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Autore: Mary_la scrivistorie    23/10/2014    2 recensioni
Helena, rampolla della Casata dei Corvonero, è sempre stata una ragazza testarda e fiera, ma è destinata a tramutarsi. Distrutta dalla perdita atroce del suo nobile amante Salazar Serpeverde in un incidente, si sente morta. Lui è lì con lei, ma non ricorda assolutamente nulla del sentimento che si era instaurato tra loro e li aveva resi folli d'amore. Helena si trova così obbligata a fare scelte sbagliate, scelte che non avrebbe mai voluto prendere, ma che la renderanno la donna che abbiamo conosciuto in Harry Potter. Influenzata dalla sfera dei ricordi che l'assilla, ossessionata dalla damnatio memoriae.
[Prima classificata al contest "Amnesia" indetto da Nuel2 sul forum di EFP.]
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Corvonero, Helena Corvonero, Nuovo personaggio, Priscilla Corvonero, Salazar Serpeverde, Serpeverde
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra
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Damnatio memoriae


Dedicata a chi, come questa Helena, ha paura del futuro, ha paura di scegliere: ricordate che la paura è una delle cose che ci ricorda che siamo vivi e che stiamo combattendo per qualcosa, sempre.

“L'assenza dell'essere amato lascia dietro di sé un lento veleno che si chiama oblio.” 
 - Claude Aveline, E tutto il resto è nulla, 1951 - 

