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Autore: RandomWriter    03/10/2014    6 recensioni
Si era trasferita con il corpo, ma la sua mente tornava sempre là. Cambiare aria le avrebbe fatto bene, era quello che sentiva ripetere da mesi. E forse avevano ragione. Perchè anche se il dolore a volte tornava, Erin poteva far finta che fosse tutto un sogno, dove lei non esisteva più. Le bastava essere qualcun altro.
"In her shoes" è la storia dai toni rosa e vivaci, che però cela una vena di mistero dietro il passato dei suoi personaggi. Ognuno di essi ha una caratterizzazione compiuta, un suo ruolo ben definito all'interno dell storia che si svilupperà nel corso di numerosi capitoli. Lascio a voi la l'incarico di trovare la pazienza per leggerli. Nel caso decidiate di inoltrarvi in questa attività, non mi rimane che augurarvi: BUONA LETTURA
Genere: Commedia, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Un po' tutti
Note: Missing Moments, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'In her shoes'
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RIASSUNTO DELLA PUNTATA PRECEDENTE:
Dopo una corsa frenetica all’ospedale vicino ad Allentown, i Travis ricevono una notizia agghiacciante: le condizioni di Sophia sono talmente gravi che anche l’esecuzione di un intervento chirurgico si associa ad una bassissima probabilità di sopravvivenza. I genitori della ragazza sono disperati ma sono chiamati a prendere una decisione, mentre Erin si rifugia in bagno dove dà libero sfogo alle sue lacrime. Pam cerca di farsi forza per gli altri ma vorrebbe avere Jason accanto a sé.
Inconsolabile, Erin decide di rompere la promessa che aveva fatto a sé stessa e contatta l’unica persona che vorrebbe aver vicino in quella terribile circostanza: Castiel.

 



 
CAPITOLO 34: IL MIO PILASTRO
 
Ormai conosceva a memoria le stampe che aveva alle sue spalle. Non c’era più alcun modo attraverso il quale Pam potesse distrarre la mente dal dolore che, come un cancro, si stava metastatizzando nel suo corpo. Fino a quel momento era riuscita ad incanalare l’ansia e la frenesia per prendere il comando della situazione e cercare di sorreggere la sua famiglia.
Tuttavia le fragili speranze che avevano abitato nel suo cuore prima di sentire le spietate parole del dottor Hogan erano andate in pezzi; l’autoimposizione di non chiamare Jason era una sfida contro se stessa che non poteva vincere. Si odiava, ma aveva bisogno di lui. Disperatamente.
Erano le quattro del mattino e prima di attivare la chiamata, cercò di calmarsi in modo da non fargli trasparire tutta la sua angoscia. Si sentiva in colpa ad approfittare così della bontà del suo ragazzo ma non poteva fare a meno di appoggiarsi a lui. Le sarebbe bastato sentire la sua voce calma e qualche frase a cui avrebbe fatto finta di credere come: “vedrai che andrà tutto bene”
 
Jason sbadigliò sonoramente, maledicendosi per aver lasciato il cellulare acceso. Lui era quel tipo di persona costantemente irreperibile fuori casa o fuori dal suo studio, proprio per l’abitudine di tenere costantemente spento quel fastidioso apparecchio.
A conferma di quanto fosse disinteressato alla tecnologia, il veterinario disponeva di un vecchio modello con i tasti e il cui accessorio più avanzato era il registratore di suoni incorporato.
Quando vide il mittente della chiamata, sgranò gli occhi.
“Pam che c’è?” tagliò corto preoccupato, dopo aver controllato l’ora.
Rimase in silenzio mentre dall’altro capo del telefono la sua ragazza gli stava riepilogando i fatti di quella terribile notte, che stava lasciando il posto al giorno.
L’uomo ascoltò attentamente poi affermò risoluto:
“tra un’ora sono lì, anche meno perché non troverò traffico”
“Jason no, ti prego, avevo solo bisogno di sentirti” lo bloccò Pam, combattuta tra il desiderio di averlo accanto a sé e il senso di colpa per condizionarlo a raggiungerla a quell’ora assurda.
“in che ospedale sei?”
“Jason veramente…”
“Pam! In che ospedale sei? Sono già in piedi e mi sto vestendo” mentì, quando in realtà era ancora al caldo sotto le coperte.
La donna sospirò:
“all’ospedale di Fogelsville… però Jason…davvero…. mi basta solo parlare un po’ con te qua al telefono, poi tornatene a letto”
“ti chiamo dopo allora, mentre sono in macchina” tagliò corto l’uomo, travisando volutamente le parole di Pam.
Dall’altro capo dell’apparecchio seguì un silenzio di qualche secondo, poi sentì la voce commossa della donna:
“grazie…”
 
Quando Erin tornò in sala d’attesa, la zia aveva appena terminato la chiamata. Intercettando il suo arrivo, la donna le andò incontro, informandola dell’arrivo del suo ragazzo di lì a un’ora.
Poco dopo anche i coniugi Travis si unirono alle due donne, senza dire una parola.
La figlia non osò chiedere i dettagli della conversazione che avevano avuto nello studio medico, sia per non sconvolgere ulteriormente il precario equilibrio psicologico dei genitori, sia per non far vacillare il proprio.
Dopo aver scritto quella mail a Castiel, in lei era subentrata la rassegnazione, un sentimento di tacita accettazione di una realtà che non poteva essere cambiata.
 
