Storie originali > Favola
Segui la storia  |       
Autore: Beauty    01/10/2014    6 recensioni
Nel mondo delle favole, tutto ha sempre seguito un preciso ordine. I buoni vincono, i cattivi perdono, e tutti, alla fine, hanno il loro lieto fine. Ma le cose stanno per cambiare.
Quando un brutale omicidio sconvolge l'ordine del Regno delle Favole, governato dalla perfida Regina Cattiva, ad indagare viene chiamato, dalla vita reale, il capitano Hadleigh, e con lui giungono le sue figlie, Anya ed Elizabeth. Attraverso le fiabe che noi tutti conosciamo, "Cenerentola", "Biancaneve", "La Bella e la Bestia"..., le due ragazze si ritroveranno ad affrontare una realtà senza più regole e ordine, in cui niente è come sembra e anche le favole più belle possono trasformarsi nel peggiore degli incubi...
Inizia così un viaggio che le porterà a scoprire loro stesse e il Vero Amore, sulle tracce della leggendaria "Pietra del Male" che, se nelle mani sbagliate, può avere conseguenze devastanti...
Il lieto fine sarà ancora possibile? Riusciranno Anya ed Elizabeth, e gli altri personaggi delle favole, ad avere il loro "e vissero per sempre felici e contenti"?
Genere: Dark, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

No More Mr. Nice Guy!

 

Era una mattina strana, a Camelot. Si sarebbe potuto dire che l'atmosfera fosse rarefatta, come se il tempo si fosse fermato. Il cielo uggioso e minacciante pioggia contribuiva a plasmare quel clima immobile e anche vagamente teso, come se chiunque, dal più umile garzone al più alto funzionario di palazzo, si aspettasse qualche catastrofe da un momento all'altro. Ma non c'entravano nulla le condizioni climatiche: quella era l'aria che si respirava da tre giorni, da quello scandaloso ballo in maschera che sarebbe stato ricordato negli anni a venire come la notte del cigno nero. Un nome romantico e poetico, ma che Lancillotto sapeva essere tutto tranne quello che sembrava. Lo dicevano le mezze frasi pronunciate dalle serve in cucina, le risate soffocate degli inservienti, i commenti e i bisbigli svenevoli di quelle civette delle dame di compagnia della regina. Nemmeno i cavalieri si erano premurati troppo di mantenere un minimo di contegno rispetto alla vicenda, e solo il giorno prima Lancillotto si era trovato a prendere per un orecchio uno scudiero che lo aveva indicato a un compagno nel corridoio. A quanto pareva, anche lui era stato coinvolto nella bravata di Odile, sebbene il suo intento fosse stato proprio quello di punire il cigno nero.

Oltre al danno, anche la beffa, avrebbe detto Galvano, se non fosse stato che da tre giorni loro due si evitavano come se fossero stati nemici mortali, invece che compagni d'armi.

E quest'ultimo punto era solo l'ennesima stoccata che gli toccava incassare da quando quell'oca di Odile aveva voluto giocare alla gran dama sostituendosi alla principessa.

Il sole era appena sorto all'orizzonte, quando Lancillotto uscì dalla sua stanza per andare nelle scuderie. Molti dei cavalieri si stupivano che lui si alzasse sempre prima dell'alba, e solo Galvano sapeva la verità: Lancillotto aveva sempre faticato a dormire, spesso trascorreva anche delle notti intere senza chiudere occhio e questo si manifestava in tutta la sua evidenza con le ombre scure che gli circondavano perennemente gli occhi. Da bambino aveva trascorso talmente tante nottate insonni, a trattenere il respiro ogni volta che udiva un rumore strano proveniente dall'esterno della camera, a controllare se per caso qualche soldato o, peggio, l'Uomo Nero, non stesse cercando di entrare in quella catapecchia che chiamava “casa”, o ad ascoltare sua madre che piangeva mentre il marito ubriaco le inveiva contro, che adesso quel nervosismo gli era rimasto addosso, quell'ansia che qualcosa di orribile stesse per accadere da un momento all'altro, anche se sapeva che andava tutto bene...non l'aveva lasciato, e dubitava che l'avrebbe mai fatto. Questo, unito al fatto che non gli piaceva starsene con le mani in mano, aveva contribuito a forgiare questa sua abitudine. Non aveva mai dormito molto, e si era sempre alzato molto presto: quando ancora viveva con i suoi genitori e i suoi fratelli, suo padre lo buttava giù dal letto a suon di insulti e scossoni perché filasse subito a lavorare, e anche dopo, quando era diventato sguattero al castello di Camelot, e poi scudiero, doveva sempre essere in piedi all'alba per cominciare il lavoro e gli allenamenti.

Entrò a passo deciso nelle scuderie, ma si bloccò sulla soglia, stringendo un pugno per il fastidio. Si avvicinò in fretta al garzone che in quel momento stava spazzolando il suo cavallo, strappandogli la spazzola di mano e spingendolo di lato. Il ragazzo – non doveva avere più di quindici anni – assunse un'aria da cane bastonato, forse studiata ad arte per impietosirlo.

- Posso pensarci io, sir...- riuscì a mormorare. Lancillotto gli regalò un'occhiata in tralice da sopra la spalla.

- Non credo, non dopo lo scempio che stavi combinando...- ringhiò, cominciando a spazzolare il manto nero del cavallo con mano esperta.- Un'incuria del genere ai miei tempi sarebbe stata punita con una bastonata. Vattene, faccio da me.

Il ragazzo schiuse le labbra per replicare, ma le serrò un attimo dopo. Si esibì in un rapido e impacciato inchino in segno di saluto, quindi corse fuori dalle scuderie. Lancillotto sospirò impercettibilmente, accarezzando il collo del cavallo e continuando a prendersi cura del manto, fino a che non udì degli altri passi fare il loro ingresso. Erano passi pesanti e tranquilli, di certo non potevano appartenere al garzone o a qualche altro servo; infatti, quando Lancillotto si voltò, si trovò faccia a faccia con sir Galvano.

Il cavaliere più vecchio indossava la divisa blu con la croce bianca, ma coperta da un lungo mantello nero gettato sulle spalle, e appariva incredibilmente serio...cosa insolita per uno come lui. Evidentemente era ancora arrabbiato, pensò Lancillotto.

Incrociò le braccia al petto, girandosi completamente per incontrare lo sguardo di Galvano. Tenne la testa alta, ma non si scompose.

- Come mai così mattiniero, oggi?- chiese, senza curarsi di nascondere una punta di beffa nella voce.

- Sai benissimo dove vado ogni mattina, e non sono venuto qui per litigare - tagliò corto l'altro, muovendo un passo verso di lui, appoggiandosi con una spalla contro una delle travi di legno che sostenevano il tetto delle scuderie.- Devo parlarti.

Lancillotto emise uno sbuffo ironico, pensando che tanto era destino: Galvano non avrebbe potuto mantenersi arrabbiato con lui a lungo, specialmente quando sapeva di essere nel torto. Ci aveva provato, e non gli aveva rivolto più la parola da tre giorni, dalla notte del cigno nero, quando lo aveva trascinato via dal ballo e gli aveva raccontato quella stupida leggenda nel tentativo – finito in miseria – di intimorirlo.

Il fulcro della questione era che, da quello scandaloso ballo, da tre giorni nessuno aveva più visto Odile bazzicare per i corridoi del castello, e non si era presentata nemmeno per le faccende domestiche, o per l'ora dei pasti. Nessuno osava dirlo apertamente, ma era chiaro a tutti che Morgana non fosse andata troppo per il sottile con sua figlia. Il re e la regina erano stati troppo impegnati a punire la loro, di mocciosa ribelle, per preoccuparsi di infliggere un castigo alla serva. E, conoscendo Artù e sua moglie, forse non si sarebbero nemmeno accaniti troppo su una patetica servetta che aveva voluto giocare alla nobildonna per una sera. Ma Morgana non era il tipo che perdonava facilmente, specialmente se la figlia a cui teneva di meno combinava qualcosa che la facesse svergognare agli occhi dei regnanti.

Lancillotto non aveva idea di cosa ne fosse stato di Odile, e nemmeno gli interessava più di tanto. Lui stesso era stato abituato a venire punito per i propri sbagli, e quello compiuto dalla servetta era stato madornale. Era certo che Morgana non le avesse fatto troppo male, altrimenti non si sarebbe spiegato come mai Mordred – seppure taciturno e pallido in maniera innaturale – avesse continuato a prendere parte agli allenamenti e alla vita di corte sapendo che fosse accaduto qualcosa di grave alla sorella.

Lancillotto riteneva giusto che Odile fosse stata punita per ciò che aveva combinato; era stato esattamente il suo intento, quando l'aveva smascherata. Era stato evidente che tutta quella messinscena era stata architettata solo per attirare le sue attenzioni, ma lui non era il tipo da farsi abbindolare facilmente. Cosa provasse Odile nei suoi confronti, o cosa sperasse di ottenere con quella sciocchezza che aveva compiuto, non lo riguardava; la servetta aveva messo in ridicolo se stessa e la principessa, e stava per fare lo stesso anche con lui e gli altri cavalieri. Questo non lo poteva tollerare né perdonare.