Ero solo una bambina quando conobbi il mio futuro amante. Ero appena caduta dall'albero delle mele, di nuovo. Mia madre lo definiva un “passatempo villano e inutile”, ma io non le badavo. Ero una ragazzina giovane e ingenua, innamorata delle sfide e dell'idea di vincere - sempre. Ero stupida, rispetto alle altre fanciulle, e bramavo di essere la migliore. 
Sebbene Savannah fosse la più agile di tutte noi, se ne stava in disparte a fissarmi, con la bocca a bocciolo di rosa schiusa per l'ansia: «Helena, attenta, potresti farti male.»
Solo adesso mi accorgo di quanto fosse legata a me, di quanto ci tenesse. Non era una serva [1], ma un'amica, fedele e costantemente preoccupata; mentre io, sleale ed egocentrica, limitavo la mia sfera emotiva soltanto al desiderio e alla gelosia. Come una bimba di tre anni, anche se ne avevo dodici. 
Quel giorno, lo vidi. Era giovane, non lo avrei mai pensato come un “amico” di Priscilla [2]. Lei amava circondarsi di persone colte e di buona famiglia, mentre quell'uomo...beh, a parte l'abbigliamento curato e il cipiglio fiero, non aveva nulla che potesse interessare la mente brillante di mia madre.
«Prima o poi ci arriverai, all'albero.», sbuffò, contrariato, come se disapprovasse il mio comportamento.
La sua voce magnetica e roca mi fece ricredere: era molto più giovane rispetto ai miei pareri iniziali. Sembrava appena ventenne, più o meno come Tosca.  
Dei minuti successivi ho solo ricordi frammentati: la mia insistenza nel farcela al più presto, il suo sorriso saccente e superiore, il suo sguardo color smeraldo, come le squame dei serpenti che mia madre allevava segretamente.
Adesso qualche dettaglio è cambiato: abbiamo qualche anno di più, un aspetto diverso e, invece di trovarci sotto l'albero delle mele, siamo in un settore della biblioteca dei Corvonero, in un'ala segreta di cui nessuno, eccetto noi, ne è a conoscenza. O meglio: eccetto me. E Savannah.
La mia “amica” m'accarezza la spalla con memorabile delicatezza. È sempre comprensiva e pronta ad aiutarmi, che non posso non considerarla un'amica - o quantomeno, un'aiutante.
«Cos'hai intenzione di fare con Peter?», chiede, con un bisbiglio leggero, tanto che sembrano parole di vento.
«Non lo so ancora: probabilmente dovremo fuggire. Se sapesse cosa gli è successo, mi rapirebbe, lo sai meglio di me.»
Guardo il viso del mio amato Salazar e rimpiango ogni mia scelta. Nei romanzi che ho letto, e che appartengono a mia madre, gli eroi, anche se si trovano in situazioni critiche come questa, non ritornano sulle loro scelte. Si apprestano a rimediare alle disastrose conseguenze.
Per me non è così: forse perché non sono un'eroina, forse perché non sono uscita da un romanzo, forse perché noi umani siamo tutti difettosi, ma in modi diversi. 
Essermi innamorata di un uomo pericoloso e letale mi ha più volte persuaso a compiere su me medesima l'incanto Obliviante. Per fortuna, o sfortuna - non so decidermi, non decido più e basta -, c'era Savannah. La mia ancora, il legame che mi piantava a terra e non mi concedeva possibilità di sottrarmi, in un modo diverso e uguale a ciò che mi provoca Salazar. O meglio: mi provocava.
Salazar Serpeverde non è più qui con me: il suo corpo è un'illusione, una reincarnazione, non il mio amante arguto e affascinante. È una proiezione, né più né meno. 
Ogni bacio, ogni carezza, ogni gemito: illusioni del tempo, scagliate via da un feroce tornado.
Salazar è sepolto e, allo stesso modo, sono sepolta anch'io. Tutto ciò che riluce del mio aspetto è una bocca schiusa per il dolore, per l'incancellabile vuoto, due occhi vitrei e la pelle diafana, più cerea del solito. 
Savannah non ce la fa a vedermi in questo stato, lo so bene: lo noto dalle fugaci occhiate che talvolta lancia alla mia pelle, quasi tema che possa sparire d'un tratto. Devo dire che non ha tutti i torti. Le persone sono nate per essere amate, non dimenticate. Nessuno a questo mondo è un giocattolo, un passatempo per un bambino solitario. Tantomeno io. 
E quando vieni dimenticato...è buona consuetudine dimenticare anche tu, è il tuo turno. Ognuno ha i propri modi: c'è chi beve così tanto alcol da non ricordarsi più neanche il suo nome; c'è chi, semplicemente, sceglie di porre fine al suo eterno dolore; infine c'è chi, e io la so lunga, ricorre a un metodo molto più netto e brutale. 
L'incantesimo Oblivion. 
