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Autore: hime Hana    09/10/2014    4 recensioni
"Fa davvero così male sentirsi dire Ti Amo??"
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: G-Dragon, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Le lacrime hanno il colore della pioggia torrida, quella che si infrangeva sulle grandi vetrate a vista della palestra. Goccioline infinitesimali che cadevano dall’alto e sbattevano sulla superficie liscia dei vetri, che riflettevano il momento con sfumature di nebbia grigiastra. Scivolavano veloci, ne seguivo alcune, buttata a terra con lo sguardo puntato in alto e le narici piene di quell’odore di cera fresca passata sul parquet. In esse vedevo il colore della mia anima, come se questa fosse capace d’imprigionarne l’esito e il senso del loro pianto.
L’ estasi che si fa tristezza e lega al cuore i fili invisibili della delusione.
Mi mordicchiavo le unghie, e gli avanzi di smalto incrostato di tre giorni prima andavano ad intaccare la mia dentatura altrimenti candida, invidiabile.
I vestiti impregnati di sudore aderivano saldamente sulla pelle, antipatici come colla sulle dita.
La camicetta sbottonata fino al ferretto del reggiseno permetteva al petto di prendere aria e respirare.
Anche i capelli si ribellavano a piccole ciocche da quella restrizione altresì chignon,  che avevo accomodato sulla parte alta del capo la mattina presto.
Passai una mano sul pavimento e avvertii una sensazione di bagnato, ma non perché la pioggia torrenziale fosse penetrata da piccole fessure nelle travi del soffitto. Qui alla YG era stato fatto tutto a regola d’arte.
Non era nemmeno il sudore di ore di allenamento che aveva alimentato quei piccoli specchi d’acqua disseminati attorno al mio corpo come un campo minato.
Avevo gli occhi ancora gonfi.
E sentivo il cuore in gola pompare ancora sangue in circolo.
Ma quel corpo freddo, ghiacciato, ritrovato in fondo ad un cumulo di neve fresca sembrava non appartenermi.
Detestavo dover ammettere a me stessa di aver bisogno di qualcuno. Non mi sarei accontentata del primo viandante straniero che si fosse perso nelle grandi arterie dell’affascinante quanto stregata  Seoul, avevo ben chiaro in mente chi avrei voluto al mio fianco, dopo un’ intera giornata di assenza.
Le sue mani, la sua bocca. Facevano irruzione nei miei pensieri e mi impedivano di pensare ad altro.
Le mani di quel ragazzo che mi ero ripromessa di tenere lontano dalla mia vita. Potevo consultare un vocabolario a riguardo pieno di accezioni dell’ odio per definirlo, eppure tutto questo veniva annullato da una pioggia di dolcezze per la quale uscivo allo scoperto, fuori dal mio riparo di frammenti di cristalli erosi e taglienti.
Un controsenso che mi faceva ingerire acqua e sangue.
 
