Joan
ha betato anche questo, thanks!
Epilogo
Un
anno dopo
Mi
voltai ancora una volta, facendo frusciare la lunga coda
dell’abito sul
pavimento. Sfiorai con delicatezza la guaina stretta che si allargava
nello
strascico quasi fosse una calla capovolta, sotto i polpastrelli la seta
era
morbida e armoniosa. Alzai il capo e la donna riflessa nello specchio
fece lo
stesso, lanciandomi uno sguardo assorto. Osservai con attenzione il
taglio
perfetto e il modo in cui le avvolgeva il corpo, il modo in cui la
rendeva
ancora più aggraziata e flessuosa.
Era
bellissima.
Vidi
i suoi occhi di ambra fusa scintillare, quando constatai che lei ero
io. Le
iridi avevano lentamente abbandonato il cremisi acceso, per diventare
di un
caldo vermiglio e poi, nel giro di pochi mesi, oro fuso. Sorrisi, per
un po’ avevo
temuto che non avrebbero fatto in tempo a schiarirsi entro il giorno
del
matrimonio.
Era
una bella giornata di sole e i raggi che filtravano dalla finestra
facevano
scintillare anche la mia pelle. Qualcosa, però,
brillò con maggiore intensità,
lanciando un raggio che colpì lo specchio. Alzai la mano
destra e, con le dita,
accarezzai l’anello all’anulare destro. Era un
ovale con intricati decine di
piccoli diamanti, montato su un anello d’oro giallo. Era
antico e stupendo,
esattamente come Edward. Il giorno che me lo aveva dato, diversi mesi
prima,
era stata la prima e l’ultima volta che l’avevo
visto seriamente nervoso per
qualcosa. In seguito mi aveva giurato che, se avessero potuto, gli
sarebbero
tremate le ginocchia.
Era
una mattina grigia e fredda e noi eravamo ancora in alto mare con il
trasloco
nella nuova casa, a Vancouver. Carlisle si era assicurato che fosse
abbastanza
in periferia così da poterci tenere lontani da occhi
indiscreti e per
permettermi di terminare i miei ultimi mesi da neonata in totale
tranquillità.
Beh, tranquillità mia, loro e degli abitanti della
città. Nonostante fossimo
ancora piuttosto sepolti dagli scatoloni, ero euforica: non solo
avevamo
lasciato l’Alaska – e Tanya – ma nel giro
di qualche mese avrei potuto
avvicinarmi anche agli umani. Un po’, almeno.
Edward
ed io avevamo avuto una camera in comune, non senza che Carlisle
storcesse un
po’ il naso. Pensavo che Emmett scherzasse quando diceva che,
davvero, in
famiglia la mentalità era rimasta molto
all’antica. Mi sbagliavo. Dopo una
lunga arringa, i cui argomenti fondamentali erano il nostro amore e la
sincerità dei nostri sentimenti, sia Esme sia Carlisle
acconsentirono a
lasciarci avere un’unica stanza. In realtà fu
Edward a convincerli davvero,
sostenendo il nostro enorme rispetto nei confronti
dell’intera famiglia e la
nostra affidabilità sul “non fare
alcunché di sconveniente prima di un’unione
ufficiale”. Mi chiesi come avesse fatto a non sentirsi in
colpa, mentre mentiva
loro in maniera così spudorata. Non impiegai molto a capire
che la sua
coscienza non aveva subito alcun danno semplicemente perché
lui non mentiva,
era davvero determinato a portare a termine i suoi propositi.
Quella
mattina stavamo cercando di convergere i nostri averi in un solo
armadio e in
poche mensole, cosa che per Edward era totalmente impossibile, vista la
moltitudine di dischi e libri che possedeva. Tentavo di lasciargli il
maggior
spazio possibile, anche perché ai miei romanzi e ai miei
testi scolastici bastava
una sola mensola. Per aiutarlo, mi occupavo di ridare un ordine, quanto
meno
cronologico, a dischi, libri e diari. Afferrai da una delle tante
scatole
impilate l’ultimo oggetto che conteneva: un vecchio cofanetto
scuro, che
ricordavo perfettamente. Sorrisi, avvicinandomi a lui, ancora impegnato
a
trovare un posto per Debussy nello scaffale alto. Feci scattare
l’apertura e,
per la seconda volta, vidi i vecchi fogli ingialliti, le istantanee e i
sacchetti dorati. Nella parte più interna del cofanetto,
sopra i vari fogli,
rividi la scatolina foderata di raso nero. Incuriosita, la presi e
posai il
cofanetto. Dopo averla studiata per un istante, alzai lo sguardo e
sorrisi: di
nuovo, Edward non si era accorto che avevo preso il cofanetto. Godendo
dalla
carezza del raso sotto i polpastrelli, mi portai accanto a lui.
