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Autore: ToscaSam    04/10/2014    3 recensioni
Questa è la storia di Elena da Travale, detta l’Incantatrice. Giovane donna realmente esistita, che visse in Toscana nel XV secolo. La fantasia vuole qui avviluppare quel che la storia ha lasciato a pezzi e bocconi, vuole ricucire una trama bucherellata dalla quale tuttavia si percepisce un disegno intrigante e misterioso.
Genere: Mistero, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Medioevo
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Ripamarrancia 1406
 
In quei rami annodati c’era sempre stata un’aria diversa dal resto della campagna.
Se gli alberi erano cresciuti ovunque diritti e sani, lì invece erano storti e bitorzoluti. In un’epoca imprecisata, qualcuno aveva costruito attorno a quegli strani alberi, una recinzione di pietra, circolare; un muretto alto mezzo metro, come a indicare che quel che risiedeva dentro il suo perimetro non aveva niente a che fare con quel che ne restava fuori.
Anche il colore dei tronchi e delle foglie era dissimile dal resto della vegetazione: quelle erano querce, scure, larghe, nodose. Anche quando il sole sprigionava tutta la sua luminosità e il suo calore, quel cerchio magico era un’oasi fresca e un riparo dalla luce.
Non piaceva molto alla gente, quel posto.
Non piaceva soprattutto perché era attraversato da un crocicchio .
E i crocicchi significavano malocchio; significavano streghe.
Ebbene, il muro circolare accoglieva al suo interno una divisione in quattro zone, apparentemente naturale, ma intellettualmente inconcepibile. Le querce si diradavano e la terra formava due piccoli solchi che si incrociavano nell’esatto centro del piccolo bosco nel bosco 2.
L’intero boschetto non era più grande della base di un fienile e le strade avrebbero a fatica consentito a un mulo il passaggio, eppure molta gente sapeva che quel posto c’era e stava ben attenta a non passarci nemmeno vicino.
Nell’autunno dell’anno del Signore 1406, tuttavia, qualcun altro univa la sua voce al coro degli uccellini che cinguettavano fra la boscaglia.
Una bambinetta minuta sedeva a cavalcioni su un ramo di una grande quercia del boschetto e canticchiava inventando melodie seguendo il tono degli uccelli. Nessun uccellino entrava nel boschetto scuro, stavano tutti ben al sicuro sui rami biancastri degli arbusti circostanti.
Verso mezzogiorno il sole si era posizionato nella sua solita collocazione regnante ed era sempre abbastanza caldo da far tornare alla mente i rimasugli estivi, ormai passati.
I pochi coraggiosi raggi che riuscivano –o osavano- a penetrare fra le foglie larghe e verdi si riflettevano su una superficie particolarmente brillante e atipica: rossi e increspati ricci, che ciondolavano dal capo della bambina.
La piccola Elena –era infatti proprio lei!- si stava impegnando ardentemente a non stonare sulle melodie degli uccelli canterini, ma le loro imprevedibili note parevano coglierla sempre alla sprovvista.
D’un tratto una voce di donna, da lontano, ruppe anche quel poco legame che la bimba aveva sperato di creare con quel luogo così arcano.
 
« Elena!»
La piccola strizzò gli occhi, come sperando di aver sognato quel rumore sgradito.
« Elena, demonio di bambina! Vieni fuori da lì dentro che io non ti ci vengo di certo a prendere!»
Elena non rispose e valutò bene se  dar retta alla voce oppure fingere di non essere lì.
Sapeva bene che chi la stava cercando l’avrebbe battuta con una verga se avesse tardato ancora a rientrare, e ancora meglio sapeva che il suo nascondiglio per quanto magico non era affatto segreto.
I suoi occhi verdi brillarono  nella vegetazione ombrosa e indugiarono oltre i possenti tronchi annodati, verso dove proveniva il richiamo.
« Elena! Se non vieni subito qui ti prometto che invece del pane bianco oggi ti darò dieci vergate!»
C’era una punta di isteria nella voce della donna.
