggrappai alla base della poltroncina, spaventata. Impiegai qualche secondo per ricordare che sedevo su un sedile e che mi trovavo su un aereo. È sorprendente quanti dettagli si possano registrare in pochi secondi di panico. Ricordo perfettamente i visi spaventati dei passeggeri, la hostess che si aggrappava ad una fila di sedili, la mascherina che usciva dal soffitto dell’aereo, a un soffio dal mio viso, un boato. E poi il buio.
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Primo capitolo di Twilight. Bella si trova sull'aereo che la deve portare a Forks, ma qualcosa va storto.
Genere: Fantasy, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti | Coppie: Bella/Edward
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Twilight
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Joan ha betato anche questo, thanks!



Epilogo

Un anno dopo

Mi voltai ancora una volta, facendo frusciare la lunga coda dell’abito sul pavimento. Sfiorai con delicatezza la guaina stretta che si allargava nello strascico quasi fosse una calla capovolta, sotto i polpastrelli la seta era morbida e armoniosa. Alzai il capo e la donna riflessa nello specchio fece lo stesso, lanciandomi uno sguardo assorto. Osservai con attenzione il taglio perfetto e il modo in cui le avvolgeva il corpo, il modo in cui la rendeva ancora più aggraziata e flessuosa.

Era bellissima.

Vidi i suoi occhi di ambra fusa scintillare, quando constatai che lei ero io. Le iridi avevano lentamente abbandonato il cremisi acceso, per diventare di un caldo vermiglio e poi, nel giro di pochi mesi, oro fuso. Sorrisi, per un po’ avevo temuto che non avrebbero fatto in tempo a schiarirsi entro il giorno del matrimonio.

Era una bella giornata di sole e i raggi che filtravano dalla finestra facevano scintillare anche la mia pelle. Qualcosa, però, brillò con maggiore intensità, lanciando un raggio che colpì lo specchio. Alzai la mano destra e, con le dita, accarezzai l’anello all’anulare destro. Era un ovale con intricati decine di piccoli diamanti, montato su un anello d’oro giallo. Era antico e stupendo, esattamente come Edward. Il giorno che me lo aveva dato, diversi mesi prima, era stata la prima e l’ultima volta che l’avevo visto seriamente nervoso per qualcosa. In seguito mi aveva giurato che, se avessero potuto, gli sarebbero tremate le ginocchia.

Era una mattina grigia e fredda e noi eravamo ancora in alto mare con il trasloco nella nuova casa, a Vancouver. Carlisle si era assicurato che fosse abbastanza in periferia così da poterci tenere lontani da occhi indiscreti e per permettermi di terminare i miei ultimi mesi da neonata in totale tranquillità. Beh, tranquillità mia, loro e degli abitanti della città. Nonostante fossimo ancora piuttosto sepolti dagli scatoloni, ero euforica: non solo avevamo lasciato l’Alaska – e Tanya – ma nel giro di qualche mese avrei potuto avvicinarmi anche agli umani. Un po’, almeno.

Edward ed io avevamo avuto una camera in comune, non senza che Carlisle storcesse un po’ il naso. Pensavo che Emmett scherzasse quando diceva che, davvero, in famiglia la mentalità era rimasta molto all’antica. Mi sbagliavo. Dopo una lunga arringa, i cui argomenti fondamentali erano il nostro amore e la sincerità dei nostri sentimenti, sia Esme sia Carlisle acconsentirono a lasciarci avere un’unica stanza. In realtà fu Edward a convincerli davvero, sostenendo il nostro enorme rispetto nei confronti dell’intera famiglia e la nostra affidabilità sul “non fare alcunché di sconveniente prima di un’unione ufficiale”. Mi chiesi come avesse fatto a non sentirsi in colpa, mentre mentiva loro in maniera così spudorata. Non impiegai molto a capire che la sua coscienza non aveva subito alcun danno semplicemente perché lui non mentiva, era davvero determinato a portare a termine i suoi propositi.