Galvano naturalmente la pensava in maniera diversa, e quel rimprovero che gli aveva mosso appena dopo aver ritrovato e riportato a casa la principessa – cosa sperava di ottenere, poi, raccontandogli quella leggenda? Di spaventarlo? Beh, allora aveva proprio fallito nel suo intento – era stato l'emblema di come la pensasse. Lancillotto si era sentito offeso da quelle parole e dal fatto che il suo amico avesse addossato la colpa per la sorte di Odile interamente a lui. Non aveva intenzione di passare sopra quella mancanza di rispetto, ed esigeva delle scuse da parte sua, scuse che sir Galvano non aveva alcuna intenzione di concedere.

Il risultato di tutto era che quella era la prima volta che loro due si rivolgevano la parola da tre giorni.

Lancillotto sogghignò.

- Davvero? A cosa devo l'onore?

- Togliti quel sorriso dalla faccia, hai poco da gioire - sibilò Galvano, voltando brevemente il capo per assicurarsi che non ci fosse nessun altro nelle scuderie all'infuori di loro due, quindi tornò a guardarlo negli occhi.- Riguarda la principessa.

- Sono stanco di quella bambina!- sbottò Lancillotto, e fece per tornare a occuparsi del cavallo.- Se è scappata un'altra volta che si arrangi, non ho nessuna intenzione di perdere tempo per andare a scovarla su qualche quercia nodosa...

Galvano scattò in avanti, bloccandogli un braccio e costringendolo a voltarsi nuovamente verso di lui.

- Non è scappata. E la situazione è più grave - lo lasciò andare, sicuro di avere ora la sua completa attenzione.- Il re è furioso per quel che è successo la notte del cigno nero. A quanto pare lui e la regina sono più contrariati per il fatto che la principessa sia uscita di nascosto dalle mura del castello, piuttosto che per la bravata di Odile...

- E allora?

- Hanno deciso di punirla, e nel modo peggiore - Galvano scosse il capo.- A quanto pare vogliono assicurarsi che lei non lasci più il palazzo, né Camelot. Vogliono trovarle un marito, contro la sua volontà.

Lancillotto si concesse qualche secondo prima di rispondere, ponderando la questione. Da una parte comprendeva che un'azione simile, sebbene credesse che la principessa meritasse finalmente una qualche punizione, avrebbe causato più danni alla sua persona che benefici; ma dall'altra non capiva perché Galvano lo stesse informando riguardo a ciò. Non era corretto da parte dei sovrani, certo...ma non era comunque un affare che riguardasse lui, il suo amico, o gli altri cavalieri.

Incrociò le braccia al petto.

- Dove vuoi arrivare?- chiese.- La principessa ha sedici anni, è in età da matrimonio. E l'ultima volta che ho controllato non mi è parso che né tu né io fossimo inseriti nella lista dei pretendenti.

- La cosa ci riguarda, invece - ribatté Galvano.- Stavolta non ci sarà nessun ballo per far conoscere giovani nobili alla principessa, nessun ricevimento a corte, nessuna presentazione ufficiale. Forse il re è così accecato dalla rabbia che non ragiona più, ma...ha trovato un mezzo molto più rapido ed esclusivo per dare in moglie sua figlia...

- Che cosa?

 

***

 

- Un torneo?!

Odette udì la propria voce acuta rimbombare sulle pareti e sul soffitto della sala del trono, e quando l'eco si fu del tutto estinto, ritornò a esservi il silenzio. Non una risposta, non una parola aggiunta a quanto suo padre le aveva appena dichiarato, secco e perentorio. Solo dopo diversi secondi la principessa ebbe il sollievo di poter udire almeno il tintinnio della tazza di thé che sua madre aveva sollevato dal piattino per portarsi alle labbra. Odette guardò Ginevra: era molto più pallida del solito, con profonde occhiaie che le solcavano gli zigomi; il suo abbigliamento era impeccabile, ma i capelli erano stati raccolti malamente in una treccia storta da cui sfuggivano alcune ciocche, e non le era difficile notare che le tremassero le mani mentre riponeva di lato la tazzina. Sua madre versava in uno stato pietoso dalla notte del cigno nero – ma che diamine aveva combinato quella pazza di Odile?! – ma nulla a che vedere con suo padre. Il medico di corte aveva detto che il suo non era altro che un semplice malessere, eppure invece di migliorare Artù sembrava stare sempre peggio ogni giorno che passava, tanto che anche Merlino la sera prima aveva voluto accertarsi personalmente delle sue condizioni...e Odette aveva udito le dame di compagnia di sua madre dire che era uscito dalla camera del re parecchio corrucciato. Artù non dava a vedere di stare male – suo padre aveva un carattere solido come il legno di quercia, taciturno e un po' schivo, ma fiero e per nulla incline a ricercare attenzioni non dovute o alle moine –, ma era chiaro che non fosse nel pieno delle forze: lo dimostravano il modo in cui quel momento stava seduto sul trono – abbandonato come un sacco vuoto, debole e stanco, senza neppure la forza di essere composto –, il suo pallore, e Odette aveva notato che faticava a parlare, e faceva delle lunghe pause fra una frase e l'altra per riposarsi.

I suoi genitori, seduti sui troni dorati della reggia di Camelot, in quel momento le sembravano due statue lontane e austere, due figure tratte dai libri, il re malato e la regina stanca, che la squadravano dall'alto con la severità i più terribili dei giudici.

E Odette adesso non sapeva se quel peso sul cuore che sentiva, quella gran voglia di mettersi a piangere e di desiderare solo di poter tornare indietro nel tempo, fossero dovuti a quell'immagine, al pensiero che era lei a farli soffrire così o ciò che Artù le aveva appena comunicato.

L'egoismo prevalse, e la principessa si ritrovò a boccheggiare, cercando di metabolizzare ciò che aveva appena udito.

- Un torneo?- ripeté, gracchiando.- Avete intenzione di mollarmi al primo uomo di passaggio solo se questi vincerà un maledetto torneo?!

Di nuovo ottenne come risposta solo il silenzio. Vide suo padre fissarsi le ginocchia e stringere un pugno per poi distendere le dita, e sua madre chiudere gli occhi mentre si passava una mano sulla fronte. Odette non faticava a immaginare che dovesse avere una grandissima emicrania, ma in compenso lei stava sentendo il fuoco bruciarle nel ventre.

Pestò rabbiosamente un piede a terra.

- E rispondetemi, dannazione!- gridò.

- Hai sentito benissimo, Odette, non c'è bisogno che tuo padre te lo ripeta - sussurrò Ginevra, alzando lo sguardo su di lei.- Ti abbiamo dato delle possibilità fino ad oggi, e tu le hai sempre rifiutate. Ora abbiamo sopportato abbastanza. Hai bisogno di qualcuno che sappia tenerti al tuo posto, ed è giunto il momento che ti sposi. Domani mattina stessa qui a Camelot sarà indetto un torneo; vi parteciperanno i nobili celibi dei reami confinanti e i Cavalieri della Tavola Rotonda, e colui che vincerà avrà in premio la tua mano. Questa è la nostra decisione, ed è irrevocabile.

- Non potete farmi questo!- strillò Odette, con le lacrime agli occhi. Non riusciva a credere di aver tirato la corda così a lungo e così forte da spezzarla, di aver condotto davvero i suoi genitori a ricorrere a quello squallido metodo per togliersela di torno. Era a questo che si era ridotta, continuando a ribellarsi? A essere trattata come una bella bambola in vendita al mercato, a venire ceduta al miglior offerente come carne da macello? Non riusciva a dare un senso alle parole di sua madre, e nel contempo le sfilavano di fronte agli occhi immagini di volti noti e altri che non aveva mai visto, grotteschi stereotipi di quello che sarebbe potuto diventare suo marito contro la sua volontà.

Chiunque avrebbe potuto vincere, e chiunque avrebbe potuto averla fra le sue grinfie. Chi avrebbe sposato, lei? Forse quel damerino di sir Lionel, o sir Galahad che correva dietro a tutte le gonnelle delle cameriere? O Mordred, che lei detestava profondamente e che aveva cercato di metterle le mani addosso? Sir Galvano, che aveva quarantacinque anni ed era come un secondo padre per lei? O sir Lancillotto, che a malapena la sopportava? Oppure un vecchio con la faccia rugosa e butterata di piaghe, un omuncolo brutto e stupido, o un ragazzino appena svezzato?

Non resistette più, e scoppiò a piangere. Singhiozzò così forte che tutte le guardie presenti nella sala del trono, che fino a quel momento avevano educatamente finto di non ascoltare il diverbio fra lei e i suoi genitori, si voltarono a fissarla. Artù girò il capo di lato per non guardarla, e Ginevra non profferì parola, apparentemente insensibile.

Odette fece di tutto pur di non cadere in ginocchio sul pavimento come si sentiva di fare in quel momento, ma continuò a singhiozzare.

- Vi prego, non fatemi questo!- mai avrebbe pensato in vita sua di implorare i suoi genitori, eppure adesso la disperazione la stava costringendo a farlo.- Vi prego, vi ho già detto che mi dispiace!- non era vero, ma adesso si sarebbe giocata qualunque carta, fosse stata anche una bugia.- Non lo farò più, ve lo giuro, ma vi prego, non...

- Odette, basta!- tuonò Artù, così forte e così all'improvviso da farla trasalire, e la sua voce risuonò contro le pareti come un'eco imperiosa.- Odette, ti abbiamo comunicato la nostra decisione e non intendo ascoltare capricci o obiezioni di alcun tipo! Ti abbiamo concesso più di un'occasione, e tu le hai sprecate tutte. Ora ne pagherai le conseguenze, e...

