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Autore: RosenrotSide    19/10/2008    3 recensioni
Bill Kaulitz non è uno stinco di santo, suo fratello Tom non scopa come un riccio, il timido Gustav non è poi così timido e quando vuole parla a raffica e Georg Listing, l'hobbit che tutti prendono di mira, è quello più furbo e che conquista più ragazze. Se erano questi i ragazzi che conoscevate, dimenticateveli. Io che lavo la loro biancheria tutti i giorni posso giurarvelo davanti ad ogni Dio esistente.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Tokio Hotel
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Arieccola con il capitolo 20. Finalmente, direte! (almeno spero XD)
Lady, ti tocca rileggere se hai già letto il seguito, perchè l'ho aggiornato, mi sembrava incompleto senza la parte che poi ho effettivamente aggiunto. Sono anche io della tua opinione riguardo Anya, ma lei è fatta così purtroppo e quindi dobbiamo beccarci questi scontri ancora per un pò. Piacerebbe anche a me che prendesse Bill e se lo slinguasse sotto gli occhi di sua cugina per poi mandarla a fanculo, ma tiene troppo a lei per farlo, anche se questo comporta la sua e la sofferenza di Bill. Grazie anche a Tomsimo e miss hiphop, mi fa sempre piacere trovarvi tra le recensitrici <3

20.
The Unforgiven II



Ciao a tutti, sono ancora io, Tom.
Oggi è il nostro il ultimo giorno a New York. Domani torneremo in Germania per le prove del nostro Tour europeo. Inizieremo il 3 Marzo a Bruxelles (che è in Belgio), quindi abbiamo bisogno di prepararci.
WOW il viaggio in Nord America è stato pazzesco. Prima siamo rimasti intrappolati a Toronto a causa di un’enorme quantità di neve, e ci sono voluti due giorni per arrivare a L.A.! Dopo, ce l’abbiamo fatta per un pelo a New York perché il nostro aereo ha avuto problemi tecnici – è davvero poco divertente passare tre giorni in aeroporto accanto a Georg (non ha decisamente un buon odore) ;-)
Ma dopo questo – parliamo delle cose belle! Siamo stati completamente sopraffatti da tutti voi fans. È stato così incredibile vedere come eravate pompati ed eccitati…ci avete fatto sentire a casa, specialmente me! A paragone con gli altri membri della band, ho avuto tonnellate di numeri di telefono dalle ragazze più belle ;-) Quindi fondamentalmente, non vedo l’ora di tornare. Per la prossima volta: forse tutte voi potete pensare di dare una possibilità anche agli altri membri della band.

Questo è tutto per oggi – GRAZIE di tutto e ci vediamo presto!
Tom


Non era con quello spirito che Mimi aveva lasciato New York; non era rimasta bloccata in nessun aeroporto, nonostante il volo che lei e Charlie avevano preso per andare da Martha a Los Angeles fosse in ritardo, né aveva ricevuto milioni di numeri di telefono, cosa che non valeva neanche per Tom, perché l’unico numero di cui gli importava non sarebbe servito a niente, né era stata sommersa da fan eccitante; in compenso, però, era stata malmenata al Lost Heaven e aveva litigato con la sua migliore amica, andava bene lo stesso? Decisamente, si era lasciata dietro più cose cattive che buone.
Non era nata a New York, ma lì aveva vissuto fin da quando poteva ricordare e ricordava grattacieli e strade e poi vicoli, locali e anche la scuola di periferia che aveva frequentato; andare a scuola le piaceva, era anche abbastanza brava, soprattutto in matematica e partiva avvantaggiata nel corso di tedesco, la lingua che parlava il papà di Martha, nonché suo padrino e unico barlume di genitore che avesse mai avuto. I suoi erano morti quando lei era molto piccola, o almeno così le avevano raccontato, ed era tutto ciò che sapeva; da bambina fantasticava spesso, come ogni orfano, su chi potessero essere i suoi genitori, re e regine di qualche regno lontano, maghi o artisti del circo. Non che si trovasse male con Martha, per cui provava un forte affetto, e i suoi genitori, Frank e Sophie; solo, non accettava di essere figlia di nessuno. A sedici anni aveva lasciato la scuola per lavorare in un caffè, uno di quei tipici locali da film americano dove dovevi indossare una divisa ridicola e girare con il bricco del caffè caldo tra i tavolini dei clienti. Lì aveva conosciuto Charlie, o meglio, la versione decisamente più piccola ed innocente di quella che era diventata. All’inizio, non capiva proprio cosa ci facesse una ragazzina come lei in un posto tanto anonimo come quello: era la principessa che lei non era mai stata. Superba e piena di maestà, non dava confidenza a nessuno e per lei eri come invisibile, troppo concentrata su di sé o sui suoi problemi per percepire qualcos’altro. Mimi era riuscita per forza di cose a starle simpatica, erano coetanee e, soprattutto, era l’unica a che non le continuava a chiedere informazioni sul suo passato, che solo la proprietaria del locale conosceva e che si sarebbe poi portata nella tomba.