«Cos’è
questo?», chiesi. Ma prima che avesse il tempo di
rispondermi, prima ancora che
si voltasse, aprii la scatolina. Al suo interno, protetto da altro
raso, l’anello
più bello e brillante che avessi mai visto. Mi persi un
momento ad osservare
gli intricati e sottilissimi intrecci di oro giallo nei quali erano
stati
inseriti, con un’abilità che solo mani esperte
possono avere, decine di piccoli
diamanti. Lo accarezzai delicatamente, timorosa di poterlo rovinare.
Edward
che, dopo un dodicesimo di secondo si era voltato, imprecò
sotto voce.
«Doveva
essere una sorpresa, dannazione», borbottò.
Alzai
il capo e lo trovai a mezzo metro da me, corrucciato.
«Una
sorpresa?», domandai.
«Sì…
Questo è l’anello di fidanzamento di mia
madre». Mi osservò per un momento, poi
sbuffò. «La mia vera madre, Elizabeth. Assurdo. Me
lo porto dietro da mesi e tu
lo trovi proprio il giorno che decido di rimetterlo a posto per qualche
ora».
Non
gli badai particolarmente, ancora affascinata dalla luce emanata dalle
minuscole pietre. «È molto bello,
davvero».
Esitò
per un istante e io puntai lo sguardo nel suo. C’era qualcosa
di strano nel suo
sguardo, una qualche strana incertezza…
Vulnerabilità.
«Vorrei
che diventasse anche il tuo anello di fidanzamento»,
scandì.
Per
quanto un velo di ansia gli avesse oscurato il volto,
pronunciò le parole non decisione,
senza tentennamenti.
Rimasi
stupita e bloccata per diversi secondi, accettando le implicazioni di
quella
frase. Ero sorpresa, ormai agitata quanto lui, ma emozionata. Stava
davvero
ufficializzando la proposta che faceva, indirettamente, da mesi?
«Avrei
voluto che fosse in un posto migliore, magari più ordinato e
romantico, ma
ormai siamo qui e devo cogliere la palla al balzo. Anche
perché tu l’hai già
trovato, quindi…». Lo vidi sfilarmi dalle dita la
scatolina e piegarsi, fino a
inginocchiarsi davanti a me. Avvolse la mia mano sinistra nella sua.
«Isabella,
prometto di amarti sempre, in ogni situazione e contesto, per
l’eternità. Vuoi
farmi lo straordinario onore di diventare mia moglie?».
Fu
così che, con semplici parole e tra decine di scatoloni,
Edward mi chiese di
sposarlo. Furono attimi intensi, durante i quali non riuscii a
distogliere lo
sguardo dal suo. Fu la prima volta che vidi il miele dei suoi occhi, di
solito
così intelligente e malizioso, sciogliersi in
un’emozione più calda. Non vi era
più alcun velo, nessuna barriera: mi stava mostrando la sua anima.
Fu
molto più facile di quanto mi aspettassi pronunciare quel
“sì” che, contro ogni
aspettativa, fu sicuro e determinato, esattamente come suonava nella
mia testa.
Mi
infilò l’anello nell’anulare sinistro,
lo sfiorò con le labbra e poi si rimise
in piedi, attirandomi a sé. Mi baciò le labbra e
sussurrò: «Grazie, amore mio».
Mi
sciolsi contro il suo petto e gli accarezzai la schiena con la punta
delle
dita. Le farfalle, mie fedeli compagne, avevano invaso il corpo intero.
Mi
sembrava di fluttuare a qualche metro da terra e mi chiesi per quale
ragione avessi
associato l’idea del matrimonio a un problema, qualcosa da
cui scappare. Forse
era collegato a un ricordo, a un’esperienza passata, ma non
fui capace di
riportarla a galla. Di qualsiasi cosa si trattasse, sapevo che non
sarebbe
potuta essere applicata a quel caso. Edward sarebbe diventato mio
marito, non
un uomo qualunque, ma Edward. E sarebbe stato perfetto.