L’orologio segnava le quattro e un quarto del mattino quando un’infermiera grassoccia li invitò a seguirla.
Come aveva anticipato il dottor Hogan, solo tre persone erano ammesse in terapia intensiva, così Pam si fece da parte, annunciando che avrebbe aspettato l’arrivo di Jason in quella sala d’attesa così deserta e inospitale. Peter annuì. Per una volta le circostanze gli impedivano di fare alcun commento sul fidanzato della sorella, anche perché se l’avesse fatto, dalle sue labbra sarebbero solo uscite parole di gratitudine per un uomo che non aveva esitato un secondo a mettersi al volante nel cuore della notte.
I Travis seguirono la loro guida vestita di bianco fino a una pesante porta color antracite che l’infermiera spinse con un certo sforzo. Si trovano così in un corridoio bianco e asettico, illuminato a giorno, tanto che ai visitatori ci volle qualche secondo per abituare gli occhi a quella luce. La donna li guidò in uno stanzino dove porse loro dei camici verdi, delle cuffie per capelli e dei guanti, spiegando brevemente il comportamento da tenere nel locale dove era stata sistemata Sophia. L’infermiera aprì una seconda porta e così la famiglia Travis, dopo mesi, si trovò tutta riunita in un’unica stanza.
Amanda fu la prima ad avvicinarsi alla ragazza, seguita da Peter, il cui sguardo si era addolcito nel momento stesso in cui aveva posato gli occhi sulla silenziosa paziente. Cominciò ad accarezzarle delicatamente la mano, alla vista di quella figlia scapestrata che tanto lo faceva preoccupare.
Quella stanza veniva rimpicciolita dal gran numero di complicate apparecchiature elettroniche che la sovraffollavano e che in un modo o nell’altro si collegavano al corpo di Sophia.
Quando toccò ad Erin farsi avanti, avvertì una fitta al cuore.
Eccola finalmente, dopo mesi di lontananza.
La sua Sophia era molto diversa da come la ricordava: la sorella si era sbarazzata della sua lunga chioma con un taglio corto e disordinato. Sulla spalla, le scendeva una treccina di tessuto colorata, una testimonianza dell’originale lunghezza dei suoi capelli che apparivano più rossicci.
 
 
La gemella sembrava dormire beata, ignara delle preoccupazioni che stava causando alle persone attorno a lei. In effetti era insito nella sua natura quello spirito libero da ogni condizionamento affettivo.
Sophia era così: agiva d’impulso, viveva ogni giorno al massimo e lasciava che fossero gli altri a preoccuparsi delle conseguenze.
Per un po’, dopo il loro allontanamento, anche Erin era diventata così, stupendosi della facilità con cui era riuscita a plasmare e modificare la propria personalità ma poi, da quando aveva parlato a Castiel dell’esistenza della sorella, aveva pian piano recuperato la propria identità.
Tuttavia non poteva dire di essere tornata esattamente quella di prima: era diventata più forte e sicura di sé, almeno così aveva creduto fino a quando non si era trovata in macchina, in una corsa impazzita verso Fogelsville.
In quella stanza di ospedale, in cui il tempo era scandito dai tik tik regolari dei macchinari, non era più così convinta che il suo animo si fosse fortificato.   
Sophia aveva una mascherina attaccata al viso, così la madre le baciò la fronte, dopo averle scostato un ciuffo ribelle.
“possibile che tu debba essere sempre così scapestrata tesoro?” la rimproverò dolcemente, continuando ad accarezzarle la pelle liscia.
Peter accarezzò la schiena della moglie, consapevole degli sforzi che stava facendo nel trattenere un pianto disperato. Era da più di tre mesi che non si incontravano e, all’afflizione di trovarla in quello stato, si sommava la nostalgia per quegli occhi vispi e intelligenti che ancora non potevano ammirare.
Le palpebre di Sophia erano irrimediabilmente abbassate a causa del sedativo che le era stato somministrato.
“domani ti trasferiranno ad Allentown” le disse Peter, fingendo che la figlia potesse sentirlo “lì l’ospedale è più grande… almeno passerai il Natale nella tua città… del resto immagino fosse quello il tuo desiderio visto che ti hanno trovato a pochi chilometri da casa”
Erin inspirò a fatica.
Anche lei era giunta alla stessa conclusione: Fogelsville distava poco più di nove miglia da Allentown ed era improbabile che la ragazza si fosse trovata a passare di lì per caso.
Sophia aveva finalmente deciso di ritornare a casa ma il destino era stato così beffardo da ostacolarla quando era ormai al traguardo.
Amanda le accarezzò i capelli che in altre circostanze avrebbe criticato per il look troppo alternativo che conferivano alla figlia:
“sei bellissima tesoro. Te l’ho sempre detto che tutto quell’ombretto nero nascondeva il tuo viso angelico” mormorò, accarezzandole la guancia.
Le infermiere infatti avevano provveduto a pulire il corpo della ragazza, rimuovendo ogni traccia di sangue e con esso, anche di trucco.
Erin non aveva ancora parlato, così il padre la cinse per le spalle:
“tu non dici niente a tua sorella?”
La ragazza si morse il labbro:
“posso restare da sola con lei?” mormorò sommessamente.
Amanda e Peter si zittirono. Per loro era così difficile separarsi dalla figlia, dopo averla vista così pochi minuti ma sapevano che era la cosa giusta da fare.
La madre passò una mano sulla schiena di Erin, quasi volesse trasmetterle una forza che non aveva e seguì il marito, all’esterno della stanza.
Prima che la porta si chiudesse, Erin la sentì esplodere in un pianto che davanti alle figlie aveva trattenuto fino all’ultimo.
Quel colpo era stato troppo duro per lei, specie perché si era verificato a così breve distanza dal primo incidente che aveva coinvolto anche Erin.
La ragazza tornò a fissare la sorella.
Dormiva così tranquilla e serena. Un ricordo che più volte le tornava alla memoria, le affiorò anche il quel momento.
 