Dopo una manciata di secondi apparve da dietro un fusto magrolino la capigliatura rossa spettinata della piccola Elena. Si teneva ancora a distanza di sicurezza, pronta a tornare nel suo cerchio sicuro, dove nessuno si sarebbe inoltrato mai per prenderla con la forza.
« C’hai davvero il pane bianco?»
Disse muovendo lentamente le sue labbra incolori. Si mossero in contemporanea anche le guance tonde che addolcivano quel viso, altrimenti acuto e vispo come quello di un felino.
« Si che ce l’ho»  rispose la vecchia signora che, a braccia conserte, aveva assunto un’aria veramente scocciata.
Indossava un lungo vestito giallo, scolorito e sporco all’altezza delle caviglie. Sulle spalle, per ripararsi dai primi freddi, portava una mantella nera, chiusa da una piccola catena arrugginita.
« Non è vero» riprese Elena, fissando i suoi occhi verdi dentro quelli della vecchia.
« Non essere insolente, demonio! T’ho detto che ce l’ho e se te lo dico è vero. Le gambe, la tua sciagurata mamma te l’ha fatte apposta per camminare. Quindi ora torna a casa oppure ti aspetteranno il digiuno e le vergate»
« Per piacere, madonna Altruda. Per piacere! Fatemi tornare un secondo solo a prendere una cosa che ho lasciato».
Gli occhi della bimba erano sempre fissi ma avevano assunto un’aria supplichevole.
Altruda, per quanto severa e anziana, per un secondo trasse un piccolo sospiro e si addolcì.
« E va bene. Ti aspetto qui. Ma devi tornare immediatamente»
« Si, si madonna! Grazie!»
La piccola Elena non sapeva veramente neanche lei che cosa volesse prendere; sapeva solo che il suo divertimento era stato interrotto prima del tempo e un equo prezzo per la pena doveva pur essere trovato. Rientrò da un punto in cui il muro antico era franato e si inoltrò seguendo il percorso del crocicchio. Mentre i curiosi occhi della bambina vagavano alla ricerca di qualcosa da portar via in pegno della sua mancata presenza, sentì un rumore che non si aspettava: un piccolo scalpiccio che smuoveva il tappeto di fogliame sottostante. Lo sguardo di Elena si posò involontariamente nel centro esatto del bosco, richiamata dall’insolito movimento e vi trovò con sua estrema gioia e sorpresa una creatura viva: una cornacchia che si spostava a scatti, reclamando i vermiciattoli che si nascondevano nel terriccio.
L’animale si accorse della presenza sgradita di un essere umano, quindi in un arruffo di penne volò via.
Fu abbastanza: la gioia di Elena era colmata.
Si avvicinò di corsa per raccogliere una piuma nera e lucida, abbandonata dalla fretta del pennuto, poi guardò in alto, verso dove la cornacchia era scappata.
« Grazie! Hai visto che non c’è niente da avere paura? Vallo a dire anche agli altri uccellini! Mi ricorderò di te, che sei la più coraggiosa! Ti chiamerò Bella, perché sei nera come il seme delle Belle di Notte! La tua piuma è un mio amuleto, ora. Servirà per il coraggio!»
« Elena!»
Il richiamo di Altruda giunse alle orecchie della bambina che, ridente del suo gioco, si allontanò di corsa da quella che sentiva essere casa sua.
« Che hai raccattato, sciagurata bimbetta?»
« Guardate monna! È un amuleto per il coraggio!»
La reazione dell’anziana fu del tutto inaspettata dinnanzi alla piuma or ora raccolta: spalancò i grandi occhi opachi come succedeva quando le si posava addosso un insetto che le faceva orrore, digrignò i pochi denti anneriti che coronavano ancora le sue gengive e iniziò a strillare strattonando il braccio della povera Elena:
« Buttala via! Via! Maledetta che sei! Sei una serpe te, ecco che sei! Da dove t’ha partorito la tua sciagurata mamma? Dalla lordura di Satanasso! Con quei capelli! Dalla nascita sei un diavolo! Buttala via! E non farti vedere!».
