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Autore: Rosmary    16/10/2014    9 recensioni
{Prima classificata al contest “Così fan tutti” di Matilde di Shabran}
Cosa accade quando verità e menzogna si sovrappongono sino a confondersi del tutto?
Un tradimento, ingiuste conseguenze, cocenti delusioni: tutti dalla parte giusta e tutti dalla parte sbagliata.
Come se non bastasse, gli sembrava d’essere sdraiato su un pagliericcio ispido e rinsecchito, di quelli in grado di pungere senza ferire: nessuno avrebbe creduto al dolore, perché il corpo non aveva marchi – dopotutto, ciò che non si vede non c’è.
Il tradimento, invece, c’era, c’era stato [...]
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio, Dean Thomas, Ginny Weasley, Harry Potter, Seamus Finnigan | Coppie: Dean/Ginny, Harry/Ginny
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
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I personaggi presenti in questa storia sono proprietà di J.K.Rowling;
la oneshot è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.


 

Domenica 21 maggio 2000, ore 17:43

Il piccolo studio di Barnabas Cuffe era impregnato del fortissimo odore di tabacco della pipa che l’attempato direttore della Gazzetta del Profeta si ostinava a fumare. Scartoffie varie e diverse boccettine vuote d’inchiostro coprivano il ripiano in ebano nero della scrivania, mentre lui, seduto sulla comoda poltrona, continuava a fissare il giovane dipendente che gli era dinanzi, studiandone ogni più piccola espressione del volto attraverso le lenti rigorosamente quadrate.
Quando la lampada a olio che illuminava l’ambiente sembrò intenzionata a spegnersi, Cuffe con un pigro colpetto della bacchetta l’alimentò nuovamente. Al ragazzo infastidì quel gesto: avrebbe preferito il buio, e di gran lunga.

“Allora?” incalzò Cuffe. “Sto aspettando.”

“Mi dispiace, signore, ma non posso farlo.”

Gli erano costate quelle parole, tantissimo, e Cuffe poteva intuirlo dal tremolio assunto dalle labbra, dal tono di voce stranamente forzato, strozzato, dal sudore che gli impiastricciava la fronte e forse anche le mani – mani che si intrecciavano tra loro stizzite, volubili, tese. L’esperto direttore non aveva dubbi: quel ragazzo avrebbe vacillato e infine ceduto con la giusta dose di pressione.
Con un sorrisetto apertamente ipocrita che smosse i baffetti curvati all’insù, Cuffe fece cenno all’altro di accomodarsi sulla sedia dinanzi alla scrivania. Il ragazzo, impacciato e nervoso, eseguì.

“Perché non può farlo?”

“Offenderei la mia e la sua intelligenza se le rispondessi.”

“Sagge parole,” concesse tranquillamente Cuffe. “È proprio per questo che voglio lei. Nonostante la giovane età, ha dimostrato maturità, saggezza e una naturale abilità per la scrittura giornalistica. È la persona adatta, mi creda.”

Un lusingato sorriso corruppe le sottili labbra del giovane mago, ma svanì immediatamente e lo fece in favore di un’espressione ancor più rigida e colpevole. Quelle parole non avevano lasciato l’aspirante giornalista indifferente, ma la coscienza gli imponeva di non prestar loro attenzione. Non poteva accettare quell’incarico, non poteva. Il costo del successo, in quella particolare circostanza, sarebbe stato eccessivamente elevato.

“Mi dispiace, signore,” ribadì.

“Ne è assolutamente convinto?”

“Sì.”

“Molto bene, sarà la cara Rita a occuparsene.”

“Cosa? No! Non può! Non…”

“Ragazzo, si risieda immediatamente e si dia un contegno,” rimproverò energico Cuffe, notando lo scatto d’improvvisa aggressività dell’altro. “Non è il giornalino scolastico questo e lei non è tra i suoi amichetti. Questa è la Gazzetta del Profeta e le confesso che mi sta molto deludendo. Forse, mi ero sbagliato su di lei: se non è in grado di mettere da parte i suoi affari privati, non ha la stoffa per questa professione.”

Seduto nuovamente e già pentito dell’istintiva reazione, il giovane assimilò le parole del direttore come fossero una condanna. Inerme, deglutì rumorosamente e strinse i pugni così forte da far sbiancare le nocche. Aveva uno sguardo ch’era un misto tra il profondamente ferito e il profondamente umiliato. Ma non c’era rabbia in quegli occhi, né nella sua persona. In fondo, comprendeva l’atteggiamento di Cuffe, addirittura lo condivideva: non solo aveva appena osato rifiutare un’occasione d’oro, ma aveva avuto l’ardire di contestare la scelta di affidare l’incarico alla Skeeter – lui, lui che era meno dell’ultimo arrivato!
Cuffe, come già in precedenza, si lasciò andare a un sorriso; fu accendendosi la pipa che fece cenno al ragazzo di prendere le sette fotografie, quelle oggetto del discusso articolo.

“Sta facendo la scelta giusta. Non solo Rita sarebbe molto meno, come dire, accomodante di lei, ma per lei stesso sarebbe anche penalizzante perdere un’occasione simile. Io ho grande fiducia in lei, sto puntando su di lei, non mi deluda: detesto aver torto.”

“L’articolo sarà pronto per domani.”

“Ha due ore,” lo contraddisse Cuffe. “L’articolo andrà in stampa questa notte e domani sarà sulla prima pagina della Gazzetta. Gioisca, giovanotto! La prima pagina è anelata da tutti.”

Vinto dall’ambizione mescolata alla vanità, il ragazzo annuì, acciuffò con dita sudaticce le fotografie e le infilò nella tasca dei pantaloni. Alzandosi, riuscì soltanto a biascicare un buona serata e a chiudersi veloce la porta alle spalle, consapevole d’aver sotterrato in quella stanzetta la coscienza e l’amicizia assieme alla puzza di tabacco.
*
 
Lunedì 22 maggio 2000, ore 09:00

Quando quella mattina si era alzato dal letto e si era preparato per recarsi al Quartier Generale degli Auror, non aveva previsto d’essere adocchiato e additato da perfetti estranei lungo il tragitto.
Timoroso d’aver macchiato la divisa di dentifricio o di avere qualche strano animale tra i capelli o d’aver messo i pantaloni al contrario, appena giunto al Ministero si specchiò in uno scomodo vetro, che aveva però il pregio di riflettere la propria immagine – un po’ distorta magari, ma meglio di niente –, e nulla nell’aspetto sembrava essere fuoriposto. Per sicurezza controllò anche i denti, ma, no, nessun pezzettino di cibo vi era incastrato.
Con un’alzata poco convinta di spalle, il mago si decise a infilarsi nell’ascensore che l’avrebbe condotto al solito piano, temporeggiando prima di lasciar chiudere le porte per permettere a colleghi e visitatori di entrare. Fu strano: contrariamente a quanto accadeva ogni giorno, nessuno entrò; anzi, una dozzina di maghi e streghe preferì aspettare l’altro ascensore piuttosto che condividere l’abitacolo con lui.
Con una seconda alzata di spalle, ancor meno convinta della prima, il giovane guardò le porte chiudersi e intrappolarlo solo nell’ascensore. A quel punto, iniziò bambinescamente ad annusare l’aria e poi se stesso alla disperata ricerca di una spiegazione a tutte quelle stranezze. Proprio quando s’era convinto a togliere le scarpe per controllare anche i calzini, le porte si schiusero e la metallica voce gli annunciò di essere giunto a destinazione.
Uscì con circospezione dal piccolo spazio e si diresse a falcate svelte verso la stanzetta che accoglieva gli Auror. Lì dovette registrare l’ennesima stranezza: la porta era chiusa – ed era la prima volta che la vedeva chiusa. Senza bussare, abbassò la maniglia e si palesò ai presenti, che notò essere già in tanti e impegnati a parlottare con una certa passione. Peccato che, non appena uno dei colleghi s’accorse di lui, la stanza piombò nel silenzio.

“Buongiorno?” azzardò, guardando dapprima tutti e poi cercando i propri amici, cui rivolse uno sguardo interrogativo.

“Hai anche la faccia di presentarti qui?”

Quel ringhio, acclamato dagli altri con una sequela di ben detto, giusto, digliene quattro e simili, apparteneva a Ron Weasley. Per Dean Thomas fu assolutamente impossibile non fissare allucinato l’amico, quell’amico da cui avrebbe voluto spiegazioni e sostegno, non certo accuse.

“Ma di cosa parli?”

“Parla di questo.”

Dean, più confuso che mai, si voltò e si ritrovò faccia a faccia con Harry Potter, che, contrariamente al solito, non aveva l’espressione amichevole e il caffè tra le mani: anziché il caffè, stringeva una copia della Gazzetta del Profeta e aveva l’aria di chi era sul punto di divorarsi vivo il prossimo.
Dean istintivamente arretrò e gli occhi di Harry parvero registrare quel gesto come una sorta di originale ammissione di colpa. Non temporeggiò oltre il Prescelto e lanciò contro Dean la Gazzetta.

“Leggi la prima pagina,” impose duro, trattenendo l’impulso di spaccare la faccia a quello che aveva reputato un amico sino a qualche ora prima.

Ginevra Weasley tradisce il Prescelto con l’ex fiamma Dean Thomas… Ma che… Articolo di… No, no… Harry, NO!”

