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Autore: nevermore997    24/10/2014    3 recensioni
Vittoria Baudelaire è una Calfornia Girl a tutti gli effetti: snob, piuttosto antipatica ed abituata a vivere tra tutti gli agi e tutte le comodità. Per lei la decisione dei suoi genitori di trasferirsi da San Francisco a Foggy Hollow, desolante e gelida cittadina dello sperduto Wyoming, è una vera e propria doccia fredda. Senza volerlo si ritroverà catapultata in una vita completamente diversa da quella a cui è abituata, circondata da nuovi bizzarri amici, troppa neve per i suoi gusti, pianisti misteriosi e le mura di una casa inquietante che cela un terribile mistero.
La storia di una sedicenne in un mare di guai che si ritrova costretta ad adattarsi, a dimostrarsi coraggiosa, ad agire e anche a cambiare. Se in meglio o in peggio, lo scoprirete solo leggendo.
Questa storia è un esperimento, uno sporadico tentativo di fondere assieme due generi che nulla hanno a che vedere tra di loro: l’horror e il comico. Nella speranza che questo strano miscuglio vi incuriosisca, vi auguro buona lettura.
Genere: Comico, Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 8
Incompiuta
 
Passammo un’altra inutile giornata a frugare ogni angolo della casa, processo durante il quale mi impegnai ad evitare Owen il più possibile, dal momento che i ricordi della notte precedente mi lasciavano una strana sensazione addosso. Non che fosse successo nulla di scandaloso, ma lasciarsi proteggere e cullare in quel modo normalmente non era affatto una cosa da me. Non riuscivo a capire cosa mi fosse preso, fatto sta che mi sentivo in imbarazzo alla sola idea di guardarlo in faccia. Lui, dal canto suo, sembrava altrettanto restio a passare del tempo insieme a me in allegria, quindi finimmo per non rivolgerci quasi la parola per l’intera giornata. Quando però, allo scoccare della mezzanotte, ci ritrovammo daccapo (vedi: seduti sul divano, col morale sotto ai tacchi e con niente di fatto), parlarsi divenne inevitabile, sia pur senza guardarci negli occhi.
«Non è da nessuna parte. Lo abbiamo cercato in ogni angolo. Semplicemente, non è qui.»
«Forse i Carmichael se lo sono portato via.»
«Forse, anche se non vedo perché avrebbero dovuto portare con sé un simile conduttore di disgrazie.»
Calò nuovamente il silenzio, interrotto solo dal ronfare del gatto, che si stava accuratamente dedicando al suo rotolamento serale lungo il perimetro della sala. Una volta imbattutosi nel pianoforte si dedicò al suo solito arsenale di sbuffi e grugniti in direzione dello strumento.
Fu allora che capii.
Il mio gatto non era un sensitivo che percepiva malefici o vedeva fantasmi.
«E’ un randagio», mi aveva spiegato mamma, quando avevo chiesto informazioni su come ce lo fossimo procurato. «L’ho trovato che gironzolava da solo nel giardino di casa.»
Era sempre stato ad Avary Manor. Anche quando ci abitavano i suoi occupanti precedenti. No, il mio gatto non aveva un sesto senso felino ipersviluppato, ma stava cercando di darmi un messaggio.
Schizzai in piedi.
«Owen, so dov’è quello spartito.»
Tutto quadrava, era l’unica soluzione plausibile. La famiglia Carmichael lo aveva nascosto dove pensava che nessuno lo sarebbe mai andato a cercare, nel luogo più oscuro ed inquietante della casa. Incredibile come quel nascondiglio fosse anche il più tristemente appropriato.
«E’ nel pianoforte.»
Saltò in piedi a sua volta, come se la logica innescatasi nel suo cervello gli avesse dato la scossa.
«Il tuo gatto ha visto i Carmichael mentre lo nascondevano! Sta cercando di indicarci la pista da seguire! Vittoria, quest’animale è un genio!»
Annuii, sbrigativa, seppur lieta che anche lui ci fosse arrivato.
«Presto, andiamo, aiutami a sollevare il coperchio.»
Il pesante legno che copriva le corde del pianoforte a coda fu difficile da smuovere. Quando finalmente io ed Owen riuscimmo a sollevarlo, affannati dalla fatica, ci sporgemmo ad osservare l’interno dello strumento, riempito di quei marchingegni semplici eppure così perfetti.
Posato sulle corde, con il titolo bene in vista, quasi volesse osservarci con fare accusatorio, c’era lo spartito di Clair de Lune.