“sei una fifona Erin! Ti spaventa tutto!” esclamò una bambina con i capelli raccolti in un codino.         
“non è vero!” piagnucolò la sorella “sei tu che sei troppo spericolata!”             
Sophia scoppiò a ridere, eccitata per quell’attributo che interpretò come complimento e, a conferma delle parole usate dalla sorella, si lanciò dall’altalena.  
“attenta!” le gridò la sorellina che si stava dondolando dolcemente. 
Sophia volò per un paio di metri per poi rotolare a terra sulla sabbia morbida. Erin preoccupata le corse incontro, scendendo cautamente dall’altalena. 
“Sophia! Sophia! Rispondimi!” la supplicò con la tenera vocina di una bambina di otto anni.
Scosse la sorella per le spalle e quando la voltò, vide che stava trattenendo le risate.
“non prendermi in giro! Sei stupida!” borbottò Erin offesa, allontanandosi da quella piccola burlona. 
“eddai Erin! Come sei permalosa” minimizzò la gemella, scrollandosi la sabbia di dosso.

 
“perché devi sempre farci preoccupare così Fia?” la rimproverò teneramente, stringendole delicatamente la mano abbandonata lungo il fianco.
Seguì con lo sguardo il percorso del tubicino della flebo che dal braccio arrivava fino al contenitore sospeso in alto, accanto al letto della sorella.
ti ricordi quello scherzo stupido che facevi spesso quando eravamo bambine? Mentre giocavamo, fingevi di ferirti seriamente e di essere in punto di morte. Tonta e ingenua come sono sempre stata, ci cascavo ogni volta e mi mettevo a frignare per te. Tu poi scoppiavi a ridere ed io mi arrabbiavo.
Dopo un po’ ho smesso di crederti e di piangere, perché ero stanca delle tue burle… però ora non sai quanto vorrei che mi prendessi in giro un’ultima volta”
Sophia non si mosse, né reagì in alcun modo.
Nemmeno la lacrima solitaria che le bagnò il dorso della mano sortì alcuna reazione nella paziente.
Il suono regolare dei macchinari e le indicazioni incomprensibili sui vari monitor, confermavano che nulla era cambiato.
Erin asciugò con un gesto delicato ma deciso quella goccia salata che sparì all’istante. Magari sarebbe così semplice cancellare anche lo strazio che le impregnava il cuore.
L’elettrocardiogramma segnava un battito regolare ma, Erin lo sapeva, sempre più insufficiente per la sorella.
Rimase lì per qualche altro minuto, in silenzio, accarezzando con dolcezza quella mano così simile alla sua. Aveva così tanto da dirle eppure ogni parola le sembrava inappropriata in quella circostanza.
Dopo un po’ entrò l’infermiera, così Erin fu costretta a salutare la sorella, posandole delicatamente le labbra sulla fronte, come aveva fatto sua madre poco prima.
 