“Non provare a difenderti, Dean, ci sono le foto. Capisci? Le foto, cazzo, le foto!” inveì Harry, del tutto dimentico delle buone maniere. “Hai visto chi l’ha scritto? E non l’avrebbe fatto se non fosse stato assolutamente certo.”

“Stai sbagliando, Harry,” affermò Dean, riacquistando in minima parte una certa compostezza. “State sbagliando tutti,” aggiunse guardando gli altri colleghi.

I colleghi in questione non fecero un passo verso Dean, né mostrarono perplessità: erano tutti convintissimi che il giovane Thomas stesse spudoratamente mentendo dinanzi all’evidenza.
Harry, che era del loro stesso avviso, era tutto rosso in volto e la sua bacchetta, stretta nella mano destra, scintillava pericolosamente, pronta all’attacco. Quando un paio d’ore prima Claire, la segretaria del Capo Auror, gli aveva mostrato la copertina della Gazzetta col titolone e una foto che ritraeva Ginny e Dean nell’atto di baciarsi, non aveva voluto credere ai propri occhi. Non Ginny, non Dean, non loro. Lei era il suo amore, lui un suo grande amico, un alleato, ora un collega. Non aveva voluto credere Harry, ma poi era arrivato Ron – cui qualcuno aveva gridato il succulento pettegolezzo con malizia – e la rabbia impulsiva di Ron s’era presto mescolata a quella latente di Harry. Avevano letto l’articolo insieme, un articolo che, contrariamente al titolone, era molto meno pungente e sibillino, ma descriveva comunque un incontro tra Dean e Ginny ai Tre Manici di Scopa che avrebbe avuto il merito – secondo il giornalista – di riavvicinare i due ragazzi. Si parlava di sorrisi, di carezze, di rossori in quell’articolo, e si parlava di baci. Come se non bastasse, a decretare la veridicità di quelle macchie d’inchiostro c’erano ben sette fotografie che ritraevano Ginny e Dean nell’atto di parlottare, di sorridere, e di baciarsi. O, almeno, così sembrava in quell’unica fotografia che li ritraeva troppo vicini. Ma ciò che convinse del tutto Harry, Ron e chiunque altro era la firma al termine dell’articolo: se lui aveva accettato di scriverlo, non poteva essere che vera la notizia.
E avevano atteso tutti Dean, il traditore, mentre lo scoop si diffondeva ovunque, mentre i più decidevano di prendere le distanze dal ‘viscido doppiogiochista’ che rubava la ragazza al Prescelto. Dean Thomas, in meno di mezza giornata, era il nuovo ‘Indesiderabile numero uno’ della Londra magica. Proprio quel Dean che, profittando del silenzio in cui era piombata la stanza, si curò di fissare per bene quella foto e poi il nome dell’articolista, e di nuovo la foto e di nuovo la firma, mentre i tratti del volto si indurivano e le dita accartocciavano parte del giornale.

“Vattene, Dean.”

A spezzare il silenzio fu nuovamente Ron, che s’era fatto avanti per spalleggiare anche fisicamente Harry. A Dean fu impossibile non sbarrare gli occhi ed esibire una smorfia a metà tra lo sconcerto e la rabbia. Guardò tutti per l’ennesima volta e li vide impettiti, muti e offesi.

“Dean, sul serio.”

“Ron, sul serio? Mi dici sul serio? Siamo amici da una vita e non mi dai neanche la possibilità di spiegare?” domandò con forza. “Neanche tu, Harry?”

“Dean, non ora. Segui il consiglio di Ron: vattene.”

“Anche volendo, non posso. Ti ricordo che io lavoro qui.”

“Prenditi un giorno libero,” suggerì Susan Bones, anche lei tra le file di coloro ch’erano impettiti, muti e offesi. Lei, a quanto sembrava, aveva però scelto di rinunciare al mutismo.

“Susan…”

“Dean,” l’interruppe Susan, “prenditi un giorno libero, sul serio.”

Il tono di Susan, notò Dean, era categorico ma non cattivo, somigliava al tono di un amico davvero intenzionato a consigliare la cosa giusta da fare. Ciononostante, non seppe evitare di ridere nervoso, di accusare Susan, Ron e tutti i loro sul serio, di gettare la Gazzetta a terra e di gridare a Harry ch’era proprio uno stupido a non volerlo ascoltare, uno stupido perché preferiva un ammasso di menzogne che, tra l’altro, cuciva su Ginny un’immagine ben poco lusinghiera.
Per Harry fu troppo: lasciata la bacchetta, si gettò fisicamente contro Dean, tentando in tutti i modi di prenderlo a pugni o a testate o a calci o a schiaffi; insomma, di procurargli del male fisico. Tutto ciò che ottenne, però, fu il cascare a terra assieme al rivale, cozzando entrambi contro il pavimento e, nel caso di Harry, perdendo anche gli occhiali. Ron sarebbe intervenuto di lì a un minuto se non avesse fatto il suo ingresso Gawain Robards.

“Potter, Thomas, in piedi,” impose gelido Robards, osservando i due giovanissimi Auror arrossire di vergogna e ricomporsi in fretta e furia. “Potter, torni a lavoro. Thomas, nel mio ufficio.”

Gli occhi di Dean brillarono d’una luce tetra, sconfitta, mentre il sudore gli impiastricciava sempre di più le vesti e ogni lembo di pelle. Era un sudore freddo, figlio dell’ansia e del nervosismo, un sudore che avrebbe persuaso sua madre a imporgli di mettere via tutti quegli abiti e a concedersi una doccia – ‘prima che ti becchi l’influenza!’ avrebbe detto la mamma. Ma lì nessuno aveva la benché minima intenzione di curarsi del suo stato fisico e mentale, nessuno, compresi i suoi amici.
Amici. Amicizia. Che parole stupide! Seguiva silenzioso il Capo Auror e riusciva solo a darsi dell’imbecille per aver creduto a una buffonata come l’amicizia. Privo della giusta dose di calma e razionalità per bene analizzare la questione, tutto ciò che percepiva era un’irrequieta e fetida sensazione di tradimento. Un tradimento terribile, ancor più di quello della stessa Ginny, che anni prima l’aveva allontanato per tuffarsi tra le braccia di un altro senza il minimo pudore, senza il minimo tatto. E Dean non le aveva recriminato nulla, non a voce alta almeno. L’aveva rispettata comunque, aveva addirittura cercato di capirla. Ma quella volta era diverso: non aveva intenzione di rispettare e capire, aveva solo voglia di recriminare, sbraitare… Sfogarsi, aveva voglia di sfogarsi.
Quando Robards arrestò l’incedere impettito, Dean s’accorse d’essere giunto a destinazione. Fu deglutendo silenziosamente che entrò nell’ufficio del Capo. Era la seconda volta che gli veniva concesso d’accedere a quella riservatissima area; la prima era stata in occasione del colloquio per entrare a far parte degli Auror. Notò con un certo stupore che in quei due anni nulla era cambiato: il solito tavolo in legno massello bistrattato dal tempo, la solita sedia anch’essa in massello con il dritto schienale, la stessa libreria vuota fatto salvo per il ripiano più basso soffocato da atti su atti e, in ultimo, lo stesso appendiabiti stranamente arancione. Per il resto, non un dettaglio in quella stanza denunciava vissuto; se non fosse stato per la generosa vetrata che lasciava filtrare la luce del giorno, nulla avrebbe impedito di confondere lo studio più illustre del piano con un grosso sgabuzzino abbandonato.

“Ho la sua attenzione, Thomas?”

Dean sussultò all’interrogativo e annuì colpevole. Quell’uomo aveva l’invidiabile capacità di comprendere perfettamente su quali lidi viaggiasse la mente di chi gli era dinanzi. Puntato lo sguardo su un Robards seduto dietro la scrivania sulla sedia in legno, il giovane Auror assunse la consueta statica posizione: braccia lungo il corpo, gambe e piedi uniti e capo dritto. In momenti come quello, pensò Dean, dover rispettare pose prestabilite era una vera fortuna; almeno non doveva preoccuparsi di dove mettere le mani o come tenere i piedi.
Anche Robards si concesse dei lenti secondi per osservare quel ragazzo, e sembrava farlo con un certo dispiacere, tanto che gli occhietti vivaci e attenti scomparvero per un istante dietro le palpebre, con un lungo sospiro ad accompagnarli.

“Sappia che non ho alternative, la sua condotta non mi lascia altra scelta.” Congiunse le mani sul ripiano in legno e le strinse con forza, aggrottando l’ampia fronte evidenziata dall’ormai irreversibile calvizie. “Avevo grandi progetti per lei: un ragazzo affidabile, volitivo, votato al sacrificio e già con esperienza. Molto versato nell’arte delle Pozioni, nonostante non abbia concluso il ciclo di studi presso Hogwarts. Molto motivato, molto. Si è presentato qui da me appena dopo la guerra, con l’addome fasciato, i graffi sul volto e ancora zoppicante per la ferita riportata alla gamba. Ricorda cosa mi ha detto quella volta?”

“Che qui c’era il mio futuro, la mia vocazione, la mia giustizia.”