«Quel
cofanetto sembra lo scrigno del tesoro di un pirata»,
mormorai, dopo qualche
minuto.
Ghignò.
«Ce l’hai ancora?». Non c’era
bisogno che dicesse di cosa stesse parlando. Feci
un cenno con il capo verso la libreria dove, in bella vista, spiccava
la mia
copia di Romeo e Giulietta. Lì, protetta da carta,
inchiostro e una delle più
forti storie d’amore mai narrate, stava la sua foto.
Un
leggero bussare alla porta mi riportò al presente. Esme fece
capolino nella
stanza, sorridente e serena. Era bellissima con i capelli legati in un
alto
chignon e il lungo abito lilla. La vedevo riflessa nello specchio,
mentre
muoveva il primo passo verso di me.
«Si
può?», chiese.
Ridacchiai.
«Mi pare tu sia già entrata. Sei la benvenuta,
comunque».
«Sei
meravigliosa, tesoro mio». Colmò la distanza che
ci separava e mi cinse con le
braccia. «Davvero perfetta, bambina mia».
Strinsi
forte le braccia attorno alla sua vita sottile. In fondo quel giorno
non
avrebbe cambiato davvero la mia vita: avrei continuato a vivere con la
mia –
ormai la consideravo tale a tutti gli effetti – famiglia, non
mi sarei
trasferita, non avrei iniziato una nuova vita, non avrei dovuto
affrontare veri
e propri cambiamenti radicali. Per lo meno, in teoria. In pratica
sapevo che,
nonostante tutto, il matrimonio è un cambiamento.
È il cambiamento. Quel
giorno avrei giurato di dedicare la mia vita a
un’altra persona, a dividere con lui gioia e dolore, pace e
problemi, ogni
singolo istante del resto della mia esistenza. E anche se non avremmo
messo al
mondo dei figli, anche se non ci saremmo dovuti guadagnare il pane
lavorando,
anche se non saremmo invecchiati e non ci sarebbe stato nessuno
“in salute e in
malattia”, sapevo che tutto avrebbe acquisito un significato
diverso.
Di
lì a poco più di un’ora non sarebbero
più esistiti due soli e fragili io, ma un
unico, perfetto noi.
Per
quella ragione non potei non lasciare che le braccia di Esme mi
confortassero.
Perché, per quanto provassi una totalizzante
felicità, un’irrequieta impazienza
di iniziare a far parte di quel noi con Edward, non potevo non avere
bisogno
del sostegno di mia madre. In quei giorni avevo sentito più
che mai la mancanza
di Renée, mentre il suo volto sbiadiva nei miei ricordi. Mi
ero chiesta cosa
stesse facendo, se avesse superato il dolore, se avrebbe appoggiato la
mia
scelta.
Sapevo
che Edward le sarebbe piaciuto, ma nessun’altra domanda aveva
trovato risposta.
Non
avrei saputo dire se Esme avesse intuito il mio stato
d’animo, se lo
comprendesse o se anche lei l’avesse attraversato, ma in quel
momento la sentii
più vicina che mai.
Mi
strinse a sé ancora per un lungo momento poi, premendo sulle
braccia, mi
allontanò un po’ da sé. Sorrise
– non aveva mai smesso di farlo – e mi
baciò la
fronte. «Andrà tutto bene».
Feci
in tempo ad annuire appena perché la porta si
spalancò, permettendo l’ingresso
ad Alice e Rosalie. Entrambe erano già vestite, perfette nei
loro abiti rosa
pallido. Avevano tonalità simili, ma l’abito di
Alice era corto, con una cinta
sulla vita, mentre quello di Rose era più lungo ed elegante,
con un taglio
imperiale.
Vedendoci
così avvinghiate, ad Alice venne quasi un colpo.
«Ma
dico io, sei matta?! Sai quanto può stropicciarsi il tessuto
di questo abito? È
seta, Bella, seta», scandì, allontanandomi da Esme
e lisciandomi il vestito.
Mi
tirò fino a una sedia poi, con infinita attenzione, mi ci
fece accomodare.
«Rose,
sistemale i capelli!».
La
diretta interessata, che era rimasta in disparte a ridacchiare, si
avvicinò.
