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Autore: _A m a l i a_    21/10/2014    0 recensioni
Elyn, giovane cameriera al suo primo impiego, comincia a lavorare nella grande quanto misteriosa tenuta di LonsadRiver. Intorno a lei una moltitudine di personaggi, dai caratteri e dalle appartenenze sociali diverse. La rigorosità dei domestici, la gentilezza del signor Allen, la spensieratezza di Rosaline, il fascino del signor Markey, la scontrosità del padrone della tenuta..
Elyn imparerà a rispettare gli ordini di chi ricopre un grado più alto del suo, come una brava cameriera deve saper fare. Ma non sarà altrettanto brava a svelare la maschera dietro cui molti si nascondono. E sarà da un semplice ignanno dell'apparenza che avrà inizio la sua storia nel mondo di LonsadRiver.
Genere: Mistero, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Storico
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♦ La signora McCabe ♦

Dormi dunque
e il io occhio rimarrà aperto [..]
[..] Vento notturno
cosi candidi sono i tuoi capelli
candido ciò che mi resta
candido ciò che perdo
ella conta le ore e io conto gli anni
noi bevemmo la pioggia
pioggia, bevemmo
(Paul Celan)

 
Quando aprì lentamente gli occhi, Elyn si sentì confusa e debilitata come non mai. La stanza intorno a lei le si presentava vaga. Scosse la testa con l’intento di porre fine alle immagini distorte che la mente le creava. E solo dopo alcuni attimi, i mobili tornarono fissi nelle loro posizioni, la grande lampada al centro del soffitto smise di muoversi e persino il letto su cui era sdraiata fermò il dondolio continuo.

Tutte quelle illusioni dettate dalla stanchezza scomparvero ed Elyn ricominciò a respirare. La lucidità che andava recuperando le permise di comprendere che quella stanza non era certo la sua; il letto morbido, il calore accogliente e le vetrate curate alle sue spalle, dalle quali oltrepassava una luce bluastra e chiara che avvisava l’imminente arrivo dell’alba. Tutto ciò non le era affatto famigliare quanto la sua vera stanza.

Qualcuno entrò dalla porta, ma Elyn chiuse gli occhi di scatto, aprendoli solo per sbirciare a tratti quanto quella figura stava facendo.
Il signor Duncanson era abbastanza scaltro – o forse abbastanza grande – per comprendere l’infantile timidezza che nascondeva quel gioco. Avrebbe aspettato che fosse stata la ragazza a farle capire di essere sveglia, senza darle segno di averlo già compreso.

Nel frattempo portò a termine quel che era venuto a fare. Riversò l’acqua fredda della brocca nel recipiente di ceramica, sulla mensola accanto ad Elyn. Bagnò alcune stoffe pulite e tolse dalle braccia di Elyn quelle macchiate di sangue. Ripulì leggero, per quanto il suo tocco riuscisse ad esserlo, le ferite che la ragazza riportava. Scuotendo la testa senza nemmeno rendersene conto. Come aveva fatto la prima volta che le aveva pulite, la seconda volta e la terza volta ancora, durante quella notte.

Quando si avvicinò ad un graffio poco sotto il collo, Elyn sobbalzò al suo tocco.

«Signor…» la voce roca la tradì, costringendola a fermarsi.

«Non parlate. Concentrate le poche forze che avete per riprendervi. Vi farò delle domande, basterà un cenno con il capo per darmi risposta.»

Sussurrava nel parlare ed Elyn pensò lo facesse per non far scoprire la sua presenza in quella stanza e gliene fu tacitamente grata.

«Quest’acqua contiene delle erbe cicatrizzanti. Devo passarvela lungo le ferite, quindi non muovetevi.»

Elyn scosse la testa.

«La signora Ride era del parere che chiamare un dottore non sarebbe stato necessario per le ferite che riportavate, ma non riprendevate conoscenza così ne abbiamo comunque chiamato uno. Vi ha visitata poche ore fa e ha escluso la presenza di traumi permanenti. Eravate svenuta, avremmo solo dovuto aspettare il vostro risveglio. Dunque se ora avvertite qualche dolore ditelo subito e provvederò a richiamare il dottore così che parliate direttamente con lui. Nessun dolore?»

Di nuovo Elyn scosse la testa. «La signora Ride mi ha…mi ha vista?»