E mi sembrò di aver accidentalmente lasciato qualcosa in quei trentasei piani di scale percorsi due, tre, quattro volte fino a perderne il conto. Con i muscoli tremanti che chiedevano di fermarmi, e qualche insana e indefinita passione che mi diceva che era la cosa giusta da fare.
Avevo spalancato porte chiuse mettendo da parte l’orgoglio, e collezionato innumerevoli rifiuti. Questo mi aveva spinto a cercare anche nel proibito, a violare il privato. Senza pretese, se non l’intimo desiderio di trovarlo. Mi doveva delle spiegazioni, fin dal saluto mancato di prima mattina, all’ingresso in sede. Avevo fame di sapere cosa gli passasse per la testa, non poteva ignorarmi per un assurdo capriccio e mandare a monte una giornata fitta di impegni, di procedure, di programmi. E poi un suo collaboratore più stretto, accortosi della disperazione che mi mandava avanti, quanto mai stupito mi rivelò che oggi era il giorno della pubblicazione ufficiale di Coup d’Etat, e che sarebbe stato impegnato fino alla sera tardi.
Quella era la priorità di tutto lo staff qua dentro, tutti gli artisti associati avevano ben in mente l’importanza di questa data per il principino della YG, eppure sembrava proprio che io, la nuova arrivata, se ne fosse totalmente dimenticata. Vittima del mio sconfinato egoismo credevo che per qualche strana ragione di artista lunatico non mi volesse calcolare. Mi era apparso così distaccato quella mattina, ma probabilmente era solo sovrappensiero, concentrato su quel calendario giornaliero fitto di appuntamenti.
Bofonchiai  due parole di ringraziamento e tornai sui miei passi, su quelle scale, appoggiandomi al corrimano per non cadere. Annullai e posticipai tutti gli impegni presi per la giornata di stamani: non avrei voluto incontrare stylist, parrucchieri, coreografi, ballerini o chiunque fosse compreso nel folle ingranaggio delle performance live. Nulla avrebbe avuto senso senza di lui.
Mentre uscivo in corsa dall’ingresso principale senza alcun peso sulle spalle, piena di sensi di colpa, scoprii che stava piovendo. Proprio come quattro anni prima, rivedevo in me quell’uscita di scena senza merito e senza gloria.
Questa volta però sapevo dove andare, non sarei corsa via alla cieca.
Stetti un attimo con gli occhi puntati in alto, a raccogliere le lacrime del cielo e lasciare che bagnassero via gli errori di cui ero sporca. Poi corsi verso la palestra, luogo ormai a me caro. Mi tolsi le scarpe lanciandole in una pozzanghera a riempirsi di acqua e fango e richiusi la porta alle mie spalle. Mi levai anche l’impiccio dei calzini, e poi cominciai a ballare, con la musica in testa, che solo io potevo percepire. E i miei movimenti sferzavano l’aria. Roteavo e poi ricadevo a terra con grazia silenziosa, felina.
Tutto il mio corpo era coinvolto nella danza, e le emozioni, anch’esse, danzavano felici.
Scaricavo tutta la tensione lì, nei passi della coreografia del cuore.
Nessun peso più mi teneva a terra, ora potevo librarmi nell’ infinito.
 
Quella che prima era una danza liberatoria, si trasformò in una confusione frenetica.
Sentivo l’amaro di quella giornata in bocca, un peso gravava su di me e mi trascinava a terra.
Erano attimi di sopravvivenza, le forze mi venivano meno ed io non volevo lasciarmi cadere, eppure ricordo di essere piombata a terra senza che neanche me ne accorgessi.  
Ho battuto la testa e si è fatto nero intorno a me.
Non so quanto tempo sia passato, né quando io abbia riaperto gli occhi.
Piove ancora come allora, forse non ha mai smesso.
Vedo i microfoni con i quali avremmo dovuto provare stamattina. Gli asciugamani, le bottigliette d’acqua, un paio di scarpe dai tacchi alti per me.
Non voglio andarmene.
Avevo l’occasione di farlo molte volte prima, ma ho sempre scelto di aspettarlo, di vederlo passare attraverso il vetro della porta scorrevole.
Quell’uomo mi aveva raccomandato di non aspettarlo alzata, ma la mia testardaggine aveva piantato le radici qui.
 
Dicono che la speranza è l’ultima a morire.
 
E non c’è nulla di più vero.
L’avreste detto anche voi, se aveste visto ciò che ho visto io…
 
 
JiYong e Jamie’s POV
Qualcosa fece baccano nella mia mente intontita dalla stanchezza.
Lo stridore della porta che premeva sui cardini.
Mi sollevai sui gomiti per vedere chi fosse, e una scia di profumo familiare prese la via di fuga verso le mie narici.
Inebriante.
All’ingresso della palestra sostava una figura immersa nell’oscurità, apparentemente maschile. Dal suo corpo scendevano a caduta libera infinite goccioline di pioggia.
Improvvisamente un lampo di luce solcò il cielo. Fu soltanto un attimo, ma durò abbastanza da illuminare a scorcio il presunto ospite. Indossava un’ impermeabile blu elettrico che lo copriva fino alle ginocchia, al di sotto del quale aveva dei comodi jeans e ai piedi scarponi da montagna. Una scarpetta fucsia annodata al collo che piuttosto che tener caldo aveva funzione decorativa, un orecchino a forma di croce sul lobo destro che scintillò alla luce.
Non poteva che essere lui.
Quasi inciampai sui miei stessi passi mentre senza indugiare nemmeno un secondo mi alzavo e gli correvo incontro, trattenendo il fiato.
Volevo stare nelle sue braccia, ora.
Non avrei più ingannato me stessa.
 
