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Autore: _White_    05/11/2014    1 recensioni
La vita di Irina potrebbe essere un racconto, infatti gli ingredienti necessari ci sono tutti: lei è la goffa eroina e vive accanto a Thomas, il classico bel ragazzo solitario e distaccato che la tratta come un suo pari. Ma si sa che le apparenze ingannano... Una piccola love story cresce sotto il cielo della Liverpool universitaria.
Genere: Commedia, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Universitario
Capitoli:
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6. And all I can breathe is your life


- Bel posto. – esclamò Thomas non appena entrò al Net. Lui era sempre aggiornato sulle ultime inaugurazioni della città e dei locali più in voga del momento, ma quel pub gli era completamente sfuggito. Il luogo tranquillo che aveva trovato Irina nel tardo pomeriggio si era trasformato in un bar affollato che trasmetteva le ultime hit da discoteca a un volume tale da poter essere definito alto ma non assordante.
Irina si faceva largo tra la folla, cercando di raggiungere la cassa e stringendo nel frattempo la mano dell’amico per evitare di perderlo in tutta quella calca. Muovendosi tra i gruppetti di colleghi universitari, comprese perché il gestore stesse cercando altro personale. Sperò che, se avesse ottenuto il lavoro, non dovesse mettersi in tiro ad ogni turno. Si sentiva già troppo fuori posto con gli aderenti jeans grigio cenere e la camicetta bianca appena sbottonata che indossava al momento. Ai piedi gli immancabili stivali, che portava con disinvoltura sopra i pantaloni.
- Salve, volete ordinare? – chiese l’unico barista presente dietro il bancone.
- Per me una birra. – decretò Thomas, deciso. Irina indugiò per qualche secondo, non sapendo bene cosa prendere, ma infine ordinò anche lei una birra. Tanto non doveva guidare lei, però Thomas sì. Sperò che il ragazzo si fermasse a quell’unico boccale e che non decidesse di alzare troppo il gomito.
- Irina, eccoti! – gridò una voce maschile alle loro spalle. La bionda si girò e vide Eddy, che reggeva un enorme vassoio carico di bicchieri svuotati.
- Ciao, Eddy! Vuoi che ti aiuti? Mi sembra tanto pesante quel vassoio. – si offrì la ragazza, indicando il piatto.
- Non preoccuparti, ce la faccio. Non potrei comunque farmi aiutare, perché non sei una dipendente. Ma a questo possiamo rimediare subito: Joel è qui, da qualche parte. Basta solo trovarlo. – Eddy si portò a fatica dietro il bancone, dove lasciò il vassoio, e comunicò a gesti al barista che andava a farsi un giro. Questo gli arrivò accanto, confuso: non aveva capito cosa volesse il collega da lui.
- Vado a cercare Joel. – urlò Eddy nell’orecchio del barista. Il volume della musica e il vociare della folla rendevano impossibile ai due camerieri di sentirsi.
- È nel retro. – gridò l’altro di rimando, consegnando nel frattempo le due pinte agli ultimi arrivati. Eddy annuì e con l’indice fece cenno a Irina di seguirlo. La ragazza guardò frastornata il cameriere che era andato ad aprire lo sportello del bancone per lei, poi il suo migliore amico. Thomas aveva già afferrato il suo bicchiere e se lo stava portando alle labbra, quando si accorse dello sguardo intimorito dell’amico. Cosa voleva, che lui la seguisse? Era lei che voleva il lavoro, non lui. Irina voleva rendersi indipendente? Bene, il primo passo era affrontare il colloquio senza di lui. Con la mano libera, le fece segno di raggiungere Eddy. La seguì con gli occhi mentre se ne andava nel retro del locale con quel ragazzo. Non gli piaceva il modo in cui il cameriere la guardava: le stava facendo gli occhi dolci.
Irina seguì Eddy nella parte del bar preclusa ai clienti: andarono in cucina, dove tre cuochi stavano preparando la cena o gli stuzzichini per l’aperitivo, per prendere poi uno stretto corridoio che portava all’ufficio del capo e alla dispensa. Eddy bussò alla porta del proprietario del Net, ma non ottenne risposta. Joel non era lì. Si guardò rapidamente attorno e si accorse della luce accesa della dispensa. Si diresse in fondo al corridoio e sbirciò nella stanza.
