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Autore: nevermore997    17/10/2014    4 recensioni
Vittoria Baudelaire è una Calfornia Girl a tutti gli effetti: snob, piuttosto antipatica ed abituata a vivere tra tutti gli agi e tutte le comodità. Per lei la decisione dei suoi genitori di trasferirsi da San Francisco a Foggy Hollow, desolante e gelida cittadina dello sperduto Wyoming, è una vera e propria doccia fredda. Senza volerlo si ritroverà catapultata in una vita completamente diversa da quella a cui è abituata, circondata da nuovi bizzarri amici, troppa neve per i suoi gusti, pianisti misteriosi e le mura di una casa inquietante che cela un terribile mistero.
La storia di una sedicenne in un mare di guai che si ritrova costretta ad adattarsi, a dimostrarsi coraggiosa, ad agire e anche a cambiare. Se in meglio o in peggio, lo scoprirete solo leggendo.
Questa storia è un esperimento, uno sporadico tentativo di fondere assieme due generi che nulla hanno a che vedere tra di loro: l’horror e il comico. Nella speranza che questo strano miscuglio vi incuriosisca, vi auguro buona lettura.
Genere: Comico, Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 7
Quando il gatto non c’è i topi ballano
 
Owen mi accompagnò fino a casa come sempre. Durante il tragitto non fece che esprimere ad alta voce le sue perplessità.
«Quindi la casa è infestata e a suonare il tuo piano è… lo spettro di Sebastian Avary?»
Lo squadrai da capo a piedi.
«Ti sembra il momento di fare il polemico?»
Fece una smorfia.
«E’ che non credo alle storie di fantasmi.»
«Ci sei dentro.»
Al che non ebbe niente da ridire e se ne restò zitto per tutto il resto della camminata.
Quando arrivammo a casa mia trovai mia madre che correva su e giù per le scale trascinandosi dietro un borsone e borbottando parole affannate e mio padre che cercava senza successo di annodarsi la cravatta elegante con le sue dita piccole e tozze. Sembravano entrambi travolti da una gran frenesia.
«Che state facendo?», chiesi, perplessa.
«Oh, Vittoria, scusaci se ti avvertiamo così tardi, è successo tutto molto in fretta!», gridò mia madre mentre si infilava le scarpe da sera, senza nemmeno guardami in faccia.
«Torniamo in California?!», esclamai, speranzosa.
Stavolta nemmeno la fretta dissuase mia madre dallo scoccarmi la sua famosissima occhiata di disapprovazione mista a disgusto coniata appositamente per me.
«Non essere stupida. Tuo padre ha ricevuto una chiamata urgente per una presentazione di lavoro a Riverton.»
Il famoso lavoro di mio padre che ci era costato la vita a San Francisco altro non era che il rappresentante di vini. Non avevo mai capito in cosa consistesse di preciso, sapevo solo che dove non c’era vino da degustare, lui non lavorava. Con la siccità che aveva colpito la California ultimamente, non c’era da stupirsi se i vigneti avevano iniziato a scarseggiare. Così ci eravamo dovuti trasferire in Wyoming, luogo dove, a detta delle riviste enologiche, si beveva il miglior vino d’America.
«Ma se siamo in cerca di buon vino non potremmo trasferirci in Francia?», avevo protestato a mio tempo, ovviamente senza risultati.
Tornando ai miei genitori, sembravano avere una gran fretta.
«Abbiamo il treno tra mezz’ora. Staremo via due notti, ma tanto a te non dispiace stare sola, vero?»
Io ed Owen ci guardammo, increduli davanti ad un simile colpo di fortuna. Ci stavano servendo sul piatto d’argento l’occasione per “disinfestare” la casa. Non restava che coglierla.
«Oh, no, certo, va bene. Divertitevi.»
Quell’augurio finale fu decisamente troppo azzardato, dal momento che mia madre mi squadrò come se fossi stata un alieno appena disceso da Marte.
«Ci stai davvero augurando buon divertimento? Ti ricordo che una volta hai definito il lavoro di papà più noioso ed inutile di una lezione di mimo per sordomuti.»
Sbuffai.
«Con te non si può nemmeno provare ad essere gentili!»
Mia madre roteò gli occhi.
«Come al solito tocchi vette di insopportabilità irraggiungibili per tutto il resto del genere umano. Come non detto, noi ce ne andiamo. Ciao Vittoria e ciao Owen, mio caro.»
Mi trattenni a stento dall’indignarmi per la facilità con cui Owen mi aveva sostituita nel ruolo di figlia prediletta solo perché avevo fretta di mettermi all’opera. Li osservai uscire senza commentare nessuna delle loro azioni (per quanto il vestito orribile scelto da mia madre meritasse ben più di una frecciatina innocente) fino a quando, con un saluto veloce, si chiusero la porta d’ingresso alle spalle.
Owen mi lanciò un’occhiata maliziosa.
«Allora?»
«Allora cosa?»
«Non c’è niente che vuoi chiedermi? Un favore, ad esempio?»
Intuendo dove voleva arrivare, gli risposi con un grugnito infastidito.
«Scordatelo. Sii gentiluomo, metti in pratica la tua cavalleria e offriti volontario senza che io debba muovere un dito.»
Scosse la testa ridendo.
«Voglio sentirtelo dire. Dai Vittoria, chiedimelo. Voglio sapere che suono ha un invito gentile pronunciato dalle tue labbra.»
Capii che di quel passo non ne saremmo mai usciti, così, incrociando le braccia dal fastidio, veloce come se stessi ingoiando una cucchiaiata di sale, gli chiesi esattamente quel che voleva sentirsi dire.
«Owen, potresti restare a dormire da me per questa notte?»
Face spallucce, fingendo noncuranza.
«Tanto sarei rimasto comunque. Senza di me non sopravvivresti un minuto.»
«Io me la cavo benissimo da sola!», mi stizzii, arricciando il naso.
«Certo, certo. Intanto che vaneggi io vado a preparare qualcosa per cena, dato che mi ci gioco un braccio che da sola non sei in grado neanche di bollire un wurstel. A presto, mia cara.»
E se ne andò in cucina ridacchiando tra sé e sé, mentre io, a labbra saldamente serrate pur di non dover ammettere che aveva ragione, lo osservavo ribollendo di rabbia.
 