Quasi lo travolsi come un fiume in piena.
Mi fermai in bilico sulle punte dei piedi nudi, a pochi centimetri dall’essergli addosso.
“Kwon JiYong!”
Il suo nome uscì dalla mia bocca spontaneo, melodioso, quasi come una canzone.
“Ehi! Cosa ho fatto per meritare di essere chiamato con il mio nome per intero?”
Scherzò lui sorridendo teneramente, allungando una mano verso di me. Io però mi ritrassi meccanicamente al suo tocco, spostando gli occhi a terra.
 
Capivo che non voleva essere toccata… eppure io sono così istintivo, in quella carezza perduta c’era tutta l’amarezza che avevo dentro per non averla potuta vedere per un giorno intero. Mi sentivo trascinato lontano da lei a forza, tuttavia lei era con me.
Lei era con me nelle brevi interviste radio, quando gli speaker annunciavano l’uscita dell’album e mettevano in onda le nuove canzoni. Era con me mentre rilasciavo dichiarazioni ai giornalisti famelici e quando firmavo copie limitate da destinare ai negozi di dischi. Non mi aveva lasciato nemmeno un secondo.
Ora necessitavo solo di un contatto fisico.
 
“Queste sono tue?”
Mi sventolò davanti agli occhi le mie scarpette da ginnastica infangate.
Feci per togliergliele dalle mani ma lui le portò in alto, ben lungi dalla mia portata.
“Aaah Kwon ridammele!”
Protestai saltellando su me stessa, ma lui le alzò ancora di più, con un ghigno di sfida. Non perdeva mai quella sua aria provocante, per quanto stanco potesse essere dopo una giornata di lavoro molto intensa.
Esausta, puntai le mani ai fianchi.
“Come credi che torni a casa? Volando?”
Lui si chinò su di me portando il suo viso di fronte al mio, spalancando quei grandi occhi scuri, la fronte leggermente corrucciata e quelle sue sopracciglia che disegnavano un arco perfetto.
“Non puoi camminare nel fango, ragazzina. E comunque ho qualcosa che fa al caso tuo…”
In un batter di ciglia mi slegai da quell’incantesimo con cui i suoi occhi si erano presi i miei e mi sbilanciai leggermente su un lato, notando che Jiyong celava dietro di lui un oggetto molto grande. Sporgendomi ancora un po’ oltre il blu dell’impermeabile firmato notai una macchia celeste, sgargiante.
Sembrava quasi una grande borsa da spiaggia.
Invece era qualcosa che conoscevo bene e di cui sentivo terribilmente la mancanza in questi giorni nella capitale sud coreana…
“La mia valigia!”
Mi feci piccola per passare sotto il suo braccio e la trovai appoggiata allo stipite della porta, nascosta dal cappotto che svolazzava al vento: un trolley azzurro cielo, rigido e molto capiente.
 
Quei suoi occhi erano felicità materiale.
 
Dopo avermela quasi mangiata con gli occhi mi rivolsi a lui che mi guardava con gli angoli della bocca all’insù, a braccia conserte.
“Ma come hai fatto?” mi limitai a chiedere. Erano parole dettate dalla meraviglia.
“Mi sono presentato in aeroporto e ho chiesto se gentilmente potevano far arrivare il bagaglio smarrito della signorina Jamie Yiang il più presto possibile. Ci sono andato ieri sera e due ore fa mi hanno chiamato dicendo che l’avevano già fatto recapitare. Tutto questo è stato possibile anche grazie ad un mio caro amico che lavora negli uffici.”
Mi strizzò l’occhio, come d’abitudine.
Il mio corpo fremeva dal capo alle punte per abbracciarlo.
“Scusami se ho fatto tardi… volevo farti questa sorpresa improvvisata…”
Imbarazzato, alzò piano gli occhi da terra fino ad incontrare i miei.
Prima che potesse scusarsi senza motivo, prima che dicesse un’ altra parola con quel tono di voce basso e intimidito che avrebbe messo me in imbarazzo, gli dissi grazie. Solo questo.
Ma lui allora sorrise, ed anche io, involontariamente, sorrisi.
 
