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Autore: nevermore997    01/10/2014    4 recensioni
Vittoria Baudelaire è una Calfornia Girl a tutti gli effetti: snob, piuttosto antipatica ed abituata a vivere tra tutti gli agi e tutte le comodità. Per lei la decisione dei suoi genitori di trasferirsi da San Francisco a Foggy Hollow, desolante e gelida cittadina dello sperduto Wyoming, è una vera e propria doccia fredda. Senza volerlo si ritroverà catapultata in una vita completamente diversa da quella a cui è abituata, circondata da nuovi bizzarri amici, troppa neve per i suoi gusti, pianisti misteriosi e le mura di una casa inquietante che cela un terribile mistero.
La storia di una sedicenne in un mare di guai che si ritrova costretta ad adattarsi, a dimostrarsi coraggiosa, ad agire e anche a cambiare. Se in meglio o in peggio, lo scoprirete solo leggendo.
Questa storia è un esperimento, uno sporadico tentativo di fondere assieme due generi che nulla hanno a che vedere tra di loro: l’horror e il comico. Nella speranza che questo strano miscuglio vi incuriosisca, vi auguro buona lettura.
Genere: Comico, Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 5
Gite improvvisate non troppo divertenti
 
Quando, quella notte, mi svegliai, per un attimo credetti che fosse tutto soltanto un brutto sogno, ma un brivido che mi attraversò dalla testa ai piedi mi riportò all’amara realtà. Quella era proprio la mia vera vita, e nella mia vera vita qualcuno stava suonando il pianoforte dentro alla mia casa. La mia camera era avvolta nel buio e nel gelo più totali ed alle mie orecchie giungeva forte e chiara la melodia crepacuore del gigante nero del mio soggiorno. Inspirai profondamente e cercai di non farmi prendere dal panico. In fin dei conti, mi dissi, era solo un po’ di musica. Fino a prova contraria, non poteva farmi alcun male, e poi ero decisa a non fare la figura del coniglio con Owen a meno che non fosse stato strettamente necessario. Rimasi in ascolto per quella che mi parve un’eternità, lunga distesa sotto le coperte a rabbrividire dal gran freddo, finché improvvisamente il mio cervello formulò un ragionamento fondamentalmente molto semplice, ma sostanzialmente di vitale importanza. Mi resi conto che era veramente assurdo che in una stanza con il riscaldamento acceso, sotto le coperte e con le finestre chiuse si congelasse in quel modo. L’unico dettaglio era che le finestre non erano affatto chiuse, bensì spalancate, in modo da lasciar entrare folate di vento gelido. Per quanto fossi distratta, ero assolutamente sicura di non aver combinato una cosa del genere per sbadataggine. Qualcuno, durante la notte, aveva aperto le finestre della mia stanza.
Non potevo né volevo resistere un solo secondo di più. Schizzai fuori dal letto e,  senza badare al freddo lancinante al contatto dei miei piedi nudi sul pavimento che sembrava fatto di ghiaccio, mi precipitai in camera di Owen. Mi chiusi la porta alle spalle e, terrorizzata e tremando come una foglia, mi infilai nel suo letto e gli afferrai con foga un braccio, svegliandolo di soprassalto.
«Ah! Che irruenza, Vittoria, non pensavo di attrarti così tanto», commentò, aggiudicandosi il premio inappropriatezza del millennio. Gli scoccai la peggiore delle mie occhiatacce.
«Owen, sei un dannatissimo testa di legno».
Lui rise.
«Signore e signori, il lato volgare di Vittoria.»
A quel punto però evidentemente notò che ero veramente spaventata e che non avevo la benché minima intenzione di disincagliarmi dal suo braccio, perché divenne serio in un battibaleno.
«Vittoria, che succede?», mi chiese, con tono apprensivo, circondando le mie mani con la sua, più grande. Il contatto con la sua pelle calda mi faceva sentire al sicuro, tanto che mi domandai come avessi potuto essere così stupida da non raggiungerlo prima.