Non si riconobbe Dean nel tono arrochito e vinto che condusse le parole fuori dalla sua testa, che le guidò da Robards. In compenso, ricordava perfettamente la conversazione cui aveva alluso l’altro. Come non ricordarla? Era così vivo quella volta, così pronto, pronto a qualsiasi evento: amputazioni, avvelenamenti, batoste, maledizioni, morte persino. Avrebbe sopportato tutto pur di vendicare i caduti, il dolore, le ingiustizie, il mondo andato allo scatafascio. Sentiva d’essere l’uomo giusto al momento giusto, affamato di vita, di vita migliore, se non per se stesso, quantomeno per chi sarebbe venuto dopo. Aveva appena diciotto anni all’epoca e sentiva d’appartenere già alla schiera degli adulti disossati dalla barbarie, un adulto col dovere morale di ricostruire sulle macerie e sui cadaveri.
In quei pochi istanti sembrò rivivere il colloquio vecchio ormai di due anni, sembrò riassaporare quella rabbia mescolata all’adrenalina – le mani e la fronte e il corpo intero sudavano come allora. Gli sembrò d’aver di nuovo il disperato bisogno di zoppicare, di passare i polpastrelli sulla guancia nella speranza di percepirla liscia e non molestata dai graffi – che strano.
Robards lo osservò ancora, con attenzione. Anche al Capo Auror sembrò riassaporare quell’evento di tanto tempo prima, poiché poteva percepirle anche lui, la rabbia e l’adrenalina. Sospirò nuovamente e per la seconda volta nascose gli occhi scuri al di sotto delle palpebre rugose e pesanti. Infine, con una velocità stizzita appellò una copia della Gazzetta odierna e mostrò al ragazzo la prima pagina.

“Immagino conosca il contenuto di queste righe.”

“Sì, signore.”

“Immagino anche che potrebbe raccontarmi una versione alternativa dei fatti.”

“Sì, signore.”

“Immagino ancora che, eccetto un’ipotetica conferma della sua versione da parte della signorina Weasley, lei non abbia prove a sostegno di quanto direbbe.”

“No, signore.”

No, signore,” ripeté Robards con amarezza. “Devo dimetterla dal suo incarico, Thomas. Consegni ora il distintivo e si preoccupi di recapitare all’ufficio la sua divisa entro ventiquattro ore.”

A quella sentenza senza appello, Dean non seppe se la sensazione che l’aveva assalito fosse disgusto, odio, rancore o semplice pena verso se stesso. Con le gote arrossate dallo sforzo di non esplodere in urla o in qualsiasi altra reazione violenta, serrò a sua volta le palpebre, trasse un bel respiro e s’impose contegno. “Con tutto il rispetto, signore,” esordì piano, “ma questo articolo riguarda la mia vita privata.”

“Vita privata?”

“Esattamente,” confermò con voce più limpida.

“Ginevra Weasley non è vita privata, Thomas; non sia così ingenuo. Nulla di riconducibile a Harry Potter può dirsi privato. Tra vent’anni Potter sarà ancora su tutti i giornali, così come la famiglia Weasley, Ronald in particolare, e la signorina Granger. Lei stesso è stato per mesi circondato dagli avvoltoi per avere dettagli sull’Esercito di Silente e sulla fuga dalla prigione dei Malfoy. Credeva forse che lei e la signorina Weasley sareste stati ignorati?” domandò retorico, esibendo uno sbuffo contrariato. “Ma il problema non è questo, Thomas.”

“Qual è il problema?”

“È di ordine pratico: la professione di Auror non è individuale, occorre collaborare con un gruppo, farne parte. Occorre che vi sia fiducia in questo gruppo e nessuna traccia di dissapori. Essere finito sulla prima pagina della Gazzetta del Profeta con l’accusa di avere una relazione con la compagna di un suo collega è il problema. Non è neanche terminata la prima parte della giornata e lei è stato già protagonista di una rissa.”

“Non l’ho causata io.”

“Sì, invece,” affermò Robards, meno tollerante di qualche minuto prima. “Non è importante che lei abbia o non abbia effettivamente una relazione con la signorina Weasley, è sufficiente che l’opinione pubblica e i suoi colleghi lo credano per generare malumori, sfiducia e liti.”

“Lei è un Auror, come può non importarle la verità?”

“Non è accusato di omicidio, Thomas…”

“Eppure sono sul banco degli imputati!” inveì, allargando le braccia come a mostrare all’altro la propria condizione.

Robards scosse il capo, irritato dall’inaspettata insolenza di Dean. Non aveva affatto voglia di sostenere una discussione con lui, soprattutto perché di lì a breve avrebbe dovuto incontrare un inviato della Gazzetta del Profeta – gli avvoltoi, come amava chiamarli – per un comunicato stampa in cui dichiarava che, appresa con stupore e sdegno la notizia, il reo era stato allontanato. In tal modo sperava di mettere a tacere quantomeno le malelingue relative all’ufficio.

“Non gradisco essere interrotto,” rimproverò, “e questo non è il banco degli imputati, ma la conseguenza delle sue azioni.”

“Se fossi stato io il presunto tradito e Harry il presunto traditore, signore, sarebbe valsa la stessa regola?”

“Questa è una domanda non pertinente.”

“Mi è tutto chiaro,” affermò Dean. “Se ha finito, signore, io lascerei il distintivo e l’edificio,” aggiunse prima che Robards potesse ribattere. Ne aveva abbastanza.

“Proceda pure.”

Dean non indugiò, né si curò di mascherare l’amarezza che prepotente gli imbrattava i giovani lineamenti. Consegnò il distintivo come gli era stato ordinato e si curò di abbandonare quanto più rapidamente possibile il piano e poi l’ascensore e poi il corridoio e poi l’intero Ministero, sbucando nel trambusto Babbano. Solo lì, dove nessuno lo etichettava come un traditore e tutti lo ignoravano, si concesse il lusso di ringhiare dando un calcio a uno scatolone abbandonato nei pressi di un cassonetto dei rifiuti. Strinse più volte i pugni e ignorò la sensazione d’avere in volto in fiamme. Avrebbe voluto urlare, ma urlare avrebbe attirato troppe attenzioni, e lui di riflettori ne aveva già a sufficienza.
Frugò nelle tasche del pantalone e vi estrasse il portafogli, e lì, in una taschina seminascosta, notò con sollievo d’avere la sua piccola e consueta scorta di monete Babbane. Un Thomas, dopotutto, non poteva certo andare in giro senza sterline!, i suoi fratelli gli avrebbero dato del matto in caso contrario. Comprò meccanicamente il biglietto per la metropolitana e, usufruendo delle scale mobili, giunse sottoterra e s’infilò svelto in uno dei vagoni. Viaggiò quieto, lì sotto non era un traditore, per i Babbani il suo era un volto tra i tanti. Il fischio prodotto dal mezzo di trasporto, così come il vociare indisciplinato dei viaggiatori e l’altoparlante che annunciava le varie fermate riuscirono quasi a distrarlo da quanto accaduto neanche un’ora prima. Decise di godersi quei momenti di pausa dalla propria vita, rilassandosi anche fisicamente, prendendo posto su uno dei sediolini, mettendosi comodo; lo meritava.
Ma la vita non gradiva d’essere intrappolata in una scatola con le ruote, la vita era estremamente capricciosa: il viaggio, difatti, terminò presto, troppo presto, e Dean si ritrovò di nuovo immerso nel caos e nel susseguirsi di eventi, emozioni e sensazioni.
Ed eccola lì, la vita che lo aveva atteso oltre la metropolitana: se ne stava seduta sul marciapiede che ospitava il palazzo dove abitavano due delle sorelle Thomas, quelle con cui lui conviveva. Si pietrificò Dean e i suoi muscoli parvero tendersi tutti nello stesso istante. Guardava il coetaneo seduto su quel pezzo di strada e gli sembrava una sorta di sgraziata palla sgonfia, tanto era accartocciato su se stesso. Avrebbe nuovamente voluto urlare, invece si limitò a osservare l’altro destarsi dalla propria trance d’attesa, accorgersi di lui, alzarsi in piedi e fissare gli occhi a terra, occhi vinti e traditori. Se ne avesse avuto la forza e la cattiveria, Dean gli avrebbe assestato un colpo in pieno stomaco soltanto per avere la soddisfazione di vederlo piegato in due, sputacchiare un po’ di saliva e tornare appallottolato sul marciapiede. Ma tutto ciò che fece fu serrare le dita della destra in un pugno e scaraventarle sullo zigomo sinistro di quello che aveva considerato un fratello, il fratello mago, il miglior fratello mago del mondo. Quest’ultimo incassò il colpo gemendo prima e porgendo l’altra guancia poi, invitando Thomas a colpire anche lì, anche lo zigomo destro. E Dean lo fece. E Seamus Finnigan incassò di nuovo.

“Ti ripulisci così la coscienza? Facendoti pestare dal tuo migliore amico?”

“Sei ancora il mio migliore amico?”

“Tu saresti ancora il tuo migliore amico?”

“Mi dispiace, Dean.”

“A me di più.”

Concluse con forza Dean, come se stesse pronunciando un imperativo irremovibile; senza mostrare indugi aggirò Seamus e raggiunse il portoncino del palazzo, così da poter infilare la chiave nella serratura. Solo in quel momento s’accorse d’avere ancora le dita sudaticce, perché faticava ad infilarla, la stupida chiave.