“Beh? Non prendi un paio di scarpe pulite, così ce ne andiamo a casa?”
“Oh, si! Che sbadata!” mi ripetevo mentre distendevo la valigia orizzontalmente sul pavimento in legno e l’aprivo.
Sollevai i vestiti che erano stati appiattiti e sballottati durante il viaggio e trovai le cinque paia di scarpe che mi ero premurata di portare. Con amara sorpresa però mi ricordai di aver un solo paio di scarpe comode da ginnastica, ovvero quelle che avevo ai piedi il giorno del viaggio e che ora penzolavano dalle mani di JiYong.
“Qualcosa non va?” mi domandò Jiyong, vedendomi perplessa.
“Oh, no assolutamente!” risposi risoluta, prendendo il primo paio di scarpe che mi capitò a tiro, senza nemmeno prestarvi attenzione.
Jiyong aggrottò la fronte, incerto.
“Pretendi davvero di camminare su quei trampoli a quest’ora della notte, con questa pioggia battente?”
L’occhio si andò subito a posare su quelle scarpe da serata galante, nere, satinate, lisce con tacco dodici che facevo rigirare tra le mani.
“Dicevi di avere un intero guardaroba rinchiuso e impacchettato in questo trolley da viaggio ma io non vedo una gran varietà di scarpe… sono tutte calzature da sera, alte, eleganti, di un discreto buon gusto. Non hai pensato anche a qualcosa di più comodo, per tutti i giorni? Quando inizierai a salire sul palco costantemente su tacchi alti conoscerai la piacevolezza delle scarpe basse. Le rimpiangono tutti, alla fine.”
Non dissi nulla, non mi dispiaceva affatto starmene buona ad ascoltare i suoi consigli da mentore.  Volevo imparare quanto più si potesse trarre da questo mestiere, e lui pareva saperne molto.
“Aspettami qui.” Mi raccomandò, scivolando negli spogliatoi.
“Qui c’è un piccolo magazzino” lo sentii dire; feci per avvicinarmi al luogo da cui proveniva questa voce smorzata dal rumore di grosse scatole che venivano spostate “Da ragazzo venivo spesso in palestra ad allenare il mio spirito libero, proprio come te. Mi ci fiondavo subito dopo scuola, nel tardo pomeriggio, e se i miei genitori non mi vedevano a casa, sapevano dove trovarmi. Quello stanzino faceva un po’ da camera, con i poster alle pareti, giochi da tavolo, vestiti di ricambio, testi di canzoni che si arrampicavano sui muri... non mi piaceva scrivere su carta.”
Non ebbi il coraggio di entrare, stetti sulla porta. Si era venuta a formare una dimensione privata, intima, soltanto sua, a contatto con ricordi di un’ infanzia vissuta.
“Dovrei ancora avere un paio di scarpe da ginnastica… Eccole!” esclamò trionfante uscendo dal magazzino con un paio di scarpe color giallo evidenziatore. Già allora aveva gusti così… eccentrici?
 
“Sono catarifrangenti, riflettono la luce dalla quale sono colpite, così non rischio di perderti”
 
C’era così tanto miele in quelle ultime parole che mi tenevano legata a lui, sotto la sua ala protettiva di maestro.
“Ti dovrebbero star bene, hai un piede piccolino… le indossavo quando avevo quattordici o quindici anni”
Annuii con un cenno del capo e me le infilai ai piedi: erano molto comode e la misura era azzeccata.
“Andiamo?”
Richiusi la valigia e feci scorrere la porta a vetri sui cardini.
 
Non pioveva più.
E nemmeno me ne ero accorto.
 
“Ha smesso di piovere… il cielo è trapunto di stelle”
 
Per la prima volta vidi spuntare un sorriso ricamato sul suo volto.
Non era la bocca che si apriva di gioia.
Erano i suoi occhi a sorridere.
 
Le avrei messo un braccio intorno al collo, traendola dalla mia parte, e poi avremmo passeggiato con il naso all’insù, alla ricerca di qualche stella cadente fuori stagione. E avremmo litigato per stabilire chi l’avesse vista per prima. Io avrei ceduto dopo l’eccitazione iniziale, lasciando che esprimesse il suo desiderio e lo attaccasse ad una stella. E poi lo avrei espresso insieme a lei, in silenzio. Magari la stella avrebbe scelto di portare su in cielo entrambi.
Ma non feci nulla di tutto questo.
 