Nel mondo della magia, è così che si fa. Un incantesimo, e tutto finisce. Perfino la magia “indimenticabile” dell'amore. 
Savannah interrompe le mie riflessioni, sfiorando la mia guancia marmorea. «Helena, non meritate di soffrire in questo modo.»
La fisso per un po', e penso che è una delle donne più belle che ho mai visto. I suoi lineamenti sobri, l'incarnato candido, i grandi occhi azzurri e i sottili capelli biondi la rendono mozzafiato, e se non indossasse abiti umili e luridi, sarebbe davvero degna di essere una regina. 
Replico: «Savannah, non sei nessuno per decretare le pene che Dio sceglie per i suoi guerrieri.»
Definire “guerrieri” gli umani è un po' come dare al Cappello Parlante dello “stupido”. Ma non me ne curo: non mi curo più di niente da quando un'esplosione mi ha portato via, nel peggiore dei modi, il mio Salazar.
Pensare a tutto ciò che è stato, e che non sarà mai più, mi provoca una lancinante fitta al petto, all'altezza del cuore, il grande cristallo infranto che non potrà mai ripararsi. 
Ritornare indietro nel tempo al suo ghigno spiazzante, al suo sguardo intelligente, ai suoi baci passionali - quasi aggressivi -, alle sue mani su di me: è questo il peggio. Riviverli, e sapere che fossero destinati a finire molto presto.
Mi mancano i difetti di Salazar: dopotutto, le cose belle piacciono a tutti, e io non sono “tutti”. Io sono Helena, la rampolla dei Corvonero. O perlomeno, lo ero stata. Per un tempo molto lungo.
Una ragazza testarda e fiera, molto più Grifondoro o Serpeverde che Corvonero.
Avevo riflettuto mille volte su quell'eventualità - diventare Helena Serpeverde, sostituire abiti di smeraldo a quelli blu notte di mia nonna Deirdre, saper sfoderare il sorriso scintillante e superiore della Casata a cui sarei appartenuta per sempre -, ma adesso mi sembra tutto un'ironia del destino. Le persone progettano, ma a volte lasciano incompiute le proprie aspirazioni.
«Però vi conosco, e ciò mi basta.», sussurra Savannah, con insolita spavalderia. Sono abituata a un atteggiamento remissivo e timido da parte sua: non è sua consuetudine esporsi in questa maniera.
A me non basterebbe conoscermi. D'altro canto, la personalità è un segreto, il cuore è un segreto. Siamo segreti intrappolati in un corpo. 
Accarezzo il volto di Salazar, come per appropriarmene: ammirare le sue fattezze stupende contrarsi e rilassarsi durante il sonno m'ha sempre ammaliato. 
Quando era lui a baciarmi e abbracciarmi mentre sognavo - lui, perché era la cosa più bella di una vita infernale all'ombra della donna più saggia del mondo -, a volte percepivo il suo desiderio, la sua brama di possedermi, di sentire che io fossi sua come lui era mio. Adesso che tutto è volato, e adesso che mi pare di aver sprecato tutte le lacrime umanamente disponibili, mi sento morta. Vorrei esserlo, dovrei esserlo. 
«Lui non vorrebbe questo per voi.», mi fa notare Savannah con voce carezzevole ma determinata, un tono che non è da lei, un tono che non è da serva.
«E tu, infatti, puoi immaginare cosa lui desideri per me, per il mio futuro?», esplodo. Esplodo perché ho perso la pazienza, esplodo perché lui non c'è e me l'hanno sostituito con un gemello vitreo, esplodo perché ho bisogno di affermare la mia supremazia. Ho sangue Corvonero, sono la rampolla dei Corvonero.
«So cosa lui non vorrebbe per voi, signora.», continua, con voce rotta, malferma. 
«Ah, sì? E cosa?», chiedo, inarcando il sopracciglio. Sto sbagliando, sto sbagliando tutto. Salazar avrebbe sorriso soddisfatto vedendo i miei modi da provocatrice nata, mi avrebbe baciato la nuca - come era solito fare - e avrebbe detto qualcosa come “È nelle imperfezioni che si nasconde la perfezione”. E io l'avrei baciato, ridendo. 
Perché la sua saggezza mi rendeva orgogliosa, mi rammentava uno dei motivi per cui mi ero così perdutamente innamorata di lui. Ma era solo un motivo, quasi un niente in confronto agli altri novecentonovantanove. 
«Non vorrebbe che voi annegaste nel dolore, non vorrebbe che voi foste così vuota e che l'unica emozione che provaste sia la rabbia.», mormora, mestamente.
Non riesco a capacitarmene: ha espresso in tre frasi ciò che io sto esprimendo a vita. Devo essere un essere umano particolarmente longevo e duro di comprendonio. 
«Hai ragione.», le concedo, «ma lui pretenderebbe troppo.».
Mi alzo e fuggo, prima che lei possa ribattere qualcosa, prima che lei possa convincermi che quella che era appena nata era un'idea tremenda.