Quella mattina stavamo cercando di convergere i nostri averi in un solo armadio e in poche mensole, cosa che per Edward era totalmente impossibile, vista la moltitudine di dischi e libri che possedeva. Tentavo di lasciargli il maggior spazio possibile, anche perché ai miei romanzi e ai miei testi scolastici bastava una sola mensola. Per aiutarlo, mi occupavo di ridare un ordine, quanto meno cronologico, a dischi, libri e diari. Afferrai da una delle tante scatole impilate l’ultimo oggetto che conteneva: un vecchio cofanetto scuro, che ricordavo perfettamente. Sorrisi, avvicinandomi a lui, ancora impegnato a trovare un posto per Debussy nello scaffale alto. Feci scattare l’apertura e, per la seconda volta, vidi i vecchi fogli ingialliti, le istantanee e i sacchetti dorati. Nella parte più interna del cofanetto, sopra i vari fogli, rividi la scatolina foderata di raso nero. Incuriosita, la presi e posai il cofanetto. Dopo averla studiata per un istante, alzai lo sguardo e sorrisi: di nuovo, Edward non si era accorto che avevo preso il cofanetto. Godendo dalla carezza del raso sotto i polpastrelli, mi portai accanto a lui.

«Cos’è questo?», chiesi. Ma prima che avesse il tempo di rispondermi, prima ancora che si voltasse, aprii la scatolina. Al suo interno, protetto da altro raso, l’anello più bello e brillante che avessi mai visto. Mi persi un momento ad osservare gli intricati e sottilissimi intrecci di oro giallo nei quali erano stati inseriti, con un’abilità che solo mani esperte possono avere, decine di piccoli diamanti. Lo accarezzai delicatamente, timorosa di poterlo rovinare.

Edward che, dopo un dodicesimo di secondo si era voltato, imprecò sotto voce.

«Doveva essere una sorpresa, dannazione», borbottò.

Alzai il capo e lo trovai a mezzo metro da me, corrucciato.

«Una sorpresa?», domandai.

«Sì… Questo è l’anello di fidanzamento di mia madre». Mi osservò per un momento, poi sbuffò. «La mia vera madre, Elizabeth. Assurdo. Me lo porto dietro da mesi e tu lo trovi proprio il giorno che decido di rimetterlo a posto per qualche ora».

Non gli badai particolarmente, ancora affascinata dalla luce emanata dalle minuscole pietre. «È molto bello, davvero».

Esitò per un istante e io puntai lo sguardo nel suo. C’era qualcosa di strano nel suo sguardo, una qualche strana incertezza… Vulnerabilità.

«Vorrei che diventasse anche il tuo anello di fidanzamento», scandì.

Per quanto un velo di ansia gli avesse oscurato il volto, pronunciò le parole non decisione, senza tentennamenti.

Rimasi stupita e bloccata per diversi secondi, accettando le implicazioni di quella frase. Ero sorpresa, ormai agitata quanto lui, ma emozionata. Stava davvero ufficializzando la proposta che faceva, indirettamente, da mesi?

«Avrei voluto che fosse in un posto migliore, magari più ordinato e romantico, ma ormai siamo qui e devo cogliere la palla al balzo. Anche perché tu l’hai già trovato, quindi…». Lo vidi sfilarmi dalle dita la scatolina e piegarsi, fino a inginocchiarsi davanti a me. Avvolse la mia mano sinistra nella sua.

«Isabella, prometto di amarti sempre, in ogni situazione e contesto, per l’eternità. Vuoi farmi lo straordinario onore di diventare mia moglie?».

Fu così che, con semplici parole e tra decine di scatoloni, Edward mi chiese di sposarlo. Furono attimi intensi, durante i quali non riuscii a distogliere lo sguardo dal suo. Fu la prima volta che vidi il miele dei suoi occhi, di solito così intelligente e malizioso, sciogliersi in un’emozione più calda. Non vi era più alcun velo, nessuna barriera: mi stava mostrando la sua anima.

Fu molto più facile di quanto mi aspettassi pronunciare quel “sì” che, contro ogni aspettativa, fu sicuro e determinato, esattamente come suonava nella mia testa.

Mi infilò l’anello nell’anulare sinistro, lo sfiorò con le labbra e poi si rimise in piedi, attirandomi a sé. Mi baciò le labbra e sussurrò: «Grazie, amore mio».

