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Autore: nevermore997    24/09/2014    4 recensioni
Vittoria Baudelaire è una Calfornia Girl a tutti gli effetti: snob, piuttosto antipatica ed abituata a vivere tra tutti gli agi e tutte le comodità. Per lei la decisione dei suoi genitori di trasferirsi da San Francisco a Foggy Hollow, desolante e gelida cittadina dello sperduto Wyoming, è una vera e propria doccia fredda. Senza volerlo si ritroverà catapultata in una vita completamente diversa da quella a cui è abituata, circondata da nuovi bizzarri amici, troppa neve per i suoi gusti, pianisti misteriosi e le mura di una casa inquietante che cela un terribile mistero.
La storia di una sedicenne in un mare di guai che si ritrova costretta ad adattarsi, a dimostrarsi coraggiosa, ad agire e anche a cambiare. Se in meglio o in peggio, lo scoprirete solo leggendo.
Questa storia è un esperimento, uno sporadico tentativo di fondere assieme due generi che nulla hanno a che vedere tra di loro: l’horror e il comico. Nella speranza che questo strano miscuglio vi incuriosisca, vi auguro buona lettura.
Genere: Comico, Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo IV
Sorprese belle e sorprese brutte
 
 
La famiglia di Owen arrivò verso le sette, quando mia madre mi aveva rilasciata dal suo regime di schiavismo da più o meno un’ora. A quel punto mi ero volatilizzata al piano di sopra, mi ero imbellettata alla velocità della luce ed ora ero pronta come non mai.
Sua nonna era una vecchina adorabile dai capelli bianchi e radi, con piccoli occhialetti tondi ed un grande sorriso cordiale ed un po’ sdentato. I suoi fratelli erano due gemellini paffuti  e vivaci sui cinque anni, che erano la sua copia in miniatura, solo, senza espressione diabolica. Non appena furono entrati in casa si misero a rincorrere allegramente il gatto sotto l’albero di Natale. Mi ritrovai a sorridere della loro candida ingenuità e pensare che per loro doveva essere molto difficile crescere con dei genitori così assenti.
Owen sembrava a suo agio come tutto il resto dei suoi parenti. Dalla mia posizione seminascosta in cima alle scale osservai non vista come salutava gentilmente mia madre, come stringeva la mano a mio padre per presentarsi e come guardava intenerito i suoi fratellini che giocavano.
Era l’occasione giusta per il mio ingresso trionfale.
Avevo indossato il vestito blu di raso che mia madre mi aveva comprato per un matrimonio qualche anno prima, avevo messo gli orecchini pendenti e mi ero fatta un’acconciatura aristocratica seguendo un tutorial su internet. Insomma, ce l’avevo messa tutta per sembrare più carina del solito quella sera, e avrei ritenuto quasi offensivo se nessuno lo avesse notato. Il che, mi dissi, era praticamente impossibile, vista l’entrata ad effetto che mi ero accuratamente studiata.
Era arrivato il momento. Presi un lungo respiro, mi stampai un sorriso regale in faccia degno di Maria Antonietta e, con un tintinnio di tacchi a spillo, iniziai a scendere le scale. Tra i vantaggi che offriva Avary Manor c’era appunto quella scalinata principesca, uguale a quella del castello de La Bella E La Bestia.
Proprio come avevo previsto, su qualche volto si dipinsero sorrisi che interpretai come di profonda ammirazione. Quello che invece non avevo previsto era che quell’impiastro di mio padre avesse avuto la brillante idea di lasciare i cocci di una pallina rotta nel bel mezzo di un gradino, né tantomeno che ci avrei prestato sopra. Sicuramente non erano nei miei piani lo scivolone ed il rovinoso e sgraziato volo d’angelo giù dalle scale che ovviamente seguirono, fatto sta che fu esattamente quello che accadde. Completai degnamente la mia performance da perfetta idiota atterrando dritta sui piedi di Owen, in una posizione che sospettavo offrisse una vista panoramica sulla mia biancheria intima.
«Vittoria, Vittoria, stai bene?», chiese affannosamente mio padre.