Il suo vero nome, Charlotte Dawson, se lo dimenticarono tutti molto presto e lei diventò solo Lotte; anche i bei capelli color del miele, luminosi e lunghi fin oltre il sedere se li dimenticarono non appena la ragazza decise di tenerli più corti e lavarli solo quando capitava. E pure gli orecchini, che sì, sembravano proprio diamanti e i vestiti, di stoffa nuova e pregiata, sparirono . Disse che li aveva venduti per comprare una casa in nero, cosa non tanto difficile in quella città di mafie ed inganni, ma il fatto che fosse riuscita a trovarla poco distante dal centro faceva davvero pensare al valore di quegli orecchini; era solo un garage, alla fine, ma era suo, con anche i mobili indispensabili, la corrente elettrica, il frigorifero e il fornello a gas.
A sedici anni, Charlotte era piccola, piatta ed infantile; un anno di quella vita lontana dalla presunta casa da dove era probabilmente scappata, l’aveva fatta crescere di una buona spanna, le aveva colorito la pelle prima bianca come la neve, le aveva arrotondato i fianchi e cresciuto il seno, che ora teneva stretto in una taglia di reggiseno più piccola per cercare di nasconderlo ai clienti che cominciavano a guardarla troppo insistentemente. Poi un giorno aveva capito che le sue tonde e giovani morbidezze erano un vantaggio, non una vergogna, e aveva iniziato a dare loro il giusto valore.
L’amicizia tra le due ragazze era cresciuta fino a renderle indivisibili; quando Martha e i suoi genitori si erano trasferiti vicino a Los Angeles per un’importante offerta di lavoro a cui Frank, vista la loro condizione sociale, proprio non aveva potuto rifiutare, Mimi si era trasferita per qualche periodo da Charlie; quando l’amica era andata a farsi tatuare sull’osso sacro, ben nascosta, una rosa rossa che solo i più fortunati avrebbero visto, Mimi l’aveva seguita ed aveva ceduto al tanto sospirato piercing al labbro, quel sottile cerchietto di metallo che conferiva al suo sorriso qualcosa di magnetico ed invitante.
Insieme si erano anche fatte la prima sbornia e la prima dose; avevano vomitato e delirato insieme, rischiando di farsi investire e finendo nelle braccia sbagliate a farsi amare di un amore storto. La droga non le aveva intrigate tanto, solo quando veniva loro offerto fumavano qualcosa insieme, se i tempi lo permettevano, chiaramente. La sciocca e candida Mimi, da Biancaneve, si era trasformata nella mela avvelenata, trascinata dalla corrente impetuosa in cui si era trasformata Lotte; ma quel candore, ben celato dagli occhi truccati e la disinvoltura imparata a copione, persisteva ancora.
Per quelle strade buie e nascoste, erano arrivate fino al Lost Heaven, un locale malfamato che sarebbe diventato “il locale”, scenario epico per tutte le loro avventure: l’incontro con Nafee, un bambino storpio e spaventato, nuova attrazione di quel pazzo del proprietario del locale, che lo teneva incatenato ad un muro; Charlie aveva tentato di avvicinarlo e lui le aveva morso una mano, lasciandole una piccola cicatrice. Di conseguenza, la relazione malsana che la ragazza aveva condotto per un certo periodo con il proprietario, al solo scopo di far liberare quello sventurato. C’era riuscita. Poi il taglio radicale di capelli di Mimi che, risvegliatasi da una notte di sesso, aveva scoperto che il suo amante era un pazzo collezionista che le aveva tagliato la chioma per la sua raccolta e anche le foto che si erano fatte fare per pubblicizzare il locale, truccate pesantemente e coperte solo dalle chitarre e i bassi della band che suonava piuttosto frequentemente al Lost Heaven, covo di metallari. Avevano apprezzato quella musica con il passare del tempo e la cosa era stata inevitabile, le loro orecchie avevano imparato da sole ad amare lo stridere di chitarre e il picchiare duro di batteria, le voci demoniache e solenni. Charlie era riuscita a cantare per qualche tempo con la band, guadagnando piano piano i soldi per il loro ultimo viaggio a Los Angeles in visita all’ormai cresciuta Martha.
Il capolinea era stata la sua ultima avventura: il bambino. E la scelta di seguire Gustav, lasciandosi alle spalle Lotte, troppo libera per farsi catturare da un Tom qualsiasi, troppo forte per capire la fragilità di questo, troppo superiore per abbassarsi al livello dei comuni mortali. Troppo stupida, per non aver sentito né immaginato.
Ma Mimi non si era affatto disperata, il loro litigio non aveva lasciato alcun segno visibile: non sapeva quando, ma la sua illimitata fiducia nel destino e in quella amicizia di sangue le assicurava che la loro storia non era ancora finita e, dietro un qualsiasi angolo, il più improbabile, l’avrebbe ritrovata.
Ora, aveva altro a cui pensare. Per esempio alla ragazza che Natasha le stava presentando, nell’ingresso dell’appartamento della sorella di Gustav dove Mimi era scesa per l’appuntamento. Aveva i capelli lunghi più o meno come Charlie quando l’aveva conosciuta, ma castani e non molto in ordine. La circondavano come un mantello, sfiorando lo spolverino color crema sopra all’abito invernale fiorato e allegro che indossava. Erano più o meno alte uguali, ma la sua postura e forse anche il modo in cui teneva la testa la facevano sembrare più alta; la guardava con curiosità e notò anche che i suoi occhi, verdi ed indagatori, correvano spesso alla sua pancia neanche a malapena accennata, senza imbarazzo.
-Anya, piacere- si presentò, tendendole una mano appena sguantata che Mimi sfiorò con un po’ di titubanza; la stretta con cui però la ragazza le catturò il palmo le infuse coraggio.
-Mimi- le sorrise.