***



Tutto ciò che conseguì da quell'idea è una storia ben nota. 
Fui l'artefice di un furto orribile: rubai a mia madre ciò che le era più caro, il suo diadema. Indossare quel diadema sembrava per tutti i suoi ammiratori un prodigio eccezionale, un dono del cielo. Si diceva che quel diadema procurasse la saggezza, l'intelligenza.
Io posso provare che avessero torto: quel diadema non aveva alcunché di speciale. Forse era bello, forse era una reliquia molto ambita e desiderata, ma era soltanto una specie di corona. Nulla di più.
Nessuno seppe il vero motivo del mio gesto orrendo. Tutti conoscevano il mio carattere testardo e fiero, a tratti invidioso, perciò mi limitai ad accreditare le teorie che nacquero. Secondo queste, il mio egoismo e la mia brama di essere migliore di colei che mi aveva dato la vita mi avevano spinto a commettere quel crimine per cui mia madre mi esiliò e mi rinnegò.  
Non mi offesi né mi addolorai di quella decisione: sarei fuggita comunque. Ero stanca  della vita, stanca di aver ucciso Peter e di doverlo nascondere, stanca di non essere riuscita nel mio intento più grande.
Mia madre, in breve tempo, fece circolare una nuova storia: secondo questa, io avevo rubato il diadema ed ero fuggita in Albania, lei aveva inviato Peter a riprendermi e, dato il mio sdegnato rifiuto, lui mi aveva ucciso e, disperato, si era suicidato.
Un'idea geniale, molto realistica. Ma, dopotutto, Priscilla Corvonero era sempre all'altezza di ogni aspettativa. Al contrario di sua figlia. 
E comprendo anche perché lo avesse fatto. Anche lei aveva qualcosa di cui vergognarsi, esattamente come me. 
Aveva rinnegato sua figlia, le aveva permesso di amare Salazar Serpeverde - di otto anni più grande - e aveva spedito uno spasimante irrazionale a cercare non lei, bensì il suo diadema. Solo il suo diadema. 
So anche che rimpiangeva ogni sua scelta e che soffriva per il destino di Peter, come me. Forse eravamo più simili di quanto pensassimo. 
Peter, il ragazzo che per me era un fratello e per lei un figlio, è stata una delle cose che ci accumunavano. 
Quando lui scoprì di me e Salazar, e del suo fato ingiusto, venne da me, pensando di costringermi a sposarlo. E io lo uccisi, furiosa, ribelle. 
Tenni il diadema per me, per qualche anno. Dopotutto, avevo amato un persecutore di Mezzosangue: significava che non badavo molto alla felicità e alla vita altrui. Ero egoista, egoista e spietata. 
Mi nascosi presso Norfolk [3], in una palude. Pensai che forse il luogo dove era cresciuto avrebbe rammentato a Salazar qualche momento della sua vita.
Era estremamente ironico: io mi sforzavo ogni giorno di ridargli i suoi maledetti ricordi, e intanto me lo trascinavo dietro come un cane, o come una vittima sacrificale. 
Savannah non mi aveva seguito. A quanto pareva, era rimasta a servire i Corvonero, diventando l'ancella di mia madre. Salendo di gradino.
Forse la mia fuga aveva aiutato lei più di quanto avesse aiutato me.
Per il resto della mia vita, trascorsi i miei giorni educando Salazar e leggendo alcuni libri che mi ero portata dietro. 
Scoprii che i libri significavano per me ciò che significavano per mia madre. Erano la mia unica fonte di svago, la mia nuova ossessione, la speranza a cui mi ero aggrappata. Con il tempo, divennero anche un dovere, per me.
Capii che non avrei mai potuto essere una Serpeverde, neanche se l'avessi voluto con tutta me stessa. Ero troppo affamata di libri e di conoscenza, ero troppo Corvonero. Presto iniziai a dimenticare persino il dolore causato da Salazar: oppure forse non lo dimenticavo, ma era molto più lieve e sopportabile. 
Incredibile, avevo trovato la mia fonte di oblio. 
Un giorno, leggendo un brano sugli antichi Romani, mi scontrai in una condanna davvero terribile. Si chiamava damnatio memoriae [4], e consisteva proprio nell'oblio: cancellava ogni traccia di una data persona dalla vita di Roma e i suoi abitanti.
Per la mia anima, fu un nuovo pilastro. Fu da quel giorno, infatti, che iniziai ad applicare la damnatio memoriae su me stessa. Sarei scomparsa dalla vita di tutti i miei familiari e di tutte le persone a cui tenevo. Iniziai con Salazar: rimossi dalla sua mente ogni ricordo legato alla presenza di Helena, la sua “Guaritrice”. Gli detti una lettera che narrava di tutto il suo passato - fatta eccezion per me - e lo lasciai libero.
Per tutti gli altri, fu più semplice: ero già nascosta, mi bastò fingere la mia morte. E ci riuscii. 
In un primo momento, mi sentii invisibile. Tutti non ricordavano più Helena Corvonero, ma Helena Corvonero ricordava tutti. 
Con il procedere degli anni, mentre invecchiavo sola in mezzo ai libri, divenne sempre più difficile ricordare il viso di Savannah, o lo sguardo severo di mia madre. Tutto era opaco, leggero. Era il mio turno di dimenticare.
Solo un ricordo era ben impresso, indelebile: il sorriso di Salazar. Il suo sguardo. Ogni dettaglio del suo volto.
Mi chiesi più volte se il Salazar senza memoria non mi riconoscesse, in qualche modo. Ma era troppo tardi per preoccuparsene.
Convissi con quel sentimento accecante che superava ogni emozione suscitata dai libri. 
Fu all'età di trentacinque anni, che il mio giuramento venne spezzato. Qualcuno mi cercò. Qualcuno si ricordava di me.