“Finisce così?” chiese Seamus a voce alta, profittando della difficoltà altrui. “Non vuoi neanche che ti spieghi?” insisté. Non rispose Dean, né si voltò, ma smise di cercare la serratura. “Dean, io devo spiegarti...”

“Sono qui, no? Sono qui. Avanti, spiega.”

“Vorrei che mi guardassi in faccia.”

“Mi fai troppo schifo, non ci riesco.”

“Ho sbagliato. Ho sbagliato. Ho sbagliato, e sono venuto qui questa mattina, non erano neanche le otto, ma tu eri già uscito. Non ho dormito tutta la notte, ma quel bastardo di Cuffe mi ha messo un segugio alle costole per impedirmi di avvisarti… Io… io non sapevo che fare! Volevo avvisarti prima che vedessi i giornali, volevo strappare tutte le copie… Il titolo, non l’ho scritto io, Dean. E anche l’articolo…”

“Non l’hai scritto tu?”

S’era voltato Dean e aveva dipinta sul volto la speranza: speranza che non fosse stato Seamus. Aveva pronti persino gli angoli della bocca, che in caso di conferma avrebbero dovuto sollevarsi verso l’alto ed esibire un sorriso rincuorato e luminoso, uno dei bei sorrisi di Dean. Ma la speranza dovette ben presto raccattare tutti i suoi effetti personali sparsi su quel viso e infilarli a forza in una grossa e logora valigia, chiuderla per bene, caricarsela in spalla e andare via. Bastò davvero poco, fu sufficiente il deglutire di Seamus, i suoi occhi impazziti che frugavano ogni angolo a eccezione della figura di Dean, il lieve rossore apparso sulle gote… Oh, Dean conosceva Seamus, lo conosceva anche troppo e non poté evitare di bene interpretare tutti quei segnali.
E Seamus capì a sua volta che Dean aveva letto correttamente ogni espressione, era una verità tatuata a forza nello sguardo assottigliato dell’ex Auror, nelle labbra strette sino a scomparire e nel lieve tremolio delle dita che faceva tintinnare le chiavi.
La vergogna sbranò Seamus come fosse una predatrice affamata e lui una giovanissima preda in fin di vita, con ancora qualche organo funzionante e la lucidità necessaria per percepire tutto il dolore provocato dalla carne azzannata e lacerata. Mormorò un perdonami che non raggiunse Dean e gli diede le spalle, intenzionato a sparire, a fuggire, a lasciarsi dilaniare in solitudine. Fu una mano sulla spalla a mandare in fumo la buona intenzione.

“Mi hanno licenziato,” iniziò Dean, lasciando andare la spalla dell’irlandese. Sedette sul marciapiede e attese che l’altro lo imitasse. “Non avevo letto la Gazzetta questa mattina. Sai che non mi piace il Profeta, leggo solo i tuoi articoli e in genere mi mandi un gufo la sera prima per avvisarmi di comprare la Gazzetta del mattino perché ci sei tu. Mi dici anche la pagina, così evito di cercare e di imbattermi in qualche robaccia. Ma ieri non mi è arrivato niente e io stamattina niente ho comprato. Sono uscito di casa, ho fatto la solita strada e vedevo che mi guardavano e indicavano tutti, gente che io non avevo mai visto mi faceva smorfie o bisbigliava qualcosa guardandomi… Non ci capivo niente. Ho pensato che avessi dimenticato di pettinarmi o mi fossi sporcato o, che ne so, ho pensato che mi puzzassero i piedi… Ho pensato di tutto, ero confuso. Poi sono arrivato al Ministero e lì nessuno mi ha salutato, nessuno ha preso l’ascensore con me, quasi avessi il colera… Sai cos’è il colera?”

“No.”

“Gli irlandesi Babbani lo sanno bene, invece. Avresti dovuto studiare Babbanologia o leggere qualche libro di storia Babbano, tu che sei così fissato con le tue origini irlandesi dovresti conoscere anche la storia non magica della tua nazione. Ma questo non ha importanza, giusto?” domandò rapito, ma non attese una risposta da Seamus, né Seamus tentò di darla. Sapeva bene che Dean aveva l’abitudine di divagare quando era coinvolto in un discorso importante: era bene non interromperlo. “Nessuno è entrato con me e io, io niente… Io sono arrivato al solito piano e sono andato in ufficio. In ufficio ho capito tutto, l’ho capito perché Ron e Harry me l’hanno praticamente urlato contro. Anche Susan era contro di me, e io che la reputavo un’amica. Ma erano tutti contro di me, perché io, a quanto pare, sono l’amante di Ginny. Che buffo, eh? Lo sa la Gazzetta e non io, che ho un’amante. Chissà se Ginny ne è al corrente. Io e Harry ci siamo quasi picchiati, quasi perché Robards ci ha beccati sul fatto e mi ha trascinato in ufficio, lì mi ha licenziato. Tante belle parole all’inizio, mi ha anche ricordato il mio colloquio, e poi mi ha gentilmente invitato a levarmi dai piedi, perché la mia presenza disturba la pace dell’ufficio. Come se non fosse chiaro che il problema è Harry, altro che pace e liti… Il Prescelto è il Prescelto, e nessuno tradisce il Prescelto e la passa liscia. Tranne i Malfoy, ovviamente. Loro portano ancora in giro la loro faccia da assassini, e io sono fuori dagli Auror perché un bastardo traditore scrive che ho una tresca con Ginny.” Si zittì, nascondendo il viso tra le mani per alcuni istanti. Quando riprese, la voce era ancor più corrotta dalla furia. “Vuoi sapere cos’è successo ai Tre Manici? Ci siamo incontrati per caso: lei era stata ai Tiri Vispi che George ha aperto a Hogsmeade, approfittando della settimana libera dagli allenamenti, e io ero lì di pattuglia e avevo appena finito il turno. Ci siamo incontrati e le ho offerto da bere. Abbiamo parlato, era da tanto che non parlavamo… e abbiamo scherzato, ma niente di più. Forse eravamo vicini, ma non c’è stato nessun bacio, quell’immagine è truccata! È un fotomontaggio magico, è un trucco che usano anche i giornalisti Babbani. Io non l’ho toccata, Ginny, non l’ho toccata. Ma a te non importa, giusto? Che t’importa della verità?! Tu volevi lo scoop e te lo sei procurato. Le hai fatte tu, le foto? Magari mi hai seguito. Come funzionava? Venivi a casa mia per cercare tracce di Ginny o per sapere dove avrei passato le serate? Come funzionava, Seamus? Da quando hai smesso di fare l’amico e sei diventato un avvoltoio? Eh? Da quando, Seamus, dannazione!”

Aveva alzato la voce, l’aveva alzata al punto che qualche passante era sobbalzato e s’era voltato in cerca di una spiegazione; qualcuno sprovvisto del cuor di leone aveva addirittura accelerato il passo, timoroso di ritrovarsi invischiato in una rissa. Ma Dean assieme alla voce non alzò altro, le mani rimasero strette sulle sue ginocchia e anche i piedi non si mossero da terra. Non aveva nessuna intenzione di tramutarsi nuovamente in animale selvatico.
Seamus se ne stava di nuovo appallottolato sul marciapiede, incapace di tenere il capo dritto e di scontrarsi per sbaglio con lo sguardo dell’amico: gli occhi di Dean, Seamus lo sapeva, non erano né furiosi, né incolleriti, né agitati. Gli occhi di Dean erano peggiori perché erano feriti. Tutto in quel giovanissimo uomo dalla pelle scura denunciava ferite profonde, dolorose, forse neanche rimarginabili.
Seamus biascicò nuovamente un perdonami e per la prima volta accantonò il tanto decantato coraggio dei Grifondoro, preferendo alzarsi a capo chino e scappare lontano dal proprio migliore amico: aveva affrontato una sanguinolenta guerra, e in lui era ancora vivo il ricordo del tanfo di sangue e sudore, eppure non aveva armi per affrontare Dean. Perché Dean non era un nemico da abbattere, no, lui era amicizia, affetto, fiducia… Sì, Dean era fiducia. E lui l’aveva pugnalato di notte, mentre l’amico dormiva sereno. Lo sapeva Seamus, lo sapeva benissimo, cosa andava fatto; un perdonami non era abbastanza quella volta, né per Dean, né per la propria coscienza in brandelli.
*
 