-Ok, Saki ci sta aspettando di fuori e siamo già piuttosto in ritardo- annunciò Natasha, pilotando le due ragazze verso l’uscita e dirigendosi incontro al macchinone nero parcheggiato davanti al palazzo. Salutarono la sorella di Gustav affacciata al balcone e salirono sui sedili posteriori della vettura.
-Ciao Mimi- le rivolse la parola Saki, prima di accendere il motore ed immettersi nel traffico scorrevole della via. Il tono di Saki era sempre un po’ brusco e spiccio, ma quella era stata la prima a cosa a cui la ragazza si era abituata. Doveva ancora fare i conti con le paranoie di David, i difetti sconosciuti dei ragazzi, la vita da artista e l’amicizia con Nati e Anya; c’era decisamente da impegnarsi, era fatta così: se voleva stare bene, doveva fissarsi degli obbiettivi e in quella nuova vita ne aveva parecchi, ma la voglia di raggiungerli, stranamente, le risollevava la giornata.
-Allora- cominciò Anya, riscuotendola dai suoi pensieri e lisciandosi la piega del vestito –come mai sei incinta di Gustav?- le chiese schietta. Natasha le tirò una botta sulla spalla, ammonendola con lo sguardo.
-Anya!- esclamò.
-Che c’è? Voi sapete tutto ed io niente, non è giusto!- si lamentò questa, girandosi verso una Mimi un po’ imbarazzata e pentendosi immediatamente di quell’improvvisata alla Bill. Oddio, ecco gli effetti collaterali, pensò con un attimo di orrore, prima di scusarsi con la ragazza per il suo poco tatto; ma se lei aveva imparato a convivere con la verità, allora anche gli altri dovevano farlo.
-No, tranquilla- la rassicurò Mimi –sembra giusto anche a me che tu non rimanga la sola all’oscuro di tutto. Non sono incinta di Gustav, fino a qualche giorno fa non lo conoscevo neanche-
Anya tirò un sospiro di sollievo e si accomodò di nuovo sul sedile, ora meglio disposta ad ascoltare la storia della ragazza; l’idea che fosse stata incinta di Gustav non le era andata per niente a genio, per un motivo che neanche si sapeva spiegare. Forse istinto di protezione per l’amico: avere un figlio a vent’anni e per di più con la vita che conduceva lui non era l’idea migliore al mondo.
-Sono rimasta incinta del mio direi ex-ragazzo, anche se la definizione non è propriamente esatta- continuò Mimi, non sapendo come altro spiegare alla ragazza la sua situazione. Infatti Anya le lanciò uno sguardo indagatore, incitandola a proseguire.
-Bè, diciamo che era il ragazzo che frequentavo e, per errore mio, temo, sono rimasta incinta; sono passati già due mesi, ma ho trovato il coraggio di dirglielo solo qualche sera fa. Non l’ha presa molto bene, come già immaginavo; invece non immaginavo che sarebbe arrivato al punto di picchiarmi. Mi sono difesa come ho potuto e poi lui, ubriaco com’era, mi ha lasciata perdere e se n’è andato. A quel punto, ho ricevuto una chiamata da Tom; ero stordita, spaventata, avevo vomitato e pianto fino a stordirmi, non capivo più niente, ma sono riuscita a dirgli di venirci a prendere-
-Venirci?- corrugò la fronte Anya.
-Sì, Lotte ed io- spiegò Mimi.
-Lotte?-
-Bè, in verità, Tom la chiama Charlie, si conoscevano già da un po’; è la mia migliore amica e quella sera aveva preso della roba, forse delle pasticche, non so, ci siamo perse di vista. E quindi non so neanche come Tom abbia fatto a trovarla; Gustav è venuto a prendermi, mi ha portata fuori dal locale e poi all’hotel. Ho passato il resto della notte a raccontargli la mia storia e lui…- Mimi si bloccò, presa dalla commozione del ricordo. Anya le sorrise, mettendole una mano sulla spalla.
-Gustav è sempre stato così, infinitamente buono. Sono davvero contenta che ti abbia trovata. Ma Charlie?-
-Non ha voluto venire- mormorò Mimi, ricambiando il sorriso di Anya con una smorfia amara.
La ragazza stava facendo un rapido excursus della sua memoria: quel nome non ricordava di averlo mai sentito. Possibile che quel chiacchierone di Tom, sempre pronto ad urlare ai quattro venti le sue conquiste, non avesse mai parlato a nessuno di lei? E questo la portava solo ad una conclusione: non gliel'aveva data. Rise tra sé e sé a quel pensiero, vedendosi Tom steso a terra, schiacciato dal piede di un’immaginaria Charlie che sì, lo aveva battuto. Non voleva chiedere altro a quella povera anima di Mimi, scuoterle i ricordi ulteriormente non le sembrava molto salutare per i suoi nervi, quindi per il resto del viaggio se ne stette zitta ad ascoltare i discorsi dell’americana con la cugina e a pensare a questa ipotetica vincitrice di nome Charlie. Sicuramente era un dimuntivo, stava per Charlotte. Forse era per colpa sua che in quei giorni Tom aveva un’aria più cupa del solito; ma quando poteva mai averla conosciuta? Mimi aveva detto che si conoscevano già da un po’, probabilmente dal loro primo viaggio in America. Sgranò gli occhi, colta da un’illuminazione: la lavanderia, Tom era sparito e l’aveva lasciata sola. Ecco cos’era successo, aveva conosciuto questa Charlie! E il ricordo del viso di Tom nel dirle: -Forze superiori, Anya San- non potè che confermarglielo.