  ***



Era una donna, più grande di me di meno di vent'anni. Era simile a me: i capelli corvini e ondulati, gli occhi color zaffiro, la pelle candida e i tratti delicati.
Si diresse verso di me con passo aggraziato, felino: non so perché, forse era la mia natura di Corvonero, o forse perché avevo convissuto per diciott'anni ammirando i suoi modi leggiadri, ma la riconobbi. Priscilla Corvonero. Mia madre
Ci fissammo a lungo e fu un po' come guardarsi per la prima volta. Io e lei. Nessun altro: niente ammiratori, niente amori, niente di niente.
Solo una donna e ciò che aveva partorito.
«Allora, eccoti, figlia mia. Sei viva.», proclamò, per nulla sorpresa. «Ed è qui che risiedi? In questa palude?».
La sua espressione non era né disgustata né sprezzante: era affascinata, curiosa, avida di informazioni.
«Dovevo pur rifugiarmi da qualche parte.», scrollai le spalle. 
«Davvero curioso. Abiti nel suolo dov'è cresciuto Salazar.», notò, arpionandomi con il suo sguardo acceso.
«Non è affatto curioso, madre. Contrariamente a quanto pensiate, gli umani non sono esemplari da esperimento. Agiscono in base al loro istinto, ma il loro istinto è quasi sempre agli ordini dei sentimenti.», spiegai, pacatamente. 
Lei mi sorrise con grazia e distacco: «Forse.»
Cambiai discorso: «Come sta Savannah?».
«È morta.», annunciò con noncuranza, «e pare che in punto di morte si sia pentita di non averti seguito. Io le ho detto che tu non l'avresti pensata in questo modo.»
«Hai ragione.», confermai, con il fiato mozzato. In realtà non badavo più alle parole che pronunciavo: nella mia mente l'unico pensiero che riuscivo a formulare era che avevo perso anche lei. Anche Savannah, che nel suo piccolo mi aveva tradito, era scomparsa. E io non potevo sopportarlo.
«Voleva che ti dessi questi - sai, i dadi di te e Salazar. A quanto sembra, li ha custoditi per tutta la durata della sua vita da serva. Quanto a fedeltà, non si può dirle nulla.», mi annunciò Priscilla, concentrata.
Mi porse i dadi e, per la prima volta in diciassette anni, il mio cuore batté a mille. Erano esattamente come li ricordavo: di cristallo, puri e fragili, un pegno d'amore che in quel momento mi lacerava e allacciava in un modo incomprensibile.
Quel senso di sbiadito che mi aveva invaso per tutti quegli anni fu sostituito da una nitidezza dolorosa e piacevole. Mi sentii nuova, umana e viva.
All'improvviso, ogni ricordo riguardo Salazar mi fu chiaro e indelebile. Non se ne sarebbe più andato via da me tanto facilmente.
E anche se volevo piangere - per Savannah, per Peter e per il passato -, non potei fare a meno di sorridere. Sorrisi di quel sorriso che rende le persone vive, prossime alla Felicità con la “F” maiuscola.
Mia madre contemplava il mio sorriso come se fosse determinata a goderselo tutto, in ogni sua sfumatura. 
«Che fine ha fatto Salazar?», chiesi, pentendomi subito della domanda.
Priscilla non mi guardava più: fissava le siepi che la circondavano, come intenzionata a ricordare ogni dettaglio: «Si è sposato. Ha continuato a vivere. Quando mi chiede della donna mora vestita di blu che assilla le sue notti e che somiglia così orribilmente a me, gli dico che è per lui molto importante, il suo motivo di vita. E lui ci ha creduto. Ha iniziato a disegnarti, a scrivere su di te. Sua moglie non ne è molto contenta, ma lo lascia in pace. Le ho detto la verità, e credo che abbia accettato, seppur con iniziale fastidio, di concedergli di sognare la donna che amava con tutto se stesso e che ha dimenticato - un po'.»
La mia anima sembrò voler uscire dal mio corpo, mentre iniziava una lenta implosione. La donna mora vestita di blu che assilla le sue notti. Lui non mi aveva dimenticato: la damnatio memoriae non aveva funzionato molto.
Ma mi sarebbe bastato che continuasse a sognarmi, altroché se mi sarebbe bastato. Non ero così invisibile come avevo sperato, ma ciò mi rendeva stranamente compiaciuta.
«Madre, dovete farmi un favore.», dissi, seria. 
Priscilla mi degnò di uno sguardo penetrante: «Certo, Helena.»
Mi irrigidii, a quelle parole. Erano ormai più di trent'anni che non mi chiamava per nome. Ero rimasta solo “tu” oppure “figlia mia”. 
«Compiete l'incantesimo Oblivion su Salazar.», annunciai, senza trattenere le lacrime che mi avevano rigato gli zigomi, «Fategli dimenticare che sono la donna dei suoi sogni. Fategli dimenticare tutto di me. Non devo esistere, devo essere niente per lui.»
Mia madre mi sondò con sospetto: «Non posso assicurarti nulla, Helena. Neanche il tuo incanto ha funzionato.»
Ero sempre in tempo per bloccarla. Potevo agire d'egoismo, e riprendermi l'uomo che avevo amato con tutta me stessa; oppure potevo decidere di rendere tutto più semplice, permettendogli di scordare perfino ogni dettaglio del mio volto.
Ma non la fermai affatto.
«Voi siete una strega molto più potente di me, madre. Potete riuscirci, ne sono certa.»,  le sorrisi.
Lei ricambiò, con impaccio: «Non sono venuta solo per quei maledetti dadi e per farmi dare ordini.»
Mi concessi una breve risatina: «Non ne dubitavo.»
Un lampo di desiderio balenò nei suoi occhi: «Il diadema.»
Abbassai lo sguardo, improvvisamente spaventata. Come potevo dirle che lo avevo rubato e tenuto, e solo qualche anno prima lo avevo gettato via? Come potevo dirle che era una maledizione, anziché un dono?
«L'ho gettato in un fiume, quando ho capito che non avrebbe mai funzionato né su 
Salazar, né su di me.», rivelai subito, prima che potessi farmi sopraffare dalla paura.
Da bambina, avevo sempre temuto Priscilla: ero terrorizzata dalla sua ossessione maniacale verso il diadema, dai suoi modi esigenti e apatici, dal luccichio dei suoi occhi quando diventava improvvisamente curiosa. Non l'avevo mai considerata mia madre. Neanche con il trascorrere degli anni.