Non terminò la frase. Odette vide suo padre piegarsi in avanti con il torace e portarsi una mano alla bocca per soffocare un nascente ascesso di tosse, tanto violento da provocargli degli spasmi e farlo tremare come una foglia. La principessa sgranò gli occhi ancora appannati dal pianto, mentre il re si aggrappava a un bracciolo del trono – forse per sostenersi, per non cadere a terra, pensò Odette – e sua madre si alzava di scatto e lo raggiungeva.

Ginevra s'inginocchiò accanto ad Artù, circondandogli le spalle con le braccia e accarezzandogli il dorso con una mano. Odette vide sua madre sussurrargli qualcosa, ma non capì cosa. Artù parve sentirsi meglio, ma l'attacco di tosse l'aveva chiaramente spossato, e non era ancora cessato del tutto.

La principessa provò ad asciugarsi le lacrime e a salire la breve scalinata che conduceva ai due troni dei sovrani per soccorrere suo padre, ma Ginevra glielo impedì. La regina si rivoltò come una vipera, digrignando i denti senza tuttavia lasciare il marito. Non si degnò nemmeno di guardare sua figlia negli occhi, e chiamò una delle guardie.

- Accompagnatela nelle sue stanze e fate in modo che ci resti...!- sibilò, mentre uno dei soldati posava delicatamente una mano sulla spalla di Odette per tirarla indietro.- Chiamata uno dei cavalieri e ditegli di montare di guardia di fronte alla sua porta. Non voglio che esca prima di domani mattina, sono stata chiara?

L'unica cosa che Odette ricevette fu una feroce occhiata da parte di sua madre, prima che due delle guardie l'afferrassero per i gomiti e la conducessero con loro. Si lasciò trascinare mollemente fuori dalla sala del trono, senza neanche il coraggio di voltarsi, continuando a singhiozzare sommessamente.

Artù gettò un ultimo colpo di tosse, e posò il capo contro la spalla della moglie. Ginevra lo vide chiudere gli occhi e respirare a fondo per calmarsi: la sua salute era peggiorata, nonostante le cure dei medici e le tisane che la cara Morgana si prendeva il disturbo di preparargli.

Gli posò un bacio sulla fronte, cercando di ricacciare indietro le lacrime. Ordinò a una delle guardie che mandassero a chiamare il medico di corte e anche Merlino, e che la camera del re fosse preparata, poiché aveva bisogno di riposare. Si morse il labbro inferiore, con gli occhi che bruciavano sempre di più: in quel momento, era come se tutto il suo mondo, tutto il castello che aveva faticosamente costruito per sedici anni le stesse crollando addosso. Sua figlia, suo marito che stava male...e Tremotino. Tremotino che era tornato, lo sapeva, era tornato e ora reclamava il pagamento che lei non aveva voluto dargli anni prima.

Non resistette più. Continuò a tenere suo marito fra le braccia, ma voltò il capo di lato per non che vedesse che stava piangendo.

 

***

 

Mordred socchiuse piano la porta di una delle camere di sua madre, entrando silenziosamente e con cautela, quasi si trattasse di un santuario. O di un luogo maledetto.

Era una delle camere che Morgana non usava praticamente mai, e che impiegava al massimo come salottino privato. Era arredata elegantemente, ma in modo essenziale, e contro una parete più di tutto spiccavano un tavolo in legno di ciliegio e una poltroncina foderata di velluto rosa scuro. Modred posò sul ripiano del tavolo una tazza di latte caldo e un pezzo di pane, quindi si voltò verso la porta del ripostiglio dietro la quale sapeva esserci Odile. Sua madre aveva mantenuto la promessa: il cigno nero non era stato liberato dalla sua punizione per tre giorni esatti, senza mai uscire da quella stanzetta stretta e buia in cui era stata relegata. Odile aveva sopportato tutto in maniera altalenante: aveva strillato per più di tre ore quando Morgana l'aveva rinchiusa, e tutto il resto della notte del cigno nero l'aveva trascorso singhiozzando rumorosamente con brevi intervalli in cui ancora implorava di farla uscire, e aveva proseguito per tutta la mattinata seguente. Poi, da dietro la porta chiusa a chiave aveva smesso di provenire qualsiasi suono, tanto che, a sera inoltrata, Mordred era entrato nella stanza e si era avvicinato a quella porticina per assicurarsi che Odile fosse ancora viva: l'aveva udita respirare regolarmente da oltre il legno, e si era tranquillizzato. Aveva ripetuto altre tre volte lo stesso gesto durante la giornata seguente, e sempre l'aveva sentita respirare oppure piangere.

Avrebbe voluto farla uscire già da un pezzo, se non altro per porre fine a quello strazio, ma non aveva osato farlo senza il consenso di sua madre. Quella mattina, allo scadere della punizione, era andato da Morgana e le aveva chiesto che cosa dovesse fare con Odile. Sua madre aveva sbuffato e aveva risposto di fare quello che voleva, purché non l'infastidisse, e sebbene non si fosse trattato di un esplicito consenso, Mordred si era sentito come se avesse ricevuto il via libera.

Si avvicinò alla porticina del ripostiglio e girò la chiave nella serratura senza pensare a niente, come se a compiere quel gesto non fosse stato lui ma qualcun altro che si era impossessato del suo corpo.

La scena che si ritrovò di fronte fu patetica, ma in qualche modo molto simile a ciò che si era aspettato.

Sua sorella era seduta sul pavimento, con le ginocchia strette al petto e il dorso poggiato contro la parete. L'abito da cigno nero che aveva addosso era ridotto a uno straccio di stoffa sporco e stropicciato, in alcuni punti dell'orlo anche stracciato; Mordred immaginò che Odile si fosse accanita su di esso in un momento in cui la rabbia e la disperazione avevano raggiunto l'apice. Una delle spalline sottili le era scivolata lungo il braccio, e quella spalla magra dalla pelle pallida fu la prima parte di sua sorella che venne illuminata dalla luce quando aprì la porta. Odile teneva il capo girato verso l'interno del ripostiglio, con il collo – un collo niveo, lungo e sottile, un collo da cigno – lievemente reclinato di lato, immobile come una morta. Tremò appena quando la luce la raggiunse, anche se ci vollero diversi secondi prima che si decidesse a raddrizzare la testa e a guardarlo. Mordred sapeva che sua sorella aveva naturalmente un incarnato pallido, eppure quel pallore gli sembrò più brutto e smorto di quanto non fosse mai stato; i grandi occhi castani erano gonfi di pianto, e profonde occhiaie violacee le solcavano gli zigomi per scendere fin quasi alla bocca. La fronte e i riccioli castani erano imperlati di sudore, e una ciocca le era finita di fronte a un occhio.

Mordred si scostò per lasciarla passare.

- Avanti, alzati e vieni fuori - la incitò, mantenendo la voce piatta e l'espressione neutra.- Nostra madre ha detto che puoi uscire.

Odile lo guardò per un lungo istante con quei suoi occhi bovini grandi e stupidi, e per un attimo Mordred si chiese se non dovesse ripeterle l'invito. Ma dopo pochi secondi sua sorella appoggiò un palmo contro alla parete per sostenersi, e si sollevò in piedi. Una lacrima le scese lungo la guancia, e lei si affrettò ad asciugarla con il polso, tirando su con il naso. Mordred vide che incespicava lievemente per avanzare, e non se ne stupiva: quel ripostiglio era talmente stretto che, per stare seduta, sua sorella aveva certamente dovuto raggomitolarsi su se stessa; era ovvio che avesse le gambe intorpidite.

Odile uscì con le spalle curve, fissando un punto indistinto sul pavimento. Provò a tirarsi su le spalline, ma subito queste scivolarono di nuovo lungo le braccia. Mordred pensò che l'abito da cigno nero era ormai da gettare via.

Richiuse la porta con un colpo più forte del necessario, con l'intento di suscitare una qualche reazione in Odile. Ma il cigno nero – no, non più, era tornata a essere l'anatroccolo che era sempre stata, un anatroccolo brutto, stupido e indifeso – non si mosse, né emise un sussulto.

Mordred si schiarì la voce, sentendosi la gola secca.

- Ti ho portato da mangiare...- disse, indicando il pane e il bicchiere di latte.

- Non ho fame.

Le prime parole di Odile dopo tre giorni furono pronunciate con la voce acuta e incrinata, ancora pregna di pianto. Ed erano state dettate più da quel poco orgoglio che le era rimasto – ammesso che ne avesse mai posseduto – più che dalla verità. Mordred stentava a credere che dopo tre giorni a digiuno, chiusa al buio in un ripostiglio, sua sorella non fosse divorata dai morsi della fame.

Quel piccolo tentativo di ribellione lo fece innervosire.

- Mangia lo stesso - ringhiò, indicandole il tavolo di Morgana e la poltroncina.

Odile non replicò ulteriormente, e andò a sedersi dove suo fratello le aveva ordinato. Mordred pensò che quella era la prova definitiva che il cigno nero era morto, e non sarebbe tornato mai più: sua sorella era tornata quella figurina smunta e tremante nascosta in un angolo, la servetta timida e con la testa fra le nuvole che ubbidiva senza fiatare a qualsiasi ordine per paura di qualche scherzo o di una punizione. Non c'era più niente in Odile che ricordasse il cigno nero, quel cigno nero spregiudicato e sensuale che aveva danzato tre notti prima; quel cigno nero era stato ucciso, e le sue ali erano state strappate ed esibite come trofeo alla cattiveria e allo scherno di Camelot.