Mascalzone!, rise piano. Gli avrebbe rotto le scatole a vita per quella storia, gliel’avrebbe tirata in ballo fino alla nausea; decise che quella Charlie le era simpatica a priori.
Il parrucchiere di Natasha si chiamava Oliver ed era uno dei più famosi nella vecchia e cara Amburgo: il suo “studio di creazione” era in un attico in centro, al nono piano, con l’ascensore che funzionava un giorno sì ed uno no. Era arredato con un perfetto stile Bohémien: poltrone rosso carminio di velluto, parquet lucido e ovunque specchi con cornici dorate che riflettevano con un abile trucco la luce che proveniva dalle grandi finestre. L’unica cosa che stonava con tutta quella eleganza era appunto lui: vestiti neri sempre stracciati e scarpe spaiate, viso incipriato di bianco e capelli incredibili. L’ultima volta che Anya l’aveva visto, aveva i capelli lunghi fino alle spalle, un grande ciuffo da un lato e una cresta a sole dietro la nuca, tinta di arancione brillante. Dopo aver schiacciato cento volte il tasto dell’ascensore e averlo convinto a pedate ad aprire le porte per portarle con scossoni poco rassicuranti fino al nono piano, Anya potè constatare che la fantasia del ragazzo non era di certo scemata in quei mesi di lontananza: una fascia multicolore tratteneva indietro i nuovi rasta multicolori che aveva fatto da un lato e la criniera selvaggia verde smeraldo dall’altra. Questa volta era vestito di bianco, ma comunque sdrucito e scomposto. Era questo il suo fascino: sembrava appena uscito da una rivoluzione tra forbici e tinte per capelli, di cui lui era l'unica vittima.
-Ciao Oliver- lo salutò Natasha, gettandosi tra le braccia magroline del ragazzo.
-Nati, che piacere vederti!- strillò questo con la sua voce acuta da frocio mancato. Ebbene sì, Oliver era eterosessuale convinto, come però era anche convinto a tenersi i suoi capelli da pazzo e le sue maniere raffinate da donnina del settecento.
-Prego, accomodatevi pure- fece loro strada –Anya, quanto tempo che non ci vediamo! Noto con piacere che nessun’altro oltre al sottoscritto ha toccato la tua chioma in questi mesi-
-E chi altri potrebbe farlo Oliver?- scherzò la ragazza, fiondandosi subito sulla sua poltrona preferita.
-E tu sei…?- chiese il ragazzo, rivolgendosi ad una più che curiosa Mimi, che continuava a guardarsi intorno, affascinata da quel posto nuovo e così diverso da quelli che vedeva abitualmente.
-Mimi- completò la frase lei, riscuotendosi dai suoi pensieri e allungando una mano verso Oliver, che la lasciò basita con un bacio delicato sul suo dorso.
-Bene signore, come posso servirvi?- si rivolse poi alle tre ragazze, girandosi verso di loro con una piroetta –Spero non il solo e banale taglio e piega-
-Per me sì caro, mi spiace deluderti- rise Anya, alzando gli occhi dalla rivista di moda che aveva preso a sfogliare.
-A te non avrei neanche dovuto chiederlo, sono tre anni che vieni qui con tua cugina e ogni benedettissima volta mi chiedi solo la solita spuntata. Ti rendi conto che così distruggi il mio estro creativo?- si lamentò Oliver, con la sua perfetta aria da artista ferito nell'orgoglio.
-Sai cosa? Per farti contento posso farmeli scalare un po’, va bene?- concesse la ragazza.
-Oh bene, così sì che si inizia a ragionare!- Oliver fece un gesto di trionfo –E tu, cara Nati?-
-Voglio cambiare tinta, magari un biondo un po’ più acceso, non il solito platinato. Per il taglio, boh, vediamo sul momento, magari trovo qualcosa sulle riviste-
-Mimi?-
-Non lo so proprio- rispose timidamente la ragazza, arrossendo sotto lo sguardo carezzevole ed entusiasta di Oliver.
-Hai tutto il tempo per pensarci mentre mi occupo delle altre, tra poco dovrebbe arrivare anche la mia assistente. Tieni, qua ci sono altre riviste, prova a vedere se ti piace qualche taglio- il ragazzo le mise in grembo un plico di cataloghi e poi scortò Natasha al lavabo.
L’acqua prese a scorrere piano nel recipiente di ceramica smaltata con uno scroscio piacevole; Oliver controllò la temperatura prima di bagnare la testa di Natasha con il getto. Anya si ritrovò a guardare con un sorriso l’espressione rilassata della cugina che, ad occhi chiusi, si godeva il massaggio di Oliver, mentre lo shampoo sfrigolava impercettibilmente sulla sua nuca, spandendo un buon profumo.
La faccia rattristita di Bill le comparì improvvisamente riflessa in uno dei tanti specchi, scuotendola dal suo tranquillo rimirare la cugina, o forse proprio per lei, perché pensare a Natasha equivaleva pensare a ciò che doveva dirle; si morse un labbro con forza. Poteva cominciare con il dirle, con tono casuale, che Bill le era sembrato cambiato nei suoi confronti, alla festa era stato molto gentile e poi... avevano scopato. No, non andava bene. Alla festa era stato molto gentile e poi… basta, non le veniva in mente nient’altro, solo che avevano scopato e che gli aveva promesso che le avrebbe parlato. E perché gliel’aveva promesso? Ah sì, perché era cascata come una pera cotta davanti alla triste rassegnazione del ragazzo a mantenere quel segreto troppo grande per lui e la sua linguaccia, o forse, per lui e la sua felicità; non avrebbe potuto fare altrimenti, fingere che non gliene era fregato niente sarebbe stata una bugia colossale. Ancora non capiva perché, ma i fatti erano questi: le era importato farlo con Bill ed ora le doveva importare dirlo alla cugina, almeno accennarle la cosa.