«Allora, cara, come vanno le gambe?».
«Bene,
non tremano neanche un po’». Ed era vero: se
c’era una cosa di cui ero sicura,
era la scelta dello sposo.
Rose
mi sorrise, sfiorandomi una spalla. «Sei molto
bella».
«È
felice e la felicità rende belli»,
replicò Esme.
«Certo,
certo. La felicità e il veleno di vampiro», ci
liquidò Alice. «Quindi dopo
diremo un bel grazie a Carlisle. Ma ora, Rose, rendi ancora
più bella la
sposina. E tu», mi puntò un dito contro,
impedendomi di parlare, «torna nella
tua bolla felice e non ti azzardare a contestare qualcosa. Non ti
permetterò di
tenere i capelli sciolti il giorno del tuo matrimonio, intese? Devo
già
sopportare il fatto che Siobhan abbia indossato un abito scuro. Scuro,
ad un
matrimonio! Rovinerà tutte le foto…».
Smisi
di ascoltare Alice e le sue lamentele, e mi concentrai davvero per
tornare
nella mia bolla felice. In quella piccola dimensione in cui il
matrimonio era
già finito, tutto era andato alla perfezione ed io e Edward
ci trovavamo nel
luogo della nostra luna di miele. In realtà
l’ambientazione di quei momenti
variava in continuazione, dato che Edward non aveva voluto rivelarmi la
nostra
meta. Era uno dei suoi regali di nozze, aveva detto. E, anche se la
curiosità mi
divorava, sapevo che sarebbe stato tutto perfetto. Non solo
perché Edward non
avrebbe mai lasciato nemmeno un dettaglio al caso, ma perché
le attività della
nostra luna di miele avrebbero eclissato qualsiasi inconveniente. Quel
pensiero
mi portò indietro a una sera di quattro mesi prima, quando
avevo capito quanto
potesse essere forte la tenacia di Edward nel “fare le cose
per bene”. E quanto
fosse irritante l’educazione in stile prima guerra mondiale.
Ci
eravamo trasferiti a Vancouver da una settimana, ma le
attività familiari erano
già ricominciate: Carlisle, infatti, aveva il turno di notte
nell’ospedale in
cui lavorava, Rosalie ed Emmett avevano deciso di uscire per passare
una serata
romantica in tranquillità. Noi altri, invece, dovevamo
andare a caccia, dato
che l’indomani sarebbe iniziata la scuola. Beh, Jasper, Alice
e Edward dovevano
cacciare per tale motivazione, io per semplice necessità.
Era ancora troppo
presto perché potessi interagire con gli umani, per il
momento mi limitavo ad
avvicinarmi sporadicamente al centro abitato. Avevo da poco cacciato
con
Carlisle, prima che mi portasse con sé fino alle prime
abitazione, per
verificare la mia reazione alla vicinanza con gli umani. Edward sarebbe
dovuto
andare con gli altri, dato che le sue occhiaie stavano diventando
pericolosamente simili a ustioni, ma aveva scelto di restare con me.
E
così ci eravamo ritrovati soli, di notte, con
l’intera casa a disposizione per
ore. Avevamo visto un film, anche se sarebbe meglio dire che avevamo
acceso il
televisore e scelto un film, dato che non l’avevamo
propriamente guardato. Per
la maggior parte del tempo ci eravamo limitati a baciarci
appassionatamente sul
divano. Non era la prima volta che restavamo soli, né tanto
meno che ci
baciavamo in quel modo, ma da qualche tempo a quella parte le nostre
effusioni
si erano fatte diverse, più esigenti.
E quella sera sembrava perfetta, perfetta per i nostri baci, perfetta
per le
nostre carezze, perfetta per noi. Amavo Edward e sapevo che ormai
eravamo
un’unica mente, lo vedevo ogni volta che bastava uno sguardo
per capirci, un
unico cuore, perché ero certa che se i nostri cuori avessero
potuto battere
sarebbero stati una sincronia perfetta, e non vedevo niente di male nel
diventare anche un unico corpo. Anzi, lo desideravo. Desideravo lui
perché lo
amavo, perché volevo condividere tutto con Edward.