Quando tornarono in sala d’aspetto, trovarono Pam impegnata in una conversazione con Jason. L’uomo era davanti a lei e le sorrideva colpevole mentre lei manifestava tutta la sua preoccupazione:
“si può sapere quanto hai corso?”
Proprio a causa dell’alta velocità si trovavano in quell’ospedale e non avrebbe potuto sopportare che anche al suo ragazzo accadesse qualcosa del genere, anche perché era stata proprio lei a chiamarlo.
“non preoccuparti. Non c’era nessuno per strada” la tranquillizzò lui mentre la ragazza affossava il viso nelle larghe spalle del suo compagno.
Sapeva di averne bisogno ma solo quando si sentì cingere dal suo abbraccio, capì quanto quella necessità fosse disperata. Ora poteva permettersi di sfogare anche lei le sue lacrime.
I Travis assistettero all’intera scena da lontano:
“aspettiamo un po’ qui. Lasciamoli soli” mormorò Peter.
Né Erin né Amanda si sorpresero per quella richiesta. In un momento del genere, persino l’uomo riusciva ad accantonare la sua incredibile gelosia verso le donne della sua famiglia.
In cuor suo cominciava ad accettare che un altro uomo fosse entrato nella vita della sorella e da quello che poteva vedere, avrebbe lasciato Pam in buone mani.
 
Una volta a casa, Jason e la sua ragazza si ritirarono nella stanza della donna dove lei gli raccontò per filo e per segno ciò che non aveva potuto dirgli in ospedale; tale scelta fu motivata anche dalla necessità di lasciare da soli i coniugi Travis che si erano riuniti attorno al tavolo da pranzo. Nonostante fossero le cinque del mattino, nessuno dei due aveva sonno e discutere dell’eventuale intervento della figlia era la loro priorità.
Erin invece salì al piano superiore, consapevole che non avrebbe potuto dare alcun contributo in merito a quella scelta. Entrò nella sua stanza e si abbandonò di peso sul letto, facendo scricchiolare le assi lignee della rete. Si collegò ad internet dal cellulare e controllò la posta: nessuna risposta.
Verificò poi il fuso orario e calcolò che a quell’ora a Berlino erano le undici del mattino.
Chissà cosa stava facendo Castiel e chissà cosa le avrebbe risposto. Non poteva credere che in un momento del genere, il rosso fosse così insensibile da non farlo.
Rilesse la mail che gli aveva mandato nell’apice del suo sconforto e si stupì lei stessa per quelle parole che le erano venute dal cuore:
 
“in questo momento sei l’unica spalla su cui vorrei piangere”
 
Quelle parole spaventosamente vere e frutto della sua fragilità ma non le avrebbe mai pronunciate se fosse stata in sé. Ormai la mail era stata inviata e non aveva bisogno di sommare altre preoccupazioni a quelle che già sovraffollavano la sua mente.
C’era un che di paradossale nel fatto che l’unica persona che potesse alleviare la sua depressione fosse anche l’unica che non potesse raggiungerla.
 
“Erin smettila di frignare! Possibile che tu non sappia fare altro?”
La bambina si strofinò gli occhi umidi, incespicando verso la sorella che come lei, aveva da poco compiuto dodici anni.
“come fai a non piangere mai Soffy?”mormorò, osservando rammaricata i gomiti sbucciati.
“non chiamarmi Soffy!” la rimproverò la gemella portandosi le mani sui fianchi “non lo sopporto! Già mi devo cuccare ‘sto nome da vecchia”
Erin sorrise, dimenticando all’istante il motivo per cui le lacrime le avevano attraversato il viso.
“solo perché hai lo stesso nome della nonna non significa che sia da vecchia, anzi è un nome bellissimo!… e poi nemmeno a me piace il mio nome però non mi lamento quanto fai tu”
“allora scambiamocelo!” ribattè Sophia, illuminandosi come una lampadina.
“ma lo facciamo già quando siamo in vacanza” obiettò la gemella, guardandola con perplessità.
“e io dico di farlo per sempre!” insistette l’altra.
“per sempre?”
“sì, vedrai, mamma e papà non se ne accorgeranno” le promise facendole l’occhiolino.
“perché queste idee strampalate vengono solo a te?” rise Erin.
“perché sono la più intelligente”
“non è vero, hai dei pessimi voti”
“perché non mi applico, lo dice sempre la prof!” ripeté Sophia con un ingiustificabile orgoglio.
Cominciò ad incamminarsi verso casa, poiché ormai si era stancata di giocare nel cortile del condominio in cui abitavano. Erin si affrettò a seguirla per non rimanere indietro.
“perché non ammetti invece che sono più brava di te a scuola?” la stuzzicò.
“beh, io allora sono più brava nello sport di squadra!” si difese Sophia aprendo il cancello.
Insoddisfatta per quel pareggio, la gemella aggiunse:
“io sono più perspicace”
“e cosa vuol dire?” chiese la sorella candidamente, ammettendo spudoratamente la propria ignoranza.
“che vedo le cose prima degli altri”
Sophia scoppiò a ridere ed esclamò:
“tu così? Ma se hai due fette di salame sugli occhi! Non riconosceresti mai il famoso principe azzurro di cui parli sempre neanche se ci sbattessi contro!”
“e invece sì, perché so esattamente come è fatto…”
“biondo, occhi color oro, gentile, premuroso bla bla” recitò a memoria Sophia, canzonando la sorella per le sue fantasie di bambina.
“e il tuo com’è?”
“il mio? Ma ti pare che io credo a queste cose qua! Sei proprio una sempliciotta Erin”
“non è vero!”
“invece sì! I principi azzurri non esistono… e poi scusa… chi ha bisogno di loro?”
Erin aprì la bocca per replicare ma non seppe cosa aggiungere, mentre Sophia si allungava sulle punte per suonare un campanello posto in alto:
“ma Sophia, quello non è il nostro, è quello della signora Dixon!” la avvertì la gemella con apprensione.
La sorella si voltò con un sorriso furbetto ed esclamò, spingendola via di gran fretta:
“appunto, quindi…. CORRRIAMO!”
Le due ragazzine scapparono ridendo, lasciandosi alle spalle una voce gracchiante che proveniva dal citofono:
“chi è?”
 