- Bene, sei qui! Ti ho cercato dappertutto: c’è la ragazza che ha fatto domanda come cameriera. – Irina era rimasta in disparte. Aveva lasciato entrare il ragazzo prima di lei e ora aspettava di poter essere ricevuta. I secondi trascorsi le sembrarono ore: era troppo agitata. Che impressione avrebbe fatto al suo futuro capo se si fosse fatta vedere così inquieta? Avrebbe sicuramente balbettato, magari persino inciampato mentre andava a stringergli la mano. Avrebbe rovinato tutto il colloquio così!
– Irina, vieni pure! – Eddy era sulla porta, che la stava esortando a entrare nel magazzino. Un sorriso gli illuminava il viso. Era come se la stesse rassicurando sull’uomo che avrebbe incontrato di lì a poco. Maledizione, si era accorto della sua ansia! La ragazza annuì e, con le ginocchia che le tremavano, entrò nella stanza.
Mentre simulava il colloquio mentalmente, Irina aveva dipinto il proprietario del Net come un uomo sui quarant’anni, anzi oltre i quaranta e magari anche in sovrappeso, dai capelli castano scuro e con qualche ciuffo grigio. Rigorosamente con una folta barba. Gentile, ma bonaccione. Invece Joel era esattamente l’opposto di quel che lei si aspettava. Si aggirava sopra i trent’anni e non aveva nessun chilo di troppo. Al contrario, era perfettamente in forma: a giudicare dalle braccia muscolose, lasciate scoperte da una canottiera in stile “surfista californiano”, era un assiduo frequentatore della palestra. I capelli erano biondi, forse troppo biondi per il senso estetico della ragazza. Probabilmente erano tinti. Erano comunque folti e portati leggermente lunghi, ma nel complesso gli donavano. Gli davano un’aria da duro. Ma il particolare che colpì di più Irina furono gli occhi: erano dello stesso colore del mare della Costa Azzurra che aveva visto da bambina.
- Ciao, sono Joel Wesley. – il capo tese con grande slancio la mano e aspettò che la ragazza gliela strinse. Irina ci mise qualche istante per capire il gesto di presentazione: la voce profonda ma morbida dell’uomo l’aveva incantata. Scosse la testa per risvegliarsi, infine rispose.
- Irina Barnes.
- Dimmi Irina, hai qualche esperienza come cameriera?
- No.
- Esperienze lavorative in generale?
- No. – rispose lei, titubante. Non stava facendo una buona impressione al gestore del pub, se ne rese conto dal silenzio che era calato nella stanza. Joel la stava osservando, soppesando ogni singolo movimento che faceva: le unghie curate della mano destra che affondavano nel polso sinistro, il labbro morso, le pupille che scappavano in ogni direzione. Tutti i segni della tensione.
- Neanche la baby-sitter del figlio dei vicini? – Joel alzò un sopracciglio, incredulo che quella ragazza avesse un curriculum così scarso.
- Beh, sì, ho tenuto i miei cuginetti qualche volta e ogni tanto anche la bambina di un’amica di mia madre. – ammise infine la bionda, spiazzata. Guardare i figli degli altri non si poteva considerare un vero lavoro, giusto? Almeno, per lei non lo era mai stato, infatti non aveva mai chiesto soldi in cambio del servizio. – Ma questo cosa c’entra? – chiese dopo un attimo di esitazione.
- Trattare con i clienti è come fare la baby-sitter: se loro chiamano, tu devi correre. Se vogliono qualcosa, tu gliela devi portare nel più breve tempo possibile. Se ti tirano il cibo addosso, tu li sgridi. Se alzano il tono di voce con te, tu li sbatti fuori dal locale e se provano a metterti le mani addosso…
- Chiamo la polizia, ho capito – lo interruppe lei, completando il discorso.