Lei già trascinava il suo trolley turchese qualche metro più avanti.
Posso portarti la valigia?” azzardai.
Lei si voltò con occhi di ghiaccio, ma presto il suo sguardo truce si tramutò in mansuetudine.
“Non ci provare, hai lavorato tutto il giorno senza sosta e per di più hai già le mie scarpe in mano. Lascia che me la goda un po’…”
“Come preferisci.”
Allungai il passo e balzai al suo fianco.
Lei sbuffò, guardandomi dall’alto in basso.
“Suppongo che per questo tuo favore io debba sopportarti per tutto il viaggio.”
 
Imboccammo la strada diametralmente opposta a quella che aveva fatto da scenario alle avventure imbarazzanti dei giorni precedenti. Fu una decisione del tutto spontanea per entrambi. In orari diurni sarebbe stata un ricettacolo di persone, essendo la strada più turistica della città. I locali erano ormai chiusi, e questa strada vuota sembrava ancora più vuota. 
 
Costeggiavamo il fiume in silenzio, camminando sulla banchina.
Il mormorio delle onde, la luce fioca dei lampioni.
Il profumo del mare di cui il fiume è invidioso, lo spicchio della Luna.
E i miei occhi si riempiono di stelle.
Trascinavo la valigia sui ciottoli con la testa in alto e lui camminava affianco a me, gli occhi fissi a terra, con le scarpe in mano che perdevano gocce di fango al passaggio.
 
Avrei voluto che qualcuno da dietro ci disegnasse.
Sembrava un’immagine da vecchia cartolina Veneziana.
Un romanticismo d’altri tempi.
 
Il cielo catturò il mio sguardo all’improvviso. Anche lei stava guardando.
E proprio in quell’istante, una scia di brillanti solcò la volta celeste.
 
***
“Allora vado. Grazie per avermi scortato fin qua.”
“Sei proprio sicura? Non vuoi che ti accompagni fino a casa?”
“No, credo di ricordare ancora qualcosa di questa città, anche se manco da quattro anni.”
Ma è lontano da qui?”
“Un quarto d’ora di strada al massimo… credo. Allora buona notte.”
Non aspettò che le rispondessi e fece per andare.
“Dimentichi queste”
Si girò con naturalezza, gli occhi suoi scintillarono al bagliore dei fanali di una macchina che, solitaria, si pavoneggiava in strada. Sembrava quasi felice, sollevata che io l’avessi trattenuta ancora una volta prima di andare via.
Mi sfilò dolcemente le sue scarpette da ginnastica dalle mani.
“Grazie”.
Sembrava quasi che fossimo al termine di un appuntamento: è ormai notte fonda, finisco di lavorare e spero che lei sia ancora lì ancorata al posto di lavoro, la passo a prendere e l’accompagno (quasi) fuori casa. Fosse stato un Drama il personaggio maschile avrebbe preso l’iniziativa di darle un casto bacio sulle labbra. Peccato che con un’attrice così suscettibile, nemmeno Lee Minho si sarebbe avvicinato.
Eravamo entrambi troppo nervosi per concederci un ritaglio di intimità, avevamo alle spalle una giornata lavorativa che  meritava solo di essere accartocciata e dimenticata. Se chiudevo gli occhi potevo ancora percepire i flash abbaglianti delle macchine fotografiche, i rumori della conferenza stampa, le richieste dei giornalisti che si contendevano a spallate una mia dichiarazione.
“Allora buonanotte”.
Aveva fretta di scappare. Con il tacco della scarpa si tormentava le ginocchia.
Cercava di nascondere ogni emozione dietro la sua faccia di bronzo, ma questo non le riusciva molto bene perché il benché minimo stato d’animo traspariva da altre parti del corpo, involontariamente. Un vulcano di emozioni che ogni tanto erutta, ma non hai mai la certezza che esploda.
“Buonanotte”.
E lei se ne andò, con quest’ultima parola tra le tasche.
La vidi camminare a passi incerti, ed improvvisamente si fermò.
“Non provare a seguirmi!” mi avvertì, voltandosi di scatto.
Io mi guardavo intorno con innocenza, facendo spallucce.
“Mi preoccupo per te”.
Lei scosse la testa e ripartì. Io presi a guardarmi le punte delle scarpe per non dare nell’occhio nel caso in cui si fosse girata di nuovo. C’era della terra ormai asciutta sui miei piedi.
Lo strascicare delle ruote del trolley sul marciapiede si arrestò.
“Te ne vuoi andare?”
Alzai lo sguardo e la ritrovai come l’avevo lasciata, di scorcio, con un’aria leggermente accigliata, solo qualche metro più avanti.
“Se è questo il volere della ragazzina…”
Rapida ed indignata girò sui tacchi e si avviò correndo, con quelle scarpette sporche annodate al polso.
Correva avanti come se un mondo più bello all’infuori di me la stesse aspettando lì fuori.
 