“allora hai capito? Tu sei me e io sono te”
“magari” sussurrò Erin con un sorriso triste.
“hai detto qualcosa?” chiese Sophia incuriosita, voltandosi verso la sorella.
La vera Erin scosse il capo e la seguì.
Quella stessa sera, Sophia riuscì a convincerla a mettere in atto il suo piano. Le due gemelle avevano lo stesso taglio di capelli, lo stesso viso, la stessa corporatura. Gli unici elementi che permettevano di distinguere l’una dall’altra erano il carattere e l’abbigliamento; quest’ultimo nel caso di Erin era più femminile e curato mentre nel caso di Sophia era rappresentato rigorosamente da tute da ginnastica.
“ma come fai a vestirti così?” borbottò la finta Erin, stropicciando la gonna che era stata costretta a mettersi.
La gemella schioccò le labbra, offesa e si rassegnò ad assecondare Sophia mentre faceva il suo ingresso nella sala da pranzo.
 “mamma che c’è da mangiare?” chiese la finta Erin con non curanza.
Amanda, sin da quando le aveva viste entrare, fissò con curiosità le figlie, alternando lo sguardo dall’una all’altra:
“te l’ho detto dieci minuti fa Sophia”
“ma io sono Erin!”
La donna ridacchiò, intuendo le intenzioni delle due:
“immagino quindi che tu sia Sophia” convenne, rivolgendosi ad Erin.
Quest’ultima annuì, sorridendo con gli occhi per il fatto che la madre non le avesse confuse.
Amanda conosceva le sue figlie, non sarebbe bastato un semplice scambio di vestiti per metterla in difficoltà.
Sophia però continuò imperterrita la sua recita. Se c’era una cosa in cui non era mai stata brava, era capire quando doveva arrendersi:
“Sophia dopo giochiamo a Memory?”
“va bene Erin”
La madre sorrise pazientemente senza dare minimamente corda a quello scambio di battute.
Delusa da quel primo fallimento, Sophia fu ben felice di notare l’ingresso del padre.
In quegli anni Peter era stato da poco assunto alla piscina comunale come istruttore e rincasava all’ora di cena. Salutò sbrigativamente le gemelle che risposero a modo loro a quel saluto e si accostò alla moglie.
“papà, dopo io e Sophia giochiamo a Memory, giochi con noi?”
“va bene Sophia”
“ma io sono Erin!” protestò la finta Erin, sempre più delusa dall’insuccesso della sua trovata.
Il padre rise sommessamente:
“pensate davvero che vi basti scambiarvi gli abiti perché il vostro papà non vi riconosca?”
Sophia si accigliò mentre Erin era divertita dall’ennesimo progetto naufragato della sorella. Ma non solo. Era orgogliosa dei suoi genitori che, senza esitazione, avevano saputo distinguerle. Diversamente da Sophia, Erin si aspettava un epilogo del genere, tuttavia c’era una cosa che non aveva chiara:
“come fai a distinguerci?” chiese al padre con curiosità.
“beh ci sono tante piccole cose che vi rendono diverse tesoro: in questo caso per esempio, appena sono entrato tu ti sei  voltata verso di me sorridendomi dolcemente invece tu, piccola peste” disse scompigliando amorevolmente i capelli di Sophia “mi hai risposto con quella zampetta alzata… mica sono un cane”
“a proposito papà, comprami un cane ti prego!” lo supplicò la ragazzina arrampicandosi sul collo dell’uomo, abbandonando completamente il suo piano bislacco.
“NO! quante volte devo ripetertelo? “
“talmente tante che ti stancherai e alla fine cederai!”
Amanda ed Erin scoppiarono a ridere, mentre Peter cercava di mantenere un atteggiamento serio e inflessibile. Distratta da quelle risate, Amanda non si accorse del sugo che stava bruciando e tolse rapidamente la padella dal fuoco. Con il cucchiaio di legno cercò di eliminare l’incrostazione e si assicurò che non avesse rovinato il sapore della salsa.
Nel frattempo Peter aveva cominciato a giocherellare con Sophia, alzandola di peso per scaricarla sul divano. Con le risate di sottofondo della bambina, Amanda sentì che l’orlo del grembiule da cucina veniva tirato a intermittenza verso il basso.
Abbassò lo sguardo e incrociò gli occhi teneri della sua figlia più timida e introversa:
“mamma” la chiamò Erin “e tu come fai a distinguere me da Sophia?”
La donna sorrise dolcemente e dopo aver controllato la fiamma, si accucciò all’altezza della figlia:
“vedi Erin, quando entrate in una stanza, Sophia è sempre un passo davanti a te”
A quelle parole, Amanda vide chiaramente che il volto della figlia si era rabbuiato: Erin aveva annuito comprensiva, si era allontanata dal fornello per poi sedersi in tavola ad aspettare pazientemente che la cena fosse servita.
Anche se cercò di non darlo a vedere, alla psicologa non sfuggì che c’era qualcosa che impensieriva la ragazzina e ne ebbe la conferma quando, finito di cenare, si rifiutò di giocare con la sorella per starsene da sola in camera. Sophia, che di natura detestava impicciarsi degli affari altrui, lasciò alla sorella il suo spazio e monopolizzò le attenzioni del padre che a malincuore, accettò la sfida a Memory. Contro le sue figlie, il padre perdeva sempre perché non aveva trasmesso loro quell’incredibile memoria fotografica che accumunava le due gemelle.
 