I
nostri corpi erano allacciati mentre le nostre lingue si scontravano
tra loro
in una spirale infinita. Stringevo e tiravo i suoi capelli e le sue
mani
vagavano sul mio corpo, accarezzandomi il ventre e fianchi. Ansimai
quando, con
impeto crescente, una sua mano scese e mi arpionò una
coscia. Lo attirai ancora
più vicino a me, forse con troppo forza, perché
ci ritrovammo stesi per terra.
Probabilmente se si fosse trattato di un altro contesto avrei riso, ma
in quel
momento l’ultima cosa che mi passava per la mente era
l’ilarità. Edward, nella
caduta, si era staccato da me e ora mi fissava a pochi centimetri dal
mio
volto. I suoi occhi erano neri come non li avevo mai visti, due pozze
profonde
di desiderio.
Ci
fu un istante in cui entrambi rimanemmo immobili, persi l’uno
nello sguardo
dell’altro, poi Edward si tuffò sul mio collo,
lasciando una scia di baci infuocati
sulla mia pelle. Ansimavo il suo nome, premendo le unghie sulla sua
schiena.
Senza nemmeno rendermene conto ridussi la sua camicia in brandelli,
ritrovandomi a premere sui muscoli guizzanti delle sue spalle. Fu il
suo turno
di ansimare. Non smise per un momento di baciare e venerare la mia
pelle. Con
la bocca scese sul mio petto, e premette le labbra proprio dove, un
tempo,
batteva il mio cuore. Avvertivo le sue mani che ora accarezzavano le
mie gambe
in tutta la loro lunghezza. Lo strinsi forte a me, avvicinando ancora
di più i
nostri corpi e, per la prima volta, lo sentii premere davvero contro di
me.
Buttai fuori l’aria in un sibilo.
«Ti
amo», mormorai, tentando di avvicinarmi ancora di
più a lui.
Inspiegabilmente,
si immobilizzò. Riportò il volto vicino al mio e,
gli occhi chiusi, mi lasciò
un bacio sulle labbra, allontanando i nostri corpi. Rimasi bloccata,
stupefatta, mentre lo vedevo sedersi con una certa rigidità
contro il divano.
Che diavolo gli prendeva?
«Edward?»,
lo chiamai, riemergendo dallo stato di shock. Perché si era
allontanato? Stava
andando tutto così bene… «Edward, che
succede?».
Mi
guardò, ma distolse subito lo sguardo, muovendosi irrequieto
sul posto. L’unica
espressione che potei leggervi era tormento, puro ed evidente tormento.
«Mi
dispiace, Bella», mormorò, voltando il capo con
uno scatto verso la finestra
scura.
Mi
sedetti, osservandomi per capire perché non mi guardasse. La
mia maglietta non
era messa meglio della sua camicia, ormai ridotta in brandelli. Non me
n’ero
nemmeno accorta.
«Sono
così repellente?», chiesi, sperando di risultare
ironica. In realtà mi sentivo
morire dentro mentre una nuova sensazione si faceva largo in me,
sgradevolmente
calda e logorante. «Ho fatto qualcosa di
sbagliato?».
Incrociai
le braccia al petto, improvvisamente a disagio. Non mi voleva?
«No,
certo che no. Io…», scosse il capo, continuando a
non guardarmi. Gliene fui
grata: non volevo che lo facesse, non volevo che mi vedesse.
Scattai
in piedi e in una frazione di secondo mi ritrovai nella nostra stanza.
Mi ficcai
nella cabina armadio e infilai la prima maglietta che trovai.
Mi
voltai e trovai Edward a sbarrarmi la strada. Evitai di guardarlo negli
occhi
mentre provavo ad allontanarlo per uscire dalla stanza. Non me lo
permise. Mi
bloccò, tenendomi per un polso. Mi divincolai, ma la mia
forza stava iniziando
a scemare e lui non mollava la presa. Forse scappare non era la cosa
giusta da
fare, ma in quel momento tutto quello che sentivo era il viscerale
imbarazzo,
unito alla frustrazione: mi aveva rifiutata e io avevo solo voluto
amarlo.
Mi
lasciò andare il polso e mi strinse a sé con
forza. Le mie braccia rimasero
mollemente abbandonate lungo i miei fianchi.
«Mi
dispiace», mormorò tra i miei capelli.
«Sono un idiota».
Non
replicai nemmeno quando mi lasciò andare e feci un passo
indietro, guardandolo
in volto. Era teso, tentennante e, ne fui certa, anche lui in imbarazzo.