Mi sciolsi contro il suo petto e gli accarezzai la schiena con la punta delle dita. Le farfalle, mie fedeli compagne, avevano invaso il corpo intero. Mi sembrava di fluttuare a qualche metro da terra e mi chiesi per quale ragione avessi associato l’idea del matrimonio a un problema, qualcosa da cui scappare. Forse era collegato a un ricordo, a un’esperienza passata, ma non fui capace di riportarla a galla. Di qualsiasi cosa si trattasse, sapevo che non sarebbe potuta essere applicata a quel caso. Edward sarebbe diventato mio marito, non un uomo qualunque, ma Edward. E sarebbe stato perfetto.

«Quel cofanetto sembra lo scrigno del tesoro di un pirata», mormorai, dopo qualche minuto.

Ghignò. «Ce l’hai ancora?». Non c’era bisogno che dicesse di cosa stesse parlando. Feci un cenno con il capo verso la libreria dove, in bella vista, spiccava la mia copia di Romeo e Giulietta. Lì, protetta da carta, inchiostro e una delle più forti storie d’amore mai narrate, stava la sua foto.

Un leggero bussare alla porta mi riportò al presente. Esme fece capolino nella stanza, sorridente e serena. Era bellissima con i capelli legati in un alto chignon e il lungo abito lilla. La vedevo riflessa nello specchio, mentre muoveva il primo passo verso di me.

«Si può?», chiese.

Ridacchiai. «Mi pare tu sia già entrata. Sei la benvenuta, comunque».

«Sei meravigliosa, tesoro mio». Colmò la distanza che ci separava e mi cinse con le braccia. «Davvero perfetta, bambina mia».

Strinsi forte le braccia attorno alla sua vita sottile. In fondo quel giorno non avrebbe cambiato davvero la mia vita: avrei continuato a vivere con la mia – ormai la consideravo tale a tutti gli effetti – famiglia, non mi sarei trasferita, non avrei iniziato una nuova vita, non avrei dovuto affrontare veri e propri cambiamenti radicali. Per lo meno, in teoria. In pratica sapevo che, nonostante tutto, il matrimonio è un cambiamento. È il cambiamento. Quel giorno avrei giurato di dedicare la mia vita a un’altra persona, a dividere con lui gioia e dolore, pace e problemi, ogni singolo istante del resto della mia esistenza. E anche se non avremmo messo al mondo dei figli, anche se non ci saremmo dovuti guadagnare il pane lavorando, anche se non saremmo invecchiati e non ci sarebbe stato nessuno “in salute e in malattia”, sapevo che tutto avrebbe acquisito un significato diverso.

Di lì a poco più di un’ora non sarebbero più esistiti due soli e fragili io, ma un unico, perfetto noi.

Per quella ragione non potei non lasciare che le braccia di Esme mi confortassero. Perché, per quanto provassi una totalizzante felicità, un’irrequieta impazienza di iniziare a far parte di quel noi con Edward, non potevo non avere bisogno del sostegno di mia madre. In quei giorni avevo sentito più che mai la mancanza di Renée, mentre il suo volto sbiadiva nei miei ricordi. Mi ero chiesta cosa stesse facendo, se avesse superato il dolore, se avrebbe appoggiato la mia scelta.

Sapevo che Edward le sarebbe piaciuto, ma nessun’altra domanda aveva trovato risposta.

Non avrei saputo dire se Esme avesse intuito il mio stato d’animo, se lo comprendesse o se anche lei l’avesse attraversato, ma in quel momento la sentii più vicina che mai.

Mi strinse a sé ancora per un lungo momento poi, premendo sulle braccia, mi allontanò un po’ da sé. Sorrise – non aveva mai smesso di farlo – e mi baciò la fronte. «Andrà tutto bene».

Feci in tempo ad annuire appena perché la porta si spalancò, permettendo l’ingresso ad Alice e Rosalie. Entrambe erano già vestite, perfette nei loro abiti rosa pallido. Avevano tonalità simili, ma l’abito di Alice era corto, con una cinta sulla vita, mentre quello di Rose era più lungo ed elegante, con un taglio imperiale.

Vedendoci così avvinghiate, ad Alice venne quasi un colpo.