Assestò a Elena una doppia porzione di schiaffi ben sonori su quelle stesse gote tonde che parevano fatte apposta per essere suonate come tamburi oppure venire accarezzate come a un gatto. La bimba scoppiò naturalmente a piangere e i suoi singhiozzi innervosivano ancora di più la vecchia zitella, che la continuava a percuotere su tutto il corpo mentre la strattonava via. L’amuleto della cornacchia le venne strappato di mano e buttato al vento, che lo trasportò velocemente verso qualche irraggiungibile destinazione. Questo dispiacere fu così forte per Elena che sempre lo portò nel suo cuore, nonostante il tempo e le condizioni, le cancellarono dalla memoria gran parte dell’intera vicenda.
 
Il paese di Ripamarrancia era costruito su un antichissimo insediamento etrusco, ma anche dall’inizio tempi più bui era stato brulicante di vita. Si estendeva su un colle verde e rigoglioso, ombreggiato da folta macchia e ulivi inselvatichiti. Lo divideva dalla sovrana cittadina di Volterra un piccolo fiume chiamato Cecina e proprio per la sua posizione sulla riva sinistra di tale corso, il paese aveva preso il suo nome. I Vescovi e il Comune di Volterra a quel tempo, si stavano contendendo il piccolo castello e il Comune pareva avere la meglio. La giurisdizione stava appunto passando a loro favore, ma gli abitanti di Ripamarrancia non erano convinti di questa dipendenza dalla cittadina.
Il clima non era uno dei migliori per vivere: una carestia locale della fine del quattordicesimo secolo aveva decimato i raccolti e le speranze di sopravvivenza. Da Volterra andavano e venivano contingenti di soldati per le continue discordie con Firenze sul dominio dei castelli vicini.
Oltretutto, da ormai un secolo la Chiesa, attraverso la bolla Super Illius Specula emanata da papa Giovanni XII°, sosteneva che le pratiche divinatorie, magiche e malefiche erano da considerarsi idolatre e quindi eretiche: vicari ed esorcisti vagavano per i villaggi alla ricerca dei presunti stregoni per giustiziarli in nome di Dio.
Quando Elena fu portata a spintoni nella casa della filatrice Altruda, vecchia magnanima ma dura, che aveva preso la bimba con sé quando nessuno la voleva a causa dei suoi capelli rossi, c’era qualcosa di diverso dal normale: ad attenderla, Elena vide un sacco annodato su sé stesso e un giovane uomo sulla soglia di casa che la fissava.
Cacciando via le lacrime, la bimba rivolse il suo sguardo più indagatore verso la sua padrona.
Quella sbuffò: « Non fare quella faccia. Ti ho anche comperato il pane bianco, m’è costato un occhio della testa, sciagurata bambina. È lì dentro e t’ho messo un po’ di cacio salato e bada bene, anche una fetta di lardo. Fatti bastare questo bendiddio e non ti azzardare a tornare indietro o a far confondere il tuo nuovo padrone».
Elena spalancò gli occhi, terrorizzata. Il suo primo istinto fu quello di rifugiarsi nella gonnella di Altruda, unica donna quasi alleata di cui avesse memoria nella sua vita, unico appiglio per la sua sopravvivenza. Ripensò però all’amuleto della cornacchia e alla ferita ancora sanguinante che portava impressa nella memoria. Ricacciò l’istinto e rimase immobile, seria, al centro della piccola stanza.
Altruda la fissava con noncuranza: « Guardala, fa le facce come se avesse grandi pensieri per il capo. Sciocca bambina! Guarda che muso a cane vergato, guarda che pensieri che ha! Lei trama una vendetta, la vedo da qui e il diavolo mi porti se non la conosco. È un demonio, Nanni, un demonio. C’ha Satanasso nello spirito, guarda che occhi che fa! Levamela di torno e se muore non venire certo qui a riportarmi il suo corpicino indiavolato. Alla larga Satanasso! ».
 
E un paio di braccia possenti attanagliarono Elena, ancora immobile.