Il signor Duncanson ripose le stoffe sulla mensola e aprì la finestra. Si accese una sigaretta e iniziò a fumare con calma, prima di tornare a guardare Elyn.

«Quali sono i vostri ultimi ricordi, Elyn? Il ballo del paese lo ricordate?»

«Si.»

«I camerieri dicono di avervi persa di vista durante la serata e di avervi creduta già alla tenuta. Eppure una volta arrivati, non eravate qui. Non ho la più vaga idea di dove diamine vi siate cacciata, ma almeno voi potete dire di ricordarlo?»

Arrossì e sperò che la luce mattiniera, che si andava diffondendo per la stanza, non lo mostrasse. Annuì.

Finita la sigaretta, Duncanson ne accese un'altra. Ma il suo umore non parve rilassarsi.

«Ad ogni modo i domestici erano preoccupata per voi. La signora Ride è venuta a parlarmi e…»

Approfittando della pausa di Dancanson, Elyn si tirò su, a fatica, appoggiandosi allo schienale del letto. «E siete venuto a cercarmi?» continuò lei. «Eravate voi l’uomo a cavallo? Avrei giurato fosse il signor Markey.»

«Il signor Markey, ma davvero?» rise amaro. «Il valoroso eroe Jorge Markey che si prostra a salvaguardare una fanciulla indifesa. E’ questo a cui avete sognato durante la vostra incoscienza? Ditemi, per caso ricordate anche chi vi ha ridotto in questo vergognoso stato?»
Elyn non parlò.

«..Non dite più niente? Non lo ricordate, forse? Allora lasciate che vi rinfreschi la memoria.» Il signor Duncanson si allontanò dalla finestra e prese a camminare lungo la stanza. Era troppo piccola per contenere la rabbia che i suoi passi volevano sfogare. «Gli amici del vostro caro Markey hanno una fama in paese che li precede, loro malgrado. Vi avevo chiesto di darmi retta. Vi avevo chiesto di rinunciare al ballo perché sapevo bene che la locanda in cui si sarebbe svolto è uno dei punti di ritrovo di quegli individui. E sappiate che chiamandoli ‘individui’ mostro nei loro confronti una cortesia assai più grande di quella che meriterebbero.» Si fermò quando si accorse di aver alzato il tono di voce, guardò verso la porta e poi tornò a guardare Elyn. Il blu dei suoi occhi era scuro e paurosamente disarmante.

«E nonostante mi fossi dato briga di preoccuparmi per voi, avete preso i miei suggerimenti e li avete ingoiati come un cane dispettoso.»

Elyn asciugò le lacrime, prima che riuscissero a bagnarle il viso. «Vi prego ditemi quale sanzione intendete darmi. Ditemelo e basta perché non riesco a reggere questo confronto. Non riuscirei mai a reggere nessuno dei confronti con voi, non ne ho le forze, né le capacità, né il potere, né la maturità, né nulla di tutto ciò che voi avete.» la voce non reggeva le sue parole, né la sua improvvisa audacia ma continuò. «So di essermi comportata come non avrei dovuto, so di non aver dato retta al padrone della casa per la quale lavoro e sono completamente pronta ad accettarne le conseguenze. Ma smettetela di farmi sentire in colpa più di quanto mi ci senta già. Per non avervi ascoltato, per avervi costretto a preoccuparvi e venire a cercarmi..»

«Costretto?!» gridò incurante e si sedette a pochi centimetri da lei, ancor più incurante. «Chi diavolo ha parlato di costrizione? Sono venuto a cercarvi non appena ho sentito il vostro nome uscire dalla bocca della signora Ride, come un perfetto incosciente. Ho abbandonato nel cuore della notte la mia tenuta e tutto quel che racchiude, per ElynCuinn. E state pur certa che lo farei una e un milione di volte ancora, perché non voglio nemmeno immaginare che cosa vi sarebbe accaduto se non l’avessi fatto. Lo rifarei, nonostante voi crediate che tutto quel che faccio è dettato da una precisa ragione premeditata. Una costrizione o quant’altro. So che è così. So bene che avete preso la decisione di temermi come tutti mi temono, che vi siete schierata dalla parte degli altri.»

Per un istante la mano del signor Duncanson si avvicinò a quella di Elyn. Non appena le sue dita la sfiorarono appena, si alzò di scatto, allontanandosi dal letto.