Odile prese un pezzetto di pane e lo intinse nel latte, per poi portarselo alla bocca. Mordred pensò che, forse, l'ipotesi dello stomaco chiuso era vera: sua sorella masticava lentamente e con fatica, e una smorfia storta sulle sue labbra lasciava intendere che stesse per vomitare da un momento all'altro. O di scoppiare nuovamente a piangere.

Mordred si sentì improvvisamente a disagio: era abituato a veder piangere Odile – era accaduto spesso che scoppiasse in lacrime di fronte ai suoi occhi, fosse stato per qualche scherzo delle cameriere o per uno schiaffo di Morgana –, ma in qualche modo non ci aveva mai davvero fatto l'abitudine. Tutte le volte che sua sorella si scioglieva in lacrime di fronte ai suoi occhi, qualunque fosse il motivo, lui faceva una fatica immensa a tollerare la scena, e spesso assecondava il suo istinto di guardare altrove e aspettare che tutto fosse finito. Per qualche strano e immondo motivo, trovava le lacrime di Odile insopportabili.

Il silenzio si fece rapidamente insostenibile. Sua sorella continuava a sbocconcellare quel che le aveva portato con fatica e malavoglia, e lui cominciava ad avvertire il desiderio di andarsene.

Si schiarì la voce una seconda volta.

- La regina è stata così magnanima da perdonarti - non trovò nient'altro di meglio da dire.- Nostra madre ti ha concesso di uscire, ma è molto meno incline ad elargirti il tuo perdono. Dovrai faticare parecchio prima di poterti ripresentare di fronte a lei senza vergogna.

- Come se lei non si fosse mai vergognata di me...- sussurrò Odile, fissando la tazza di latte, ma il cavaliere fece finta di non averla sentita.

- Hai perduto tre giorni di lavoro, quindi dovrai darti da fare il doppio per recuperare - proseguì Mordred.- Dovrai cominciare subito per porre rimedio al tempo che hai perso.

- Non è stata colpa mia se ho perso tempo.

Il cavaliere rimase interdetto per via di quella frase, ma subito si riprese, e strinse un pugno.

- Ora non dare la colpa a me e a nostra madre per quello che hai fatto!- quasi gridò.- Ti conosco, sai? Ti piace fare la vittima, ti piace giocare alla povera serva maltrattata, ma tutto ciò che ti è successo te lo sei procurato da sola! Ti sei messa in ridicolo, hai svergognato me di fronte agli altri cavalieri e disonorato nostra madre agli occhi della regina. Non ti vergogni?!

Odile si morse il labbro inferiore, e Mordred vide che gli occhi le si erano di nuovo riempiti di lacrime. La servetta piegò il capo in avanti, ingobbendosi, quasi avesse voluto scomparire.

- Io non volevo...non volevo fare niente di male...- balbettò con la voce rotta.- Ho solo...Odette...lei ha tutto, e io...volevo solo stare bene...solo stare bene per una sera...

- E tutto questo perché?- la voce di suo fratello arrivò secca e improvvisa come una frustata.- Perché? E per chi? Per sir Lancillotto, quella bestia che detesta le donne e a cui non gliene è mai importato niente di te! E' stato lui a smascherarti perché era disgustato da ciò che hai fatto, e tu ancora lo veneri!

- Sir Lancillotto è buono. Io forse ho sbagliato, ma lui non ha colpa...- balbettò Odile.- Gli chiederò scusa...Sir Lancillotto è un vero cavaliere, capirà che ho fatto tutto per lui...

- Ma non impari mai?!- sbottò Mordred, a metà scandalizzato e a metà esterrefatto.- Neanche dopo quello che ti ha fatto?! Non gliene importa nulla di te, voleva solo umiliarti, e tu non lo capisci! Non hai capito che...

- Smettila di dire così!- piagnucolò Odile; a Mordred sembrava quasi un cane che guaiva per la sofferenza.- Smettila, Mordred! Sei tu che non capisci, né tu né nostra madre avete mai capito!- riprese a singhiozzare più forte di prima, e le spalle vennero scosse da tremiti.- Mi avete sempre sgridata solo perché ero innamorata...come se tutto il resto non bastasse! Perché ci godete tanto a farmi male? Perché cercate sempre anche quel poco che ho di bello?

- Ma che diamine stai dicendo, stupida?

Odile non se la prese per l'insulto – suo fratello in genere si limitava a ignorarla o al massimo a ordire qualche scherzo ai suoi danni, ma Morgana le diceva anche di peggio –, ma non le sfuggì il cambiamento di Mordred dopo la sua accusa. Il cavaliere era arrossito, ed era visibilmente in difficoltà nel continuare la discussione. Cercava in tutti i modi di evitare il suo sguardo.

- Che cosa vai blaterando?- continuò suo fratello.- Nostra madre si è sempre comportata in modo più che corretto con te, e se qualche volta ti ha punita è stato solo perché te lo sei meritato. Quanto a me...

- Non è vero!- accusò ancora Odile; non riusciva a smettere di piangere.- Sai che non è vero! Che cosa avrei fatto di male? E' da quando sono nata che mi trattate come se non valessi nulla! Che cosa vi ho fatto per meritarmi questo? Se nostro padre fosse ancora vivo, allora...

- Ora lascia riposare in pace chi non è più su questa terra. Neanche l'hai mai conosciuto, nostro padre, e lui non ha fatto neppure in tempo a vederti in faccia. Che ne sai di com'era?

- Sarebbe stato certamente meglio di sua moglie. O di te!- Mordred non seppe dire perché, ma arretrò istintivamente all'ultima frase. Era la prima volta che sua sorella tirava fuori gli artigli e, torto o ragione che avesse, doveva ammettere di non saper gestire la situazione. Era sempre stato abituato a vedere Odile chinare il capo e ubbidire a ogni ordine, non si era mai trovato nella situazione di dover discutere con lei.

A dire la verità, non ricordava che loro due avessero mai avuto una conversazione tanto lunga.

- Nostra madre mi odia, non so per quale motivo, ma è evidente che è così. Ma tu?- incalzò Odile; ora stava singhiozzando senza controllo, e Mordred era sinceramente stupito che riuscisse ancora a parlare.- Che cosa ti ho fatto, Mordred? Non mi hai mai voluto bene, hai sempre voluto farmi male, come nostra madre. Dimmi almeno perché...

- Quello che dici non è vero...

- E allora perché hai sempre lasciato che nostra madre mi facesse male? Ti ho visto tre notti fa, ho visto come hai reagito quando lei mi ha colpito! Perché non hai fatto niente per fermarla? Perché in diciannove schifosi anni non hai mai mosso un dito per me?

Perché non ho mai creduto opportuno farlo, si ritrovò a pensare Modred. Perché è sempre stato così fin da quand'eravamo bambini. Io sono l'unico figlio che nostra madre ama, e tu...

Sì, ma perché era sempre stato così?, chiese una voce nella sua testa. Se è sempre stato così, voleva dire che anche a te andava bene. Pensaci: cos'ha veramente fatto Odile perché Morgana la trattasse peggio di una nullità? E tu perché non hai mai fatto niente per aiutarla? Ti piace davvero vederla così, com'è adesso?

No. No, non piace. Se non fosse da codardi, scapperei via.

- Perché le hai permesso di farlo, Mordred?

Il cavaliere non rispose, né si mosse. Sembrava che fosse incapace di fare qualunque cosa che non fosse rimanersene in silenzio di fronte a sua sorella che lo guardava con occhi pieni di lacrime, occhi accusatori, occhi che adesso veramente non ce la facevano più.

- Perché lasci che nostra madre mi tratti così?- singhiozzò Odile.- Non hai mai fatto niente, non hai mai detto niente...Lei mi insulta sempre, mi mette le mani addosso, mi tratta peggio di una nullità, e tu resti lì a guardare!- il suo tono di voce si alzò pericolosamente, ma fu tutto: sua sorella, il brutto anatroccolo, il cigno nero dalle ali spezzate, continuava a singhiozzare e a fissarlo con quegli occhi stanchi.- Sei mio fratello, Mordred! Perché lasci che nostra madre si accanisca così su di me? Sei mio fratello, dovresti difendermi! Perché non fai mai niente? Non hai mai fatto niente!

Non hai mai fatto niente!

Mordred si accorse di avere le mani sudate. Schiuse le labbra per dire qualcosa, ma le richiuse subito.

Odile gettò un altro singhiozzo e riprese a piangere, distogliendo lo sguardo da lui e fissando la superficie del tavolino. Il cavaliere fece schioccare le nocche, indietreggiando verso la porta.

Si sentiva come se l'avessero appena preso a schiaffi.

Afferrò la maniglia e l'abbassò.

- Sbrigati a finire, e datti una sistemata. Ti aspettano giù in cucina.

Odile finse di non aver sentito, e nascose il volto fra le mani quando fu certa che suo fratello fosse uscito dalla camera e avesse richiuso la porta.

 

***

 

- Non credo di aver compreso.

- Se non hai compreso, o sei stupido o non vuoi capire - commentò nervosamente sir Galvano, prendendo la sua inseparabile fiaschetta dalla cintura e buttando giù in generoso sorso di grog.- Mi sembra di essere stato abbastanza chiaro nella mia spiegazione, e non vedo cosa ci sia di così difficile.