Martedì 23 maggio 2000, ore 01:16

Girarsi e rigirarsi nel letto non gli era mai parso un movimento indispensabile, eppure quella notte non riusciva a fare altrimenti Dean. Da ore, ormai, tentava d’acciuffare un oblio sempre troppo lontano. Le sue sorelle avevano tentato invano di convincerlo a mangiare qualcosa, a fare uno stupido gioco di società, a guardare un film assieme a loro o anche un programma televisivo col presentatore impettito da schernire e gli ospiti osceni da rimproverare. Ma Dean aveva rifiutato tutto, non desiderava compagnia: dormire, lui voleva solo dormire. Dormire per non pensare, per non infuriarsi, per non soffrire, per non cedere alla tentazione di scovare Seamus ovunque si trovasse e ferirlo ancora.
Nel buio di quella piccola stanza, gli sembrava d’intravedere i profili di se stesso e dell’irlandese, e malediceva la mente per quello scherzo di dubbio gusto e il cuore perché ancora appellava migliore amico l’individuo che l’aveva reso un randagio fuori dal mondo.
Aveva brividi in tutto il corpo pur non avendo freddo. E aveva ogni centimetro di pelle sudato pur indossando solo dei pantaloncini. E aveva la nausea pur non avendo mangiato affatto. E aveva… aveva uno strano ronzio che gl’infastidiva l’udito, uno zzz continuo che non sapeva interpretare. E poi, e poi c’era quel fortissimo bruciore all’occhio sinistro, un occhio bistrattato dalle stesse mani di Dean, che si strofinavano contro quella delicatissima parte del viso. Come se non bastasse, gli sembrava d’essere sdraiato su un pagliericcio ispido e rinsecchito, di quelli in grado di pungere senza ferire: nessuno avrebbe creduto al dolore, perché il corpo non aveva marchi – dopotutto, ciò che non si vede non c’è.
Il tradimento, invece, c’era, c’era stato, perché l’avevano visto tutti! Così evidente, così evidente!
Portò le mani a coprirsi il volto, conficcando le unghie corte nella pelle in un vanissimo tentativo di sfogare la propria rabbia. D’un tratto, di quel letto, non ne poté più e s’alzò, scalciando via il lenzuolo appallottolato tra i piedi. Scalzo e con le dita ora tra i capelli, uscì dalla camera, percorse il breve corridoio e sbucò nel salotto-cucina del modesto appartamento. Bene attento a non produrre rumori che avrebbero potuto svegliare le sue sorelle, Dean aprì il frigorifero e vi estrasse una bottiglia in plastica con dell’acqua.
Bevve tutto d’un sorso.
Mai come quel giorno aveva amato la propria abitazione Babbana. Prima di allora, non era mai stato in grado di apprezzarla: aveva accettato la convivenza con le ragazze solo per motivi di ordine pratico – il costo di un appartamento, seppure in affitto, era elevato anche nel mondo magico –, ma era stata dura, un po’ perché avrebbe desiderato integrarsi del tutto tra i maghi e un po’ perché, essendo abituato ai confort di Hogwarts, dover utilizzare quotidianamente un microonde o un frigorifero o qualsiasi altro aggeggio non magico gli appariva come un eccessivo spreco di tempo ed energie. Peccato che a Hogwarts nessuno gli avesse insegnato come cuocere la carne o tostare il pane, a stento aveva imparato a radersi senza ricorrere al rasoio. Era sempre stato bravo in altro tipo di magie Dean: incantesimi d’attacco, pozioni, trasfigurazione… Quidditch. Quanto gli mancava il Quidditch! Ricordò con penosa collera che anche il Quidditch gli era stato portato via da Harry; non che giocassero nello stesso ruolo lui e il Prescelto, ma Dean aveva all’epoca ingenuamente creduto che Harry, divenuto Capitano, avrebbe dato un’occasione a un vecchio amico.

“Ma quello fa sconto solo a Ron,” biascicò, dando voce ai propri pensieri.

Non se l’era affatto aspettato Dean, che il campanello di casa suonasse a quell’ora tarda. Il suono, s’era udito appena, quasi un timido tintinnio, al punto ch’era semplice credere d’averlo solo immaginato.
Ma i sensi del giovane mago erano bene allenati, abituati a carpire ogni genere di segnale: non crederono per un solo istante d’essersi ingannati. D’istinto, Dean raggiunse con una breve corsa la propria stanza, agguantò la bacchetta poggiata sul comodino e corse una seconda volta, arrivando alla porta d’ingresso.
Con le dita strette attorno all’arma, si concesse ancora qualche secondo per sbirciare l’identità dell’inopportuno visitatore attraverso lo spioncino, ma era troppo buio fuori e non poté dare un volto all’ombra che l’attendeva.
Aprire quella porta, per un Auror – anche se ex – come lui, era un gesto da perfetto sprovveduto, poiché chiunque trafficasse nel sozzo mondo delle Arti Oscure aveva un buon motivo per tendere una trappola ai propri nemici. Lui lo sapeva e non gli importò. Non gli importò dell’assennatezza, della prudenza e di tantissime altre buone qualità: aprì.

“Dean.”

“Ginny?”

Ginny Weasley sostava immobile presso l’uscio, con i grandi occhi scuri arrossati, le gote imporporate dal nervosismo, i lunghi capelli sciolti e ordinati, una tuta da ginnastica indosso e i lineamenti del bel viso incastrati nell’assoluta rigidità. A ben guardarla, era possibile notare le labbra di poco schiuse, come se, pur volendo spezzare il silenzio, le mancasse totalmente l’ardire utile a farlo.
Dean la lasciò entrare quando s’era quasi persuasa che l’avrebbe abbandonata lì, all’esterno della porta di casa. S’infilò rapida nell’appartamento, temendo che un ulteriore indugio potesse convincere se stessa ad andare via, o lui a lasciarla davvero fuori.
Tacquero per alcuni minuti ancora: Dean osservandola incuriosito e preoccupato, Ginny gettando occhiate irrequiete intorno, fingendo che le interessasse imprimere nella memoria ogni minuscolo dettaglio dell’estraneo ambiente.
Il mago si riscosse solo quando si rese conto d’avere dinanzi l’unica persona che, almeno in quel frangente, non avrebbe dovuto incrociare neanche di sfuggita in pieno giorno. Cosa le era saltato in mente?

“Sei qui per accusarmi?” tentò sconcertato. “Credi che sia complice di Seamus?”

“No.”

Gli occhi di Dean parvero accendersi di una luce rinfrancata ed eccitata a quel monosillabo, che ebbe lo straordinario merito di cancellare l’idea che lei non dovesse essere lì. Era stata diretta, e la schiettezza era uno dei pregi di Ginny che aveva sempre amato, assieme alla perseveranza e all’assoluta devozione.
Gli venne in mente che, quand’era stato prigioniero a Villa Malfoy e aveva avuto modo d’incrociare la sadica signora Lestrange, era inorridito al pensiero che quella spietata creatura gli ricordasse Ginny: entrambe potenti, devote e rese folli dall’uomo sbagliato. Forse, s’era ingannato nel giudicare appassionata la voce di Bellatrix quando aveva alluso a Voldemort, nel vederla fremere d’aspettativa all’idea di poter essere fisicamente in presenza del mostro. Forse, forse s’era ingannato davvero, eppure la Mangiamorte era apparsa ai suoi occhi come la versione corrotta della piccola Fenice.
In un batter spontaneo di ciglia, gli parve di riassaporare gli attimi di vita vissuti assieme a Ginny, tormentati finanche nel ricordo dalla consapevolezza che sua non era mai stata. Lo era stata in apparenza, in superficie, mentre covava segretamente quell’amore imperituro per il ragazzo sbagliato. Dean l’aveva sempre etichettato così, Harry – almeno nei propri pensieri. Se gli avessero chiesto perché lo reputasse sbagliato, avrebbe certamente mentito: avrebbe risposto ch’era il Prescelto e non aveva tempo per le ragazze, avrebbe aggiunto che chiunque condividesse le giornate con lui rischiava la vita, avrebbe addirittura detto che Harry, l’arte dell’amore, la ignorava, poiché era avvezzo alla sola arte della sopravvivenza. Quante menzogne! Era sbagliato perché era un altro, ecco tutto. Un altro accanto a lei.

“Perché sei qui, allora?” riuscì a chiederle.

Toccò a Ginny rifugiarsi nel mutismo, cedendo a sua volta a dei ricordi che sembravano appartenere a un passato così lontano da essere indegno persino di menzione. Eppure, scoprì con stupore, tutto era vivido in lei.
Guardava Dean e rivedeva le sue labbra carnose carezzarle le guance, il mento, la bocca. Poteva percepire persino le sue mani grandi e talvolta imperiose stringerle un braccio per avvicinarla a sé, o affondare nei lunghi capelli. E gli occhi di Dean, quelli fremevano tuttora d’aspettativa, proprio come in passato.
Com’era strano essere lì con lui, dopo anni di completo silenzio e superficiali cerimonie. Le sfuggì un sorriso intenerito a quel tuffo nei giorni andati, un sorriso che svanì presto, incapace di resistere al tetro presente.