«Margaret.» disse Elyn, poco dopo. Il cuore le pulsava tanto quanto le ferite.

«Come dite?»

«Quando Rosaline e gli altri mi credevano alla tenuta, stavo accompagnando Margaret a casa. Era la domestica a cui ho preso il posto, non è vero?»

«Voi non avete preso il posto di nessuno, chi vi ha detto una tale scemenza? Necessitavamo una cameriera e siete stata scelta voi.»

«Ma se si necessitava una cameriera significa che un’altra cameriera aveva abbandonato l’impiego o che forse era stata costretta ad abbandonarlo.»

«Elyn, finitela di giocare come una bambina e parlate una buona volta se volete dirmi qualcosa. Dimenticate i dannati ruoli, dimenticate tutto e parlate senza timore.»

Eppure per Elyn dimenticare, come Duncason le proponeva, era l’impresa più difficile che si fosse vista a fronteggiare. Distolse lo sguardo verso la finestra aperta, senza nemmeno avvertire l’invernale frescura che lasciava passare.

Duncanson sbuffò, tediato. «Se è di Margaret che volete parlare, sono pronto a farlo. Mi aspetto però che abbiate il coraggio di guardarmi in faccia e chiedermi quel che volete davvero sapere. Se mi vorrete cercare, saprete dove trovarmi.» si avvicinò alla finestra e la chiuse, facendo scorrere le tende scure perché allontanassero la luce del mattino. «Non appena sarà sveglia, dirò alla signora Ride di venire a sincerarsi delle vostre condizioni. Nel frattempo costringetevi a riposare e non toccatevi le ferite. La signora Ride mi comunicherà se avrete bisogno del dottore durante la giornata.»

Si avvicinò alla porta e la aprì. «Siete ancora una cameriera di questa tenuta signorina Cuinn, smettetela di tormentarvi.»
Sparì, lasciando il consueto gelo nella stanza.
 
 

Rosaline camminava spedita lungo la scalinata che portava alle stanze della famiglia.

«Mi disp..»

«Non dirlo una volta ancora, Rosaline. Ho capito, ti dispiace. Non importa, non è successo niente.»

«Come puoi dire che non è successo niente quando sei piena di medicazioni e sul tuo visino di porcellana ci sono ferite ancora aperte?» fece per avvicinarsi a Elyn che si scansò preoccupandosi di mantenere in equilibrio il vaso di tulipani che la signora McCabe desiderava nella sua stanza.

«Sono solo graffi, sono caduta te l’ho detto. E’ normale graffiarsi quando si cade.»

Per sua fortuna, le gocce che la signora Ride le aveva dato le erano servite per tranquillizzarsi e recuperare le forze per tornare a lavorare. Tenersi occupata l’aiutava a nascondere nell’oblio quanto era accaduto la sera precedente. Rosaline permettendo.

La stanza da letto della signora McCabe era la più grande della tenuta. Gli ornamenti cambiavano di mese in mese e talvolta più volte in un solo mese, con l’auspicio di mantenere il passo della moda parigina in continuo rinnovamento.

Per quanto lei e il signor Duncanson non potessero ufficialmente dormire sotto il tetto della stessa stanza - non essendo ancora legati al vincolo del matrimonio ed essendo la signora McCabe vedova di guerra – chiunque sapeva quanto fosse diversa la realtà dei fatti. L’enorme letto matrimoniale ne era una prova tangibile.

Proprio in uno dei comodini accanto al letto sfatto, Elyn appoggiò il vaso di tulipani rosati, rigorosamente scelti dalla stessa Jessica McCabe.

Rosaline si limitò ad aiutare Elyn a ricomporre il letto, ma venne ben presto chiamata dalla prima cameriera Beth. Per quanto il lavoro si sarebbe moltiplicato, Elyn fu felice di rimanere sola per qualche istante. Durante l’intera mattinata aveva ascoltato le scuse di Rosaline logoranti quanto i suoi piagnistei, poi era arrivato Sebastian con i suoi modi timidi ed impacciati, persino Tom le aveva rivolto parole amiche.

Annusò la fragranza di un piccolo tulipano chiaro e lo ripose al centro del letto, così come le era stato chiesto. Spolverò ogni mobile ed ogni lampada, finché le ferite nelle braccia ricominciarono a pulsare. Spruzzò la colonia di lavanda e gelsomino, una fragranza che la signora McCabe adorava e che non mancava di sfoggiare ad ogni serata elegante.