«Ma dico io, sei matta?! Sai quanto può stropicciarsi il tessuto di questo abito? È seta, Bella, seta», scandì, allontanandomi da Esme e lisciandomi il vestito.

Mi tirò fino a una sedia poi, con infinita attenzione, mi ci fece accomodare.

«Rose, sistemale i capelli!».

La diretta interessata, che era rimasta in disparte a ridacchiare, si avvicinò. «Allora, cara, come vanno le gambe?».

«Bene, non tremano neanche un po’». Ed era vero: se c’era una cosa di cui ero sicura, era la scelta dello sposo.

Rose mi sorrise, sfiorandomi una spalla. «Sei molto bella».

«È felice e la felicità rende belli», replicò Esme.

«Certo, certo. La felicità e il veleno di vampiro», ci liquidò Alice. «Quindi dopo diremo un bel grazie a Carlisle. Ma ora, Rose, rendi ancora più bella la sposina. E tu», mi puntò un dito contro, impedendomi di parlare, «torna nella tua bolla felice e non ti azzardare a contestare qualcosa. Non ti permetterò di tenere i capelli sciolti il giorno del tuo matrimonio, intese? Devo già sopportare il fatto che Siobhan abbia indossato un abito scuro. Scuro, ad un matrimonio! Rovinerà tutte le foto…».

Smisi di ascoltare Alice e le sue lamentele, e mi concentrai davvero per tornare nella mia bolla felice. In quella piccola dimensione in cui il matrimonio era già finito, tutto era andato alla perfezione ed io e Edward ci trovavamo nel luogo della nostra luna di miele. In realtà l’ambientazione di quei momenti variava in continuazione, dato che Edward non aveva voluto rivelarmi la nostra meta. Era uno dei suoi regali di nozze, aveva detto. E, anche se la curiosità mi divorava, sapevo che sarebbe stato tutto perfetto. Non solo perché Edward non avrebbe mai lasciato nemmeno un dettaglio al caso, ma perché le attività della nostra luna di miele avrebbero eclissato qualsiasi inconveniente. Quel pensiero mi portò indietro a una sera di quattro mesi prima, quando avevo capito quanto potesse essere forte la tenacia di Edward nel “fare le cose per bene”. E quanto fosse irritante l’educazione in stile prima guerra mondiale.

Ci eravamo trasferiti a Vancouver da una settimana, ma le attività familiari erano già ricominciate: Carlisle, infatti, aveva il turno di notte nell’ospedale in cui lavorava, Rosalie ed Emmett avevano deciso di uscire per passare una serata romantica in tranquillità. Noi altri, invece, dovevamo andare a caccia, dato che l’indomani sarebbe iniziata la scuola. Beh, Jasper, Alice e Edward dovevano cacciare per tale motivazione, io per semplice necessità. Era ancora troppo presto perché potessi interagire con gli umani, per il momento mi limitavo ad avvicinarmi sporadicamente al centro abitato. Avevo da poco cacciato con Carlisle, prima che mi portasse con sé fino alle prime abitazione, per verificare la mia reazione alla vicinanza con gli umani. Edward sarebbe dovuto andare con gli altri, dato che le sue occhiaie stavano diventando pericolosamente simili a ustioni, ma aveva scelto di restare con me.

E così ci eravamo ritrovati soli, di notte, con l’intera casa a disposizione per ore. Avevamo visto un film, anche se sarebbe meglio dire che avevamo acceso il televisore e scelto un film, dato che non l’avevamo propriamente guardato. Per la maggior parte del tempo ci eravamo limitati a baciarci appassionatamente sul divano. Non era la prima volta che restavamo soli, né tanto meno che ci baciavamo in quel modo, ma da qualche tempo a quella parte le nostre effusioni si erano fatte diverse, più esigenti. E quella sera sembrava perfetta, perfetta per i nostri baci, perfetta per le nostre carezze, perfetta per noi. Amavo Edward e sapevo che ormai eravamo un’unica mente, lo vedevo ogni volta che bastava uno sguardo per capirci, un unico cuore, perché ero certa che se i nostri cuori avessero potuto battere sarebbero stati una sincronia perfetta, e non vedevo niente di male nel diventare anche un unico corpo. Anzi, lo desideravo. Desideravo lui perché lo amavo, perché volevo condividere tutto con Edward.