«Ma dove hai imparato a cucinare la pasta?»
Seduti al tavolo della cucina, uno di fronte all’altra, mangiavamo il capolavoro culinario di Owen, io con particolare foga e avidità. Lui per lo più mi guardava, sorridendo ed arrotolando distrattamente gli spaghetti attorno alla forchetta.
«Dove diamine hai imparato a cucinare?»
«Crescere con una nonna offre questo genere di vantaggi.»
Annuii, mentre continuavo ad ingozzarmi. Detestavo dovergli dare la soddisfazione di riconoscergli che era un bravo cuoco, ma non avevo mangiato una pasta così buona neanche quando ero stata in vacanza in Italia, il che, per quanto mi costasse ammetterlo, era degno di nota.
Finita la cena lo costrinsi ed alzarsi in fretta e furia, senza nemmeno sparecchiare.
«Cosa vuoi fare, trascinarmi in camera tua come hai fatto la sera di Natale?»
Gli conficcai le unghie in un braccio con tutta l’intenzione di fargli il più male possibile.
«Non ti ho trascinato in camera mia! Stavo solo cercando di salvarti da mia madre!», mi difesi, arrossendo.
«Certo, Vittoria, certo. Come vuoi tu», mi disse, condiscendente, guadagnandosi un calcio sullo stinco.
«Smettila immediatamente e concentrati su quello che dobbiamo fare. Se non troviamo lo spartito di Clair de lune entro notte non so cosa faremo.»
Owen annuì.
«Hai idea di dove possa essere?»
Riflettei per qualche secondo.
«Sicuramente non nel nascondiglio originale, dal momento che evidentemente il fratello di Toby lo ha suonato. Dev’essere dove lo ha lasciato lui prima di scappare da Avary Manor.»
«Ricapitolando, non ne hai idea.»
In quei momenti sentivo che avrei potuto ucciderlo.
«Chiudi il becco e dividiamoci. Io cerco di sopra, tu al pianterreno.»
Passammo l’intera serata a scandagliare ogni scafandro della casa, costantemente disturbati dal gatto, che amava scegliere i momenti di disordine per degnarci della sua compagnia. Quella sera il suo passatempo divenne rotolarmi tra le gambe nei momenti in cui il mio equilibrio era precario, ottenendo il risultato di farmi ruzzolare a terra un’infinità di volte, con sommo divertimento da parte di Owen. Imprevisti a parte, arrivammo a mezzanotte che avevamo trovato uno yo-yo che si illuminava, un pettine incastonato di perle, una lettera che aveva tutta l’aria di essere stata scritta da Winston Churchill in persona ed anche il cadavere di un topo, ma neanche l’ombra di uno spartito.
Stanca e frustrata, mi lasciai cadere accanto ad Owen sul divano del soggiorno.
«Dove accidenti è quello spartito?»
«Magari lo hanno portato via, o distrutto, o magari non è nemmeno la cosa giusta da cercare…»
Non sembrava particolarmente preoccupato e capii che l’idea del fantasma non lo convinceva ancora. Eppure io, da parte mia, ero assolutamente sicura di essere sulla pista giusta. Volevo replicare, ma le parole mi morirono in gola. Scoraggiata, mi misi a guardare distrattamente il gatto, che ora si trascinava pigramente in sala, ammiccando con il suo unico occhio giallo. Lo osservai mentre arrancava verso il pianoforte ed iniziava a soffiare furiosamente in sua direzione.
«Che sta facendo?», chiese Owen, incuriosito.
Feci spallucce.
«Fa così fin dal primo giorno. Magari il suo sesto senso felino capta la malvagità pura.»
Owen mi scoccò uno sguardo supplichevole.
«Vittoria, sei sconvolta. Andiamo a dormire, cercheremo quello spartito domani.»
«Non voglio passare un’altra notte in mezzo a questa maledizione!», esclamai. Stavo cominciando ad agitarmi e, soprattutto, ad avere paura. Owen cercò di tranquillizzarmi.
«Stai tranquilla, vedrai che non succederà niente! Se vuoi posso dormire con te questa notte. Così sarai più calma. Ed ora non ti preoccupare. Non sei da sola.»
Si alzò dal divano e mi fece cenno di seguirlo al piano di sopra. Gli andai dietro come un piccolo cucciolo spaventato, incapace anche solo di formulare una frase decente.
 