Ritornò con la memoria alla discussione con Mimi, al fatto che, quel’erano le parole esatte che aveva pensato? Se lei-Anya aveva imparato a convivere con la verità, allora anche gli altri dovevano farlo.
Bene, anche i suoi pensieri erano contro di lei.
Ma si trattava di Natasha, quella ragazza ignara intenta a godersi il suo shampoo sfrigolante, la stessa che non le aveva mai detto di no, che le aveva sempre voluto bene. Se ripensava a tutta la sua vita, tralasciando qualche anno buio, la rivedeva sempre e ovunque: al suo fianco il primo giorno nella scuola nuova, a spiegarle cos’erano le mestruazioni e perché sentisse uno strano formicolio nella pancia quando vedeva il ragazzo che le piaceva, ad aiutarla a ripassare per un compito difficile, ad accompagnarla a trovare sua madre. Sì, l’aveva anche accompagnata là, in quel posto odioso.
Punto primo, io con Bill non ci sto, non abbiamo né scopato né nient’altro; punto secondo: credi davvero che starei con lui senza dirtelo? Potrei anche fregarmene altamente del fatto che ti piaccia, ma se succedesse qualcosa, qualunque cosa te la direi! Pensavo ti fidassi di me!
Oddio, le aveva detto così! Il flashback improvviso di quel giorno a Galeries LaFayette le fece fermare il cuore all’improvviso.
Nati, Nati, forse facevi bene a non fidarti, ma ora come puoi saperlo?
-Hei, tutto bene?- la voce di Mimi la riportò al presente: nello studio di Oliver, al nono piano, ad Amburgo, in un mare di guai e conti in sospeso con la sua coscienza. Scheisse.
-N-sì, tutto a posto- rispose alla ragazza, regalandole un sorriso rassicurante; non che a Mimi servisse, piuttosto, sarebbe servito a lei.
Bill non poteva capire: lei non era stata fortunata come lui a nascere insieme ad un Tom che, nei momenti d’ansia, ti prendeva il braccio suonando sulle tue vene come avrebbe fatto con la sua amata chitarra e ti sussurrava, ridendo: -Bill, l’ansia mandala via- Lei si era dovuta accontentare di se stessa e in parte di sua cugina, l’unica figura che poteva lontanamente paragonare a quello che Tom era per Bill e viceversa.
-Ma sai cosa non ti ho raccontato?!- esclamò Natasha, rivolta all’altra, che si voltò di scatto verso di lei, fingendosi interessata. Con i capelli raccolti in un asciugamano, la bionda si accomodò su una delle sedie davanti agli specchi, mentre Oliver avvicinava alla postazione il carrello da lavoro, ed iniziò a raccontarle di una cena in un famoso ristorante giapponese, il Katsuja, o simile. Anya odiava il giapponese.
-Hanno conosciuto quella troia di Nicole delle Pussycat Dolls, hai presente chi sono? Ecco, quella si è messa in testa di seguirli in ogni dove per farsi pubblicità e così si è autoinvitata alla cena. Le morivano tutti dietro, si sedeva sempre vicino a Bill e gli faceva mille moine e quel tonto era tutto preso dai suoi sorrisini. Avrei voluto ammazzarli, giuro, sia lei che lui!- Natasha sembrava davvero arrabbiata al ricordo; Anya sapeva meglio di chiunque altro che la cugina era gelosissima di qualunque cosa sua o che voleva fosse tale (tra queste, rientrava Bill) e per principio odiava tutte le mezze artiste sexy che i ragazzi conoscevano ai party o in giro per il mondo. Non aveva completamente torto, perché, per la maggior parte dei casi, si dimostravano essere delle persone false ed ignoranti, per non dire approfittatrici.
Anya fece un sorriso forzato e poi tornò a concentrarsi sulla sua rivista. Complimenti Anya, stai mentendo per uno che fa pure il cascamorto con le altre, complimenti!
-Meno male che dopo quella cena non l’abbiamo più rivista- continuò Natasha, mentre Oliver, completamente estraneo a quelle chiacchiere, cercava una adattatore per il phon –E Bill è tornato lo stesso di sempre. I suoi sorrisi sono adorabili, ma solo quando li rivolge a me- E giù una risata allegra.
-Quindi, scusa se mi intrometto, lui ti piace?- chiese Mimi alla bionda, sorridendo.
-Mi piace da una vita, anche se è decisamente più piccolo di me. Ma non si può guardare a queste cose quando si tratta di Bill Kaulitz- ammiccò lei, allusiva.
-Non so, l’ho visto poche volte e mi è sembrato sempre triste, spaesato. Mi ha fatto pena e il suo aspetto, anche se è particolare e affascinante, sembra più quello di un bambino troppo cresciuto che quello di una star- scrollò le spalle Mimi.