Lancillotto digrignò i denti, ma si costrinse a non rispondere per le rime. In quel momento, sentiva di poter tirare un pugno al suo amico: Galvano non solo stava dando fondo a uno dei suoi vizi peggiori – bere, e per di più in servizio! –, ma lo stava anche trattando con sufficiente, rivolgendosi a lui come se fosse stato un povero idiota; tuttavia, si costrinse a restare calmo e, per quel che gli era possibile in quella situazione, lucido.

Non era vero che non aveva compreso; stava solo sperando di non averlo fatto.

Galvano inarcò un sopracciglio, scoccandogli un'occhiata di traverso, quindi bevve un altro sorso di grog, prima di sospirare.

- Te lo ripeto: il re ha indetto un torneo che si terrà qui a Camelot domani mattina. Per stanotte sono attesi come ospiti tutti i nobili di Avalon e dei dintorni, e dovremo gareggiare anche noi cavalieri, nessuno escluso. Chi vincerà, avrà in moglie la principessa Odette, e diventerà così il futuro sovrano.

A quel punto non poteva più nemmeno sperare in un margine di errore da parte propria.

Lancillotto incrociò le braccia al petto, appoggiando il dorso contro una delle travi che sostenevano il tetto delle scuderie. Non sapeva nemmeno lui cosa pensare o cosa dire, se aspettare che Galvano aggiungesse qualcosa – chi poteva saperlo, un margine di salvezza? – oppure no. Ma il suo amico non pareva avere alcuna intenzione di proseguire, così si decise a fare lui stesso un passo avanti.

- Sono impazziti, forse?- ringhiò Lancillotto, anche se si sentiva la gola secca al pensiero.- Rovinano la vita di un pover'uomo solo perché una mocciosa sedicenne ha combinato una marachella aiutata dalla sua amica?

- Sto seriamente cominciando a pensare che tu lo faccia apposta, altrimenti mi toccherebbe ammettere che sei un inetto - lo insultò tranquillamente Galvano.- Ti è mai passato per la testa che la maggior parte dei cavalieri e tutti i nobili che gareggeranno sarebbero più che felici di sedere al trono di Camelot? E che la vera vittima di tutto è la principessa?

- Se si fosse comportata bene a quest'ora non sarebbe stata punita. Piuttosto, ti rendi conto che qualcuno di noi potrebbe ritrovarsi in una condizione che non desidera, se dovesse vincere?- ribatté Lancillotto.

- Se non vuole diventare re o sposare la principessa, potrà sempre perdere di proposito...- mormorò il cavaliere più vecchio.- Ma hai ragione, potrebbe capitare a chiunque di noi. E la principessa corre il serio rischio di trovarsi sposata a un animale travestito da essere umano, se è sfortunata.

- Dovrebbe riguardarci?- Lancillotto non sembrava troppo preoccupato per la sorte di Odette.- Qualcuno dovrà pur vincere, domani, e io non voglio diventare re, né tantomeno sposare una sedicenne ribelle!

Galvano fece una smorfia: Lancillotto era, come sempre, concentrato su se stesso. Lo conosceva sin da quando era un ragazzino cencioso che lavorava come inserviente al castello per portare il pane a casa, un ragazzino che possedeva soltanto il sogno di diventare un giorno cavaliere e, fortunatamente, anche la determinazione necessaria per perseguire il suo obiettivo.

Da quando era entrato ufficialmente a far parte dei Cavalieri della Tavola Rotonda, Galvano ripensava spesso a quel ragazzino, e tutte le volte che si scontrava con l'uomo che era divenuto, lo rimpiangeva. Lancillotto era un bravo cavaliere, impeccabile sotto ogni punto di vista...ma era come se avesse gettato deliberatamente il proprio cuore in pasto alle belve, pur di diventare com'era ora. Si era gettato alle spalle l'intero suo passato, e si era costruito un presente neppure tanto solido: Lancillotto nascondeva come una ferita orrenda le sue origini, e tutto ciò che aveva affrontato prima di arrivare a Camelot, seppur da semplice sguattero. Andava su tutte le furie se qualcuno accennava anche solo da dove venisse e cosa era accaduto ai tempi di re Uther...e di re Stefano. Che cosa aveva fatto.

Non riusciva neppure a sopportare la parola sguattero. O regicida.

Da parte sua, Galvano aveva sempre cercato di non piantare ancora di più il pugnale in quelle che sapeva essere le fragilità del suo amico – fragilità stupide, forse sbagliate e nascoste come un imperdonabile peccato, ma pur sempre delle fragilità che Lancillotto si rifiutava di ammettere –, ma quasi mai era d'accordo con il suo comportamento egoista. Il cavaliere più giovane pensava solo alla propria reputazione, si preoccupava soltanto del suo ruolo, spesso senza curarsi di ciò che provavano gli altri. Era stato questo che l'aveva fatto maggiormente arrabbiare, nella vicenda del cigno nero: la vigliaccata di Lancillotto e la sua totale mancanza di rimorso.

Il suo amico si era comportato freddamente e senza cuore, come una crudele bestia. E non ne aveva alcun rimorso.

- Nemmeno io lo voglio. Ma non tutti i gareggianti, domani, la penseranno come noi...- disse Galvano.- Il re ha seguito il proprio cuore, e ha sposato la figlia di un mugnaio, e anche io ho sposato mia moglie perché l'amavo. I sovrani hanno preso esempio dal proprio comportamento, e prima che la principessa facesse perdere loro la pazienza le avevano concesso la possibilità di scegliere il proprio compagno per il futuro...Ma a pochi è concesso questo lusso, lo sai, Lancillotto. La principessa ha sedici anni, è in età da marito, e quasi tutti i nobili che parteciperanno domani troveranno naturale ciò che sta accadendo. Anche fra i contadini è usanza che siano i genitori a scegliere il consorte dei figli, perché non dovrebbero farlo due sovrani?

Lancillotto annuì impercettibilmente; sapeva che il suo amico diceva il vero, dal momento che lui stesso era figlio di una madre che, seppur contadina, era stata costretta a sposare un uomo che non amava per volere dei genitori. E ringraziava ogni giorno di essersi allontanato per sempre dal fango in cui era vissuto fino a undici anni.

- Camelot è un regno prospero, e fortunatamente ancora lontano dalla minaccia dei fratelli Grimm...- mormorò sir Galvano.- Il trono farebbe gola a molti, e domani al torneo saranno accaniti. Faranno di tutto pur di vincere, e non perché qualcuno sia veramente interessato alla principessa...Quella poverina rischia di avere la vita rovinata...

- Avrebbe potuto pensarci prima - borbottò Lancillotto.- E comunque, cosa vorresti fare per impedirlo? Non puoi, lo sai. Domani qualcuno vincerà, è inevitabile.

- E se fossi tu a vincere?- incalzò il cavaliere più vecchio.- Cosa farai?

- Non fingerò di perdere, ma sarò più che onorato di venire battuto da un guerriero più valoroso di me, quando accadrà.

- Sì, ma se non dovesse accadere?- Galvano stava cercando di spronarlo in tutti i modi ad aprire gli occhi.- In fondo, non è così improbabile che tu vinca, Lancillotto. Sei uno dei migliori, fra di noi, può anche darsi che sarai tu, il vincitore...

- Forse potrei arrivare fra i primi...ma in quel caso sarei comunque sconfitto da te...- Lancillotto inclinò lievemente il capo di lato.- Tu non avrai alcun problema a vincere, e lo sai. Sei il più anziano, il più esperto, e il più abile. Di certo di gran lunga superiore a tutti i novellini che si presenteranno domani. Per questo sarò tanto orgoglioso, quando verrò sconfitto...sarai tu a disarcionarmi.

Galvano non rispose, e si girò appena di spalle per non dover sostenere lo sguardo dell'amico. Che gli piacesse o meno, Lancillotto aveva ragione: non aveva idea se fosse il più bravo nella giostra fra tutti i partecipanti di domani, ma non poteva negare di essere il migliore fra i cavalieri. Non era mancanza di modestia, vanità o presunzione: semplice dato di fatto.

Durante i consigli di Stato e le riunioni, il re aveva disposto che fosse lui a occupare il posto d'onore, alla sua destra, e Galvano se l'era guadagnato non solo per l'amicizia nei confronti di Artù, ma anche per la propria abilità. Quando ancora sul trono di Camelot sedeva re Uther, era sempre a lui che il sovrano assegnava il compito di occuparsi delle reclute e degli scudieri, sebbene all'epoca non avesse neppure trent'anni. Artù aveva indetto sette tornei in sedici anni, e lui ne aveva vinti cinque – in due era stato Lancillotto ad arrivare primo, e solo perché lui non aveva partecipato.

C'erano buone possibilità che vincesse, era vero. E il solo pensiero lo faceva raggelare.

Qualcuno bussò contro lo stipite del portone, e subito dopo il garzone che Lancillotto aveva scacciato poco prima si presentò sulla soglia delle scuderie.

- Chiedo scusa...- mormorò.- Ma la regina ha richiesto che uno dei cavalieri monti di guardia di fronte alla porta della principessa...

- Perché deve essere uno di noi?- fece Lancillotto, con una smorfia.- Dove sono le guardie reali?

- C'è molto da fare per domani mattina, sir. Immagino saprete del torneo...ecco, occorre più aiuto possibile, e...