Peter sospirò rassegnato.
Non riusciva a riconoscere la donna che era seduta davanti a lui.
Amanda aveva uno sguardo perso nel vuoto e ripeteva sempre le stesse parole:
“la perderemo comunque Peter. Almeno lasciamola vivere qualche giorno in più, così da poterla salutare. Non posso accettare di mandarla a morire sotto i ferri. Preferisco esserle accanto quando si spegnerà”
Il marito non riusciva a ragionare.
Da un lato gli sembrava che sua moglie avesse ragione: se avesse autorizzato l’intervento, questo sarebbe stato eseguito subito, lasciando appena pochi minuti alla famiglia per salutare la ragazza prima di anestetizzarla.
D’altro canto, se non l’avesse fatto, non avrebbe più considerato lo scorrere del tempo quale percorso in avanti ma come un angoscioso conto alla rovescia.
In una parola, Peter Travis era sconfitto. In passato era sempre Amanda quella che riusciva a sorreggerlo nelle situazioni più tragiche, come quando era morto suo padre.
Ora Peter si trovava da solo a combattere una battaglia che non aveva nessuna forza per affrontare.
 
Amanda salì le scale e fece capolino nella stanza della figlia:
“tesoro, che c’è? Sei stata molto silenziosa a cena”
Erin richiuse il diario che stava scrivendo e lo nascose in un angolo della scrivania.
“niente”
“lo sai vero che non mi si può nascondere niente?”
Erin perpetuò il suo mutismo, mentre Amanda finse di trovare qualcosa da fare in quella stanza. Dapprima sistemò il cuscino, poi distese per bene le lenzuola, riordinò i peluche di Sophia e mise comodamente seduto il vecchio bambolotto di Erin.
Sapeva che prima o poi la figlia sarebbe sbottata, doveva solo trovare delle occupazioni che le permettessero di prendere tempo.
“io sono l’ombra di Sophia mamma?”
Amanda si voltò, sorpresa non tanto per la velocità con cui Erin aveva rotto il silenzio, quanto per la frase che era uscita dalle sue labbra. Sua figlia era seduta davanti alla scrivania e la guardava con intensità, quasi volesse supplicarla di indovinare la risposta che voleva sentirsi dire:
“l’ombra di Sophia?” ripeté la psicologa incerta.
“hai detto che sono sempre dietro di lei… è così che mi vedi?”
 
La povertà del suo linguaggio di ragazzina l’aveva ostacolata nello spiegare alla madre come si sentiva. Dalle parole di Amanda, Erin ne aveva dedotto che la donna la considerasse una proiezione sbiadita e incolore della sorella. Niente di speciale e niente che potesse essere riconoscibile, a meno che non fosse paragonato a Sophia, la sua luce.
 