“Non mi ha creduta nessuno, neanche mia madre,” esordì. “Harry mi ha raggiunta alla Tana, mi ha mostrato la Gazzetta e poi è andato via. Puff, sparito nel nulla. Mamma ha preteso spiegazioni, ma non le sono bastate; non me l’ha detto, ma l’ho capito. Mi ascoltava, annuiva, mi ha persino detto che tutto si sarebbe risolto molto presto, ma non staccava gli occhi dalle fotografie. Lei ha sempre creduto alle sciocchezze scritte sulla Gazzetta, ha tentennato solo dopo lo scandalo di Caramell, ma ora, dice lei, che il Ministero è gestito da Kingsley, nessuno può scrivere frottole. E poi mi ha chiesto di Seamus, ha detto: ‘ma Seamus Finnigan il vostro amico? L’amico di Ron?’. Io ho dovuto dire sì, , proprio quel Seamus Finnigan. Mi ha guardata… non so… come se l’avessi delusa, delusa tanto… Poi è tornato Ron, che non mi ha rivolto la parola. Ha detto solo che l’ho sempre avuta, la pessima abitudine di avere troppi ragazzi. Troppi ragazzi! Troppi! Tre! Sono stati tre! Tre in venti anni!” esclamò furente. Deglutì più volte, nel penoso tentativo di rimediare alla salivazione improvvisamente azzerata. “Papà è stato gentile,” riprese, disciplinando l’insolente tono di voce. “Mi ha rassicurata, ma anche lui come la mamma non riusciva a staccare gli occhi da quella foto. E allora mi ha detto: ‘non preoccuparti, tesoro, se è di questo Dean che sei innamorata, Harry capirà, gli ci vorrà solo un po’ di tempo’. E lì ho capito che neanche lui mi credeva… Di Hermione nessuna traccia, anche se ha sicuramente letto l’articolo. Né una lettera, né quattro righe, né, non so, un qualsiasi segnale strambo. Ma la capisco, lei è la migliore amica di Harry. Sempre dalla parte di Harry, sempre convinta che nessuno più di lei possa capirlo… conoscerlo… difenderlo. Credo che Harry sia da lei ora, e che Ron li abbia raggiunti. Lei consolerà prima Harry e poi verrà da me per avere delle spiegazioni, e mi ascolterà… e mi crederà, perché Hermione sa cosa provo per Harry, mi conosce bene, è anche la mia migliore amica. A quel punto, lei andrà da Harry, e gli parlerà… e lui le crederà. E tornerà da me. Tornerà anche se non è a me che ha creduto, se non è di me che si è fidato. E allora mi crederanno tutti, perché sarà Harry a credermi. Mi crederanno tutti alla fine, anche se nessuno mi ha creduta.”

“Ti capisco.”

“Lo so.”

“Lo sai?”

Ginny calò lo sguardo, fissandosi la punta delle scarpe da ginnastica. “Spero di non aver svegliato anche le tue sorelle,” disse, aggirando del tutto la domanda curiosa di Dean.

“Ho insonorizzato la stanza appena sei entrata.”

“Non me ne sono accorta.”

“Non mi stupisce. Dopotutto, fino a qualche ora fa, ero un Auror.”

“Fino a qualche ora fa? Cosa vuol dire?”

“Che mi hanno licenziato. Avere una relazione con la ragazza di un collega è tra le cause di licenziamento, a quanto sembra.”

“Ma tu non hai una relazione con me!”

“No, ma neanche io sono stato creduto. La verità non importa a nessuno, Ginny, a nessuno. Non dirla mai più, è meglio mentire.”

Lo fissò a labbra schiuse Ginny, boccheggiando stupidamente, conscia di non aver nulla da obiettare a quell’affermazione tanto cruda e schietta. Quando s’era indurito così tanto? Quando? Possibile che fossero state sufficienti una manciata di ore sfortunate per tatuargli la freddezza nell’animo e l’apatia nello sguardo? Lei non poteva saperlo.
Invero, nessuno di quei due giovani traditi aveva la possibilità di sapere o comprendere i propri stati d’animo: tutto era accaduto in un arco temporale terribilmente breve, e gli eventi sembravano non volersi arrestare, ordinare, aggiustare. Dean non possedeva la lucidità per affrontare Ginny e i suoi tormenti, non poteva far altro che ascoltarla prima e vomitarle addosso il proprio veleno poi.
Non se ne avvidero neanche, d’essersi avvicinati tanto, troppo. Eppure, a Ginny e Dean sembrò un giusto epilogo, una giusta punizione e un equo scambio di meschinità ai danni di chi non li aveva creduti, lo sfiorarsi reciproco, l’avvinghiarsi l’un l’altra, lo strofinarsi contro, l’annegarsi dentro.
Le labbra di Dean non faticarono a incastrarsi in quelle di Ginny, e le mani di Ginny non provarono vergogna nel toccare frementi il petto nudo di Dean.

“Ginny,” sussurrò Dean.

“Non preoccuparti,” lo rassicurò lei contro le sue labbra.

“Non sono più un ragazzino,” insisté, “non mi fermerò. Tu… tu hai Harry.”

“Non preoccuparti,” ripeté la ragazza, bisognosa di scacciare Harry dalla propria vita almeno una volta. “Sono una donna, ormai. Non preoccuparti.”

Lo capì Dean, che a guidare quegli occhi arrossati da lacrime versate probabilmente in silenzio fosse la collera mescolata a una gelosia antica di anni. Una gelosia radicata nell’angolino meno virtuoso di Ginny, che s’era cibata nel tempo, giorno dopo giorno, di quel rapporto speciale che Hermione – e non lei – poteva vantare d’avere con il Prescelto.
A Dean non importò e s’impossessò una seconda volta delle labbra della ragazza.
Col solo furioso, e animalesco, istinto a guidarli, si ritrovarono l’uno sull’altra sul piccolo letto del mago, che cigolava indignato a tutto quel peso. Avrebbero potuto fermarsi in ogni momento, ma preferirono consumarsi assieme, sfogando rabbia, frustrazione, vendetta.
Rabbia per Seamus che li aveva traditi. Frustrazione per la società che li aveva condannati senza processo. Vendetta per Harry che non li aveva ascoltati, e li aveva lasciati in balia di conseguenze che non meritavano.
*
 
Martedì 23 maggio 2000, ore 10:30

La folla strizzata nell’atrio del Ministero somigliava a una grossa macchia d’inchiostro fuoriuscita da una boccetta rovesciata per sbaglio: s’ingigantiva a un ritmo elevatissimo, divenendo sempre più informe e caotica. Strilla, biascichii, spintoni e occhietti ficcanaso erano il suo volto; invadenza, calunnie, improperi e bigotto stupore ne erano l’animo.
Al centro dello sgorbio, laddove v’era un pezzo di carta ancora bianco, spiccava un giovane che distribuiva copie di quella che sembrava essere una pagina di giornale, intimando d’acciuffarla e leggerla a voce alta, affinché anche i disinteressati passanti potessero conoscere la notizia lì contenuta.
Gli obbedivano tutti, a quell’esaltato giornalista, che da circa un’ora, sordo alle intimidazioni degli addetti alla sicurezza del Ministero, continuava a urlare ‘edizione straordinaria! La verità su Dean Thomas e Ginny Weasley’, attirando curiosi, pettegoli e benpensanti.
La verità, la verità su Dean Thomas e Ginny Weasley, questo urlava Seamus Finnigan.
Quando, solo il giorno precedente, era andato via da casa di Dean, aveva consumato in solitudine i propri sensi di colpa, lasciandosi smembrare dalla coscienza, la stessa che aveva seppellito assieme alla puzza di tabacco nell’ufficio di Cuffe. La forza di cui disponeva la citata coscienza aveva sbalordito Seamus: era riuscita a riemergere dal cumulo d’immondizia, lavando via persino il fetore. A quel punto, non aveva potuto far altro l’irlandese, e l’aveva assecondata.
Smesse le vesti dello sporco avvoltoio, aveva indossato nuovamente quelle dell’amico, del confidente, dell’uomo leale ch’era sempre stato. Vestito di tutto punto, era corso da Cuffe, vomitandogli addosso la verità vera: dal se stesso corrotto alla bugia ingabbiata in quelle fotografie.
Ma Cuffe non aveva reagito come Seamus s’era aspettato: anziché rimproverarlo e indignarsi, aveva riso di gusto, etichettandolo sciocco e presuntuoso. ‘La verità non importa a nessuno, Finnigan’ aveva detto, rivelandogli di essere a conoscenza della menzogna e d’averla usata per vendere copie. Gli aveva svelato anche che lui, il giornalista Seamus, era in realtà una pedina della scacchiera: l’indomani, sarebbe stato il protagonista dell’articolo in prima pagina! Seamus Finnigan, il traditore per fama ne era il titolo, Rita Skeeter ne era l’autrice. Man mano, aveva affermato soddisfatto Cuffe, tutti i giovani e celebri membri dell’Esercito di Silente sarebbero stati al centro degli scandali di Londra, e la Gazzetta avrebbe venduto, venduto sempre, venduto a oltranza, nonostante la concorrenza e lo scetticismo – ché la gente, Cuffe lo sapeva, adorava vedere i propri idoli sporcati d’infamia.
Seamus, a quella confessione, non aveva saputo far altro che insultare il Direttore, urlandogli d’essere la vergogna del giornalismo e la corruzione fatta persona. Così furioso Seamus, così furioso, e prim’ancora di pensarle, quelle parole, le aveva dette a voce alta: mi licenzio. Semplici, chiare, vere. Non c’era nulla di ambiguo in mi licenzio, era una sentenza passata in giudicato, l’ennesima di quelle caotiche ore.
Nei minuti immediatamente successivi, come’era prevedibile, il velenoso pungiglione del ‘dover rimediare’ l’aveva punto; e aveva allora scritto tutta la verità, lungo l’intera notte. La verità su un amico arrivista, su uno scandalo menzognero, su ingiuste conseguenze, su conclusioni affrettate e sulla sporca corruzione. Forse, Cuffe l’avrebbe denunciato e nessuno gli avrebbe creduto, ma non aveva alcuna importanza: l’importante era dire.
Ed eccolo ora al Ministero, circondato dalla folla ingorda di notizie, bisognoso di guadagnare il perdono del proprio migliore amico a ogni costo.

“Ma questo che giornale è? Ragazzo, ragazzo, questo che giornale è?” chiese un individuo della macchia.