«Certo che sta bene, Bob, come ben saprai, ha la testa dura come il cemento», gli rispose al mio posto mia madre, simpatica come la sabbia nelle mutande, prima di sparire in cucina seguita da coloro che non vedevano l’ora di dedicarsi ad un tour della casa, alias, tutti a parte me ed Owen. Volevo morire dalla vergogna. Alzai lo sguardo su di lui e vidi che stava praticamente soffocando nel tentativo di non ridere.
«Ti serve una mano?», chiese, con voce strozzata.
Mi tese il braccio, ma io, nel tentativo di non buttare alle ortiche quel briciolo d’orgoglio che mi rimaneva, lo ignorai e mi issai in piedi da sola, dandogli le spalle con fare imbufalito.
«Oh, sei più alta. Ti stanno bene, i tacchi. Ora mi arrivi addirittura alla spalla.»
Mi inviperii ancor di più. Mi piaceva pensare di non essere bassa, bensì semplicemente circondata da persone spropositatamente alte. Owen, con il suo metro e novanta di statura, non costituiva un’eccezione.
«Owen, solo tu riesci a renderti così insopportabile nel giro di così poco tempo», ringhiai, lisciandomi nervosamente con le mani il vestito sgualcito.
Lui rise.
«Ma se ti ho anche portato una sorpresa.»
Mi girai di scatto e vidi che stringeva tra le mani un pacchettino avvolto in carta dorata. L’espressione di assoluta sorpresa che mi apparve in faccia parlò prima che potessi farlo io.
«Credevi veramente che non avessi nessun regalo per te?»
«Ma io…», iniziai, mortificata, ma lui mi precedette.
«So che tu non mi hai regalato niente e so anche che ne sei davvero dispiaciuta. Non ha importanza. Adesso però apri il pacchetto e chiudi il becco. Quando stai zitta sei piuttosto carina».
Era incredibile come quel ragazzo riuscisse ad insultarmi e farmi complimenti contemporaneamente. Gli rivolsi un sorriso incerto, gli presi il pacchetto dalle mani e lo aprii. Non appena vidi cosa conteneva, gli occhi mi si illuminarono letteralmente.
«Owen…», iniziai, ma il resto della frase mi morì in gola. Dentro l’incarto c’erano una dozzina di spartiti per pianoforte, scritti a mano con calligrafia tremenda sui pentagrammi.
«Si, ecco…», bofonchiò lui, distogliendo lo sguardo con fare un po’ imbarazzato. «Sono canzoni che ho scritto io nel corso degli anni. Non so quanto possano piacerti, non so nemmeno se piacciono a me. Non ho mai detto a nessuno che compongo musica, ma tu mi sembravi la persona adatta.»
Scossi la testa più volte, nel disperato tentativo di trovare qualcosa di intelligente da dire.
«E’ il regalo perfetto.»
Mi venne il forte sospetto che in realtà lui amasse suonare il piano molto più di quanto non volesse far credere.
«Lo so», ghignò. «Sono un genio».
Sfogliando gli spartiti mi cadde lo sguardo sul titolo dell’ultimo e per poco non mi cadde di mano. In alto a sinistra, al posto del titolo, scarabocchiato indecentemente, si leggeva il nome “Vittoria”.
A quel punto sapevo che avrei davvero dovuto dire qualcosa, o, quanto meno, se proprio non mi veniva in mente nulla, superare le mie remore sul contatto fisico ed abbracciarlo. Alzai lo sguardo su di lui, che, accorgendosi di quale partitura avevo notato, sorrise. Eravamo davvero vicini, talmente vicini che…
«Vittoria, che cos’hai lì?!»
Mia madre, con lo stesso tempismo del ciclo a ferragosto, sbucò dal nulla, con un sorriso esagerato stampato in faccia. Arrossendo, feci precipitosamente un passo indietro e mi finsi molto interessata al soffitto della stanza. Owen, dal canto suo, sembrava essere perfettamente a suo agio.
«Mamma», dissi, sputando fuori le parole dalle labbra come se fossero state dardi avvelenati. «Owen mi ha regalato degli spartiti per pianoforte».
Lo sguardo della Disturbatrice Indesiderata si animò.