- Riferisci alla regina che andrò io - disse Galvano, in fretta, congedando con un gesto il garzone. Il ragazzo fece un rapido inchino e se ne andò. Lancillotto lo guardò brevemente, ma Galvano non disse nulla, e uscì dalle scuderie.

 

***

 

In quasi diciassette anni di matrimonio, Artù aveva avuto modo d'imparare un tratto caratteristico di sua moglie che lasciava sbalorditi tutti: per quanto potesse sembrare dolce e remissiva, quando si metteva in testa una cosa Ginevra era inarrestabile, e non c'era verso di distoglierla dai suoi propositi.

Questo era il motivo per cui adesso si ritrovava nella sua stanza, disteso a letto sotto cumuli di coperte con sua moglie, il medico di corte e Merlino che lo fissavano.

Era abbastanza snervante.

In vita sua non era quasi mai stato malato – suo padre lodava sempre la sua salute di ferro, ed era una delle poche cose buone che si era sentito dire da Uther – e quindi essere costretto a letto gli pesava più di qualsiasi altra cosa – anche se mai più del non riuscire a trovare un punto d'incontro con Odette.

Artù rimase immobile, irrigidendosi appena sotto le coperte quando Merlino gli tastò la fronte con un palmo della mano. Sentì le dita di Ginevra stringersi ancora di più intorno alle proprie.

- Ve l'ho già detto più di una volta, Vostra Maestà: non dovreste agitarvi così - borbottò Merlino, ritraendo la mano; aveva l'aria corrucciata.- E' quanto di più deleterio ci sia quando si è malati.

- Non sarebbe successo, se non fosse stato per Odette...- sibilò Ginevra, con un po' troppo astio nella voce; Artù le strinse la mano per calmarla.

Il medico di corte si sedette a un piccolo tavolo, scrivendo qualcosa su un taccuino. La regina alzò lo sguardo su di lui.

- Avevate detto che si trattava di una lieve influenza - disse.- Perché non è ancora guarito?

- Tutto ciò che posso consigliarvi è di attendere e riposare - rispose l'uomo.- I sintomi sono quelli di una leggera febbre e un po' di debolezza...non c'è altro. Vi consiglio solo di non agitarvi troppo e di dormire il più possibile. Con permesso...- il medico si alzò in piedi, s'inchinò e uscì dalla stanza, lasciando solo il taccuino su cui – Ginevra lo sapeva, motivo per il quale non aveva alcuna intenzione di leggerlo – aveva certamente prescritto ciò che aveva detto a voce.

Tutti consigli che avevano messo in pratica, ma che non davano nessun risultato.

La regina alzò lo sguardo.

- Merlino?- chiamò, con aria supplichevole. Il mago la guardò per un istante: era evidente che anche lei stava cominciando a sospettare che il medico avesse torto, e che Artù fosse affetto da qualcosa di ben più grave. Merlino si schiarì la voce.

- Io non sono un medico, mia regina...- mormorò.- Non posso consigliare nulla contro i mali del corpo.

- Ma praticate una magia molto potente - insistette Ginevra.- Non...non potreste...

- In effetti, mi sento stanco...- s'intromise il re, guardando la moglie.- Proverò a dormire come mi ha suggerito il medico...vedrai che fra un paio d'ore starò meglio...- provò a rassicurarla, anche se il suo aspetto debole e malaticcio suggerivano tutto il contrario.

Ginevra non rispose, ma si lasciò sfuggire un impercettibile sospiro. Chiuse gli occhi un attimo, prima di riaprirli e puntare nuovamente lo sguardo su Merlino. Il mago fece un rapido inchino.

- Vedrò cosa posso fare, Vostra Maestà - promise, e uscì dalla stanza.

Merlino richiuse la porta e cominciò ad avviarsi lungo il corridoio, diretto nella zona Est del palazzo. Sin da quando re Uther Pendragon era in vita, gli erano stati assegnati degli alloggi in quell'ala del castello, che erano a sua sola disposizione. Nessuno ci era mai entrato – gli unici ad averne il diritto sarebbero stati il re, il quale aveva sempre nutrito talmente tanta fiducia in lui da non sentire nemmeno il bisogno di controllare, e sua moglie e sua figlia, che non si erano mai interessate a cosa ci fosse là dentro –, e lui li teneva sempre chiusi a chiave. E protetti con la magia.

Merlino accelerò il passo, ma appena svoltò l'angolo per poco non urtò contro una persona che arrivava dalla direzione opposta. Il mago si accigliò, facendo un breve cenno con il capo in segno di scuse.

- Perdonatemi, milady...- bofonchiò, intravedendo l'orlo di una gonna scarlatta. La donna emise un verso gutturale simile a uno sbuffo, ma non rispose. Merlino sollevò lo sguardo, incontrando il volto tirato di Morgana.

La dama di compagnia preferita della regina era stretta in un lungo abito di velluto scarlatto, molto scollato, e aveva i capelli raccolti in una retina dai fili dorati. Reggeva fra le mani un involucro nascosto da un fazzoletto. Morgana fece una riverenza in segno di saluto e fece per proseguire, ma Merlino la bloccò per un braccio.

La donna gli rivolse uno sguardo stizzito.

- Non vi hanno insegnato le buone maniere nei confronti di una signora?- sibilò.

- Non ho mancato di rispetto ad alcuno e, in ogni caso, voi non siete una signora!- rispose il mago, digrignando i denti.- Dove state andando?

- Che v'importa?- Morgana si divincolò, ma a Merlino non sfuggì che teneva ben saldo quell'involucro.- Non è affar vostro, e fingerò di non aver udito quel commento sulla mia rispettabilità...

- E io fingerò che voi non siate un mostro senza cuore che ha certamente punito in modo disumano una povera creatura innamorata. Dove state andando?- ripeté.

- Voi non sapete niente dei provvedimenti che ho preso nei confronti di mia figlia, e in ogni caso queste sono questioni strettamente private che non vi riguardano!

- Posso perfettamente immaginare cosa abbiate fatto passare a Odile, voi e vostro figlio! Ora, ve lo chiedo un'ultima volta, e se non risponderete sarò costretto a chiamare le guardie: dove state andando?- incalzò Merlino. Morgana arrossì, stizzita, ma non osò rispondere per le rime: lei era una protetta della regina, ma sapeva che questo non la rendeva invulnerabile. Merlino era un pezzo grosso, non solo nelle arti magiche – lei in fondo era una semplice fattucchiera, ed eccelleva soltanto nell'erboristeria –, ma anche nella gerarchia di Camelot. Se avesse chiamato le guardie, allora lei avrebbe dovuto rassegnarsi a venire trattenuta fino a nuovo ordine. Non le conveniva giocare con il fuoco.

Cercò di darsi un contegno, raddrizzando le spalle e il collo, ma ritraendosi quel tanto che bastava per non essere troppo vicina a Merlino.

- Nelle stanze del re. Una visita di cortesia - pronunciò quelle parole stando attenta che la propria voce non la tradisse, ma non bastò per ingannare il mago.

- Cosa tenete fra le mani?

- Una tisana per dormire. Ho saputo che Sua Maestà ha avuto un'altra crisi, e così ho pensato che...

Non fece in tempo a terminare la frase. Merlino le strappò di mano l'involucro, con decisione ma stando attento a non rovesciarne il contenuto – di qualunque intruglio si trattasse. Morgana boccheggiò per qualche secondo, interdetta, ma subito si riprese.

- Ma come vi permettete?!- sbottò, stavolta rossa di rabbia.- Non avete il diritto di...

- In quanto amico personale e confidente di Sua Maestà, ho diritto a questo e altro - il mago la freddò.- E il re non può ricevere visite in questo momento, né può ingerire alcunché senza l'approvazione del medico di corte...

- Non...non ero a conoscenza di ciò. Ebbene, ridatemela.

- Non credo proprio...- Merlino si voltò, tenendo attentamente l'involucro fra le mani, e riprese a camminare in direzione dei suoi alloggi.- Se nessuno la berrà, non vedo il motivo di conservarla. Penserò io stesso a gettarla via...

Morgana rimase a guardarlo in silenzio e immobile fino a che non scomparve dietro un angolo del corridoio. Strinse i denti. Merlino aveva detto che avrebbe l'avrebbe gettata via...ma a lei non era sfuggito che il suo sguardo intendeva tutt'altro.

 

***

 

Odette si girò su un fianco, asciugandosi gli occhi con una manica del vestito. Continuò a singhiozzare, sentendosi gli occhi gonfi; sapeva di essersi cercata quella punizione, così come sapeva che frignare standosene distesa a letto non avrebbe né cancellato i suoi sbagli né tantomeno fatto cambiare idea ad Artù e Ginevra, ma non sapeva che altro fare e aveva un disperato bisogno di sfogarsi.

Le attraversò la mente il ricordo di Odile, di come si fosse fidata della sua amicizia...una parte di lei le urlava che se la figlia di Morgana non avesse fatto la stupida – per quale motivo, poi? – allora adesso non sarebbe stata in quella situazione, e provava il grandissimo impulso di scaricare tutta la colpa delle sue disgrazie sulla servetta...ma un'altra la rimproverava, dicendo che tanto sarebbe accaduto comunque.

Afferrò un cuscino e nascose sotto la testa, continuando a singhiozzare.

 

Chissà chi lo sa, il mio nome qual sarà.