La sua espressione si fece gradualmente più gelida: «Sospettavo che avessi commesso una sciocchezza del genere, è nei tuoi geni.»
Chinai lo sguardo, improvvisamente ferita. Coinvolgere mio padre era un colpo basso, persino per i suoi standard. 
Balthazar Harrison, il padre che non ricordavo, era morto qualche anno dopo la mia nascita. Su di lui, mia madre aveva sempre buone parole: saggio, intelligente, arguto, brillante. Un uomo spettacolare, che aveva catturato il suo interesse quasi come avrebbe fatto un manufatto antico.
Era perciò molto strano che lo insultasse.
«Che cosa intendete?», chiesi, con più spavalderia di quanto volessi dimostrare.
«Mia cara figliola, credevi davvero che tuo padre fosse l'uomo perfetto di cui ti raccontavo? Credevi davvero che non fosse uguale a te, in fondo? Balthazar Harrison era l'uomo più saggio e intelligente che io avessi mai conosciuto, ma aveva molti difetti fatali. La testardaggine, ad esempio. La superbia, l'ingenuità. Non era arguto o umile, un uomo che sa starsene in disparte: tuo padre era un uomo che vantava le proprie virtù al villaggio intero e, nel frattempo, non riusciva a percepire i difetti, altrettanto famosi. Lo sposai perché era bello e forte, e secondo i calcoli della natura, sarebbe stato perfetto per prolungare la mia nobile discendenza. Lo ammiravo abbastanza da concedergli la mia mano di diritto, ma non lo amavo. Del resto, chi ho realmente amato, io? Neppure mia figlia - la carne della mia carne, il sangue del mio sangue - è riuscita ad entrare nel mio cuore. Forse sarà la mia anima algida e distaccata, forse sarà il mio essere così intransigente e severa, ma nessuno è mai riuscito a perforarmi il cuore.», parlò, e mi sembrò che la sua corazza per un attimo vacillasse, che venisse a galla la sua debolezza umana.
La fissai, e, sebbene il mio cuore stesse palpitando furiosamente, riuscii a capirla. Mia madre era stata distrutta, ma non da un incantesimo di memoria o da perdite inconsolabili. Priscilla era lacerata perché aveva dovuto scegliere di avere una figlia, di sposarsi, di abbassarsi alle responsabilità di una 'donna'. Aveva dovuto sacrificare, sopportare, fingere. Non che tutto ciò la giustificasse, ma si meritava una degna riflessione su questo. 
Annuii, seria. Non riuscivo a pronunciare una singola parola: la mia esistenza era un errore che mia madre rimpiangeva amaramente. 
Un'altra fitta al cuore. Per un momento, fui disgustata da me stessa. Quando si era creato un problema, mi ero rifugiata dietro la formula Oblivion.
Ero stata codarda, ero stata coraggiosa. Codarda perché avevo deciso di proteggermi, coraggiosa perché avevo scelto di proteggere anche gli altri. Dal ricordo di me.
Mia madre si era ricordata di me, però. Del resto, ero uscita dal suo corpo. Non poteva fare altrimenti.
Sospirai, riflettendo. Salazar mi avrebbe dimenticato. Era un bene, era un male. Era inutile rimuginarci, ma perdermi nella mia mente mi distraeva dalla cruda realtà, per un po'. 
Ritornai con lo sguardo sul volto di mia madre, cercando di imprimere in testa ogni dettaglio. La somiglianza incredibile, le rughe appena accennate, l'espressione fredda e implacabile, anche nella sofferenza. 
«Avete mentito a tutti.», finalmente notai, con una nota di stupore nella voce.
Lei chiuse gli occhi, assorbendo le mie parole, e replicò: «Non sono stata l'unica.»
«No, infatti.»
Le presi la mano. A dispetto dello sguardo, era calda, asciutta. Le sue dita erano affusolate e candide, come le mie, manifesto della nostra passione maniacale per l'arpa [5]. 
Strinsi il suo palmo e allacciai la presa, in modo che non potesse sottrarsi. Funzionò. Dopo l'iniziale sorpresa, percepii mia madre cedere e rilassare i muscoli.
«Sono vostra figlia, è l'ora che vi abituiate al mio contatto.», le rammentai, come si fa con i bambini piccoli.
Lei aveva le palpebre socchiuse, mentre si concentrava sul tocco delle mie dita sulle sue, e infine sibilò: «Mi dispiace, Helena, ma per me tu non sei mai stata mia figlia. Eri più una genere di dovere giusto appena sopportabile.»
Non la biasimai per questo. Anzi, non la biasimai per nulla. L'importante era che avesse detto le cose per come stavano davvero, senza menzogne stucchevoli, senza inganni. Era stata onesta e io l'avevo apprezzato. Fine.
«Capisco.», mentii, per non rendere la situazione ancora più complicata.
Lei, evidentemente, lo intuì: mi fissò impietosita, con un'aria quasi dolce. «Oh, Helena, non dipende da me!»
«Lo so.», mormorai, decisa, «Ed io vi prego di perdonarmi, se potete.»
Mi guardò torva: «Ti ho già perdonato la faccenda del diadema. Altrimenti non sarei rimasta qui anche dopo la tua spiegazione.»
«Non avete da perdonarmi quello.», sussurrai, voltandomi, in modo che non notasse le lacrime che già mi rigavano le guance.
Mi dispiace.
Mi dispiacque per sempre. Perché fui codarda anche quella volta.
Cercai di non guardare, ma era difficile non farlo. Quando bisbigliai Oblivion non potei impedirmi di vedere il vuoto nel suo sguardo.
Non riuscivo a guardarla. Salazar, Peter, mia madre, Savannah. Sembrava che avessi perso tutto. 
Tranne i libri. Li fissai, con gratitudine, un'altra volta.
Puntai la bacchetta contro me stessa, ma non riuscii a procedere. Privando Priscilla dei suoi ricordi, avevo rotto anche la sua promessa. Salazar.
Tuttavia, non mi recai da lui. Avrei voluto che vivesse con quel frammento di ricordo: l'unica persona che conosceva il mio volto era lui. Anche se il mio mondo era sprofondato nell'oblio, lui era aggrappato a quel dettaglio in modo indelebile. Ed io ero aggrappata al dettaglio del suo sguardo di smeraldo.