 Amanda smise di destreggiarsi per la stanza e invitò la bambina a sedersi sul letto accanto a lei, invito però che Erin ignorò. Si rassegnò allora a mantenere quella distanza tra di loro:
“non mi sono spiegata bene tesoro” cominciò, portando le mani in grembo “è vero che quando siete insieme, lasci sempre che sia Sophia a precederti, ma questo non significa che io ti veda come la sua ombra. Tu sei Erin e sei speciale a modo tuo”
“e in che modo?” incalzò la ragazzina, poco convinta. Amanda sapeva cosa stava cercando di fare: sua figlia aveva bisogno di certezze e lei sorrise sapendo di potergliele dare.
“tu Erin sei quella che nei momenti difficili non crolla mai”
“ma io piango spesso!” obiettò Erin frustrata. Non voleva che la madre si abbassasse a dire delle assurdità pur di consolarla.
“è vero, ti capita di piangere per delle sciocchezze” riconobbe Amanda, spiegando con pazienza il suo punto di vista “spesso gli altri bambini si approfittano della tua bontà e speri che intervenga tua sorella a difenderti” continuò, mentre Erin abbassava il capo, sentendo elencare tutti i lati del suo carattere di cui più si vergognava “ma tutto questo non ha a che fare con la vera forza tesoro…ciò che dice di te il tuo comportamento è che sei una ragazzina sensibile, che hai un animo troppo nobile e ingenuo per credere nella cattiveria delle persone e che ti fidi ciecamente di tua sorella…”
“questa è debolezza mamma! Finchè tutti mi vedranno come quella che si appoggia a Sophia, sarò sempre e solo la sua brutta copia” sputò con tono recriminatorio, quasi la donna ne avesse colpa.
 Amanda sospirò sorridendo dolcemente.
“il tuo vero ostacolo Erin è che vorresti essere Sophia, eppure sei una persona meravigliosamente diversa da lei. Lo so che la ammiri molto ma anche tu hai qualcosa che suscita l’ammirazione di tua sorella… ti ricordi cos’è successo quando è morto il nonno?”
“siamo andati al cimitero?” mormorò Erin senza capire a quale conclusione volesse giungere la madre.
“sì certo, ma non mi riferisco a questo: alla veglia del nonno tua sorella era inconsolabile. Non la smetteva di piangere e disperarsi finché non ti sei avvicinata tu e l’hai abbracciata in silenzio.
Mi avete fatto una tenerezza immensa quella volta tesoro… proprio tu, che normalmente piangi per ogni cosa, avevi quell’aria così dignitosa, forte e facevi l’impossibile per trattenere le lacrime perché in quel momento dovevi raccogliere quelle di tua sorella.
Da lì ho capito Erin: tu sei quel tipo di persona su cui si può contare nel momento del bisogno, quando davvero le lacrime sembrano l’unica alternativa e a quanto pare non solo io la penso così”
La figlia la guardò incerta così Amanda proseguì:
“quella sera stessa trovai Sophia in camera, intenta a disegnare. Era molto più serena e questo mi rincuorò così cominciammo a chiacchierare”:
 
“è tutto merito di Erin mamma. Per una volta non sono stata io a consolare lei”
La donna accarezzò la schiena della figlia e replicò amorevolmente:
“oggi siete riuscite a farmi sorridere anche se non ne avevo nessuna voglia tesoro”
Sophia si voltò, con una smorfia dolce che era raro vedere in quel viso dall’aria perennemente canzonatoria.
“sai mamma oggi ho scoperto una cosa molto importante…”
“e che cosa?”
“che potrò sempre contare su mia sorella… Erin è il mio pilastro”
 