-Aspetta di vederlo in circostanze migliori, solo truccarlo mi risveglia i bollenti spiriti!- rise ancora Natasha, guardandosi riflessa nello specchio mentre Oliver le pettinava i capelli con lo stesso amore che un fidanzato avrebbe usato per baciare la fidanzata.
Anya sorrise amaramente: erano altri i pensieri che risvegliavano i suoi di bollenti spiriti.
Due paia di camperos lasciati al loro destino, mentre i proprietari sembravano disprezzare anche tutto il resto del loro abbigliamento.
Il tavolino ruvido a contatto con la sua schiena, il sole che tramontava.
Gli occhi di Bill chiusi e struccati e i suoi capelli incollati dal sudore sulla fronte.
Sì, proprio, complimenti Anya!

*



(se vi fa piacere ascoltarla, rende l'atmosfera giusta: Wilder Wein)

Il primo colloquio di lavoro era andato bene; era stato strano, ma l’avevano assunta subito. C’era da dire che non aveva dovuto fare proprio niente per farsi benvolere.
Matt l’aveva lasciata all’incrocio della tredicesima strada con un leggero bacio sulle labbra ed un arrivederci frettoloso; non era mai stato il tipo per gli addii, anche quando, anni prima, si erano salutati per quello che poi non era stato per sempre, le aveva detto solo “ci vediamo” prima di sparire. In effetti, si erano rivisti.
Il Sanitarium, così si chiamava il posto, era l’unico edificio colorato tra i tanti grattacieli della tredicesima, anche se ormai l’intonaco rosa antico cadeva a pezzi dai muri della villa in rovina. Un cancelletto di ferro battuto dava sul piccolo cortile di erbacce e più in là, il porticato dell’edificio, su cui faceva brutta mostra di sé una porta di legno ammuffito affiancata da due finestre con i vetri rotti. Appena Charlie aveva messo mano sulla maniglia della porta sgangherata, quella si era aperta da sola, facendo cigolare i cardini; per un attimo, la ragazza era rimasta terrorizzata, la mente attraversata dallo sciocco pensiero di essersi imbattuta in una casa di spiriti, dimentica del fatto che, a pochi metri da lì, New York respirava rumorosamente come un mostro di cemento vivo, per nulla al corrente dell’esistenza di quel luogo. Ma poi, una signora era arrivata vociando nell’ingresso, seguita subito da tutti gli altri baccani della casa, a cui Charlie non aveva fatto caso fino a quel momento: urla e improperi, frastuono di vetri rotti o oggetti caduti. La donna l’aveva vista lì impalata, stretta nella sua tuta e con gli occhi castani sgranati.
-Sei qui per il lavoro?- le aveva chiesto bruscamente, studiandola accigliata. Charlie aveva annuito debolmente, guadagnandosi un’occhiataccia da parte della turbolenta donna che, nell’attesa della sua risposta, aveva già combinato mille disastri cercando di spostare il mobile che ingombrava l’entrata.
-Levati quell’aria da tontolona e rimboccati le mani bambolina, benvenuta all’Inferno- e con queste parole decisamente inquietanti, aveva preso la ragazza per un braccio, facendole strada fino ad un piccolo studio, l’unica stanza, forse, non completamente distrutta dell’intera casa. Fu intimato a Charlie di sedersi su una delle due seggiole da cucina davanti alla scrivania e aspettare; la ragazza obbedì, non senza però una mezza idea di scappare via sempre più concreta man mano che i minuti passavano senza che nulla cambiasse. Si era già vista con l’occhio della mente aprire la porta, sgattaloiare fino all’ingresso rumoroso e poi fuori, di nuovo in strada; non un’anima se sarebbe accorta. Aveva già per metà alzato il culo della sedia per dirigersi alla maniglia, quando questa si abbassò con uno scatto alle sue spalle e fece il suo ingresso nella stanza la ragazza più bella che Charlie avesse mai visto. Era brutta, ma le sembrò celestiale, goffa come la prima stella del mattino, ma altrettanto graffiante.
Fino a quell’apparizione, Charlie aveva sempre pensato che la donna più bella che avesse mai visto fosse la prosperosa ragazza di colore che a volte si esibiva al Lost Heaven come spogliarellista, le natiche al vento e un costume di diamanti di vetro; l’aveva pure baciata per scommessa: aveva le labbra carnose e dolci come mai lo sarebbero state quelle di un ragazzo, la pelle vellutata e una cicatrice sopra l’occhio destro. Per lei, quella era stata la donna più bella del mondo, almeno fino a quando non aveva fatto capolino dalla porta quel mostriciattolo malsano, che le fece un sorriso sghembo e, con passo felpato, andò a sedersi all’altro lato della scrivania, sulla grande poltrona tarmata.
Aveva una testa di scarmigliati ricci rosso fiamma, naturali, lo si vedeva dalle chiare sopracciglia sul suo viso latteo cosparso di lentiggini bionde; era infagottata in un vestito di lana smagliata con sopra una stinta felpa che un tempo doveva essere stata blu. Solo le scarpe sembravano in buono stato: degli stivaletti di finta pelle rossa. A vederla così, il suo aspetto di pallido fantasma bruno poteva lasciare un attimo interdetti, colti dal dubbio legittimo che il rosso non fosse davvero il colore del diavolo: tutto di lei, dai canini aguzzi che spuntavano fuori dalle labbra screpolate se tentava di sorridere, alle mani con le unghie lunghissime, allo sguardo felino da strega, riconducevano ad un ipotetico demone maligno. Ma poi, notavi che quei canini avevano un aspetto più spiritoso, che minaccioso, le unghie erano solo un po’ troppo non curate e gli occhi sorridevano allegri, non cattivi; tuttavia, bastava distogliere lo sguardo da queste riflessioni per ripiombare nell’inquieto incantesimo del suo aspetto gotico.