«Oh, si, Rosie mi ha detto che sei un bravissimo pianista! Ti andrebbe di farci sentire qualcosa? Ci farebbe talmente piacere!»
Probabilmente per la prima volta da quando ero nata mi ritrovai ad essere d’accordo con mia madre.
«Si, Owen, suonaci qualcosa», diedi manforte, socchiudendo maliziosamente gli occhi.
Lui sembrava improvvisamente molto a disagio (cosa che mi fece provare un alquanto scortese ed inammissibile senso di vittoria) ed iniziò a passarsi nervosamente una mano tra i capelli rossi.
«Ma io… non sono poi così bravo…»
«Oh, non ti preoccupare, non puoi essere peggio di Vittoria ed i suoi perenni Jingle Bells ed Inno Americano.»
«Molte grazie, mamma», commentai, ma ero troppo curiosa di sentire Owen per stizzirmi a dovere.
«Io… beh, suppongo che… e va bene», si arrese lui, con somma soddisfazione mia e di mamma. Papà lo diceva sempre, che quando ci alleavamo sapevamo essere peggio di avvoltoi alla ricerca di carcasse.
Nel giro di mezzo secondo le intere famiglie Baudelaire e Fitzgerald (era proprio questo l’improbabile cognome di Owen) erano riunite sul divano del salotto a fissare con tanto d’occhi il pianista dai capelli rossi, che aveva l’aria di chi avrebbe preferito infilare la testa in un secchio di anguille piuttosto che essere in quella situazione. Guardò con fare spaesato i miei nuovi spartiti che gli avevo affidato, ma, dopo l’esitazione iniziale, con un sorriso scelse l’ultimo. Si sedette sullo sgabello, posò le dita sullo strumento e si mise a suonare “Vittoria”.
La sensazione che provai sentendo quelle note fu indescrivibile. Era una melodia enigmatica, a tratti vivace e a tratti un po’ malinconica, ma costantemente avvolta da un’aura di mistero. Mi diede un brivido talmente violento da mozzarmi il fiato. Alzai lo sguardo su Owen e non potei fare a meno di notare quanto fosse diverso, quando suonava.  Il suo viso si rilassava, tutte le rughette di preoccupazione che erano solite ombreggiare le sue espressioni svanivano in una rilassatezze ed in una tranquillità che erano in grado di placare tutte le mie angosce. Le sue dita affusolate correvano sulla tastiera e carezzavano delicatamente i tasti dando vita a quella musica celestiale, che toglieva il senso a tutti i sentimenti che avessi mai provato prima d’allora. Felicità, soddisfazione, rabbia, tutto sembrava ridicolmente piccolo ed effimero messo a confronto con ciò che suscitava in me la canzone di Owen. In quel momento ebbi la sensazione che non stesse suonando per tutto il pubblico presente nella stanza, ma esclusivamente per me. Quando ebbe finito e si fu alzato per godersi appieno gli applausi scroscianti ed entusiasti della sua audience improvvisata mi sembrò che, con i suoi grandi occhi azzurri, stesse guardando me e me soltanto.
 
Quando ci sedemmo a tavola fuori iniziò a nevicare piuttosto violentemente.
«Veramente un tempaccio», commentò mio padre, sbirciando fuori dalle tende.
Tuttavia neanche quel piccolo disguido riuscì a rovinare la gioiosa atmosfera generale, alimentata soprattutto da mia madre, che da quando ci eravamo spostati nella sala da pranzo, luogo dove regnava indiscussa, aveva iniziato ad infervorarsi sempre di più. Era stata molto lieta di scoprire che tutti i Fitzgerald mangiavano ogni sorta di cibo, e, per giunta, con un notevole appetito. Per lei, vedere i gemelli finire la seconda porzione di risotto ed iniziare a battere le posate sul tavolo inneggiando il tacchino era un autentico spettacolo idilliaco. Io ed Owen eravamo capitati seduti vicini.
«Tua madre è una cuoca fantastica», mi disse sottovoce, tra una forchettata di lenticchie e l’altra. Io annuii.
«Come genitrice è piuttosto scadente, ma devo dargliene atto, ai fornelli non è niente male.»
Lui ridacchiò, scuotendo la testa.