Incrociai
nuovamente le braccia al petto, anche se ormai ero vestita. Non volevo
che mi
abbracciasse ancora.
«Sto
facendo tutto… male», riprese. «Niente
va come avevo programmato: volevo farti
una proposta con i fiocchi, darti un regalo prima di chiederti di
sposarmi,
fare qualcosa di più», sospirò.
«Non ci sono riuscito. E almeno questo, almeno
questo voglio che sia giusto. Voglio che tu mi appartenga e che io
appartenga a
te solo dopo che saremo ufficialmente marito e moglie, anche se ti amo
come se
fossi già la mia sposa. Voglio dimostrarti il rispetto che
meriti almeno in
questo modo».
Rispetto?
Non riuscivo a capire il senso del suo discorso, eppure avvertii il
sollievo
espandersi velocemente per tutto il corpo.
«Quindi…
non è che non mi vuoi?», chiesi, senza distogliere
lo sguardo dal suo.
Sbuffò,
roteando gli occhi al cielo. «Mi spieghi come fai a pensare
che io non ti voglia
dopo… beh, almeno dopo stasera dovrebbe essere
chiaro», rispose, occhieggiando
la mia maglietta. «Tu sei perfetta e io ti amo più
di ogni altra cosa al
mondo».
Continuai
a fissarlo in malo modo ma, sciogliendo le braccia, colmai la distanza
che ci separava
e gli permisi di stringermi.
«Quindi
è solo la tua stupita mentalità da prima guerra
mondiale a parlare?», borbottai
contro il suo petto ancora nudo.
Rise.
«Non è per niente stupida».
Tentai
per diverso tempo di fargli capire che non avevo bisogno di quello per sapere che mi rispettava, ma
fu irremovibile. Non che non fossi lusingata da una simile
dimostrazione
d’amore, ma davvero avrei preferito non dover aspettare. Si
dice che l’attesa
accresca il desiderio, io avrei detto che accresce solo la voglia di
dar di
matto.
D’improvviso
sentii qualcuno tirarmi per i capelli e, se una parte del mio
iper-funzionale
cervello non avesse ricordato dove mi trovassi, sarei saltata addosso a
mia
sorella.
«Alice,
lasciala in pace, è nella sua bolla felice», rise
Rose.
«Certo,
la bolla felice però deve scoppiare in fretta, o non
farà in tempo a vedersi
allo specchio prima dell’inizio della cerimonia! Emmett e
Carlisle arriveranno
tra tre minuti e quarantasette secondi», la
rimbeccò Alice, per poi darmi un
paio di bottarelle sulle spalle. «Su, allo
specchio!».
Mi
ci trascinò davanti e potei constatare, con una punta di
frivolo orgoglio, che ero
ancora più bella di prima. Rose aveva davvero fatto un
ottimo lavoro con i miei
capelli: li aveva agghindati in una lunga e semplice treccia a spina di
pesce,
lasciando però, attorno al viso, qualche ciocca
più corta fuori
dall’acconciatura, creando un effetto naturale ma non meno
raffinato. Era
perfetta per quel vestito un po’antiquato: nel complesso
sembravo uscita dal
1918. Sorrisi, Edward ne sarebbe stato colpito.
Esme
mi si avvicinò, tenendo un lungo velo tra le mani. Lo
inserì con maestria tra i
miei capelli, poi mi posò le mani sulle spalle.
«Ecco,
ora sei davvero perfetta. Hai qualcosa di regalato, pur essendo anche
vecchio.
È il mio velo nuziale, so che è un po’
fuori moda, ma ho pensato che con questo
vestito sarebbe stato perfetto».
Mi
voltai e l’abbracciai stretta. Non ci fu bisogno di grandi
discorsi, la strinsi
semplicemente a me, trasmettendole tutto il mio affetto e la mia
gratitudine.
«Grazie».
Alice,
che non si era allontanata che di pochi passi, si rifece avanti,
più serena.
«Bene,
ora hai tutto. Una cosa regalata, una cosa nuova e blu – e si
riferiva al
fermacapelli impreziosito con zaffiri oltremare che ora bloccava il
velo – e
una cosa prestata», poi aggiunse, come se nulla fosse:
«Di’ al tuo futuro
marito di andarci piano, rivoglio la mia giarrettiera».