“Ma fermati!” in cuor mio gridavo.
 
Nell’inerzia tra il dire ed il pensare lei si faceva sempre più piccola alla vista.
 
“Se la ami fermala, prima che il treno della vita riparta dalla tua fermata”
Così avrebbe detto una persona che conosco. E che non avevo mai preso in considerazione.
 
Mai fino ad allora.
 
“Jamie!!!”
 
Che dolce fremito avere il suo nome tra le labbra mentre si espandeva in quell’incrocio deserto di strade.
E lei si girò, quasi piroettando su sé stessa, con lo chignon che si srotolava ed i capelli che viaggiavano da una parte all’altra del capo.
 
“Segui la luce dei lampioni, non ti abbandonerà fino a casa!”
 
Quella frase detta in un sol grido la raggiunse, e vidi le sue mani librarsi e sospingere l’aria in alto, in segno di approvazione. Ormai non riuscivo più ad udire i suoi passi, così indietreggiai fino a quando la mia schiena non poggiò su una ringhiera traforata. Sospirai e rivolsi gli occhi al cielo, alle stelle. E raccomandai loro di tenere stretta Jamie, lontano da questo brutto mondo di cui lei stava appena facendo esperienza. Questo era il mio desiderio, ma perché sentivo il bisogno di preoccuparmi tanto? Perché doveva succedere a me? Perchè sento il vuoto della sua mancanza quando lei non è qui? Infilai il mento sotto la scarpetta leggera che avevo arrotolato al collo, ma non riuscivo a proteggermi dal freddo. La tasca dei miei pantaloni vibrò. Non avevo degnato il cellulare di uno sguardo per tutta la giornata, non intendevo farlo ora.
 
9 chiamate perse.
 
JAMIE’S POV
Se la memoria non mi ingannava dovevo svoltare a destra, in una laterale della strada principale. Una volta arrivata lì, non mi sarei potuta più sbagliare e sarei corsa dritta a casa. Ma cadevo nuovamente nell’indugio. L’illuminazione di queste strade era un po’ carente… bastava allontanarsi di poco dal centro della città in direzione della scura zona periferica per accorgersene. Come potevo seguire la luce dei lampioni? Sentivo le forze abbandonarmi progressivamente ad ogni passo verso l’ignoto… mi sarei appoggiata qui, all’angolo di queste strade, con la schiena al muro e la testa penzoloni.
Mentre vagheggiavo al buio in bui pensieri incappai sui miei piedi instabili, ritrovandomi a terra.
Anche volendo, non mi sarei rialzata mai più.
Avrei aspettato l’alba dei miei giorni…
 
Jiyong… non ho mai voluto deluderti
 
Mi trovavo sotto l’ennesimo lampione spento, incrostato dalla ruggine.
 
Parlavo con il muro, parlavo con i cocci di terracotta sparsi intorno allo zerbino di un’abitazione, parlavo con questa strada vuota che sembrava ancora più vuota.
Ed improvvisamente sentii qualcosa, un rumore proveniente da sopra la mia testa.
 
Uno sprazzo di luce.  Poi buio. Poi ancora luce. E il rumore di ingranaggi che si azionavano ad intermittenza.
 
E poi la luce si stabilizzò.
E così tutti gli latri, uno ad uno, cominciarono ad illuminare pezzi di strada e poi strade intere, di cui non si intuiva la fine.
Se questa era la luce di cui parlava, non mi sarei mai più persa in vita mia.
 