Quel che la bimba percepì poi, fu un aggroviglio di voci, suoni, rumori, polvere e voci sconosciute, che la mandarono in confusione e parevano soffocare i suoi strilli spaventati.
Quando il torpore della confusione e della rabbia la fecero risvegliare, si trovava in cammino, in mezzo a boschi senza sentieri e in una lunga fila di gente.
Ora, va detto che Elena in futuro non si ricorderà mai di preciso tutto questo, ma qualche nebulosa immagine galleggerà abbastanza nella sua memoria per farle rimembrare quale fosse stata la sua infanzia.
A Elena nessuno dirà mai che Altruda la filatrice aveva stipulato un contratto di matrimonio con un vecchio possidente caduto in disgrazia, ma che aveva conservato il giusto che gli permettesse di campare. E assieme a una vecchia zitella risparmiatrice avrebbe campato anche un po’ meglio.
Altruda non ne volle più sapere di avere fra i piedi quella piccola creatura, così speciale quanto strana. Non aveva tempo e voglia per dedicarsi alle cure di un essere fuori dall’ordinario.
L’aveva raccattata quando aveva due anni, morente, sul ciglio di una strada, tutta avvolta in un panno sudicio. Raccontavano che la sua madre era morta dandola alla luce e che da quel momento in poi nessuno l’aveva voluta. La levatrice, dicevano, era scappata a gambe all’aria e aveva finto di non avere nemmeno assistito a quel parto. La domestica della madre deceduta aveva chiesto il latte a una comare che aveva partorito e aveva pagato con il suo misero stipendio una vecchia cieca perché allattasse l’infante. La domestica era morta quando la creatura aveva appena un anno e quello accrebbe le maldicenze sulla bambina: era nata con i capelli rossi,ricci e il viso coperto di lentiggini, tutti indizi che adducevano a guardarla come un’arpia, una portatrice di malocchio, una strega.
Per di più c’era quell’episodio della domestica morta e da allora non ci fu nessun dubbio fra le dicerie nell’attribuire la colpa all’infante.
Venne poi una madre compassionevole, che aveva perduto il figlio durante il parto; prese con sé Elena, considerando un segno del destino il fatto di essere una senza figlio, l’altra senza madre.
Appena un anno dopo, visto che nessuno osava più avvicinarla e che il prete non la faceva entrare più in chiesa, aveva gettato la creatura sul ciglio della strada ed era fuggita.
Tutti dicevano che era morta e che l’influsso malefico della bambina l’aveva portata al suicidio. Ma nessuno seppe mai niente di lei né lei si fece più vedere.
Arrivò così la vecchia Altruda, filatrice appassita e acida a causa di una vita solitaria e passata a seguire rigide regole come una monaca. Una regola che aveva sempre odiato ma che i suoi genitori le avevano inculcato nella morale, era quella di pensare al prossimo come se si pensasse a sé stessi. Storcendo il naso, Altruda aveva accolto Elena nella sua casa, disprezzandola sempre per quel suo aspetto selvaggio e demoniaco. Le aveva dato il suo cibo, non mancando mai di ricordarglielo.
Ma soprattutto, Elena non avrebbe scordato quel dolore mai e poi mai, le aveva strappato di mano l’amuleto della cornacchia.
La piccola Elena si trovava ora immischiata in un gruppo di pellegrini che raggiungevano chi Volterra, chi altri castelli più lontani. Nanni era un ragazzo di ventinove anni; veniva da Siena e andava non si sa dove. Altruda gli aveva offerto dei soldi per prendersi con sé Elena e lui aveva accettato.
A chi cammina nei boschi non importa niente se una bambina ha i capelli rossi e le attitudini selvagge. Nel bosco si cammina e basta.
E da qui in poi Elena comincerà a ricordare. Ricordare distintamente il dolore dei piedi e le sagome delle foglie secche cadute a terra che si schiacciavano sotto l’incessante movimento della marcia.
 
 
Note:
(2)  si tratta di un boschetto tutt’ora esistente e con le medesime caratteristiche.
  
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