I nostri corpi erano allacciati mentre le nostre lingue si scontravano tra loro in una spirale infinita. Stringevo e tiravo i suoi capelli e le sue mani vagavano sul mio corpo, accarezzandomi il ventre e fianchi. Ansimai quando, con impeto crescente, una sua mano scese e mi arpionò una coscia. Lo attirai ancora più vicino a me, forse con troppo forza, perché ci ritrovammo stesi per terra. Probabilmente se si fosse trattato di un altro contesto avrei riso, ma in quel momento l’ultima cosa che mi passava per la mente era l’ilarità. Edward, nella caduta, si era staccato da me e ora mi fissava a pochi centimetri dal mio volto. I suoi occhi erano neri come non li avevo mai visti, due pozze profonde di desiderio.

Ci fu un istante in cui entrambi rimanemmo immobili, persi l’uno nello sguardo dell’altro, poi Edward si tuffò sul mio collo, lasciando una scia di baci infuocati sulla mia pelle. Ansimavo il suo nome, premendo le unghie sulla sua schiena. Senza nemmeno rendermene conto ridussi la sua camicia in brandelli, ritrovandomi a premere sui muscoli guizzanti delle sue spalle. Fu il suo turno di ansimare. Non smise per un momento di baciare e venerare la mia pelle. Con la bocca scese sul mio petto, e premette le labbra proprio dove, un tempo, batteva il mio cuore. Avvertivo le sue mani che ora accarezzavano le mie gambe in tutta la loro lunghezza. Lo strinsi forte a me, avvicinando ancora di più i nostri corpi e, per la prima volta, lo sentii premere davvero contro di me. Buttai fuori l’aria in un sibilo.

«Ti amo», mormorai, tentando di avvicinarmi ancora di più a lui.

Inspiegabilmente, si immobilizzò. Riportò il volto vicino al mio e, gli occhi chiusi, mi lasciò un bacio sulle labbra, allontanando i nostri corpi. Rimasi bloccata, stupefatta, mentre lo vedevo sedersi con una certa rigidità contro il divano. Che diavolo gli prendeva?

«Edward?», lo chiamai, riemergendo dallo stato di shock. Perché si era allontanato? Stava andando tutto così bene… «Edward, che succede?».

Mi guardò, ma distolse subito lo sguardo, muovendosi irrequieto sul posto. L’unica espressione che potei leggervi era tormento, puro ed evidente tormento.

«Mi dispiace, Bella», mormorò, voltando il capo con uno scatto verso la finestra scura.

Mi sedetti, osservandomi per capire perché non mi guardasse. La mia maglietta non era messa meglio della sua camicia, ormai ridotta in brandelli. Non me n’ero nemmeno accorta.

«Sono così repellente?», chiesi, sperando di risultare ironica. In realtà mi sentivo morire dentro mentre una nuova sensazione si faceva largo in me, sgradevolmente calda e logorante. «Ho fatto qualcosa di sbagliato?».

Incrociai le braccia al petto, improvvisamente a disagio. Non mi voleva?

«No, certo che no. Io…», scosse il capo, continuando a non guardarmi. Gliene fui grata: non volevo che lo facesse, non volevo che mi vedesse.

Scattai in piedi e in una frazione di secondo mi ritrovai nella nostra stanza. Mi ficcai nella cabina armadio e infilai la prima maglietta che trovai.

Mi voltai e trovai Edward a sbarrarmi la strada. Evitai di guardarlo negli occhi mentre provavo ad allontanarlo per uscire dalla stanza. Non me lo permise. Mi bloccò, tenendomi per un polso. Mi divincolai, ma la mia forza stava iniziando a scemare e lui non mollava la presa. Forse scappare non era la cosa giusta da fare, ma in quel momento tutto quello che sentivo era il viscerale imbarazzo, unito alla frustrazione: mi aveva rifiutata e io avevo solo voluto amarlo.

Mi lasciò andare il polso e mi strinse a sé con forza. Le mie braccia rimasero mollemente abbandonate lungo i miei fianchi.