“Il Solo Verità,” rispose orgoglioso Seamus. “È nato questa notte, verso le tre del mattino. Per ora dispone di un’unica pagina e di una tiratura limitata. Ah, e anche di un solo giornalista che è anche il direttore e fondatore!”

“Sei pazzo, ragazzo?”

“Sono sincero.”

Il diffidente lettore grattò il proprio mento barbuto, regalando all’irlandese un’ultima occhiata sconcertata, come se affermare d’essere sinceri fosse un modo elegante per denunciare una stramba forma di pazzia.
Seamus non gli badò, perché mentre quello schizzo anonimo d’inchiostro tornava a compattarsi con i suoi simili, un ragazzo dalla pelle scura, sguardo profondo e lineamenti del volto irrigiditi si faceva largo tra la folla, che smise immediatamente di vociare alla vista del neogiunto, certa che nuovi succulenti pettegolezzi fossero in arrivo.
Dean Thomas ignorò tutti, dedicando a Seamus la propria attenzione. Non disse nulla all’amico di sempre, limitandosi a sfilargli dalle mani una copia di quell’improvvisato quotidiano.

La verità su Dean Thomas e Ginny Weasley,” lesse. “Se ti accorgi di aver commesso un errore, torna indietro e domanda perdono – diceva spesso mia nonna. Io l’ho commesso, un errore, e anche bello grosso. Sarei pronto a domandare perdono, ma so che non è sufficiente. Prima del perdono, le mie vittime meritano giustizia. Sono Seamus Finnigan, un giornalista alle prime armi che si è appena licenziato dalla Gazzetta del Profeta. Il mio ultimo articolo per la Gazzetta era una grossa, schifosa menzogna. Dovrei essere più elegante, pensate? No. Devo essere crudo, diretto e vero. Devo scrivere così come penso, perché ciò di cui avete bisogno voi tutti è un po’ di schiettezza. La verità promessa dal titolo è presto detta: Dean Thomas e Ginny Weasley non hanno una relazione, non sono amanti e non hanno mai voluto esserlo. Cuffe…” smise di leggere Dean, puntando lo sguardo sul ragazzo dai capelli color sabbia – come l’aveva descritto a sua madre nella prima lettera scritta a Hogwarts, giudicandolo un colore ‘così strano!’ –, che se ne stava impalato, rigido, con le palpebre appesantite dalla stanchezza e tremule di tensione. “Ti sei licenziato?”

“Già.”

“Per questo?” domandò rauco, indicando il Solo Verità.

“Già.”

Un monosillabo ripetuto una seconda volta e toccò alla coscienza di Dean l’andare in frantumi. Poteva sentirla creparsi nell’angolino meno evidente, vacillare pericolosamente, tentare una vana resistenza contro la minuscola incrinatura e infine arrendersi impotente. Ed eccola spaccarsi tutta, in più punti, finendo in tanti pezzettini appuntiti.
Il battito di ciglia, che solo poche ore prima gli aveva concesso di rivivere sulla pelle una relazione vecchia di anni, ora gli riproponeva le immagini della notte appena trascorsa. V’erano labbra affamate, corpi roventi, dita impudiche in quei flash. V’erano lui e la persona sbagliata a strofinarsi contro: lui e Ginny.
Dean non ebbe neanche il tempo di destarsi del tutto dall’incubo a occhi aperti, che la macchia d’inchiostro subì l’aggressione di un’acida spugna intenzionata a cancellarla completamente: Gawain Robards aveva fatto la sua incursione, seguito da alcuni addetti alla sicurezza, e da Harry Potter e Ginny Weasley. Gli occhi del ragazzo di colore saettarono da Robards a Harry e da Harry a Ginny e da Ginny a Robards; un circolo senza fine. La pagina di giornale scappò alla presa dei suoi oramai umidi polpastrelli, depositandosi sgraziata sul pavimento del Ministero. Seamus seguì con attenzione ogni singola espressione apparsa sul volto del proprio amico, ogni suo gesto… e tacque.

“Thomas, signor Finnigan, devo chiedervi la cortesia di seguirmi nel mio ufficio.”

Seamus non conosceva personalmente Robards, ma il tono autoritario e la rigida compostezza del suo volto gli chiarirono che quella appena formulata non era affatto una cortese richiesta, quanto un ordine cui non era possibile sottrarsi. Cercò lo sguardo di Dean e vi trovò la conferma della propria sensazione; vi trovò anche dell’altro, ma non volle azzardare interpretazioni.
In silenzio, lanciandosi occhiate furtive a vicenda, i quattro ex compagni di Casa seguirono il Capo Auror nell’ascensore e poi nel corridoio e poi nell’ufficio, dove il più anziano prese posto alla scrivania, sollecitando con eloquenti cenni i ragazzi a schierarsi dinanzi a lui, l’uno accanto all’altro.
Per Ginny e Seamus, non avvezzi a quella sottospecie di cerimoniale, fu alquanto imbarazzante starsene immobili di fronte a Robards; nessuno dei due sapeva come tenere le mani o dove guardare, optarono dunque per l’imitare la posa plastica assunta da Harry e Dean.

“Prima di ogni altra parola, tengo a ringraziare la signorina Weasley e il signor Finnigan per aver accondisceso alla mia richiesta: la vostra presenza è indispensabile,” affermò Robards, scrutandoli senza preoccuparsi d’apparire indiscreto. Non ritenne di dover ringraziare anche Dean, poiché lo considerava ancora ‘uno dei suoi’. “Ho sempre creduto che la stampa esercitasse una preoccupante influenza sulle masse, che ne condizionasse eccessivamente l’agire e soprattutto il pensare. Mi rammarica constatare di non aver avuto torto nel giudicare in questo modo i nostri giornali. Una notizia chiaramente falsa e le persone si schierano, giudicano, esigono conseguenze.” Parlava con voce chiaramente stizzita, come se l’infastidisse l’essere costretto a tornare sui propri passi o, più semplicemente, l’essere costretto e basta. “La Gazzetta del Profeta ha sempre avuto un invidiabile talento nell’interpretare in modo fantasioso la realtà. Non posso dunque dirmi sorpreso da quanto letto questa mattina,” disse, mostrando ai presenti una copia del Solo Verità poggiata sulla scrivania. “Certo, mi sono chiesto se dovessi dubitare o meno di Seamus Finnigan, che ritratta i suoi stessi articoli.” Gli occhietti indagatori di Robards si fissarono sul citato Seamus, che non poté impedirsi d’arrossire, un po’ dalla tensione e un po’ dall’imbarazzo. “Lei cosa mi consiglia, signor Finnigan? A quale sua versione dovrei dar credito? Alla versione ufficiale o alla versione informale?” domandò, mostrando a Seamus un secondo quotidiano: il Profeta del giorno precedente.

Seamus tentennò e, prima di prender parola, trasse un profondo respiro e indirizzò un fugace sorriso a Dean, che lo guardava forse con preoccupazione. “Quella contenuta nel Solo Verità è l’unica versione reale dei fatti e sono disposto a sottopormi al Veritaserum, se lo riterrà necessario,” affermò con voce decisa, per nulla traballante. “Non ho mentito una seconda volta, l’ho fatto per la Gazzetta guidato dall’ambizione, dal prestigio personale, dalla sciocca vanità, e ho sbagliato. L’errore, l’ho commesso io, e sono io a dover rimediare e pagare, non Dean, non Ginny. Lei ha licenziato Dean a causa del mio articolo, io le chiedo di fare le sue indagini, sottopormi a qualsiasi interrogatorio e riassumere Dean, perché non ho scritto bugie questa notte e Dean merita di far parte degli Auror, questa professione è la sua vita.”

Quando l’accalorato discorso di Seamus terminò, il luminoso studio di Robards venne travolto da un silenzio piuttosto vistoso e in carne, che pesava sulle cinque teste in modo barbaro. Harry fu il primo a piegarsi a quel fardello, fissando le iridi verdi sulle proprie scarpe e tenendo il capo chino, costringendo i muscoli del collo a tendersi per il nervosismo e per lo sforzo. Ginny non poté impedirsi di sbirciare la posa assunta dal proprio compagno, comprenderne i patemi e di conseguenza chinarsi a sua volta schiacciata dai sensi di colpa. L’attenzione di Dean, d’altro canto, non riusciva a disinteressarsi di Seamus, che aveva scelto di rischiare ogni cosa pur di salvare la loro amicizia, pur di dimostrare che Dean Thomas fosse un uomo pulito. Rabbrividì il ragazzo di colore: pulito, lui non lo era più, e Seamus lo sapeva. Per chi come Dean conosceva ogni sfaccettatura della personalità dell’irlandese, era evidente che Seamus avesse smesso di credere alla propria linda versione dei fatti: gli era stato sufficiente osservare Dean, le sue movenze rigide e impacciate, i suoi occhi colpevoli, le sue dita che fremevano ad ogni casuale scontro con Ginny... Seamus sapeva, non v’erano dubbi a riguardo. E Robards? Robards che faceva vagare gli occhi vivaci dall’uno all’altro, lui sapeva?

“Capitano, è richiesta la sua presenza.”