-Il tuo posto non è qui- parlò per la prima volta da quando era entrata. La voce della ragazza riscosse Charlie dal suo lungo studiarla e le fece venire un brivido lungo la schiena: era bassa e rauca, celata da colpi di tosse secchi. –Cosa stai cercando?-
Quella domanda tolse completamente le parole di bocca alla povera Charlie.
-Ma, veramente, io…- tentò di rispondere, nel vano tentativo di riprendere il controllo.
-Messalina!- si sentì tuonare una voce dal corridoio, una voce chiara e forte di donna. La ragazza alla scrivania drizzò subito il capo, che fino a quel momento aveva tenuto piegato sulla spalla destra, e si alzò di scatto, indietreggiando. Una signora robusta con un’ampia gonna gitana fece il suo ingresso nello studio, lo sguardo accigliato e la bocca piegata in una smorfia rabbiosa. Messalina, alla vista di quel volto così arrabbiato, lanciò un urlo rauco e corse via, uscendo dalla porta secondaria della stanza, che fino a quel momento Charlie aveva ignorato.
La donna dalla voce potente sbuffò sonoramente, dirigendosi lentamente verso la scrivania, forse ostacolata dalla sua gigantesca mole; il suo aspetto massiccio poteva solo far pensare ad una matrona romana, vestita però con abiti da mercatino etnico e con i capelli ricci e incolti da zingara.
-Scusami cara per questa accoglienza un po’ turbolenta- rivolse la parola a Lotte, che, al confronto con gli eventi che le stavano piombando addosso e, soprattutto, con la figura della donna, si sentiva rimpicciolita al livello di una formica.
-Non fa niente- rispose, dopo aver deglutito, decisamente scossa da tutte quelle stranezze.
La matrona si sedette sulla poltrona, facendo uscire polvere dalle cuciture e producendo un cigolio per nulla rassicurante, ma, per il momento, la sventurata sembrava resistere.
-Come ti chiami?- le domandò, questa volta con un tono molto più pacato e dolce ed un sorriso mirato ad essere rassicurante.
-Lotte-
-Oh bene, credo che sia palese il motivo per cui tu ti trovi qui- si accomodò meglio la donna sulla poltrona, appoggiando la schiena e incrociando le mani in grembo.
-Bè, sì, ho letto…- iniziò a spiegare Charlie, ma fu subito interrotta. Evidentemente, la precedente affermazione della donna non era che l’inizio di un discorso che aveva intenzione di portare avanti senza il suo aiuto.
-Sei qui perché non hai la minima idea della responsabilità che ti stai per prendere. Questa casa appartiene alla mia famiglia da generazioni, si è un po’ lasciata andare con il passare dei decenni, come puoi vedere, ma se è ancora in piedi adesso dopo tutto quello che è successo, posso contare su di lei ancora per un pò, almeno fino a quando non morirò uccisa da una delle tegole pericolanti del tetto. Non ho intenzione di rivangare il passato più di quanto sia necessario, ti basti sapere che, quando ho ereditato la proprietà avevo vent’anni, trenta chili di meno e tanto amore risparmiato da donare; allora non sapevo che gli uomini danno più soddisfazione di un Sanitarium e che avrei fatto bene a sprecare il mio amore con il primo quarantenne miliardario, come la mia condizione poteva permettermi- la donna prese fiato, gettando uno sguardo alla finestra alle sue spalle –Ad ogni modo, ho deciso di utilizzare questa villa per scopi umanitari, ho richiesto allo Stato l’autorizzazione ad aprire un piccolo ricovero per i primi alcolisti anonimi del secolo e quelli che sopravvivevano all’attacco delle nuove droghe; mi fu concessa, frequentai un corso da infermiera e assunsi delle aiutanti, mie colleghe di studio. Avrebbe finanziato tutto lo Stato, cosa che successe per i primi dieci anni, ma poi, i soldi da cavare dalle tasche divennero i miei e devo dire che fui ben felice di spenderli. Ero ingenua allora, lo ammetto; ma, come tutte le cose belle, anche loro finirono presto-
A questo punto della storia, mentre la donna sembrava tutta intenzionata a raccontarle vita, morte e miracoli, Charlie ritrovò un po’ della sua smarrita faccia tosta e la squadrò con un’alzata di sopracciglio, accolta con una sonora risata del donnone.
-Hai ragione, avevo detto che non avrei rivangato troppo il passato!-
-No, è solo che si fa notte se continua a raccontarmi i dettagli- le fece notare ironicamente la ragazza, provocando un’altra grassa risata da parte dell’altra.
-Sì, va bene, saltiamo l’introduzione e veniamo al sodo: questo posto è cambiato, è caduto in rovina e con lui anche i suoi abitanti, compresa me-
-E Messalina?- l’interrupe ancora Charlie, curiosa.