Dopo che sua madre le aveva riferito quelle parole, Erin era arrossita, sorridendo leggermente.
Per la prima volta nella sua vita si era sentita apprezzata dalla sorella e quella sensazione, oltre che appagante, era stata un’iniezione di autostima.
Tuttavia custodì dentro di sé quella consapevolezza, senza mai parlarne con Sophia.
Riconosceva che in passato c’erano state delle occasioni in cui era riuscita a tirare fuori una forza che aveva sorpreso lei stessa, quando invece la gemella si era abbandonata allo sconforto, ma Erin non pensava di meritarsi tutta quella fiducia da parte di Sophia.
Sentì dabbasso dei mormorii indistinti e ricordò che in quel momento i genitori stavo discutendo sulla sorte della sorella, mentre lei si era defilata nella sua stanza, chiudendosi all’interno come se la questione non la riguardasse.
Non era questo il comportamento che Sophia si sarebbe aspettata da lei: ora più che mai Erin non poteva permettersi di essere quella persona piena di dubbi e insicurezze che deve ricercare l’appoggio di qualcuno.
Era arrivato il momento di dimostrare che sua sorella non si era sbagliata: lei, Erin, l’avrebbe sorretta.
Balzò in piedi, ignorando il giramento di testa dovuto al cambio repentino di posizione e rotolò giù per le scale. Stava per entrare in cucina, quando le parole della madre la trafissero come un proiettile:
“morirà in ogni caso… almeno lascia Peter che lo faccia tra le mie braccia” singhiozzava Amanda disperata. Il marito non sapeva più dove sbattere la testa, arreso di fronte alla rassegnazione della madre di sua figlia.
“dobbiamo farla operare!” dichiarò Erin con il cuore in gola.
Peter e Amanda sussultarono, voltandosi verso la ragazza che avanzò, portandosi davanti a loro. mentre negli occhi dei due coniugi si leggeva la sconfitta, in quelli di Erin c’era la determinazione a scendere in campo e affrontare l’ultima pericolossissima battaglia:
“Sophia avrebbe voluto questo ne sono sicura! Non avrebbe mai accettato di rinunciare senza tentare il tutto per tutto. Se anche l’operazione non andasse come speriamo, almeno non dovremo vivere con il rimorso di non aver tentato”
“ma tesoro, le probabilità sono” boccheggiò Amanda.
“non mi interessano le probabilità mamma!” ringhiò la mora, sbattendo le mani sul tavolo.
La madre sgranò gli occhi, incapace di riconoscere nella donna davanti a sé quella figlia così fragile e dolce “so che il terrore di perderla ti sta facendo sragionare, ma la perderemo comunque se non facciamo nulla” continuò Erin risoluta.
Anche Jason e Pam, destati da quella discussione, uscirono dalla stanza in cui si erano rifugiati e ascoltarono senza intervenire le parole della ragazza
“preferisco scegliere l’improbabilità di allungarle la vita per altri sessant’anni che la sicurezza di lasciarle un paio di giorni in mezzo a noi… nemmeno il dolore di averla persa sarà più straziante del dubbio di non aver tentato di salvarla”
In cucina piombò il silenzio.
Erin era paonazza, il cuore le batteva a mille e gli occhi le brillavano, quasi a riflettere la sua lucidità di pensiero. Amanda aveva le labbra socchiuse, spiazzata da quella reazione così inaspettata e risoluta mentre il marito, dopo un iniziale sbigottimento, si alzò in silenzio.
Aggirò il tavolo e si portò davanti alla figlia. Abbracciò Erin come non aveva mai fatto in vita sua, quasi invertendo i ruoli stabiliti dalla gerarchia familiare: le parole della ragazza gli avevano infuso un senso di sicurezza comparabile a quello che può trasmettere un adulto ad un bambino insicuro.
Peter non aveva bisogno di parole per spiegarle cosa pensasse in quel momento.
La figlia rispose a quella stretta aggrappandosi al maglione del padre e si staccò da lui solo quando ebbe la percezione che anche sua madre volesse ricevere la sua attenzione:
 “sei cresciuta così tanto tesoro” mormorò Amanda “scusatemi, tutti e due. La disperazione mi ha fatto uscire di senno… tutta questa situazione mi ha distrutto”
Le lacrime della donna avevano smesso di rigarle il viso e il suo sguardo era determinato e risoluto:
“le parole di Erin sono le più sensate che ho sentito nelle ultime ore” riconobbe, avvicinandosi anche lei alla figlia. Le sorrise con gratitudine e le portò una mano sulla spalla:
“forse sarebbe bastato ricordarmi chi è il vero pilastro di questa famiglia”.

 
 
 
NOTE DELL’AUTRICE:
Temo che questo titolo alla Scrubs sia stato piuttosto forviante :-/… qualcuna di voi pensato che Castiel sarebbe tornato a sostenere Erin?
Mi dispiace se vi ho deluso però con questo capitolo (e titolo) volevo segnare una “pietra miliare” del cambiamento della protagonista, la cui maturazione è stata un crescendo per tutta la storia.
È stata quindi Erin a giocare un ruolo determinante nella scelta se operare Sophia o meno.
 
Come mi avete fatto notare nelle recensioni, nel capitolo precedente è stata Pam a tirare fuori una forza inaspettata ma non potevo lasciare che si addossasse il peso dell’intera faccenda… penso sia molto più attinente al suo carattere che prima o poi crollasse e quindi ecco che chiama il suo Jason.
 
Comunque ora che è ufficialmente finito il mio “periodo di cazzeggio puro”, devo ammettere che questo venerdì ha fatto presto ad arrivare e se non fosse perché avevo già il capitolo pronto, (mi bastava solo sistemarlo qua e là), non so se sarei riuscita a rispettare la scadenza che mi ero imposta di pubblicarlo entro oggi.
Per il prossimo mi sono venute talmente tante idee che non so se scomporlo in due di corti o mettere tutto in uno lungo [so già la vostra risposta, ma non ci provate: un capitolo come quello del concerto non lo faccio più, mi ha distrutto XD)… mah… magari intanto lo comincio così nelle risposte alle recensioni (ormai su alcune di voi ci conto ;) potrò azzardare qualche previsione se mi chiederete quando lo metto (vero Lia? ;)]…
Ok dai, preparatevi perché il prossimo sarà un capitolo “impegnativo” (almeno spero di renderlo tale)…
Grazie per aver letto fino a qui :3
Alla prossima!
  
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