«Sei definitivamente la persona più incontentabile che io abbia mai conosciuto.»
«Mi staresti dicendo che sono una lagna?»
«Io ho usato parole molto diverse, l’interpretazione sta a te», ghignò lui, ignorando la gomitata nelle costole che ricevette in tutta risposta.
Finimmo di cenare verso le undici ed a quel punto ci trasferimmo in sala, in modo che gli adulti potessero “bere una cosina”. Sapevo per esperienza che quando mia madre “beveva una cosina” diventava paonazza, iniziava a ridere fino alle lacrime e fare domande parecchio imbarazzanti, il che era decisamente il genere di spettacolo a cui avrei preferito che Owen non assistesse. Così accampai una scusa idiota e lo trascinai di peso in camera mia, ben lontano da Savannah Baudelaire e la sua ubriachezza molesta.
«Come mai tutta questa fretta?», mi chiese, ammiccando in un modo che non mi piacque per niente.  Lo incenerii con lo sguardo.
«Lo faccio per te, caro il mio ingrato. Mia madre sbronza è uno spettacolo che non augurerei nemmeno al mio peggior nemico.»
«Quindi non mi stai trascinando nel tuo covo per uccidermi e mangiarmi, ma solo per proteggermi. Beh, bene a sapersi.»
Quella frase che voleva essere soltanto una battuta mi fece gelare il sangue nelle vene.
«A proposito di uccidere…», commentai, macabra.
Raggiunta la mia camera, chiusi la porta per accertarmi che nessuno ci sentisse e gli raccontai dell’episodio della mannaia, che fino a quel momento ero quasi riuscita a dimenticare. Owen non sembrava irrequieto neanche la metà di quanto lo ero io.
«Tua madre ha perso un coltello, e allora?», ribatté a storia finita, con sguardo ipercritico.
«No, Owen, non hai capito. Ti sto dicendo che mia madre lo ha lasciato sul tagliere, si è assentata dalla stanza per qualche minuto ed al suo ritorno il coltello – il quale, ci tengo a ricordarti, è un oggetto molto affilato che nelle mani sbagliate può diventare senza fatica un’arma micidiale – era scomparso. Ed io sono rimasta in cucina per tutto il tempo.»
Lui era ancora alla ricerca di un’ombra di logica nell’intero accaduto.
«Ok, d’accordo, lo ammetto, questo è strano. Ma è anche vero che se qualcuno avesse anche solo cercato di prenderlo, tu lo avresti sentito. E tu invece non hai sentito nulla, vero?»
Scossi la testa. Naturalmente al momento non ci avevo fatto particolarmente caso, ma ero piuttosto sicura che, in ogni caso, se qualcuno avesse tentato di intrufolarsi nella stanza me ne sarei accorta. Owen sospirò.
«Ho paura. Non voglio passare la notte qui», dissi, facendo sfoggio di una vocina da bambina viziata con cui mi disgustai da sola. Lui, seduto sul letto di fronte a me, aveva tutta l’aria di non avere la più pallida idea di come consolarmi. Ad un certo punto sollevò una mano e credetti che volesse usarla per stringere le mie, ma poi sembrò ripensarci e se la passò tra i capelli, sospirando di nuovo.
Mia madre scelse proprio quel momento per fare capolino nella stanza, spalancando la porta con tanta violenza che pensai stesse tentando di scardinarla. Aveva le guance color ciliegia matura ed un sorriso beato stampato in viso.
«Ragazzi, abbiamo un problema», ci disse, col tono di chi ha appena vinto alla lotteria. «Venite di sotto.»
Guardandoci perplessi, io ed Owen la seguimmo al pianterreno, dove tutti gli altri ci aspettavano.
«Fuori il tempo è peggiorato disastrosamente», ci informò mio padre, con tono grave. «C’è una vera e propria bufera. Al telegiornale suggeriscono di barricarsi in qualunque posto al chiuso e non uscire per nessuna ragione. Anche se abitate qui vicini mi sembra un rischio farvi camminare fino a casa con questa tormenta.»
Al che scoccò un’occhiata eloquente in direzione di Rosie, che era di costituzione talmente fragile che sembrava pronta a spezzarsi al primo refolo di vento.