-Oh, la sua storia la conosce solo lei ed è benintenzionata a tenersela segreta; è qui da più di quindici anni, era una bambina quando la trovammo nel giardino, con un gatto di peluche stretto tra le braccia: disse che si era persa, ma non trovammo mai la madre. Rimase qui, allevata con i figli delle alcolizzate- spiegò la donna, incupendosi. Doveva essere un tasto dolente per lei, quella ragazza –Ora, se vuoi saperlo, questo posto non avrebbe più l’autorizzazione statale- e lo credo, pensò Charlie –ma non ho avuto il cuore di chiuderlo neanche quando mi sono ritrovata povera in canna, non lo farò di certo ora-
-Ma…- allora come l’avrebbero pagata?, si stava chiedendo la ragazza, e la donna sembrò leggerle nella mente.
-I soldi sono di mio figlio; abbiamo questo compromesso: mi terrò lontano dalla sua vita fino alla morte a patto che lui versi lo stipendio alle persone che lavorano per me e procuri ciò che è necessario per il sostentamento del Sanitarium- le spiegò.
-Suo figlio? Ma aveva detto di non essersi sposata-
-Non mi va di parlarne- la donna tagliò corto bruscamente, alzandosi dalla sedia. Era una donna bizzarra e controversa sotto molti punti di vista; il suo aspetto non faceva per nulla presagire che in passato fosse stata ricca: era robusta e sgraziata e indossava abiti decisamente in cattive condizioni. Eppure sì, forse nel suo modo di presentarsi e di parlare c’era qualcosa che ricordava un suo eventuale passato di padrona indiscussa e nobile. Sembrava molto vecchia, nonostante la vitalità, ma dal suo racconto Charlie capì che in realtà lo era molto di più di quanto non desse a vedere: vecchia dentro.
Aveva commesso un errore: presentarsi lì, per quel lavoro che le era sembrato giusto per lei, si stava rivelando un passo azzardato nel vuoto più assoluto. Era partita con l’idea che avrebbe dovuto badare a dei malati, rifare letti, pulire per terra o cose simili, ora si trovava coinvolta in qualcosa di molto più grosso.
Come le spiegò più tardi Dora, questo era il nome della donna, i malati lì erano ben pochi. Coloro che si presentavano a quelle porte era dei disperati senza alcun mezzo, persi nella droga e nell’alcool, ma lì non c’era la possibilità di curarli come si conviene, quindi venivano trasportati nel primo ospedale e venivano loro pagate le spese della disintossicazione. Tornavano sempre, guariti o magari più ammalati di prima, ma lì trovavano rifugio e un tetto sotto cui dormire quando non potevano trovare di meglio; era un via vai di gente, un giorno li vedevi, il giorno dopo sparivano e il tuo compito non era ricordare i nomi o le malattie, ma ascoltarli se volevano parlarti e tacere se volevano stare zitti. C’era poi un piccolo asilo per i figli delle alcolizzate che, non potendo badare loro e cercando continuamente di uscire dal giro e procurarsi da vivere, li abbandonavano lì, per tornare poi un giorno, magari, a rivederli. Molte erano le donne incinte che partorivano nella villa e molte altre erano quelle che arrivavano per farsi proteggere e consolare da Dora se avevano subito maltrattamenti da mariti o fidanzati violenti. Quel Sanitarium non era semplicemente un sanitario, ma un ricovero per ogni anima persa di New York.
I compiti di Charlie erano illimitati, doveva aiutare e sapersela cavare da sé in ogni cosa ci fosse da fare.
-Ma come..?- aveva protestato, quando Dora le aveva spiegato la situazione.
-Non c’è un come, devi farlo e basta. Non oggi, vattene a casa. Ci vediamo domani; arriva quando vuoi, ma non dopo mezzogiorno, c’è da preparare da mangiare per i bambini-
E l’aveva congedata semplicemente uscendosene di scena, richiamata dalle solita urla provenienti da qualche parte della casa. A Charlie non era restato altro che alzare il culo dalla sedia ed andarsene anche lei. Sulla strada di ritorno, aveva rischiato di farsi investire due volte da taxi impazziti tanto era persa nei suoi pensieri: non aveva nulla da perdere, ma neanche qualcosa da guadagnare in quel lavoro. O forse sì?
Avrebbe tentato, poche volte si era tirata indietro e il tono con cui Dora le aveva parlato dall’inizio faceva dubitare che si sarebbe aspettata di vedersela comparire davanti l’indomani; chissà quante altre persone si erano magari presentate per quel lavoro, ma, visto in realtà di che cosa si trattava, erano fuggite, per nulla attratte da quella prospettiva. Lei non sarebbe stata una di quelle, non lo era mai stata e pur di dimostrarlo era disposta a tornare al Sanitarium, a badare ai bambini: quella sarebbe stata la sua prima mansione.
Svoltò l’angolo di casa, con già le chiavi in mano per aprire la saracinesca del garage. Fuori, seduto sul bordo del marciapiede con una sigaretta in mano, stava un uomo sulla trentina, in cappotto blu e scarpe italiane, con l’aria malsana da ammalato del lavoro. Nell’altra mano, teneva una borsa nera e lucida proveniente da qualche negozio alla moda della Principale.
Charlie non si stupì di vederlo, anche se avrebbe dovuto.
-Ciao Eddy- lo salutò, fermandosi a pochi passi da lui, che buttò a terra la sigaretta ormai finita da cui aveva aspirato l’ultimo tiro.
-Quante volte ti ho detto che odio essere chiamato così, Charlotte?-
-Almeno quante volte ti ho detto che io non voglio essere chiamata Charlotte- rise Charlie, al ricordo.
-Allora facciamo un compromesso sorellina ed invitami almeno ad entrare-
  
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