Quella sera accettai di andare a dormire direttamente nello stesso letto di Owen, a condizione che venisse eretto il consono monte di cuscini e che indossasse una maglietta. Sorda a tutte le sue lamentele («ma mi sembra di essere un malato di peste con questa barriera!», «ma ho caldo a dormire con la maglietta!» ed altre simili quisquilie), mi preparai psicologicamente alla notte insonne che mi aspettava. Infatti, un attimo dopo esserci augurati la buonanotte, Owen si addormentò come un sasso (come facesse a prendere sonno in circostanze simili per me restava un mistero), mentre io restai sveglia, ad occhi sgranati ed orecchie tese. Dovetti attendere più di un’ora, ma finalmente, verso le due, il dolce inizio di Clair de Lune iniziò a risuonare tra le pareti di Avary Manor. Diedi un colpetto al braccio di Owen e lui aprì gli occhi, ancora assonnato.
«E’ cominciata!»
Per qualche minuto restammo immobili, oppressi e pietrificati dalla straordinaria completezza della musica di Sebastian. Poi però, inaspettatamente, Owen saltò in piedi di scatto.
«Che stai facendo?!», sibilai.
«Vittoria, dobbiamo andare a controllare!»
«Sei matto?!», risposi, in preda al panico, cercando di non lasciar trapelare l’isteria dalla mia voce. «Ne abbiamo già parlato! Ti sei dimenticato del coltello? Owen, potrebbe ucciderci!»
Lui scosse la testa con decisione.
«Dobbiamo verificare che i nostri sospetti siano fondati! Tu non avrai bisogno di prove per convincerti di essere tormentata da un pianista fantasma, ma io si. Quindi vado a controllare!», e uscì dalla stanza in punta di piedi.
In preda al panico, non mi restò altro da fare se non seguirlo. Sgattaiolai fuori a mia volta, correndogli dietro giù per le scale della torre.
«Owen, fermati!»
Si girò e senza tante cerimonie mi prese le mani. Essendo io qualche gradino più in alto di lui, i nostri visi erano esattamente alla stessa altezza. Guardò per un attimo i miei occhi traboccanti di panico e poi mi si avvicinò di scatto, fino a sfiorare il mio naso con il suo.
«Stai. Tranquilla.», mi sussurrò, scandendo bene le parole. Poi mi lasciò le mani e sparì al piano inferiore.
Avary Manor era una di quelle ville antiche, con due scalinate che partono dalle estremità del salone per poi incontrarsi al piano superiore, formando una sorta di balcone interno. Affacciandosi alla ringhiera del primo piano era quindi possibile avere una visuale su tutto il salone.
Fu solo quando mi affacciai accanto ad un Owen senza fiato che non ci furono più dubbi. Nel soggiorno rischiarato dalla luce della luna, il pianoforte era perfettamente visibile. Altrettanto visibile era che seduto sullo sgabello non c’era assolutamente nessuno, eppure i tasti d’avorio si muovevano su e giù da soli, spinti da una forza invisibile, diffondendo Clair de Lune nell’intera stanza. Ma la cosa più visibile in assoluto era il luccichio sinistro della lama della mannaia, che, senza che nessuno la stesse tenendo in mano, galleggiava solitaria davanti al pianoforte, volteggiando a ritmo di musica in un’agghiacciante danza della morte.
Io ed Owen ci risvegliammo dallo stupore e balzammo indietro quasi nello stesso istante. Risalimmo le scale in un battibaleno, tornammo in camera, ci chiudemmo la porta alle spalle a doppia mandata e ci rintanammo assieme sotto le coperte, accomunati dal desiderio di scomparire. Mi resi conto che stavo tremando e che ero sul punto di piangere. Owen buttò da una parte i cuscini e mi strinse tra le sue braccia forti e calde ed io non mossi un dito per protestare. Lo lasciai fare, mi abbandonai completamente a quell’abbraccio rassicurante, nell’assurda speranza che il corpo di Owen potesse davvero proteggermi dai mali del mondo.
«Scusa se non ti ho creduto subito. Avevi ragione tu. Scusami», mormorò, accarezzandomi i capelli, senza riuscire a nascondere una nota spaventata nella sua voce. Annuii per fargli capire che accettavo le sue scuse, ma lui non mi lasciò andare. Continuò a confortarmi con la sua vicinanza per tutta la notte, fino a quando, esausti ed esasperati dall’inarrestabile musica, ci addormentammo.
 