La melodiosa voce di Claire catapultò i quattro nella spinosa realtà. L’elegante figura della segretaria del Capo Auror sostava sull’uscio, con una cartellina nera tra le mani e il cipiglio vagamente impaziente di chi ritiene d’aver troppe mansioni da svolgere.
A parte Robards, che si curò di congedarsi temporaneamente dai ragazzi per seguire Claire, nessuno aveva fatto caso al bussare contro la porta della ragazza e al suo ‘è permesso?’. Tutti risucchiati da altro erano, tutti ad annaspare.

“Allora?” domandò Seamus, in parte rinfrancato dall’assenza del più anziano.

Fu Ginny la prima a concedergli lo sguardo, mostrandogli le proprie labbra strette nel disgusto, le sopracciglia calate nella rabbia, la mascella contratta nell’offesa e gli occhi, gli occhi fustigati da qualcosa di tanto simile al rimorso. Nulla disse lei, né smise di fissare i muscoli in tensione del giornalista, giungendo persino a sperare che nel loro tendersi si strappassero del tutto – lui lo avrebbe meritato.

“Mi dispiace.”

“Come hai detto?”

“Hai sentito, Dean. Mi dispiace. Avrei dovuto darvi il tempo di spiegare, darci il tempo di capire. È che… che sono così impulsivo io, non ragiono alle volte, non ci riesco proprio. Sono stato abituato a perdere le persone per me importanti… e… e io attacco, attacco perché so già quanto fa male…”

“Stai dicendo che gli credi?” chiese Ginny, le cui gote avevano assunto una preoccupante tonalità simile al bianco. E tremava.

“Sto dicendo che avrei dovuto credere a te, che ti credo, che sono un imbecille, che so quanto è forte l’amore che ci lega. Ti sto chiedendo di perdonarmi, Ginny. E lo sto chiedendo anche a te, Dean. Voi ci avete provato, avete provato a spiegarmi, ma io ho… io ho sbagliato…”

Voce ed espressione denunciavano la sincerità di Harry, il suo reale pentimento. Come sempre accadeva, il Prescelto aveva la straordinaria capacità di tornare sui propri passi e domandare perdono, facendo ammenda per gli errori commessi – il carattere impulsivo di Harry era noto a chiunque avesse avuto l’occasione di frequentarlo. Essere il ‘salvatore del mondo magico’ non l’aveva esonerato dall’avere difetti, difetti con cui aveva imparato a convivere, che aveva cercato inutilmente di disciplinare, come chiunque altro. E Ginny conosceva quelle imperfezioni caratteriali, le conosceva perfettamente, così come sapeva che Harry sarebbe prima o poi tornato sui propri passi, da lei, ma il saperlo, quella volta, non era stato sufficiente a impedirle di affogare in un altro uomo, in quell’uomo.

“Allora?” incalzò Harry, imitando l’esordio di Seamus. “Non dite nulla?”

Un altro difetto di Harry era la totale incapacità di cogliere le sfumature. Un occhio bene allenato, come era quello di Seamus, avrebbe colto immediatamente la fugace colpevolezza di cui si tingevano gli sguardi di Dean e Ginny quando, per puro caso, erano costretti a scontrarsi. Un occhio bene allenato avrebbe notato anche le labbra secche dei nuovi traditori, le loro mani sudaticce, la loro ritrosia nell’avvicinarsi al tradito e parlargli.
Un occhio bene allenato avrebbe colto proprio tutto, ma gli occhi di Harry erano avvezzi ad individuare un altro tipo di verità, altre accozzaglie di indizi. Gli occhi di Harry, in quel frangente, interpretarono ogni gesto come uno sfogo di rabbia e stanchezza: rabbia per non essere stati creduti immediatamente, stanchezza per lo sforzo emotivo cui erano stati sottoposti.
Forse, avrebbero potuto trascorrere in quell’ufficio tutta la giornata, impalati in un cerchio muto ed elettrizzato dal silenzio stesso, se non fosse rientrato Robards.
Il Capo Auror esibiva un sorriso stanco, incredule, e tra le mani stringeva un documento dall’aria ufficiale.

“Il fato opera in modo alquanto buffo, alle volte,” esordì, prendendo nuovamente posto alla scrivania. “Ronald Weasley mi ha appena consegnato le sue dimissioni. Erano mesi che discutevamo questa possibilità, avevo realmente creduto d’averlo persuaso che questa carriera fosse la sola adatta a una personalità come la sua. Ho evidentemente commesso un errore di valutazione: il ragazzo ha scelto di entrare a far parte del progetto ‘Tiri Vispi Weasley’ assieme al fratello. Un peccato.” Aveva realmente il rammarico tatuato in volto, era più che evidente in quelle palpebre improvvisamente troppo pesanti per sollevarsi del tutto e in quelle marcate rughe d’espressione che gl’invadevano il mento. “Tornando all’increscioso caso di cui discutevamo, la faccenda si conclude qui,” affermò prima che qualcuno potesse prender parola, porre domande o, peggio, affrettare conclusioni. “Concedo fiducia al Solo Verità, pertanto, Thomas, si precipiti da Claire e riprenda il suo distintivo e la sua divisa.”

Harry esibì un gran sorriso, rincuorato dalla decisione di Robards, che lavava via l’onta del proprio impulsivo – e dannoso – comportamento. Seamus anche esternò una gioia vittoriosa. Gli unici a non mostrare emozione alcuna, salvo lo stupore, furono proprio i ‘riabilitati’ di quella situazione: Ginny e Dean.

“Non indagherà oltre, signore?” chiese Dean.

Robards increspò le labbra in un sorrisetto poco lusinghiero, come se avesse dinanzi uno sciocco cui non era proprio possibile spiegare le leggi che regolano una società civile. “Sarebbe un inutile spreco di energie, ho elementi a sufficienza. Soltanto ieri, lei stesso ha difeso con ardore la propria innocenza, il signor Finnigan ha ritrattato il proprio articolo, Potter è venuto da me questa mattina e mi ha pregato di far luce sulla vicenda, chiedendo persino che gli fosse perdonata l’aggressività manifestata nei suoi confronti, Thomas. Non c’è motivo perché io non la riassuma. Se ricorda, sono stato chiaro sul motivo del suo licenziamento: malumori, sfiducia e liti. Questi rischi non esistono più, dunque non ho alcun interesse a perdere un valido collaboratore come lei, oggi più di ieri, date le dimissioni di Weasley.”

Quella spiegazione razionale fu l’ultimo atto dello spettacolo tragicomico che aveva visto protagonisti i quattro giovani maghi. A nessuno più fu concesso di parlare, di addurre dubbi ed altro, bensì fu imposto di lasciare l’ufficio e il Ministero intero per quel giorno.
Ginny, che non aveva spiccicato parola, deglutì quando Harry le posò un bacio sulle labbra, e fu fuggendo a Dean che andò via scortata dal proprio compagno.
Dean temporeggiò appena fuori dal covo di Robards. Aveva i pugni, le labbra, gli occhi e persino l’intero volto contratti, come preda di uno sforzo immane.
Fu Seamus ad afferrargli il braccio e trascinarlo via, timoroso che l’amico potesse commettere un errore troppo grande per esser anche solo pensato.

“Vieni via, Dean, che la verità non importa a nessuno.”

A Dean non occorsero altre spiegazioni, si limitò ad annuire e ad andare via con Seamus. Dopotutto, aveva riottenuto il proprio migliore amico, il posto negli Auror e la reputazione; a sciocchezze come coscienza e lealtà, a ben pensarci, per quella volta avrebbe potuto rinunciare, un po’ come tutti.








 

NdA: salve! In primo luogo, ringrazio tutti coloro che sono arrivati sin qui, dando una possibilità alla storia, spero che abbia meritato il vostro tempo e la vostra attenzione.
Le professioni dei protagonisti, salvo quella di Dean e Susan Bones (su cui non ho trovato informazioni), sono legate alle notizie contenute negli extra pubblicati dalla Rowling.
Robards e Cuffe non sono miei OC, ma proprio personaggi della Rowling e lo specifico perché ho ignorato la loro esistenza sino a quando non ho dovuto documentarmi per scriverne.
Quanto alla convivenza di Dean con le sorelle e al “Solo Verità”, sono entrambe mie invenzioni; nel caso di Dean ho fatto affidamento sul fatto che ha molti fratellastri e sorellastre e che viene da un contesto familiare Babbano.
La storia è stata scritta per il contest “Così fan tutti [concorso a pacchetti]” indetto da Matilde di Shabran; il pacchetto da me scelto è questo: Haydn - Il/la protagonista tradisce un amico. Questo comporta gravi ripercussioni in ambito professionale per uno dei due a tua scelta.
La storia ha partecipato come edita ai contest One shot per tutti i gusti! - multifandom indetto da _ Freya Crescent _ (classificandosi quarta a parimerito, la valutazione è tra le recensioni) e al contest forever shot [contest libero per linkare one-shot a tutto spiano] indetto da CeciliaMargherita (classificandosi sesta, la valutazione è tra le recensioni).
Sino al 28 maggio 2020 il titolo della storia è stato Il trionfo della menzogna, che a seguito di riflessioni fatte a distanza di anni ho cambiato in Spire, alludendo alle spire di un serpente – metafora di ambizione e menzogne – che strizzano i protagonisti senza concedere loro reale via di fuga.
È tutto! Spero che la storia sia piaciuta a chiunque l’abbia letta, alla prossima!
   
 
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