Da un’altra stanza, arrivavano chiare le note di una sinfonia viennese d’altri tempi. Da qualche settimana, a quell’ora della giornata, la signora istitutrice lasciava che le bambine ascoltassero della musica classica, a suo parere favoriva la rapidità di apprendimento. Elyn non conosceva quel tipo di musica e quando la sentì nominare per la prima volta durante una delle cene della servitù, s’immaginò qualcosa di terribilmente noioso, ma si ricredette ben presto nell’ascoltare quelle note che solleticavano la sua fantasia e la trasportavano in tempi remoti, in luminose stanze da ballo, con candelabri appesi alle paresi e sontuosi abiti che ondeggiano delicati.

Sapeva che sarebbe dovuta uscire da quella stanza. Fu la parte di lei che soleva rimanere tacita durante la maggior parte del tempo, a guidarla verso l’armadio della signora McCabe. Lo aprì e le ante scricchiolarono leggermente, ma le note che invadevano la stanza non lo fecero quasi sentire, di certo nessuno se ne sarebbe accorto.

Passò velata una mano lungo i tessuti. La signora Ride permetteva solo a Beth e Clarissa di occuparsi di loro, così che la sensazione di toccarli per la prima volta la faceva tremare dalla gioia. Tornava ad essere bambina, quando insieme ad altre ragazze correva verso la campagna e liberava i conigli che i coniugi Cuinn compravano a buon mercato e che presto finivano in qualche pentolame. Dava loro da mangiare e li lasciava liberi. Era troppo ingenua per comprendere con ragionevolezza che quei conigli sarebbero finiti nelle bocche di altri invece che nella sua, ma ciò che più la elettrizzava era sfidare quel che le era vietato.

La stessa trepidazione di bambina la viveva ora, tenendo tra le mani uno degli abiti della signora McCabe. Probabilmente neanche uno dei suoi migliori, eppure i suoi occhi brillarono quando lo portò sulla sua figura e si guardò allo specchio. Il tessuto della seta, di un color senape, ricadeva ben oltre i suoi piedi e i ricami in pizzo d’orato e perline vitree le davano un’ improvvisa signorilità. Sorrise di quel che vedeva. Un viso così pallido e per giunta medicato non poteva render onore a un abito da sera come quello. Si allontanò dallo specchio e si mosse lungo la stanza. Volteggiò ad occhi chiusi, incoraggiata dalla sinfonia.

Volteggiò persa nei suoi pensieri, spontanea e leggiadra.

«Sono qui.» disse qualcuno alle sue spalle. Elyn si voltò e cadde insieme all’abito che reggeva.

«O mio Dio!» coprendosi le bocca con le mani, in un gesto totalmente insensato ma del tutto involontario. 

Jorge Markey rimase impietrito per qualche secondo, tanto da permettere ad Elyn di accorgersi come la sua presenza mancasse della solita impeccabilità. Il colletto inamidato non era completamente abbottonato e non portava nessuna cravatta nera.

Quando reagì, si avvicinò ad Elyn e l’aiutò ad alzarsi, preoccupandosi di non toccare le medicazioni che sapeva sotto le sulle braccia. Senza parlare, prese il vestito, gli diede una spolverata e lo ripose nell’armadio.

«Che cosa ci fai qui?» chiese ad Elyn e in quel preciso istante la sinfonia cesso, segno che la lezione dell’istitutrice stava iniziando.

«Credevo aiutassi Beth e Rosaline.» continuò, senza darle tempo di rispondere.

«No. La prima cameriera ha chiamato solamente Rosaline.»

«Certo! Lo ha fatto perché credeva aveste già finito in questa stanza. Credeva non ci fosse più nessuno.» non era solito nemmeno vederlo così alterato. Si tranquillizzò passandosi una mano tra la ciocca scura di capelli, maldestramente trattenuti dal gel.

Le rivolse un sorriso, che parve incredibilmente ricercato e le chiese se le ferite le facessero male. Non ritornò su quanto le aveva visto fare solo poco prima, per quanto il rossore sulle gote di Elyn mostrasse ancora il suo imbarazzo.