«Il pianista», balbettai. «Stava suonando di nuovo. E qualcuno ha aperto la finestra della mia camera. Io…»
Al pensiero che l’intruso fosse  passato così vicino a me, al mio letto, alla mia totale impotenza, mi mancò il fiato. Owen non fece domande di alcun tipo, ma avvicinò la sua testa alla mia ed iniziò a sussurrarmi quel genere di parole di conforto che si dicono ai bambini che hanno avuto un incubo.
«Va tutto bene, Vittoria. Ci sono qui io. Adesso è finit-», e, in quell’istante, la tastiera riprese a suonare. Owen spalancò la bocca in una smorfia di tetra sorpresa, mentre io gli conficcavo le unghie nella carne. Se mai aveva avuto un margine di dubbio su quello che gli raccontavo, ora doveva arrendersi alla terrificante evidenza.
«Dobbiamo andare a vedere chi è!», esclamò, cercando di alzarsi, ma io glielo impedii.
«Chiunque sia, molto probabilmente ha una mannaia», gli ricordai, e lui sembrò ripensarci. Tornò a sedere sul copriletto tenendo lo sguardo fisso in avanti, muovendosi come un automa. Restammo immobili, in ascolto, mentre la melodia del pianoforte non cessava di echeggiare in lontananza.
«E’ sempre la stessa canzone», dissi, con voce atona, all’improvviso. Owen mi guardò in attesa che proseguissi.
«All’inizio credevo di no, ma adesso mi rendo conto che suona sempre la stessa melodia.»
«La conosci?»
Scossi la testa, desolata, e lui, senza pensarci, mi circondò un fianco con il braccio. Mi accorsi solo in quel momento che era a torso nudo.
«Owen, ma perché cavolo dormi senza maglietta il 25 dicembre?!», protestai, divincolandomi. Lui rise. Anche se era un po’ spenta ed un po’ stanca, era la sua solita risata e la cosa mi rassicurò molto.
«Ho erroneamente creduto che la tragicità della situazione ti avrebbe momentaneamente indotta a lasciare da parte la tua intramontabile accidia.»
Sorrisi, mentre il pianista affrontava un passaggio particolarmente triste. Quel gesto mi fece sentire potente nel mio piccolo. Quel suonatore misterioso poteva rubare i miei coltelli, spalancare le mie finestre e penetrare a piacimento in casa mia, eppure io potevo provare un’emozione diversa da quella che i suoi movimenti sui tasti d’avorio volevano farmi percepire. Era una soddisfazione minuscola, ma era meglio che niente. Mi sentii come animata da una nuova energia.
«Owen, dobbiamo mettere fine a questa storia», dissi, con decisione. Lui annuì.
«Si, e forse so cosa dobbiamo fare.»
Lo squadrai, interrogativa.
«E come?»
«Dobbiamo andare a parlare con il fratello Carmichael sopravvissuto.»
 
Il mattino dopo mi risvegliai nel letto di Owen, separata da lui da una barriera di cuscini che ricordavo di aver eretto durante la notte, perché la vista di Owen seminudo mi indisponeva. Per qualche istante mi abbandonai ai ricordi di poche ore prima. Dopo lo spavento iniziale, ci eravamo rassegnati al fatto che non potevamo fare nulla, se non aspettare. Ci consolavamo pensando che finché sentivamo suonare il pianoforte, significava che l'eventuale coltello era lontano due piani da noi. Così parlammo, scherzammo addirittura, il tutto perennemente accompagnati dall’incessante melodia. Se all’inizio avevo avuto qualche dubbio, adesso ne ero definitivamente sicura: la canzone era sempre la stessa, e si ripeteva più volte. Avevo addirittura imparato il suo susseguirsi. Come scoprii, non era sempre una composizione triste. Nei primi minuti era dolce, soave, speranzosa, ma poi quella speranza veniva avariata da una sorta d’ansia che vi si insinuava, fino a raggiungere un momento catastrofico di panico totale. Ecco allora che iniziava la parte triste, la più lunga di tutte, la quale si concludeva con un inaspettato spezzone rabbioso e vendicativo. La canzone finiva subito dopo, con qualche secondo di accordi sconnessi, stonati, premuti a casaccio sui tasti, e poi, ogni volta, ricominciava, in un girotondo infinito. Impossibile decidere se mi piacesse oppure no, sapevo solo che avevo la fastidiosa sensazione di non capirla davvero, almeno, non come avrei dovuto.