 
Io ed Owen rimanemmo immobili per una manciata di secondi, come pietrificati dall’importanza della nostra scoperta. Per un po’, nessuno osò parlare.
«Basterà strapparlo?», chiese Owen infine, con un filo di voce, rompendo il silenzio.
Riflettei. Avevo letto un sacco di cianfrusaglie su come i fantasmi si aggrappino ad un oggetto terreno senza via di fuga, ed altrettante su come rimandarli nell’aldilà.
«No», decisi infine. «Bisogna bruciarlo. Vado a prendere l’accendino in cucina. Tu intanto prendi quello spartito.»
Feci per avviarmi verso la stanza accanto, ma improvvisamente ed inaspettatamente qualcosa mi interruppe.
Tutte le luci si spensero di colpo, lasciando solo il bagliore della luna a rischiarare la casa, conferendole un’illuminazione spettrale, da incubo. Tutte le finestre si spalancarono ed un vento fortissimo, gelido e certamente non proveniente da qualche entità terrena iniziò a soffiare. Infine, quel che è peggio, note rabbiose e suonate con furore omicida iniziarono a diffondersi tutt’attorno a me in modo assordante. Il soprannaturale si stava manifestando proprio lì, davanti ai miei occhi, ed io mi sentivo come se mi si fosse congelato il cuore in petto dalla paura.
«Owen, che succede?!», gridai, in preda al panico, a voce altissima per sovrastare la musica infernale e girandomi di scatto. Lui non rispose, ma notai che in mano stringeva lo spartito e lo guardava con occhi sgranati: smuovendo la sua reliquia, avevamo definitivamente risvegliato il fantasma.
«Corri, Vittoria! Fa presto!»
Mi precipitai in cucina accompagnata da quel boato che mi spaccava i timpani. Le mani mi tremavano talmente tanto che riuscivo a malapena a frugare nei cassetti. Quando finalmente trovai l’accendino tornai di corsa dal pianoforte e da Owen, col vento freddo che mi sferzava la faccia come un terrificante presagio di morte. Lo spettro di Sebastian Avary viveva attorno a noi. Riuscivo a percepirlo, a sentire sulla mia pelle la sua rabbia mentre quelle note piene d’odio suonavano da sole sui tasti d’avorio.
«Passami lo spartito!», gridai.
Owen obbedì e mi allungò il foglio di carta pentagrammata. Non potei fare a meno di notare che anche lui stava tremando. Ricevuta la canzone, innescai la fiammella del mio accendino, facendole scudo con il corpo perché il vento non la spegnesse. Era arrivato il momento. Di lì a poco non sarebbe rimasta che cenere e lo spettro di Sebastian sarebbe stato finalmente libero, svincolato per sempre dalla sua prigione terrena. Non appena avvicinai la carta al fuoco però la musica crebbe d’intensità, di rabbia, di odio. Nel panico più totale, capii che era il modo di Sebastian per dirmi che stavo sbagliando. Lanciai ad Owen uno sguardo scoraggiato, per poi tornare ad implorare lo spartito con gli occhi, con la folle speranza che potesse in qualche modo darmi le risposte che cercavo. Che cosa dovevo fare? Dove avevo sbagliato? Qual era il vero modo per disinfestare la mia casa?
Lo sguardo mi scivolò sul finale. Note rabbiose ed una brusca interruzione. Le parole del libro della biblioteca si illuminarono come luci al neon nella mia testa.
«Diventa ossessionato dal suo stesso componimento… viene trovato morto di stenti assieme alla sua canzone per Luna, che non ha fatto in tempo a concludere…»
«Incompiuta…», mormorai tra me e me.
L’unico scopo di quella canzone era rendere omaggio a Luna, la bellissima e soavissima amata di Sebastian. Come poteva essere all’altezza del compito una melodia senza finale?
Lasciai cadere l’accendino.
«Owen!», gridai, con una nuova risolutezza nella mia voce. «Lui non vuole che distruggiamo la sua canzone, lui vuole che la finiamo! Tu sai comporre! Devi scrivere il finale di Clair de Lune!»
Nonostante il vento, il panico, la situazione infernale e la musica cacofonica suonata da invisibili mani, vidi il suo volto illuminarsi. A quel punto, mentre mi si avvicinava per iniziare a lavorare sullo spartito, credetti davvero di essere ad un passo dalla fine.
Accadde in un attimo. Quando lo vidi arrivare era già troppo tardi. Urlai  e protrassi le mani in avanti, ma non potei nulla contro il letale coltello d’acciaio, che, dopo essere stato sguainato alle spalle di Owen da una forza impalpabile, si abbatté su di lui, conficcandosi in profondità nella sua schiena. La sua espressione mutò immediatamente in una smorfia di cupa, amara sorpresa.