«Mi fanno molto meno male di qualche ora fa.»

Markey sospirò. «Elyn se sapessi quanto mi sento responsabile per l’accaduto. Non ho fatto che pensarci per tutta la notte.» con difficoltà cercava di mantenere lo sguardo su di lei. «Devi capire che non erano in sé… sono uomini di poco valore, non hanno un lavoro, per loro la vita è un monotono susseguirsi di eventi e le festicciole come quelle di ieri sera rompono questa monotonia.»

«Mi chiedete di compatirli, signor Markey?»

«No Elyn, no..» tornò nervosamente a toccarsi i capelli e si voltò per guardare la porta d’ingresso della stanza. «Non ti chiedo di compatirli, né tantomeno di perdonarli. Vorrei solo che riuscissi a dimenticare con il tempo e ringrazio quel vostro generoso Dio, perché non ti è successo qualcosa di ancor più irreparabile.»

Sapeva che Markey non professava nessuna religione. Nella sua vita non aveva mai conosciuto qualcuno come lui e prima di allora pensava fosse proibito. Le sembrò strano che ricorresse a qualcuno a cui non credeva, per lo più in una frase come quella. 

La stessa identica frase le era stata detta dalla signora O’Kane, quella mattina, mentre con una mano ancora sporca dell’impasto di farina le aveva accarezzato la guancia ed a farle eco era subito giunto il signor Allen. Il suo volto magrolino le era sembrato così sinceramente preoccupato, tanto che Elyn si era rallegrata, come non mai, di poter contare su un suo paterno abbraccio. Ma sul minaccioso significato che quella frase celava aveva preferito non fantasticare.

Jorge Markey continuò di fronte al silenzio di Elyn. «In ogni caso, non avere paura. Quella gente non ce l’ha con te, probabilmente si sono svegliati senza più ricordare come sia fatto il tuo viso. Sei stata solo sfortunata a capitare sulla loro strada..»

«Sulla loro strada avrebbero preferito Margaret, non è vero?» seguì le sue stesse parole, per non sembrare una povera ingenua. «E scommetto che ci sarebbe finita se non l’avessi riportata a casa?»

«L’unica persona che sarebbe dovuta ritornare a casa sei tu.»

Come riusciva a scagliare frasi così adirate e sfoggiare un sorriso compassionevole l’istante seguente?

«Non rimarchiamo troppo su quel che è successo Elyn, non ti fa bene. Non dicono forse che per superare i cattivi ricordi è utile concentrarsi sui piccoli aspetti positivi che li accompagnavano? Rasserenati, dunque, pensando che il destino ha voluto che il dottor White passasse per quella zona e accorresse in tuo aiuto.»

Calò il silenzio per pochi secondi.

«Il dottor White è accorso in mio aiuto?»

Jorge Markey guardòElynincerto. «Non ti hanno spiegato come sono andate le cose Elyn?»

Elyn si domandò se fosse saggio rispondere a quella domanda, o almeno dare la sua personale risposta. Distolse lo sguardo.

«Il dottor White era stato chiamato per un’ emergenza, in paese. Si è ritrovato con la macchina nei tuoi paraggi, quando ti ha sentita chiedere aiuto. E’ bastato che si avvicinasse e la luce dei fanali ha allontanato quei disgraziati all’istante.» 

C’erano troppe cose che non quadravano. Elyn era convinta di essere stata avvicinata nel mezzo di un bosco, per quanto l’oscurità le permettesse di vedere. Come poteva arrivare una macchina in quel punto? E per di più non ricordava nessuna macchina, benché la ragione la facesse apparire più realistica dell’unico vivido ricordo che le rimaneva. Un cavallo e le braccia di Duncanson che l’allontanano dalla paura. Capì all’istante che non avrebbe mai compreso la reale versione dei fatti, tanto valeva fare come Markey le suggeriva.. dimenticare il prima possibile.

«Devono essere le gocce che ho preso per riposare, mi hanno lasciato la mente offuscata. Forse sarebbe meglio se andassi dalla signora Ride. Sarà piena di faccende da incaricarmi.»

«O forse dovresti tornare a riposarti. Non pensare a lavorare oggi, nessuno si aspetta che tu lo faccia. Scommetto che nemmeno il signor Duncanson avrebbe da ridire. Ci parlerò io, per farti sentire più serena. Dammi la mano Elyn.»