- Sì, esatto! Vedo che ci intendiamo. – e sorrise. Bene, la ragazza aveva riguadagnato punti, però ancora non lo convinceva appieno. Joel strofinò la mano sotto il mento, accarezzandosi la barba lunga di qualche giorno. Doveva riflettere. – Va bene, voglio vedere come te la cavi in prima linea. Farai una settimana di prova, comincerai lunedì pomeriggio. Alle due, puntuale.
- Grazie, spero di non deluderla! – Irina cercò di contenere la sua felicità: aveva l’impulso di saltargli addosso e abbracciarlo, ma si trattenne. Non conosceva ancora bene quell’uomo per potersi lasciarsi andare a gesti simili, senza dimenticare che era appena diventato il suo capo temporaneo. Doveva assolutamente farsi assumere.
- Ora puoi andare. E portarti dietro anche Eddy: la pausa è durata abbastanza. – ironizzò il boss, tornando anche lui al lavoro: stava cercando una scatola di una particolare miscela di caffè, prima di venire interrotto. Chissà dov’era finita. Infine la trovò: qualcuno l’aveva sistemata dietro alcune confezioni di tonno. Joel scosse la testa: non doveva più consegnare le chiavi della dispensa a suo cugino Eddy.
Mentre Irina faceva la conoscenza del gestore del locale, Thomas aveva passato i primi dieci minuti al bancone, come un’idiota, sorseggiando la sua birra, da solo, come un’idiota, e reggendo la pinta della sua amica, come un’idiota alcolizzato. Quei due ci stavano mettendo troppo tempo, per i suoi gusti. Irina e quell’altro tizio di cui non si ricordava il nome erano spariti già da un bel pezzo e stavano facendo chissà cosa. Normalmente sarebbe già andato a cercarli, tuttavia il barman lo avrebbe sbattuto fuori se si fosse azzardato ad andare nel retro. Non c’era nulla che potesse fare, doveva restare lì, incollato alla sedia e aspettare, come un’idiota, accanto allo sgabello vuoto che aveva riservato per lei, come un’idiota disperato che aspetta una donna che non lo raggiungerà mai. Aveva anche pensato di andare a fare un giro per il locale, ma temeva che Irina non riuscisse più a trovarlo una volta tornata. Poi voleva anche essere sicuro che quel tipo non le avesse fatto alcun male. Gli avrebbe spaccato volentieri la faccia se avesse osato alzare anche un solo dito su di lei. Nessuno poteva ferire la sua Irina, o farle gli occhi dolci. Era così preso da queste macchinazioni che non si accorse di star bevendo la schiuma della birra, come un’idiota, e che una mano gli si era delicatamente appoggiata sulla spalla.
- Thomas, sono arrivata. – il ragazzo girò di scatto la testa quando udì la voce della vicina. Eccola lì, Irina, seduta alla sua sinistra, tutta intera.
- Com’è andata?
- Bene, da lunedì pomeriggio sono in prova. – esultò lei, festeggiando con la birra, che ormai era si era riscaldata.
- Son felice per te. Dimmi solo che orari hai, così mi assicuro di non venire al pub. – sebbene il tono di voce del ragazzo era incolore, Irina capì lo stesso che stava scherzando. Dopo un paio d’anni, pensava di conoscerlo abbastanza bene.
- Grazie, sei sempre così carino. – ribatté lei, fingendosi offesa.
- Sono semplicemente realista: non voglio essere presente quando inciamperai e farai cadere tutti i piatti, rompendoli. Non voglio essere etichettato come “l’amico della cameriera pasticciona”.