Lo so soltanto io che Tremotino è il nome mio.

 

Odette sgranò gli occhi, e trattenne istintivamente il fiato. Per dei lunghissimi secondi non accadde nulla, tanto che la principessa credette di essersi immaginata quella voce maschile e cantilenante.

Ma subito ricominciò.

 

Chi sa chi lo sa, il mio nome qual sarà.

Lo so soltanto io che Tremotino è il nome mio.

 

Odette tirò fuori la testa dal cuscino e scattò seduta sul letto. Una lacrima le sfuggì dalle ciglia, ma aveva smesso di piangere. Si rese conto solo vagamente di stare respirando più forte e con più affanno.

- Chi è?- chiese all'aria, facendo correre lo sguardo su ogni mobile della stanza.

Una risatina acuta le fu da risposta.

 

Chi sa chi lo sa, il mio nome qual sarà.

Lo so soltanto io che Tremotino è il nome mio.

Piangi bella bambina, la mala sorte ti è vicina.

Ma se il mio nome invocherà, la principessa salva allor sarà.

 

Odette sentì il cuore prendere a battere più forte, ma quando aprì la bocca per chiedere chi fosse, il rumore di un pugno contro il legno della porta la fece trasalire. La principessa sobbalzò, voltando il capo verso il battente.

Rimase in silenzio per un tempo che le parve infinito, durante il quale quella cantilena non si fece più sentire. In compenso, i colpi contro la porta si ripeterono, più decisi.

- Chi...- la voce le uscì come un gracidio quando si risolse a rispondere.- Chi è?

- Vostra Altezza? Sono...sono io. Sir Galvano.

Odette ci mise qualche istante a metabolizzare l'informazione, ma tirò un sospiro di sollievo, scostandosi una ciocca bionda dietro un orecchio. Forse me lo sono immaginato, pensò.

- Entrate.

Galvano non attese oltre, ed entrò. Odette distolse lo sguardo, fissando le proprie ginocchia mentre gli occhi tornavano a riempirsi di lacrime. Si morse il labbro inferiore, stringendo le lenzuola fra le dita.

Il cavaliere si avvicinò con cautela.

- Vostra madre mi ha ordinato di montare di guardia di fronte alla vostra porta.

Odette si asciugò gli occhi con una manica, tirando su con il naso.

- E perché avete deciso di entrare, allora?- domandò.

- Ho pensato...che sarei stato più utile dentro, piuttosto che fuori.

La principessa comprese immediatamente, e si morse il labbro con più energia per non scoppiare a piangere, ma con scarsi risultati. Galvano si avvicinò al letto.

- Posso sedermi?

Odette annuì, e non appena il cavaliere ebbe raggiunto il bordo del baldacchino, gli si gettò al collo, nascondendo la faccia contro la sua spalla e ricominciando a singhiozzare. Galvano rimase un attimo interdetto da quel gesto, ma subito si riprese. Contrariamente a sir Lancillotto, agli altri cavalieri, e a chiunque abitasse a Camelot o nei dintorni di Avalon, lui aveva sempre visto la principessa più come una semplice ragazza di sedici anni – con tutto ciò che questo comportava – che come un membro della famiglia reale. Sospirò, passandole una mano sul dorso nel tentativo di calmarla, ma Odette singhiozzava senza freni.

- Lo so che sono lacrime di coccodrillo...!- mugolò la principessa.- Ma non riesco a credere di essere arrivata a questo punto. Stavolta mia madre non cambierà idea...

Galvano non rispose: non voleva dirle una bugia o rassicurarla a vuoto, ma nemmeno infierire. La regina non sarebbe tornata indietro, non stavolta, e lo sapeva anche lui.

Odette si staccò appena per poterlo guardare negli occhi.

- Che cosa devo fare?- chiese, con la voce incrinata.- Domani...domani...

Non riuscì a continuare la frase. A Galvano pareva quasi che la principessa fosse sul punto di svenire, con gli occhi arrossati dal pianto, tremante e sudata. Staccò dalla cintura la fiaschetta di grog, porgendogliela.

- Bevete un sorso di questa, vi aiuterà a calmarvi. Fate piano, è roba forte...- mormorò. Odette annuì, prendendo la fiaschetta e ingurgitando un generoso sorso del suo contenuto.

Chiuse gli occhi, gettando il capo all'indietro. La gola le bruciava un po', ma in un attimo si sentì invadere interamente dal calore del grog. L'alcool le scorreva nelle vene come fuoco liquido, un fuoco tiepido e benevolo come quello di un caminetto acceso mentre fuori impestava la bufera.

Fu una sensazione che durò pochi secondi, ma abbastanza per calmarla.

Odette riaprì gli occhi; avrebbe voluto buttare giù un altro sorso – tutto, tutto pur di dimenticare –, ma sir Galvano le strappò la fiaschetta di mano, allacciandola nuovamente alla cintura.

- Basta. Un sorso va bene, ma troppo vi fa male...- Galvano abbozzò un sorriso di scuse.

- Non mi è sembrato facesse male...- mormorò Odette.- E' per questo che bevete sempre?- trovò il coraggio di chiedere. Il cavaliere annuì.

- Mi aiuta a lenire il dolore...qualche volta. Ma non lo estingue, ed è solo in grado di farti dimenticare per qualche momento. Nulla più.

- Dimenticare cosa?

Galvano sorrise, evadendo educatamente la domanda. Odette comprese, e si strinse le ginocchia al petto. La sensazione di tiepido benessere datale dal grog era sparita, e lei aveva ancora voglia di piangere, adesso. Il cavaliere sospirò.

- Vorrei potervi aiutare...- sussurrò.- So che è molto poco, ma vorrei davvero che ci fosse un modo per...

- Forse...forse c'è...- disse Odette, guardandolo negli occhi.- Voi...voi non desiderate diventare re, vero? Non avrete interesse a sposarmi, giusto?

Galvano rise.

- Voi potreste essere mia figlia, Vostra Altezza, e il ruolo di monarca è troppo impegnativo per me...

- Allora, vincete quel torneo!- scattò su Odette.- Vincete per me. Vincete, e rifiutate la mia mano. Solo così non sarò costretta a...

- Se fossi io a vincere, domani, lo farei sicuramente - l'interruppe sir Galvano.- Ma in questo caso, il re concederebbe la vostra mano al secondo arrivato, e può anche darsi che chiunque egli sia abbia degli ottimi motivi per non rifiutare come ho fatto io...E se anche così non fosse...

- …mia madre troverebbe comunque il modo di trovarmi un marito - concluse la principessa la posto suo.- Ci deve essere un'altra maniera! Ho provato a chiedere scusa, lo giuro, ma...evidentemente ho tirato troppo la corda, e ora si è spezzata. E adesso pensano che io non sia in grado di avere la mano di me stessa...

In quel momento, fu come se la frase di Odette avesse acceso una fiammella nel buio. Galvano ricordò improvvisamente una delle regole dei tornei: chiunque poteva chiedere di partecipare, in qualsiasi momento. Anche un attimo prima della giostra finale.

Se si fossero giocati bene le loro carte, allora...

Le posò una mano su un braccio; Odetto lo fissò con aria interrogativa.

- Molto probabilmente il re mi caccerà e la regina s'infurierà ancora di più con voi, ma se non altro avremo eliminato il problema del matrimonio fino a che i sovrani non avranno ripreso a ragionare a mente lucida...

- Non vi seguo...

- Il re mi ascolterà, al momento opportuno mi assumerò le mie responsabilità e spiegherò tutto personalmente. Vedrete che andrà tutto bene - disse sir Galvano.- Ho solo una domanda per voi: da quel che ho potuto vedere durante la notte del cigno nero, vi piace molto mascherarvi: sareste disposta a farlo di nuovo?

 

***

 

La colpa non era stata sua. Né sua, né di Morgana e – no – nemmeno di Odile. Non di Ginevra, non di Artù, non di quella mocciosa della principessa Odette, e nemmeno di tutti quegli ipocriti che avevano deriso il cigno nero quando le ali le erano state strappate.

La colpa di tutto era solo di Lancillotto.

Mordred si era rigirato per ore fra le lenzuola, prima di giungere a questa conclusione.

Lancillotto aveva fatto innamorare sua sorella, l'aveva illusa e infine umiliata. Era colpa sua se Morgana aveva punito Odile, e se il cigno nero – brutto anatroccolo – ora aveva il cuore spezzato per colpa di una bestia.

La colpa era solo sua, e lui gliel'avrebbe fatta espiare fino in fondo.

 

***

 

La giornata era trascorsa stranamente in fretta. Ginevra si era decisa a lasciare la camera di suo marito solo molto tempo dopo che questi si era addormentato, e aveva dato ordine alle guardie di mandarla a chiamare quando si fosse svegliato. Aveva trascorso le ore seguenti chiusa nella propria stanza da letto, senza curarsi dei doveri di corte e lasciando che pensassero i funzionari e i servitori a organizzare tutto per l'indomani.

Adesso il sole stava calando, e lei era in piedi di fronte alla finestra di camera sua. La vista dava sul cortile interno alle mura, una distesa di terra dove gli antenati dei Pendragon avevano sempre organizzato i tornei e le giostre. Alcuni servitori stavano mettendo in ordine ancora i pochi dettagli che mancavano, e poi tutto sarebbe stato pronto per l'indomani.

Pronto per il torneo. Pronto per un matrimonio.