Mi distolsi dai miei pensieri e mi girai verso Owen, che, al di là del monte di cuscini, dormiva ancora. Quando dormiva, pensai con un sorriso vagamente intenerito, era terribilmente simile a quando suonava, sembrava liberarsi da ogni turbamento e riacquistare una dolcezza ormai da tempo perduta. Comunque, piacevole da vedere o no che fosse, adesso aveva decisamente dormito abbastanza.
«Sveglia, Owen!», esclamai, rifilandogli una sonora cuscinata in faccia. Lui mi rispose con un grugnito infastidito e si girò dall’altra parte.
«Vattene, Vittoria, è presto!», mugolò, assonnato.
«Su, su, il mattino ha l’oro in bocca!», lo esortai, sentendomi pericolosamente simile a mio padre. Dal momento che non sembrava minimamente intenzionato a darmi retta, gli sfilai il lenzuolo da sotto il corpo, facendolo precipitare rovinosamente sulle piastrelle.
«Vittoria! Sei una pazza! E pure violenta!», gridò dal pavimento.
Lo ignorai.
«Vestiti in fretta. Oggi ci aspetta una gita a Creepford.»
Constatai con mia somma soddisfazione che il tempo era migliorato. Il cielo era ancora di un opprimente color grigio piombo, ma se non altro aveva smesso di nevicare. Cercai di ignorare il campanello d’allarme che nella mia testa trillava all’impazzata, ricordandomi che il meteo che avevo visto alla televisione il giorno prima prevedeva clima instabile durante il corso di tutta la giornata.
Così andai nella mia camera a vestirmi pesante. Quando scendemmo in cucina il resto della famiglia era ancora a dormire, a parte il gatto, che stava leccando avidamente l’impasto dei biscotti rimasto nella teglia, facendo sfoggio della sua spropositata mole. Mentre io lasciavo un biglietto a mia madre dove la avvertivo che non sarei tornata prima dell’ora di cena (e le suggerivo caldamente di mettere a dieta la bestiaccia pelosa), Owen andò ad analizzare il pianoforte. Non lo toccava, semplicemente lo osservava, come sopraffatto da un senso di timore e riverenza allo stesso tempo. Ricordavo di averlo guardato nella stessa identica maniera, a mio tempo.
«E’ che questa storia non mi convince», spiegò, quando si accorse che lo stavo guardando. «Gli elementi che abbiamo… non quadrano. E’ impossibile che una persona ti abbia rubato un coltello da sotto il naso, come, a pensarci bene, è impossibile anche che qualcuno sia entrato in casa dalla finestra della tua stanza in cima alla torre. C’è qualcosa che ci sfugge.»
Scrollai le spalle.
«Non saprei.»
«Ed è anche strano che i tuoi genitori non abbiano il minimo sospetto. Com’è possibile che loro non sentano mai nulla?»
«Owen, i miei non si sveglierebbero neanche se la casa venisse assaltata dai Pellerossa.»
La sua espressione restava molto scettica.
«Forse il fratello Carmichael saprà darci delle risposte», aggiunsi, speranzosa.
Uscimmo di casa verso le undici ed Owen mi guidò fino al limitare del villaggio, dove si trovava la stazione dei treni. Lì prendemmo due biglietti per Creepford e dopo neanche tre quarti d’ora di viaggio arrivammo a destinazione. Creepford era un paesino tremendamente freddo, brutto e spoglio (non che Foggy Hollow fosse esattamente quel che si dice il fulcro della vita sociale, ma se non altro ogni tanto per strada si vedeva un’anima viva), incastrato nell’angusta gola tra due montagne innevate.