Immobilizzata dall’orrore, rimasi a guardare mentre, dopo un lieve barcollio, cadeva faccia in giù sul pavimento, mentre rivoli di sangue sgorgavano sul tappeto dal punto dove era stato trafitto.
«Owen!», gridai, precipitandomi su di lui, mentre il pianoforte infuriava accanto a me. Ma come avevo potuto dimenticarmi della mannaia?! Gliela estrassi dalla schiena imbrattandomi mani e vestiti di sangue che odorava di ruggine e lo girai sulla schiena, un po’ per cercare di rassicurarlo, un po’ per non vedere quella brutta ferita che, lo sapevo, lo stava uccidendo.
«Owen», mormorai, prendendogli il viso tra le mani e sporcandolo con il suo stesso sangue e le mie lacrime, che, mi accorsi in quel momento, scivolavano lente lungo il mio viso, incessanti e silenziose. Lui mi guardò e fui sicura che al mondo non esistesse nulla di più triste dei suoi occhi azzurri confusi e stralunati dal dolore.
«Vittoria…»
Con enorme fatica mi posò a sua volta una mano sulla guancia, bagnandosi le dita di lacrime salate.
«Scappa», esalò. «Va’ via. Salvati. E’ troppo potente anche per te, e si sa che sei sempre stata la più forte tra noi due.»
Mi sorrise con quello che doveva essere uno sforzo immane.
«Va’ via», ripeté, e chiuse gli occhi.
La Vittoria californiana se la sarebbe data a gambe senza pensarci un attimo. Ma io non ero più quella ragazza. Ero diventata molto di più, e in quel momento seppi che piuttosto che arrendermi sarei morta, per quanto quella maledetta situazione mi atterrisse. Recuperai il coltello, lo spartito e una matita. Eravamo una ragazza e una mannaia contro un furioso spettro invisibile e mai come allora era stato importante vincere.
Mi sedetti al pianoforte impugnando il mio materiale di cancelleria ed in tutta risposta la musica sembrò, nella sua furia, farsi più incoraggiante, condiscendente. Sebastian mi stava dicendo che stavolta ci avevo visto giusto.
Rivolsi a quelle note scritte a mano più di cent’anni prima uno sguardo carico di panico. Io non sapevo comporre. Riuscivo a malapena a strimpellare. Avevo sempre avuto un certo orecchio però, eppure per quella canzone non sembrava esistere nessuna combinazione di note adatta a proseguirla. Sembrava semplicemente impossibile.
Frustrata, lessi attentamente le note di quella melodia che non riuscivo a capire. Prima soavi e leggere, venivano lentamente avariate da un’angoscia di accordi minori che sfociavano in una lunga tristezza di tragici arpeggi. Poi la rabbia, infine l’interruzione. Di solito la musica mi parlava, ma non quella canzone. Realizzai che fino a che non l’avessi capita, nemmeno con tutto il talento del mondo avrei potuto scriverne il finale. Premetti a casaccio le dita sui tasti, che mi restituirono un suono stonato, inacidito quanto il mio stato d’animo. Cercai disperatamente di riflettere, anche se la musica violenta ed astiosa attorno a me mi suggeriva che non ne avevo né il tempo né la possibilità.
Clair de Lune. Una canzone per celebrare l’amata. Una donna meravigliosa, un amore infinito. Speranza, felicità, angoscia, tristezza rabbia e… incompiuta. Incompiuta. Incompiuta…
Fu un lampo. Un’illuminazione improvvisa. La musica che, finalmente, riusciva a svelarsi alle mie orecchie. Sapevo qual era la cosa giusta da fare, ne ero assolutamente sicura. Lasciai cadere la matita e mi alzai in piedi, accarezzando il pianoforte. Guardai il corpo immobile di Owen e venni scossa da un singhiozzo, ma sapevo che non era il momento. Ora dovevo portare a termine un altro compito.
«Sebastian!», gridai al vento che mi gelava il sangue nelle vene, alla musica assordante ed alla presenza che avvertivo tutt’intorno a me. Volevo essere sicura di rivolgermi proprio a lui, volevo che mi ascoltasse e che, finalmente, capisse.
Una melodia che suggeriva attesa mi diede la conferma che lo spettro era in ascolto. Presi fiato e sperai che non mi tremasse la voce.
«Sebastian, io non posso finire la tua canzone.»
Ora il pianista era arrabbiato, premeva i tasti con foga e sete di vendetta, ma non lasciai che mi interrompesse.