Sentimmo
un battere leggero contro la porta e mezzo secondo dopo Carlisle ed
Emmett
erano nella stanza, perfetti nei loro tight scuri.
Dovevano
aver sentito ogni nostra parola, perché Emmett conteneva a
stento le risate.
Gli avevo fatto giurare che almeno il giorno del matrimonio avrebbe
dovuto
piantarla con le battutine. Alla fine eravamo arrivati al compresso di
“niente
battutine prima e durante la cerimonia”. Dire che ero
preoccupata per il
ricevimento era un eufemismo.
Carlisle
mi si avvicinò e mi abbracciò. Era la giornata
degli abbracci, quella. Nessuno
riusciva a restare più di un quarto d’ora senza
stringermi tra le braccia.
Tra
tutte, però, quella di Carlisle era una delle strette
più importanti. Sapevo di
dovergli molto, tutto. Esme mi era
stata vicina, mi aveva amata e mi amava come fossi figlia sua dal primo
momento, Alice era diventata tutto ciò che potessi
desiderare in una sorella e
gli altri erano parti fondamentali del mio cuore. Ma era solo grazie a
Carlisle
se quel giorno ero lì.
Come
con Esme, non ci fu bisogno di parlare. Sapevo che avrebbe potuto
vedere ogni
singola parola nei miei occhi, esattamente come io potevo leggere alla
perfezione i suoi.
«Sei
davvero bellissima, tesoro», proferì semplicemente.
«Grazie»,
risposi.
Accanto
a noi, Alice non aveva ancora abbandonato i suoi ragionamenti.
«Peccato
non avere niente di vecchio, però»,
sbuffò.
«Cara,
non c’è tempo. Gli invitati sono
pronti», rispose Carlisle.
Gli
invitati, la cui buona parte non avevo mai visto prima. Erano quasi
tutti amici
di Carlisle arrivati dai paesi più disparati,
dall’Europa e dall’America del
nord. Erano quasi tutti nomadi, compresi gli amici di Jasper, Peter e
Charlotte, e gli amici di Edward. A parte i cugini di Denali, nessuno
seguiva
la nostra dieta. Carlisle si era ritrovato costretto a chiedere a tutti
di non
cibarsi nelle immediate vicinanze della città, dato che non
potevamo attirare
troppo l’attenzione degli umani.
«Allora
è il momento di andare!», esclamò
Emmett. Mi prese a braccetto e mi condusse
verso la porta. «Vedrai, ci divertiremo un mondo!».
Ad
accompagnarmi all’altare sarebbe dovuto essere Carlisle, ma
Emmett aveva
insistito tanto sul fatto che senza di lui io e Edward non ci saremmo
mai dati una mossa ed era
così evidente
quanto ci tenesse che, pochi giorni prima, gli avevo chiesto se gli
andasse di
accompagnarmi all’altare. Ne era stato così felice
che mi ero sentita quasi in
colpa ad aver desiderato che fosse qualcun altro a prendere quel posto.
Carlisle sarebbe stato il testimone di Edward ed in fondo era giusto
così.
Gli
altri si congedarono in fretta, ognuno pronto a prendere il suo posto.
Sapevo
che, una volta nella sala, avrei trovato Esme e Jasper in prima fila,
Rose al
pianoforte e Alice a pochi passi da Edward e Carlisle, pronta a
testimoniare il
mio amore.
Pochi
istanti dopo le note della marcia nuziale si diffusero
nell’aria. Emmett mi
fece un cenno ed io annuii. Mi sorpresi come, in fondo, fossi
rilassata. Ero
impaziente di diventare la moglie di Edward, ma ormai percepivo quel
passo come
spontaneo e naturale. Alle fine, forse, pensare troppo non è
davvero un male.
Movemmo
i primi passi fuori dalla stanza, verso la sala, e la musica si fece
più forte.
Alice
si sbagliava, io avevo qualcosa di vecchio. Niente di materiale, non mi
occorreva alcun oggetto. Avevo i ricordi. Ogni singolo istante passato
con
Edward, con Carlisle, con Esme e con i miei fratelli era impresso nella
mia
memoria. Tutto ciò di importante della mia vecchia vita che
volevo portare con
me, era dentro di me. Edward e ogni
suo sorriso, ogni bacio, ogni risata, ogni incomprensione, ogni gesto,
ogni
carezza, erano serbati nel centro esatto del mio petto.