«Entro sera nevicherà di nuovo», commentò Owen, guardando il cielo con fare preoccupato.
Era vero. La volta celeste sopra di noi si era tinta di bianco e conferiva all’intero villaggio un’illuminazione inquietante, che lo faceva quasi sembrare una città fantasma.
«Non mi piace questo posto», commentai, e le mie parole si dispersero nel vento.
«Come facciamo a trovare casa sua?»
«La madre di Lucy mi ha detto che non è in paese, ma abbarbicata sulla montagna. Dove esattamente, però, non lo so.»
«Potremmo chiedere a qualcuno.»
Mi sembrò una buona idea, così, non appena vedemmo una locanda, decidemmo di entrare per chiedere informazioni. Il locale si chiamava “l’allegro somelier” e di allegro non aveva proprio niente. Quando entrammo fummo accolti da un’atmosfera cupa e luci spente. Non c’era nessuno. L’unico dettaglio che confermasse che il posto era aperto era una signora sulla sessantina intenta a lucidare i tavoli, evidentemente la proprietaria, che sembrò estremamente sorpresa di vederci.
«Vi siete persi, bambini?», ci chiese, con fare apprensivo, agitando lo straccio per pulire. Io ed Owen ci guardammo, indecisi sul da farsi.
«No», rispose lui, infine. «Volevamo solo chiedere un’informazione. Vorremmo sapere dov’è casa Carmichael e come si può raggiungerla.»
La donna spalancò gli occhi come se le avessimo appena chiesto il permesso di darle fuoco e ballare la tarantella sulle sue ceneri. Tuttavia riuscì in qualche modo a trovare la forza di risponderci.
«E’ sulla montagna», disse, con voce tremante. «La si raggiunge tramite un sentiero delle capre che parte dietro alla bottega del fornaio. Ma io non vi consiglio di andarci.»
«E perché?»
Il corpo paffuto della donna fu attraversato da un brivido.
«Toby Crmichael è un ragazzo molto strano. Vive tutto solo su quella montagna, non parla mai con nessuno. E poi, quegli occhi…»
La signora distolse lo sguardo, come se pensare agli occhi perennemente sgranati di Toby Carmichael fosse semplicemente troppo, per lei. Sinceramente, non facevo fatica a crederlo. Ero molto tentata di seguire il suo consiglio e darmela a gambe con tanti saluti, ma sapevo che non potevo farlo.
«Lo abbiamo sentito dire, ma dobbiamo andarci comunque. Molte grazie per l’indicazione.»
Feci per andarmene, seguita a ruota da Owen, ma lei mi fermò.
«No, no! Vi prego, bambini, lasciatevi almeno offrire il pranzo. Non potete rischiare di incappare in una bufera a stomaco vuoto.»
Considerate le condizioni della locanda, quella donna non sembrava proprio quel che si dice economicamente in grado di offrirci un pasto, ma insistette tanto che ci ritrovammo ad accettare. Sembrava contenta di avere compagnia, nonostante continuasse a fissarci come se avessimo dovuto morire davanti ai suoi occhi da un istante all’altro. Ci portò una zuppa di verdure, pane e pesce. A giudicare dalla sue forme generose, sembrava il genere di donna convinta che un buon pasto abbondante fosse la cura a tutti i mali del mondo. In effetti, non appena ebbe notato che mangiavamo di gusto (avevamo entrambi un discreto appetito), parve tranquillizzarsi.
«Come mai cercate Toby Carmichael?», ci chiese.
Capii subito che non voleva impicciarsi, ma semplicemente chiacchierare con qualcuno, dal momento che non sembrava averne l’occasione molto spesso. Così decisi di premiarla con la mia sincerità.
«Sono andata ad abitare nella sua casa d’infanzia, Avary Manor, ed ho delle domande da fargli in proposito», risposi, mentre ripulivo il mio piatto. Avevo paura di non fare in tempo a raggiungere il rifugio di Toby prima che iniziasse la tormenta, e di conseguenza anche una certa fretta. La signora annuii con fare preoccupato.