«Perciò, Owen, abbiamo pensato che forse è meglio se vi fermate a dormire qui.»
Io e lui ci guardammo di nuovo, increduli, ed io, mio malgrado, mi ritrovai a pensare che questo era addirittura meglio di vincere alla lotteria.
 
Le trattative per la sistemazione nelle stanze furono a dir poco eterne. Avevamo due camere per gli ospiti, una con un letto singolo ed un’altra con un letto a due piazze. Furono proposte centinaia di possibili soluzioni (tra cui anche quella di sistemare Owen nella mia stanza assieme a me, mozione però alla quale mi opposi fermamente), ma alla fine si decise che i gemelli e nonna Rosie avrebbero dormito tutti e tre assieme nella stanza più grande, mentre Owen si sarebbe sistemato nella stanza singola, che stava nella torre, accanto alla mia. Questo mi confortava. Per quanto sperassi che non succedesse nulla di insolito (ne andava del mio orgoglio come anche della mia sanità mentale), se non altro sapevo che a mali estremi potevo svegliare anche lui ed obbligarlo così a condividere le mie pene. Per questo, quando ormai a mezzanotte e mezza ero sul punto di andare a dormire, ero piuttosto tranquilla. Almeno fino a quando non sentii bussare insistentemente alla porta della mia stanza.
«Chi è?!», chiesi, sobbalzando, impugnando una spazzola come arma di difesa improvvisata ed immaginando già un gigante vestito tutto di nero che picchiettava la porta con il manico della mannaia.
«Vittoria, non essere stupida, sono Owen. Fammi entrare.»
Buttai uno sguardo veloce sullo specchio appeso all’anta dell’armadio e quello mi restituì il riflesso di una ragazza struccata, ignobilmente spettinata ed in camicia da notte. Non ci voleva certo un genio per intuire quale sarebbe stata la mia reazione.
«Neanche per sogno, non permetterò mai che tu mi veda in déshabillé», risposi altezzosamente. Sentii sbuffare attraverso il legno dipinto di bianco della porta.
«Ti ho vista spiaccicata in fondo ad una scala con tanto di mutande della carica dei 101 al vento. Dubito fortemente che tu possa essere in condizioni peggiori.»
Colpita e affondata. Ribollendo dalla rabbia andai ad aprirgli la porta e mi ritrovai faccia a faccia con il suo sorriso trionfante.
«Non erano della carica dei 101, erano dei Looney Toones», precisai ringhiando. Lui non mi prestò nemmeno attenzione, impiegato com’era ad analizzarmi da capo a piedi. Proprio quando ero sul punto di scaraventarlo di nuovo in corridoio (o, in alternativa, di tramortirlo con un colpo di spazzola dritto in testa), fece spallucce.
«Sei assolutamente identica a tutti gli altri giorni.»
Gli rivolsi un’espressione supplichevole.
«Per favore. Sono acqua e sapone ed indosso una camicia da notte degna di Wendy e Barbie Schiaccianoci messe assieme. Finiscila di prendermi in giro. E adesso, di grazia, si può sapere che vuoi?»
Lui scrollò nuovamente le spalle.
«Solo darti la buonanotte e dirti che, per qualunque cosa, io sono di là».
Arricciai il naso.
«Tanto non avrò bisogno di nulla.»
«Oh, si invece», sogghignò lui.
Prima che potesse aggiungere altro gli avevo già sbattuto la porta in faccia.
 
 
 
 
Buonasera. Siamo già al quarto capitolo, che emozione. Oggi volevo approfittare di questo altrimenti pressoché inutile spazio autrice per ringraziare di tutto cuore tutti i recensori e tutti quelli che seguono o hanno aggiunto ai preferiti sia “il pianista” sia la one shot “serate indimenticabili” (per chi non dovesse ancora averla letta la trovate sul mio profilo). Mi fa davvero molto piacere, se potessi verrei nelle vostre case, vi abbraccerei uno ad uno e diventerei amica di ognuno di voi. Purtroppo è piuttosto improbabile, ma continuerò ad immaginarlo tanto fervidamente da farlo sembrare reale.
Millemila abbracci,
Nevermore.
  
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