«Non posso, perché tu non ti rendi conto che la tua canzone è già finita.»
Le note rabbiose si fecero interrogative. Mentre una lacrima silenziosa e salata mi scivolava in bocca, mi accinsi a spiegare a quel pianista tormentato e maledetto quello che ci avevo messo giorni a capire, ma lui, temevo, non aveva mai neanche minimamente sospettato.
«Mentre componevi Clair de Lune per celebrare Luna non ti accorgevi che in realtà non stavi descrivendo lei, ma la sua vita, o meglio, la vostra vita insieme. La soavità dell’introduzione è la gioia di quando la conoscesti, l’amore meraviglioso ed incondizionato che fu in grado di trasmetterti. Poi c’è la parte ansiosa di quando scoprì di essere malata, la paura di morire seguita dalla tristezza del periodo in cui era certa che sarebbe successo. Poi improvvisamente c’è la rabbia, la rabbia che sfogasti nei suoi confronti, ed infine basta, più niente, un’interruzione, e questa è la morte. La morte di Luna è la morte della musica, inaspettata, irreversibile. Tu desideri un degno finale per la sua canzone, ma la verità è che la vita di Luna non ha avuto un degno finale. Si è spezzata a metà, è rimasta incompleta. Incompiuta.»
Abbassai ancora lo sguardo su Owen ed il semplice fatto di vederlo mi diede, per l’ennesima volta, la forza di continuare.
«Devi lasciarla andare,», mormorai rivolta alla musica, che ora era stata dilaniata da note struggenti ed addolorate come non ne avevo mai sentite. «E’ morta, ma tu non sei obbligato a restare incatenato al suo ricordo. Sai, tu la puoi raggiungere. Nell’aldilà esiste un mondo perfetto dove chi si ama può stare insieme per sempre, dove non esistono finali infausti, dove l’amore non fa mai male, dove ci si alimenta di gioia, si vive per sempre, la morte non è che un ricordo lontano. Esiste un mondo dove tu e Luna siete l’eternità, e non ci sarà nessuna disgrazia, nessun dolore ad interrompervi.  Lascia andare questa canzone e va da lei, Sebastian.»
In quel momento le note disperate e frenetiche della musica si alzarono esponenzialmente, così come il vento, che divenne talmente forte da farmi cadere bocconi sul pavimento. Mi rannicchiai su me stessa coprendomi la testa con le braccia, pronta al peggio. In tutto quel marasma mi sembrò che la stanza tutt’attorno a me iniziasse a ruotare vorticosamente. Alla musica si aggiunsero delle voci confuse di un uomo e di una donna, inizialmente grida, ma che poi, fiorendo assieme alle note, si trasformavano in risate. Persi completamente il senso della gravità, del basso e dell’alto, della destra e della sinistra. Stavo vivendo solo ed esclusivamente di quella melodia, che, dopo aver raggiunto una vera e propria apoteosi, con una serie di accordi gloriosi si interruppe. La stanza smise di girare, il vento di soffiare, mi ritrovai accucciata per terra avvolta da un fragoroso silenzio. Sebastian Avary se n’era andato. Quando mi arrischiai ad aprire gli occhi mi accorsi che, a pochi centimetri dal mio viso, abbandonato sul pavimento, c’era lo spartito di Clair de Lune. Fui sicura che tutto era davvero finito quando mi accorsi che sotto al titolo, con una svolazzante calligrafia ottocentesca, era stata aggiunta una parola.
«Incompiuta».
 
 
 
Buonasera miei cari. Mi scuso per il ritardo (di nuovo. Sapevo che la mia affidabilità non sarebbe durata più di tanto), ma la mia stupidissima scuola mi sta strangolando e allo stesso tempo la mia vita sociale mi sta complicando l’esistenza. Pensare che io non chiedo altro che cinque minuti di pace. Che disastro.
Come al solito mi riconfermo incapace nello scrivere saluti decenti alla fine dei capitoli. Non posso fare altro se non ringraziarvi di tutto cuore per il sostegno e incoraggiarvi a recensire, sempre che vi vada. Insomma. Avete tutti capito di cosa sto parlando. No?
Per dare un po’ di spessore a questo trafiletto allieto la vostra vita con un’inutile curiosità: il titolo di questo capitolo (“incompiuta”) è il titolo che originariamente pensavo di dare alla storia. In realtà non so di preciso perché ho cambiato idea. Vi sarebbe piaciuto di più?
Abbracci stritolanti e Fruttoli omaggio per tutti,
Nevermore
  
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