 
 
 
CAPITOLO IX PREVIEW!!!
JAMIE’S CONFESSION ^-^
È il grande giorno!
Oltre che a cantare dovrò anche pensare ad abbassare con le mani questa minigonna che mi ha propinato la stylist… scommetto che a quel maniaco non dispiace se si intravede qualcosa… umpf perché andare in scena dev’essere così dispendioso?!?! Non mi sono mai esibita di fronte ad un pubblico così vasto… che Hyun Suk voglia mettermi alla prova?!?! Aaah non capisco più nulla! Se la performance non andrà come stabilito o se scivolerò su queste scarpe tacco 12 non arrabbiatevi con me… è colpa dei pochi giorni di prova e di Jiyong che si è addormentato sul suo piatto di riso a pranzo! E della mia voce catarrosa… certo che l’altro ieri ho preso un sacco di freddo… Jiyong poteva almeno premurarsi di mettermi sulle spalle quel suo impermeabile da investigatore privato mal riuscito… ah, devo appuntarmi di essere più professionale d’ora in poi e di chiamarlo “G-Dragon”. E voi mi aiuterete, non è così? G-Dragon, G-Dar--- aaaaaaah è troppo difficile! Non ci sono abituata! Certo che in sua presenza non lo chiamerò mai diversamente da Kwon. Potete scommetterci!
Ma dove si è cacciato? Mi ha piantato da sola al backstage dietro le quinte da un’ora senza farsi più vivo… e se ci intervistano? Io ho già la tremarella!
 
“Non avere paura dei riflettori… fissa la luce e non vedrai tutta quella folla.”
Aspetta… K-k-k-won?!?
Mi aveva tenuto segreto il suo outfit fino alla fine ed ora si presenta così …
*Tempesta ormonale in arrivo* No … non ora … anche le vampate di calore … io non lo guardo negli occhi … io, io non ce la faccio ...
“Ragazzina? Si va in SCENA”
 
 
 
 
BEH NE VEDRETE DELLE BELLE NEL PROSSIMO CAPITOLO!
Hana è FINALMENTE tornata dopo mesi di assenza!!!! Mi aspetto urla da stadio e lanci di uova :””)
Spero che questo capitolo sia stato un degno “comeback” e che abbia ripagato la vostra attesa in modo soddisfacente. Anche questo come avete potuto ben notare è un capitolo cosiddetto “filler” in cui non accade sostanzialmente nulla se non una conoscenza più approfondita tra i due protagonisti.
L’idea di inserire la preview del prossimo capitolo con le “confessioni di Jamie” mi è balzata proprio pochi minuti fa, e mi sembra una trovata simpatica per alleggerire il tono del capitolo in cui si sono affrontati temi importanti in relazione a Jamie e Jiyong. Non so se la inserirò in tutti i capitoli d’ora in avanti, sicuramente metterò anche le “confessioni” di Jiyong :””) Fatemi sapere con un commentino se vi è piaciuta, ad ogni modo ; u ;
Io mi sono innamorata, mentre la scrivevo, della passeggiata romantica di Jiyong e Jamie sulla riva del fiume, attraversando Seoul… dovete immaginarvi Jiyong con la testa bassa, china, con in mano le scarpette gocciolanti di lei, che quasi lasciano traccia del loro percorso insieme, e Jamie che trascina il suo trolley, con gli occhi rivolti alle stelle. Sembrano distaccati, i loro pensieri volano in direzioni opposte ma finiscono sempre per rincontrarsi nello stesso punto.
NON è ROMANTICO?!?!? ; ///// ;
 
Spero di ritrovare le mie vecchie lettrici, in particolare le appassionate recensioniste cui mando un bacio :* e spero anche di attirare così lettrici nuove e sempre più numerose!
 
Non so quando pubblicherò il capitolo successivo, perché farlo mi richiede molto tempo ma ho tutta la storia nella mia mente e man mano che si sviluppa si arricchisce di dettagli, prende nuove pieghe, anche diverse da come l’avevo immaginata ormai mesi fa.
Vi chiedo solo di aspettare.
Sappiate che non lascerò mai questa storia in sospeso, la riprenderei anche ad un anno di distanza!
 
Vi voglio bene!
*slancio affettivo improvviso*
 
Alla prossima!!!
  
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