***



Un anno dopo, morii. 
Avevo dimenticato dolore, rabbia, il significato dell'oblio. Avevo dimenticato perfino Salazar. Di tanto in tanto, mi capitava di rileggere il mio manoscritto sulla mia vita, ma non c'era nulla da fare: Helena Corvonero mi sembrava un'ombra, una sconosciuta. Incredibile quanto mi fossi trasformata. Soltanto in punto di morte, fui accecata da un bagliore luccicante, che assomigliava abbastanza ad un sorriso seducente e sghembo. Quella luce fu seguita da un luccichio color smeraldo. I suoi occhi. Percepii il tintinnio dei dadi di cristallo che erano scivolati a terra, ma non si erano frantumati. Me ne accertai, anche quando stavo volando via. 
E mi bastò. Mi bastò per morire. Ma non per andare oltre. Perché, del resto, dovevo rivederlo. Gli stetti accanto per molti anni: a volte gli permisi di vedermi, le altre volte - molto più numerose - rimasi nascosta, a vederlo vivere. Sorriso sghembo, occhi verdi. Non dovevo dimenticarlo mai. 

***



Norfolk, 25 novembre, 1951

Era un intruso, e volevo cacciarlo [6]. Soggiornavo a Norfolk da poco, giusto per rivisitare la mia vecchia casa: Hogwarts era uno dei miei luoghi preferiti - sebbene trasudasse della presenza di mia madre - ma nessuno eguagliava la mia Palude. Da un mese ormai sfogliava le pagine del mio libro, sfoderando un'espressione maniacale e possessiva, sdraiato su ciò che un tempo era stato il mio giaciglio. Sembrava che leggere ciò che avevo creato lo rendesse estremamente fiero.
I suoi compagni lo incitavano a tornare a casa sua, a Parigi [9]. Talvolta nominavano una certa Hélène [7]. Da quanto dicevano, era la figlia di quello scrittore.
Scoprii anche che aveva un nome d'arte: Claude Aveline. Lo avevo letto sui documenti che troppo spesso dimenticava nel mio rifugio.
Tuttavia, i suoi amici lo chiamavano Eugène. 
Iniziai a sostituire la mia paura e la mia rabbia con curiosità. Lo spiavo: era stupefacente osservarlo leggere e cercare di tradurre la mia lingua nella sua [11]. 
Un bel giorno, dopo ben tre mesi, l'uomo scomparii. Neanche me ne ero accorta: mi ero appisolata pensando al mio essere morta, e lui nel frattempo era fuggito.
Portandosi via tutto, anche il mio manoscritto. Lasciò soltanto un foglio, in cui erano scritte poche, importanti parole: L'assenza dell'essere amato lascia dietro di sé un lento veleno che si chiama oblio. 
Lui sapeva, mi conosceva. Aveva percepito la mia presenza, e mi aveva lasciato un messaggio. Un cortese ringraziamento per aver rappresentato per lui una fonte d'Ispirazione. E, chissà, forse anche lui aveva imparato qualcosa dalla damnatio memoriae, forse anche lui aveva compreso il messaggio della mia vita. 
Mi rimanevano tre cose: due dadi maledetti e un foglietto. 