«Mi dispiace», mormorò tra i miei capelli. «Sono un idiota».

Non replicai nemmeno quando mi lasciò andare e feci un passo indietro, guardandolo in volto. Era teso, tentennante e, ne fui certa, anche lui in imbarazzo.

Incrociai nuovamente le braccia al petto, anche se ormai ero vestita. Non volevo che mi abbracciasse ancora.

«Sto facendo tutto… male», riprese. «Niente va come avevo programmato: volevo farti una proposta con i fiocchi, darti un regalo prima di chiederti di sposarmi, fare qualcosa di più», sospirò. «Non ci sono riuscito. E almeno questo, almeno questo voglio che sia giusto. Voglio che tu mi appartenga e che io appartenga a te solo dopo che saremo ufficialmente marito e moglie, anche se ti amo come se fossi già la mia sposa. Voglio dimostrarti il rispetto che meriti almeno in questo modo».

Rispetto? Non riuscivo a capire il senso del suo discorso, eppure avvertii il sollievo espandersi velocemente per tutto il corpo.

«Quindi… non è che non mi vuoi?», chiesi, senza distogliere lo sguardo dal suo.

Sbuffò, roteando gli occhi al cielo. «Mi spieghi come fai a pensare che io non ti voglia dopo… beh, almeno dopo stasera dovrebbe essere chiaro», rispose, occhieggiando la mia maglietta. «Tu sei perfetta e io ti amo più di ogni altra cosa al mondo».

Continuai a fissarlo in malo modo ma, sciogliendo le braccia, colmai la distanza che ci separava e gli permisi di stringermi.

«Quindi è solo la tua stupita mentalità da prima guerra mondiale a parlare?», borbottai contro il suo petto ancora nudo.

Rise. «Non è per niente stupida».

Tentai per diverso tempo di fargli capire che non avevo bisogno di quello per sapere che mi rispettava, ma fu irremovibile. Non che non fossi lusingata da una simile dimostrazione d’amore, ma davvero avrei preferito non dover aspettare. Si dice che l’attesa accresca il desiderio, io avrei detto che accresce solo la voglia di dar di matto.

D’improvviso sentii qualcuno tirarmi per i capelli e, se una parte del mio iper-funzionale cervello non avesse ricordato dove mi trovassi, sarei saltata addosso a mia sorella.

«Alice, lasciala in pace, è nella sua bolla felice», rise Rose.

«Certo, la bolla felice però deve scoppiare in fretta, o non farà in tempo a vedersi allo specchio prima dell’inizio della cerimonia! Emmett e Carlisle arriveranno tra tre minuti e quarantasette secondi», la rimbeccò Alice, per poi darmi un paio di bottarelle sulle spalle. «Su, allo specchio!».

Mi ci trascinò davanti e potei constatare, con una punta di frivolo orgoglio, che ero ancora più bella di prima. Rose aveva davvero fatto un ottimo lavoro con i miei capelli: li aveva agghindati in una lunga e semplice treccia a spina di pesce, lasciando però, attorno al viso, qualche ciocca più corta fuori dall’acconciatura, creando un effetto naturale ma non meno raffinato. Era perfetta per quel vestito un po’antiquato: nel complesso sembravo uscita dal 1918. Sorrisi, Edward ne sarebbe stato colpito.

Esme mi si avvicinò, tenendo un lungo velo tra le mani. Lo inserì con maestria tra i miei capelli, poi mi posò le mani sulle spalle.

«Ecco, ora sei davvero perfetta. Hai qualcosa di regalato, pur essendo anche vecchio. È il mio velo nuziale, so che è un po’ fuori moda, ma ho pensato che con questo vestito sarebbe stato perfetto».

Mi voltai e l’abbracciai stretta. Non ci fu bisogno di grandi discorsi, la strinsi semplicemente a me, trasmettendole tutto il mio affetto e la mia gratitudine. «Grazie».

Alice, che non si era allontanata che di pochi passi, si rifece avanti, più serena.

«Bene, ora hai tutto. Una cosa regalata, una cosa nuova e blu – e si riferiva al fermacapelli impreziosito con zaffiri oltremare che ora bloccava il velo – e una cosa prestata», poi aggiunse, come se nulla fosse: «Di’ al tuo futuro marito di andarci piano, rivoglio la mia giarrettiera».