«La casa delle disgrazie. La conosco, certo.»
Fuori dalla locanda si sentì il vento soffiare più forte, con un lamento cupo e sordo.
«Forse dovremmo andare.»
Owen convenne e la signora ci lanciò un ultimo sguardo da chioccia apprensiva.
«Fate molta attenzione, bambini. Che Dio vi benedica», ci disse, scortandoci alla porta. Mentre uscivamo nel freddo pungente, aveva la faccia di chi prevedeva le peggiori catastrofi mai sentite.
 
«Secondo te perché ha chiamato Avary Manor casa delle disgrazie?», urlai ad Owen, per sovrastare il rumore dell’aria. Ci stavamo inerpicando su per il sentiero delle capre da quasi un’ora e faceva talmente freddo che il vento ghiacciato sembrava penetrare fin nelle ossa. Come se non bastasse, i refoli erano talmente forti che anche solo muovere pochi passi costava una fatica esorbitante. Ero affaticata, avevo le dita dei piedi gelate e, soprattutto, avevo un disperato bisogno di distrarmi da quella situazione orrenda.
Owen fece spallucce, con gli occhi che lacrimavano dal gran gelo e tenendo le mani infilate nelle tasche.
«Probabilmente si riferiva alla faccenda del bambino morto.»
«Mi sembra un po’ poco per arrivare a definirla in quel modo.»
Si girò verso di me. Il sentiero era talmente stretto che costringeva a camminare in fila indiana. Mi guardò con fare grave.
«Pensi che ci sia dell’altro?»
Questa volta toccò a me scrollare le spalle.
«Non lo so. So solo che faremmo meglio ad accelerare il passo. Tempo dieci minuti e nevica.»
Più in alto sulla montagna si intravedeva un’unica cascina di legno, un unico, minuscolo posto sicuro nel bel mezzo di quell’inferno bianco. Affrontammo l’ultima salita che ci separava da esso proprio nel momento in cui iniziavano a cadere i primi fiocchi di neve. Quando finalmente raggiungemmo la porta in legno della catapecchia nevicava già abbondantemente. Non avevamo il tempo di pensare ad un modo lusinghiero per entrare. Se il vento fosse aumentato ancora, c’era il rischio che mi scaraventasse veramente giù dallo sdrucciolo, mentre Owen aveva le dita delle mani che avevano assunto una preoccupante tonalità di bluastro. Così, non appena ci ritrovammo il legno dell’uscio davanti, iniziammo a tempestarlo di pugni senza pensarci un attimo.
«Signor Carmichael, signor Carmichael! Ci faccia entrare, la prego!», gridai a pieni polmoni, con nella voce una nota di panico che avrei preferito evitare. Non avevo mai avuto tanto freddo in tutta la mia vita e la parte tragica del mio cervello, il cui hobby preferito era profetizzare disgrazie, era intenta a ricordarmi con insistenza che quella era una zona a rischio valanghe.
Aspettammo, mentre io continuavo a sgolarmi e picchiare sulla porta ed Owen, rassegnato, si lasciava scivolare lungo il legno, rannicchiandosi su se stesso per scaldarsi un po’.  Proprio quando stavo per desistere, sedermi a mia volta ed iniziare a dettare ad Owen il mio testamento, lo spioncino d’ottone si aprì di scatto ed al di là apparve un gigantesco occhio spalancato. L’iride, di un azzurro annacquato che una vola doveva essere stato splendente come il cielo, era circondato dal rosso di capillari esplosi. L’istinto di conservazione fu l’unica cosa ad impedirmi di sussultare davanti a quello spettacolo terrificante.
«Signor Carmichael!», gridai, con la voce rotta dal sollievo, puntando il mio sguardo disperato dritto nel forellino. «Deve farci entrare! Moriremo di freddo qua fuori! La prego!»