Li
avrei custoditi lì, insieme a tutti quelli che sarebbero
arrivati, con affetto
e gratitudine. Per sempre.
Fine
Ed
eccoci qui, è finita, è finita
davvero.
Non
trovo le parole per esprimere
l’immensa gratitudine nei vostri confronti, per aver seguito
la storia, per
essere arrivate fino a qui.
Fino
a sei mesi fa non credevo
che avrei mai scritto questo epilogo, eppure siamo qua. Lo ammetto, sto
trattenendo le lacrime. In questo momento Joan sta betando e io sto qui
a
scrivere queste note finali senza capo né coda.
Ho
un giorno di ritardo e mi
scuso per questo, avevo promesso che l’epilogo sarebbe
arrivato entro la
settimana, ma oggi è lunedì. Eppure, prima
ancora, vi avevo promesso che avrei
portato a termine la storia entro la fine dell’estate. E
questa è l’ultima
notte d’estate. Almeno questo impegno l’ho
mantenuto.
Ho
passato l’ultimo mese a
progettare questo momento, a pensare cosa scrivere e vi giuro che avevo
tanto
da dire, ma ora non trovo più le idee.
Sono
emozionatissima, è la prima
long che scrivo e tra pochi minuti inserirò la v nel tastino
“completa”. Questa
storia mi è stata accanto nel periodo più brutto
della mia vita, ha avuto la
sfortuna di nascere nei mesi in cui tutto si è complicato ed
è a causa dei miei
problemi se ha conosciuto così tante pause e ritardi. Sono
qui e vi faccio la
mia confessione: l’ho odiata, perché non riuscivo
ad andare avanti, perché il
blocco che avevo si manifestava nella pagina bianca con cui mi sono
scontrata
per mesi. E ho amato e amo questa storia perché mi ha
aiutata a risollevarmi.
So che non è niente di speciale, so che oggettivamente
né la trama né la mia
scrittura sono chissà quale meraviglia, ma è mia
e io la amo e la odio.
Bene,
dopo questo momento di
depressione/confessione (il mio prete vi ringrazia, la prossima volta
la mia
confessione sarà più breve e non
toglierò tempo alla messa, lol), passo al
congedo.
Grazie
di cuore a tutte coloro
che hanno seguito la storia fin dall’inizio (ne avete di
pazienza, eh!) e a coloro
che si sono aggiunte dopo, a chi ha messo la storia tra le preferite
(75), le
seguite (246) e le ricordate (30). In realtà non so
perché abbia messo questi
numeri, dato che probabilmente sono cifre anche abbastanza limitate, ma
penso
sia più che altro perché vorrei abbracciarvi
tutte, singolarmente. Ma, dato che
non posso, vi inserisco sotto forma di numeri. Molto stile Hitler, I
know.
Grazie
a Saretta28 che ha
segnalato la storia per essere inserita tra le seguite. So che non
succederà,
ma un infinito grazie a te! <3
Grazie
ad ary94 che, da che ne ho
memoria, recensisce ogni singolo capitolo e perdona ogni mio ritardo.
<3
Grazie
alle mie due beta,
Eleonora prima e Jò ora. Senza di voi non avrei mai potuto
pubblicare nulla, lo
sapete. lool
Grazie
specialmente a Jò, che ha
buttato parte del suo tempo in consultazioni di stato per stupide
decisioni (e
per le mie ricerche snervanti e senza senso).
GRAZIE
A TUTTE VOI CHE RECENSITE,
COMMENTATE E OGNI TANTO MI FATE PURE PIANGERE, bitches. e.e
Okay,
credo di aver finito
davvero.
Ah
no. Non so se avete notato, ma
ho iniziato la revisione della storia (i primi capitoli erano un
oltraggio alla
lingua italiana) e… E quindi niente, ci tenevo semplicemente
a dirvelo uwu
Okay,
ora ho finito davvero.
Addio,
mie care. Mi mancherete
davvero, davvero tanto.
Forse
ci sentiremo in qualche
storia futura, magari in qualche os.
E
quindi nulla, addio!
E
continuate a occuparvi, beate,
di quelle piccole ma perfette parti delle vostre eternità.
È
tardi, l’autrice ha sonno ed è
reduce da tre ore di filosofia, perdonatela *va a piangere
nell’angolino*
Love
you all! <3