Sentimmo un battere leggero contro la porta e mezzo secondo dopo Carlisle ed Emmett erano nella stanza, perfetti nei loro tight scuri.

Dovevano aver sentito ogni nostra parola, perché Emmett conteneva a stento le risate. Gli avevo fatto giurare che almeno il giorno del matrimonio avrebbe dovuto piantarla con le battutine. Alla fine eravamo arrivati al compresso di “niente battutine prima e durante la cerimonia”. Dire che ero preoccupata per il ricevimento era un eufemismo.

Carlisle mi si avvicinò e mi abbracciò. Era la giornata degli abbracci, quella. Nessuno riusciva a restare più di un quarto d’ora senza stringermi tra le braccia.

Tra tutte, però, quella di Carlisle era una delle strette più importanti. Sapevo di dovergli molto, tutto. Esme mi era stata vicina, mi aveva amata e mi amava come fossi figlia sua dal primo momento, Alice era diventata tutto ciò che potessi desiderare in una sorella e gli altri erano parti fondamentali del mio cuore. Ma era solo grazie a Carlisle se quel giorno ero lì.

Come con Esme, non ci fu bisogno di parlare. Sapevo che avrebbe potuto vedere ogni singola parola nei miei occhi, esattamente come io potevo leggere alla perfezione i suoi.

«Sei davvero bellissima, tesoro», proferì semplicemente.

«Grazie», risposi.

Accanto a noi, Alice non aveva ancora abbandonato i suoi ragionamenti.

«Peccato non avere niente di vecchio, però», sbuffò.

«Cara, non c’è tempo. Gli invitati sono pronti», rispose Carlisle.

Gli invitati, la cui buona parte non avevo mai visto prima. Erano quasi tutti amici di Carlisle arrivati dai paesi più disparati, dall’Europa e dall’America del nord. Erano quasi tutti nomadi, compresi gli amici di Jasper, Peter e Charlotte, e gli amici di Edward. A parte i cugini di Denali, nessuno seguiva la nostra dieta. Carlisle si era ritrovato costretto a chiedere a tutti di non cibarsi nelle immediate vicinanze della città, dato che non potevamo attirare troppo l’attenzione degli umani.

«Allora è il momento di andare!», esclamò Emmett. Mi prese a braccetto e mi condusse verso la porta. «Vedrai, ci divertiremo un mondo!».

Ad accompagnarmi all’altare sarebbe dovuto essere Carlisle, ma Emmett aveva insistito tanto sul fatto che senza di lui io e Edward non ci saremmo mai dati una mossa ed era così evidente quanto ci tenesse che, pochi giorni prima, gli avevo chiesto se gli andasse di accompagnarmi all’altare. Ne era stato così felice che mi ero sentita quasi in colpa ad aver desiderato che fosse qualcun altro a prendere quel posto. Carlisle sarebbe stato il testimone di Edward ed in fondo era giusto così.

Gli altri si congedarono in fretta, ognuno pronto a prendere il suo posto. Sapevo che, una volta nella sala, avrei trovato Esme e Jasper in prima fila, Rose al pianoforte e Alice a pochi passi da Edward e Carlisle, pronta a testimoniare il mio amore.

Pochi istanti dopo le note della marcia nuziale si diffusero nell’aria. Emmett mi fece un cenno ed io annuii. Mi sorpresi come, in fondo, fossi rilassata. Ero impaziente di diventare la moglie di Edward, ma ormai percepivo quel passo come spontaneo e naturale. Alle fine, forse, pensare troppo non è davvero un male.

Movemmo i primi passi fuori dalla stanza, verso la sala, e la musica si fece più forte.

Alice si sbagliava, io avevo qualcosa di vecchio. Niente di materiale, non mi occorreva alcun oggetto. Avevo i ricordi. Ogni singolo istante passato con Edward, con Carlisle, con Esme e con i miei fratelli era impresso nella mia memoria. Tutto ciò di importante della mia vecchia vita che volevo portare con me, era dentro di me. Edward e ogni suo sorriso, ogni bacio, ogni risata, ogni incomprensione, ogni gesto, ogni carezza, erano serbati nel centro esatto del mio petto.