Toby Carmichael si ritrasse e per un terribile istante pensai che avesse optato per abbandonarci al nostro destino, ma subito dopo la porta si aprì con un cigolio.
«Owen! Vieni dentro, muoviti, ci ha aperto!»
Senza aspettare una reazione, lo strattonai all’interno della catapecchia ed immediatamente mi chiusi la porta alle spalle.
Mi ci volle un attimo per abituarmi al nuovo ambiente. Il lamento rabbioso del vento ora era solo un’eco lontana e l’intera casa, senza nessuna finestra aperta, era avvolta nella penombra. Dopo una manciata di secondi capii che era composta da un unico stanzone semivuoto, fatta eccezione per qualche mobile polveroso dall’aspetto vecchio di millenni. Intravidi un tavolo di legno, un forno dall’anta bruciacchiata, una branda mezza sfondata ed una sedia a dondolo. In fondo alla stanza, l’ombra di un uomo si agitava convulsamente, tanto che per un attimo temetti di essere passata dalla padella alla brace. In quel momento si sentì lo sfrigolio di un fiammifero che si accendeva e, brandendo una lanterna, Toby Carmichael illuminò la stanza.
Trattenni a stento un grido di sorpresa. Toby non dimostrava più di una ventina d’anni. Doveva essere stato molto alto, ma tanta altezza era resa addirittura minacciosa dalla gobba che aveva sulla schiena. Aveva le spalle curvate in avanti, le braccia e le gambe sottili come cannucce ed il collo teso come una corda di violino per poterci guardare in faccia da quella sua posizione perennemente volta al pavimento. Ma la cosa più incredibile ed inquietante erano i suoi occhi. Avevo creduto che la madre di Lucy esagerasse a proposito del suo sguardo e invece, mio malgrado, dovetti constatare che era tutto vero. I suoi occhi erano talmente spalancati che uscivano dalle orbite e sembravano sul punto di esplodere da un momento all’altro. Fu terribile constatare che nonostante il suo aspetto mostruoso non sembrava un uomo cattivo, ma soltanto un uomo terrorizzato, martoriato dalla paura e dall’angoscia nell’anima come nel corpo.
«Signor Carmichael…»
Lui, sentendo il suo nome, si ritrasse e si coprì il viso con le mani, lasciando fuori soltanto gli occhi, i quali saettavano incessantemente da me, ad Owen, ai suoi piedi. Sembrava quasi che temesse che potessimo fargli del male.
«Signor Carmichael, non abbia paura.»
Animata da un coraggio che non credevo di avere mi avvicinai a lui e, con gesti calmi e misurati, gli presi le mani. Lo condussi fino al tavolo dove lo feci sedere e mi sistemai di fronte a lui. Owen avvicinò la sedia a dondolo e si sedette accanto a me.
«Toby, siamo venuti qui perché abbiamo delle domande da farti», esordii, decidendo improvvisamente di dargli del tu, per sembrare meno minacciosa. «Non serve che parli, basta che tu annuisca o faccia qualche gesto. Capisci?»
Toby annuii e vederlo collaborativo mi fece sentire leggermente sollevata. Owen mi strinse una spalla con la mano per incoraggiarmi a proseguire e mi ritrovai a sperare che non la togliesse. Mi faceva sentire, anche se in minima parte, più fiduciosa.
«Mi chiamo Vittoria, sono figlia unica e vengo dalla California. A volte sono un po’ antipatica e scontrosa, sono allergica ai pinoli»
Non sapevo bene perché gli stessi dicendo quelle cose. Mi pareva di ricordare di aver letto da qualche parte che dare informazioni personali ad una persona spaventata avesse un effetto calmante. Infatti Toby, sentendomi provare ad alta voce che non ero nient’altro che una persona comune, parve tranquillizzarsi. Proseguii.
«Da meno di una settimana mi sono trasferita a Foggy Hollow con la mia famiglia, precisamente ad Avary Manor. Ci hai abitato anche tu, non è vero?»
Il corpo segaligno di Toby fu scosso da un brivido e poi annuì lentamente, senza guardarmi in faccia.