Disse come nulla fosse e imprevisto le porse una mano aspettando che la sue piccole dita la toccassero. Quando Elyn si decise, Jorge Markey le strinse nel suo palmo, mentre il suo sguardo riuscì a sciogliere un timido sorriso ad Elyn.

«Ci sono molte persone che vogliono il tuo bene, Elyn e io sono felice di essere tra queste.»

 
 
Uno dei momenti della giornata che la signora McCabe preferiva la vedeva con una sigaretta tra le mani, abilmente coperte da un costoso guanto, distesa su una comoda poltrona, a fingersi intrattenuta da uno dei rotocalchi settimanali.

Una cameriera stava ritirando il bicchiere di cognac, su cui si era limitata a bagnare le labbra che mantenevano ancora un rossore vivido. Le luci erano state spente, sotto sua precisa richiesta così che rimanessero solo il fuoco del camino a schiarire la piccola stanza. Di suo completo possesso.

Nessun altro membro della famiglia era solito entrarci e lei vi metteva piede qualche ora dopo la cena, prima di coricarsi. La sua cameriera personale, Beth, le districava i capelli biondi e lei quasi si addormentava tra la morbidezza delle spazzolate. Ma un singolo errore l’avrebbe risvegliata più carica di un leone intrappolato in gabbia. Beth si era abituata a controllare l’agitazione e il tremore nelle mani dei primi tempi. E come Beth, il resto dei domestici si era adeguato all’ esigenze, agli ordini, alll’armonica scansione del tempo di Jessica McCabe.
Quando anche Beth finì, venne liquidata, lasciandola sola nella stanza.

«Finalmente.» disse, espirando il fumo della sigaretta. La sua voce maliziosa mostrava sempre un lato malevolo e astuto. «Sai quanto odio i ritardatari.»

Una mano le carezzò i capelli.

«Dimmi che hai buone notizie. E’ stata una giornata disgustosamente infernale.»

«Temo che non saranno le mie notizie a migliorarla, fiore.» si avvicinò a lei, prendendo la sigaretta che gli stava porgendo. Non prima di chinarsi e baciarle castamente la fronte, che ancora sapeva della polvere di cipria chiara.

«La vita a Lonsadriver peggiora giorno dopo giorno, dovrei allontanarmi da qui prima d’imbattermi in una crisi di nervi.»

«Allontanati da qui.» ripeté lui. «I posti dove poter andare sono molti.»

«Oh, lo so.» disse, alzandosi. Si avvicinò al camino senza darsi la briga di rimettere le scarpe ai piedi. Li lasciò nudi, senza alcun imbarazzo. Illuminata dalla calda luce che emanava il camino, sapeva di essere bersaglio dei suoi occhi. «il cottage dei cugini Frediss, la residenza sulla costa azzurra… Dio quanto mi farebbe bene un po’ di aria salata. Ci sarebbe persino la casa al mare del ministro Chandal, dicono sia un incanto e la moglie ha già sollecitato la mia presenza laggiù. Se solo non apparisse così insulsa ogni volta che si degna di aprir bocca.»

Le sue parole suonavano così languide che nessuno sarebbe mai stato attento a quanto diceva, perché completamente catturato dal suono della sua voce. Era così che Jessica McCabe manteneva l’attenzione su di se.

«Allontanarsi per qualche tempo servirà anche per calmare le acque. Ci siamo mossi con troppa poca prudenza negli ultimi giorni e lui è maledettamente sagace.»

«Non sospetta nulla, credimi.»

Jessica McCabe lasciò che la sua mano le accarezzasse la guancia e avanzasse lentamente oltre il suo collo. Oltre il medaglione rubino. Oltre il pizzo del suo corsetto.

«Certo che sospetta.» riuscì a dire, tra i sospiri affannosi. «E’ la cosa che sa fare meglio.. sospettare. Ma ancora non sa che noi siamo più bravi.» disse, sedendosi a cavalcioni su di lui e sbottonandogli la camicia bianca, bagnata da piccole gocce di vino rosso.  «E faremo in modo di allontanare i suoi sospetti verso la prima preda perfetta che riusciremo a trovare. Non sarebbe la prima volta, infondo.»

«Se le cose stanno così...» rise tagliente. «penso di averne già trovata una, mio fiore.»
 
  
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