Li avrei custoditi lì, insieme a tutti quelli che sarebbero arrivati, con affetto e gratitudine. Per sempre.

 

 

 

Fine

 

 

 

 

Ed eccoci qui, è finita, è finita davvero.

Non trovo le parole per esprimere l’immensa gratitudine nei vostri confronti, per aver seguito la storia, per essere arrivate fino a qui.

Fino a sei mesi fa non credevo che avrei mai scritto questo epilogo, eppure siamo qua. Lo ammetto, sto trattenendo le lacrime. In questo momento Joan sta betando e io sto qui a scrivere queste note finali senza capo né coda.

Ho un giorno di ritardo e mi scuso per questo, avevo promesso che l’epilogo sarebbe arrivato entro la settimana, ma oggi è lunedì. Eppure, prima ancora, vi avevo promesso che avrei portato a termine la storia entro la fine dell’estate. E questa è l’ultima notte d’estate. Almeno questo impegno l’ho mantenuto.

Ho passato l’ultimo mese a progettare questo momento, a pensare cosa scrivere e vi giuro che avevo tanto da dire, ma ora non trovo più le idee.

Sono emozionatissima, è la prima long che scrivo e tra pochi minuti inserirò la v nel tastino “completa”. Questa storia mi è stata accanto nel periodo più brutto della mia vita, ha avuto la sfortuna di nascere nei mesi in cui tutto si è complicato ed è a causa dei miei problemi se ha conosciuto così tante pause e ritardi. Sono qui e vi faccio la mia confessione: l’ho odiata, perché non riuscivo ad andare avanti, perché il blocco che avevo si manifestava nella pagina bianca con cui mi sono scontrata per mesi. E ho amato e amo questa storia perché mi ha aiutata a risollevarmi. So che non è niente di speciale, so che oggettivamente né la trama né la mia scrittura sono chissà quale meraviglia, ma è mia e io la amo e la odio.

Bene, dopo questo momento di depressione/confessione (il mio prete vi ringrazia, la prossima volta la mia confessione sarà più breve e non toglierò tempo alla messa, lol), passo al congedo.

Grazie di cuore a tutte coloro che hanno seguito la storia fin dall’inizio (ne avete di pazienza, eh!) e a coloro che si sono aggiunte dopo, a chi ha messo la storia tra le preferite (75), le seguite (246) e le ricordate (30). In realtà non so perché abbia messo questi numeri, dato che probabilmente sono cifre anche abbastanza limitate, ma penso sia più che altro perché vorrei abbracciarvi tutte, singolarmente. Ma, dato che non posso, vi inserisco sotto forma di numeri. Molto stile Hitler, I know.

Grazie a Saretta28 che ha segnalato la storia per essere inserita tra le seguite. So che non succederà, ma un infinito grazie a te! <3

Grazie ad ary94 che, da che ne ho memoria, recensisce ogni singolo capitolo e perdona ogni mio ritardo. <3

Grazie alle mie due beta, Eleonora prima e Jò ora. Senza di voi non avrei mai potuto pubblicare nulla, lo sapete. lool

Grazie specialmente a Jò, che ha buttato parte del suo tempo in consultazioni di stato per stupide decisioni (e per le mie ricerche snervanti e senza senso).

GRAZIE A TUTTE VOI CHE RECENSITE, COMMENTATE E OGNI TANTO MI FATE PURE PIANGERE, bitches. e.e

Okay, credo di aver finito davvero.

Ah no. Non so se avete notato, ma ho iniziato la revisione della storia (i primi capitoli erano un oltraggio alla lingua italiana) e… E quindi niente, ci tenevo semplicemente a dirvelo uwu

Okay, ora ho finito davvero.

Addio, mie care. Mi mancherete davvero, davvero tanto.

Forse ci sentiremo in qualche storia futura, magari in qualche os.

E quindi nulla, addio!

E continuate a occuparvi, beate, di quelle piccole ma perfette parti delle vostre eternità.

È tardi, l’autrice ha sonno ed è reduce da tre ore di filosofia, perdonatela *va a piangere nell’angolino*

Love you all! <3

   
 
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