Quando, il mattino dopo, mi svegliai, ero confusa e frastornata. La radiosveglia sul comodino indicava mezzogiorno ed ero in una stanza che non era la mia. Comunque fosse, avevo ancora sonno, così con uno sbadiglio mi girai sull’altro fianco, decisa a rimettermi a dormire. E’ indescrivibile il mio spavento quando mi ritrovai faccia a faccia con Owen, sorridente, dallo sguardo vispo e perfettamente sveglio.
«Owen, ma sei impazzito?!»
Con la stessa velocità di un treno in corsa i ricordi della notte precedente piombarono nella mia testa. In un attimo rammentai la musica, le scale, il pianoforte fantasma, il coltello, Owen che mi abbracciava per farmi stare tranquilla… con mia somma sorpresa notai solo in quel momento che il suo braccio era ancora delicatamente avvolto attorno alla mia vita, la sua mano aperta sulla mia schiena ed i nostri corpi vicinissimi.
«Cosa c’è di divertente nel guardarmi mentre dormo?»
Ridacchiò.
«Quando sei nel mondo dei sogni sembri una creaturina indifesa, dolce e delicata. Certo, quest’immagine di te sfuma non appena apri bocca, ma mentre dormi è piuttosto realistica.»
Stizzita, lo spinsi via e mi alzai dal letto, lisciandomi la camicia da notte sulla pancia. Lui si finse esasperato e buttò all’indietro la testa, sghignazzando.
«Muoviti ad alzarti», gli intimai. «Oggi dobbiamo assolutamente trovare quel maledetto spartito. Questa storia deve finire.»
 
 
 
 
Buongiorno a tutti!
Mi scuso per i due giorni di ritardo nell’aggiornamento, ma mercoledì sera sono stata impegnatissima a studiare sette milioni di pagine di letteratura francese (mai sentito parlare di Descartes e Corneille? Mi auguro di no) e dunque non ho potuto rispettare la scadenza. Effettivamente avrei potuto pubblicare giovedì, ma suvvia, c’era x-factor alla televisione e i The Wise hanno cantato una versione di Fat Bottomed Girls dei miei amati Queen (in caso non li ascoltaste, sappiate che state scialacquando le vostre inutili esistenze) talmente splendida che sono stata in iperventilazione per qualche ora, cosa che mi ha impedito di metter mano al computer. Tutta questa manfrina per scusarmi sentitamente per non essermi data una mossa. Mi spiace, cari.
Scusatemi per l’eventuale presenza di errorini ortografici o di battitura, non ho avuto il tempo materiale per revisionare adeguatamente (ops). Scusatemi anche se è un capitolo di transizione un po’ inutile. Si insomma oggi abbiamo capito che non è giornata, cercate di non lapidarmi.
Come sempre grazie di cuore a chi mi segue e recensisce, siete super super fantastici e mi migliorate le giornate. Milioni di abbracci,
Nevermore.
  
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