«In quella casa stanno succedendo cose strane. Oggetti spariscono, finestre si aprono, il pianoforte del soggiorno si mette a suonare in piena notte. Queste cose ti sono familiari?»
Questa volta Toby alzò gli occhi e vidi che erano pieni di lacrime. Annuì di nuovo. Mi alzai ed andai a inginocchiarmi di fronte a lui per fargli la domanda più importante di tutte.
«Toby, tu sai cosa sta succedendo in quella casa?»
Ci fu una pausa che sembrò durare un’eternità. La mano di Owen, che, con mio silenzioso piacere, non si era mai spostata, strinse più forte la mia clavicola mentre, senza osare nemmeno fiatare, aspettavamo.
Alla fine, mentre la prima di una lunga serie di lacrime amare gli rigava il viso, Toby annuì per la terza volta. Ebbi un tuffo al cuore.
«Toby, devi dirmelo. Io lo devo sapere. Sono in pericolo in quella casa e senza il tuo aiuto non ho modo di salvarmi, quindi ti prego, Toby… dimmelo.»
Lui aprì la bocca e le labbra gli tremarono mentre piangeva in silenzio.  Sembrava che stesse convogliando tutte le sue forze per riuscire ad esprimersi. Credevo che fosse sul punto di, finalmente, parlare, quando improvvisamente le carte in tavola cambiarono nel peggiore dei modi. Toby si alzò di scatto ed emise un lungo e gutturale lamento, forse di dolore, forse di paura, forse di entrambe le cose. Afferrò me ed un esterrefatto Owen per un braccio con una forza che non gli avrei mai attribuito e ci trascinò via, fino all’ingresso. Aprì la porta e scaraventò Owen nella neve fresca. Quando era sul punto di riservare lo stesso trattamento a me, riuscii con la forza della disperazione ad afferrargli una mano.
«Toby, ti prego!»
Nei suoi occhi sgranati e bagnati lessi le sue più disperate e sincere scuse. Ricambiò con forza la stretta alle mie dita, prima di gettare anche me nella tempesta. Mi si mozzò il respiro dal freddo. La tormenta impazzava tutt’attorno a me, tanto che a malapena riuscivo a vedere Owen, che giaceva ad appena qualche metro di distanza.
«Owen, dobbiamo tornare in paese!», gridai, alzandomi a stento, mentre il vento faceva del suo meglio per ributtarmi a terra. Gesticolando come un pazzo, Owen mi fermò.
«Aspetta, guarda! Sta aprendo la finestra!»
Mi girai speranzosa verso la cascina e constatai che Toby aveva aperto dall’interno gli scuri della finestra. Ora potevo vedere il suo volto cinereo attraverso i vetri appannati. Stavo per gettarmi in sua direzione e supplicarlo di rifarci entrare, ma Owen mi trattenne di nuovo, afferrandomi la mano.
«Aspetta! Sta scrivendo qualcosa.»
Era vero. Con una delle sue lunghe dita storte stava tracciando velocemente delle lettere sulla condensa del vetro. Quando ebbe finito i suoi occhi erano tristi. Senza capire, guardai la finestra. Aveva scritto “Clair de Lune”. Chiaro di luna.
 
 
 
Buonasera a tutti, miei cari e simpatici lettori.
Questo capitolo è un po’ più lungo del solito (o almeno, così mi sembra. La verità è che non sono molto brava in tutte queste cosette che richiedono rigore e precisione), spero la cosa non vi indisponga. Come al solito non so come utilizzare questo spazio autrice (sono terribilmente invidiosa degli altri scrittori di EFP che sembra abbiano sempre due milioni di cose da dire, mentre io devo strizzarmi il cervello per un’eternità per produrre due frasi coerenti), quindi credo che mi limiterò a tempestare di ringraziamenti chiunque abbia letto e recensito questa storia. Mi rendete davvero felice. Un sacco di abbracci, pacche sulle spalle e colpetti sulla testa,
Nevermore.
  
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