Pronto per una condanna a morte.

Ginevra inspirò a fondo. Chiuse gli occhi, e pensò a sua figlia. La rivide prima neonata, poi bambina e infine quella ragazza che la guardava con astio ogni volta che le sfiorava il capo con una carezza.

Non voleva farlo. Non avrebbe mai fatto una cosa del genere, se Odette non ce l'avesse costretta.

E se Tremotino non fosse tornato.

Il pensiero le diede la sensazione che la terre le mancasse da sotto i piedi, tanto che dovette aggrapparsi al bracciolo di una poltrona per sostenersi. Tremotino era tornato, e lei non aveva scordato la promessa che aveva infranto sedici anni prima. Lo stregone aveva giurato di prendersi sua figlia, e l'avrebbe avuta, prima o poi.

Se Odette si fosse sposata, allora sarebbe stato tutto più semplice. Avrebbe potuto proteggerla ancora meglio.

Bussarono alla porta. Ginevra si riscosse.

- Avanti...- mormorò, e un attimo dopo si ritrovò di fronte Morgana.

La donna fece una riverenza, tenendo lo sguardo basso.

- Perdonate il disturbo, Vostra Maestà. Ero venuta a chiedervi il vostro permesso per poter lasciare Camelot, domani.

Ginevra la guardò con tanto d'occhi.

- Lasciare Camelot, Morgana? Posso...posso domandarti il perché?

- Nulla di grave, Vostra Maestà. Alcuni affari di famiglia mi richiamano a Nord, nelle terre che furono del mio povero marito. Non sarà un viaggio lungo, io e la mia famiglia saremo di ritorno entro tre mesi - Morgana alzò lo sguardo.- Vengo a domandarvi il permesso per me e per mio figlio Mordred di partire.

La regina sorrise, annuendo.

- Permesso accordato, Morgana. Ma spero che partirete nel pomeriggio, dopo il torneo...

- Certamente, Vostra Maestà. Mordred non mancherebbe per nulla al mondo.

- E che succederebbe se Mordred dovesse vincere, domani?- Ginevra si avvicinò a lei, sorridendo.- Se dovesse essere lui a conquistare la mano di mia figlia...ho buone ragioni per contare sul fatto che non partirà più?

- Più che buone, Vostra Maestà. Intanto, comunque, vi ringrazio per il permesso.

Il sole calò all'orizzonte.

Nessuno, a Camelot, quella notte avrebbe dormito.

 

***

 

- Perché stai continuando a guardare il mio specchio? C'è qualcosa che vorresti vedere?

Malefica non rispose alla domanda della Regina Cattiva, ma ne percepì comunque l'ombra stizzita. La sua amica – ma poteva davvero chiamarla così? – non aveva mai sopportato che qualcuno che non fosse lei si avvicinasse alle sue proprietà, specialmente allo specchio magico.

Malefica le avrebbe voluto ridere in faccia, dirle che la sua stessa madre prima di lei aveva posseduto uno specchio come il suo, e che era anche immune all'effetto della polvere di fata. Ma era la Regina Cattiva che teneva le redini dei cavalli, al momento, e lei aveva tutto da guadagnare da quell'alleanza.

- A dire il vero, sì - ammise infine.- Sarei curiosa di dare un'occhiata a ciò che succede a Camelot.

- Ho già dato personalmente ordini a Morgana.

- Lo so, ho sentito. Ma Tremotino è ancora laggiù, non pensi che sarebbe opportuno controllare le sue mosse? Anche se non potremo evitarle, saremo sempre informate. Non trovi?

La Regina Cattiva arricciò le labbra in una smorfia incerta, ma fece un rapido cenno con la mano in segno di assenso. Malefica non attese oltre e si avvicinò allo specchio.

Sua madre ne aveva uno uguale al castello, e lei sapeva perfettamente come usarlo.

Mosse piano una mano di fronte alla superficie fredda che ritraeva il suo volto.

- Mostrami Camelot.

 

***

 

Era l'alba, e Odette si sentiva stanca come se fosse mezzanotte. E più che stanca, era nervosa. Ma non nervosa come lo era stata durante la sua breve evasione della notte del cigno nero...era un nervosismo spaventato. Sapeva che quello che stava per fare comportava o il successo o l'eterno fallimento, e l'unica cosa che la consolava era la consapevolezza che sir Galvano fosse un buon oratore.

A proposito, che fine aveva fatto?

Questo era ciò che contribuiva ancora di più al suo nervosismo: Galvano le aveva assicurato che avrebbe pensato a tutto lui, ma le aveva detto di tenersi pronta per le nove del mattino – ben due ore dopo l'inizio ufficiale del torneo. Le aveva detto di stare tranquilla, che sarebbe andato tutto bene...ma lei non ci riusciva, e avrebbe di gran lunga voluto essere insieme a lui, dovunque fosse.

Sempre meglio che in camera sua in compagnia di sir Lancillotto!

Odette sbuffò, lanciando un'occhiata di sottecchi al cavaliere seduto all'angolo opposto della stanza.

Le guardie reali erano ancora impegnate, e a quanto pareva era toccato a Lancillotto farle da bambinaia, quella mattina. Odette era quasi stata sul punto di rivelargli l'intero piano di sir Galvano, ma si era morsa la lingua. Tuttavia, il nervosismo non l'aveva abbandonata, tanto che aveva avvertito il bisogno di un po' di compagnia, e aveva chiesto a sir Lancillotto di entrare nella sua stanza a sorvegliarla, invece di starsene in corridoio.

Ovviamente quel bacchettone non ne aveva voluto sapere al primo colpo, e lei l'aveva convinto a entrare solo minacciando di mettersi a strillare se non l'avesse fatto. Voleva solo chiacchierare con qualcuno, avere un po' di compagnia in attesa del momento in cui Galvano sarebbe venuto da lei...lo desiderava talmente tanto che aveva scordato di stare chiedendo alla persona meno di compagnia di tutta Avalon!

Lancillotto alla fine aveva effettivamente ceduto alle minacce ed era entrato...solo per prendere un libro dalla sua biblioteca personale e sedersi in un angolo a leggere in silenzio, con lei che rimaneva a fissare il vuoto come una stupida.

Odette sbuffò di nuovo, mentre l'orologio a pendolo segnava le cinque e mezzo del mattino.

- Avete notizie di sir Galvano?- domandò, tanto per dire qualcosa.

Lancillotto finse non averla sentita, e continuò a leggere.

- Siete sordo?- incalzò la principessa.

- Esce tutte le mattine, e non torna prima delle sei...- borbottò infine il cavaliere, senza smettere di leggere.

- Davvero? E dove va?

- Alla tomba di sua moglie.

Odette rimase un attimo interdetta. Non aveva idea che Galvano fosse mai stato sposato.

Lancillotto la guardò di sottecchi, probabilmente intuendo.

- Lui preferisce non parlarne.

- Non l'ho mai visto al cimitero vicino alla foresta, quando mia madre mi portava a onorare i morti...- osservò la principessa.- Dov'è sepolta sua moglie?

- Molto al di fuori delle mura, e neppure in città. Non saprei darvi coordinate precise.

- Non...non è sepolta in terra consacrata?

Lancillotto evitò di rispondere.

- Com'è morta?- insistette Odette.

- Galvano non vorrebbe che ve lo dicessi, e in ogni caso non è un vostro problema...- il cavaliere posò il libro e si alzò, dirigendosi verso la porta. La principessa incrociò le braccia al petto, immusonita.

- Siete un orso!- borbottò.- Posso almeno sapere come si chiamava?

Era convinta che non avrebbe ricevuto risposta neppure stavolta, ma appena prima di uscire e chiudersi la porta alle spalle, Lancillotto la guardò.

- Lucy.

 

 

 

 

 

 

 

 

Angolo Autrice: TA-TA-TA-TAAAAN XD. Scommetto che questa non ve l'aspettavate XD.

Questo capitolo non sarebbe dovuto essere spezzato in due (avevo promesso a me stessa che non l'avrei più fatto, lo so *si fustiga*), ma numerose richieste sia su FB che su EFP affinché mi sbrigassi a pubblicare mi hanno indotto ad accelerare i tempi. Il prossimo capitolo vedrà il torneo e sarà ricchissimo di azione.

Due paroline su quest'ultimo. In primis, Lancillotto e il suo caratteraccio, nonché l'insonnia. Vi assicuro che niente in Grimm è campato lì tanto per il gusto di farlo, ma avrà un suo perché e una sua spiegazione, così come lo avrà il suo “bestiale” (nel senso di “senza cuore”) comportamento. Il fatto che sir Galvano abbia sposato Lucy intreccia ancora di più Camelot con la vicenda di Malefica (che verrà descritta tra un po')...e intanto: com'è morta la nostra piccola fiammiferaia? Cos'è successo a lei e a sua sorella adottiva? E Mordred starà cominciando a capire che Odile è una persona e non un oggetto? Che vuole fare? Che intenzioni ha con Lancillotto? E Merlino sospetta qualcosa su Morgana? Come farà lei a cavarsi dai guai? Che ha in mente Galvano e come andrà a finire il torneo?

E non dimenticatevi Tremotino che incombe...il nostro stregone come interverrà in tutto ciò? E Malefica?

Ci rivediamo alla prossima puntata ;).

Un bacio,

Beauty

  
Leggi le 6 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Favola / Vai alla pagina dell'autore: Beauty