Note d'autrice:
Eccomi! ^^
Sì, lo so, sono una rompibolidi, ma Helena Corvonero è lentamente diventata una droga per me. Per tutta la durata della scrittura, mi è piaciuta, mi ha attirato e obbligato a buttar giù questa storia. Ora, io lo so che probabilmente è una schifezza, ma gradirei ricevere qualche recensione, solo per capire che qualcuno si è fermato per leggerla, aw. 
Ringrazio la giudiciA, Nuel, per aver indetto questo contest davvero intrigante che mi ha permesso di scrivere su un Pairing molto !fanon, se non con sfumature !crack: Salazar/Helena. Devo ammettere che mi è piaciuto
fin troppo analizzare il loro rapporto (e inserirci Priscilla, intendiamoci bene). 
Ho cercato (probabilmente fallendo palesemente) di riportare la storia (dopotutto ci troviamo nel 993 d.C circa) nel racconto, in modo da renderlo verosimile (per quanto può esserlo con la magia di mezzo).
La trama è un po' revisionata: qui abbiamo rivelazioni nuove. Sebbene Helena avesse dovuto morire molto presto (dato l'aspetto giovanile dello spettro), ho pensato che farla morire a trentasei anni non avrebbe cambiato tanto le cose. Risolvo un dubbio: Helena ha ritrovato il diadema poco dopo la sua morte e l'ha comunque dato in seguito a Voldemort, perché molto simile al suo amato. Questo almeno secondo me, ma mi sembrava giusto spiegare come stanno le cose. Non è un What if?, ho solo stravolto la storia com'è stata narrata da Priscilla. Spero non mi biasimerete per questo.
Il titolo? Vedrete nelle note sottostanti leggendo il racconto! 
Spero che vi piaccia e grazie a tutti coloro che leggeranno e recensiranno. :)

[1] Savannah è l'ancella/serva di Helena, secondo la mia inventiva. Avvertimento: OC.
[2] Salazar, con Priscilla, Tosca e Godric, è il quarto Fondatore di Hogwarts. Tra loro ho inserito una differenza d'età: Priscilla in quel periodo ha più o meno trent'anni, Godric venticinque, Tosca e Salazar venti.
[3] Norfolk, e in particolare le sue zone paludose, secondo le fonti più accreditate, sarebbe stato il luogo di nascita e crescita di Salazar (un ambiente che avrebbe favorito poi la sua abilità nel Serpentese).
[4] Damnatio memoriae: Damnatio memoriae è una locuzione in lingua latina che significa letteralmente condanna della memoria. Nel diritto romano indicava una pena consistente nella cancellazione della memoria di una persona e nella distruzione di qualsiasi traccia potesse tramandarla ai posteri. Si trattava di una pena particolarmente aspra riservata agli hostes, ossia ai nemici di Roma e del Senato. La damnatio memoriae cancellava ogni traccia di una data persona dalla vita di Roma, come se non fosse mai esistita, al fine di preservare l'onore della città. (Fonte: Wikipedia)
[5] Ho collegato l'arpa pensando al primo libro e all'arpa incantata per mantenere il sonno di Fuffi. L'arpa è stata soggetta a un incantesimo, che guardacaso è la materia insegnata da Vitious, un Corvonero. Mi sembrava intrigante associarli. 
[6] Secondo la mia immaginazione (fervida), Helena in quel periodo è ritornata (per non più di tre mesi) a Norfolk, e là ha scoperto Claude Aveline, che avrebbe poi scritto la citazione in base alla storia di Helena. È una cosa folle, ma mi piaceva inserirla.
[7] Hélène, Helena: ho voluto collegarle, motivando ancor di più l'interesse di Aveline per il manoscritto/libro di Helena.

   
 
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