- Sei proprio un bell’amico. Non puoi essere più incoraggiante come tuo fratello? Matt sarebbe stato presente ad ogni mio turno. – continuò lei automaticamente, senza rendersi conto di ciò che aveva appena detto. Thomas non amava essere paragonato al fratellone, che era sempre risultato il migliore fra i due, sia caratterialmente sia scolasticamente. Matt era affidabile, gentile e carismatico. Frequentava una prestigiosa università della capitale e aveva un ottimo lavoro. Avrebbe avuto una splendida carriera, lo dicevano tutti. Thomas era invece l’arrogante asociale che viveva ancora con i genitori e che aveva deciso di studiare Informatica all’università più per “voglia di non fare niente” che per vocazione. Si sentiva la pecora nera della famiglia. Con quell’osservazione, Irina lo aveva ferito nel profondo, ammutolendolo. Il ragazzo fissava il bordo del bicchiere semivuoto e iniziò a giocherellarci, ruotando il calice, scuotendo così la schiuma annidata sul fondo. Passarono alcuni minuti di silenzio da parte dell’amico, prima che la ragazza ci fece caso.
– Scusami, Tom, non volevo. – chiese lei, sinceramente dispiaciuta. I primi tempi che lo frequentava, non capiva perché lui si rabbuiasse ogni volta che chiedeva notizie di Matt, finché un giorno non aveva assistito per caso ad una sua lite con i genitori. Era l’inizio di settembre e stranamente era una bella giornata afosa. Irina aveva deciso di passare la mattinata nel cortile posteriore a scrivere un po’: le era venuta l’ispirazione per un bel racconto romantico e il giardino ben curato le era sembrato un buon luogo dove poter liberare la creatività. Si era seduta sopra il dondolo, le gambe accavallate che reggevano il quaderno per gli appunti. Era nascosta dietro l’alta siepe che faceva da recinzione, quindi non si era accorta che dall’altro lato della barricata naturale c’erano i Johnson, che si stavano preparando per una grigliata in famiglia. All’improvviso la quiete era stata cancellata dalle grida di Thomas, seguite da quelle di Richard. Ci fu poi il boato della porta che veniva chiusa. Irina era scoppiata a piangere: aveva sentito chiaramente ogni parola.
- Tranquilla, nessun problema. Se hai finito, andrei a casa: sono un po’ stanco. – si giustificò lui, passandosi una mano sugli occhi. Irina annuì e prese dalla borsetta alcune sterline per pagare, ma Thomas la fermò. – Ho già pagato io. Non voglio i soldi indietro: consideralo il mio regalo anticipato per l’assunzione. – spiegò lui, alzandosi in piedi e dirigendosi verso l’uscita. Irina si mosse poco dopo di lui, rimanendo distante di qualche passo. Non riusciva a togliersi dalla testa la sua espressione delusa. L’aveva ferito, anche se lui non lo aveva voluto ammettere. Rifece le sue scuse una volta saliti in macchina, mentre Thomas stava guidando, ma il ragazzo continuava a sostenere che non c’era alcun problema. Irina non ci credeva, però lasciò cadere la questione. Il giorno dopo tutto sarebbe tornato come prima, era sempre così con Thomas: lui non riusciva a portarle rancore a lungo e questa era una certezza.
Dopo un quarto d’ora, la Ford Focus blu notte del ragazzo entrò nel vialetto di casa. Thomas spense la vettura e scese. Appoggiò le mani sopra il cofano dell’auto e si fermò ad osservare la proprietà confinante: Irina stava armeggiando con la chiave per aprire la porta di casa. Aveva una serratura dura, se ne lamentava sempre, tuttavia se ne vantava come fosse il perfetto antifurto. La contemplò spalancare il portone e quindi entrare. Solo quando la luce del soggiorno si accese, si staccò dalla sua postazione di guardia ed entrò in casa anche lui.
 
Hannah era seduta alla scrivania, nella sua camera da letto. La matita scorreva veloce sulla pagina dell’eserciziario di francese. Era davvero triste fare i compiti il venerdì sera, ma non poteva fare nient’altro. Desiderava con tutta sé stessa essere fuori dal quell’appartamento e divertirsi come facevano tutti gli inquilini del dormitorio o chiunque altro studente. Irina l’aveva invitata a uscire, ma a malincuore aveva dovuto rifiutare. I compiti non si facevano da soli, Hannah lo sapeva bene. Chiuse il libro con violenza. Era stanca di quella situazione, ma non poteva ribellarsi. La sua aguzzina, Connie, era perfida. E poteva contare sull’aiuto del suo fidanzato, la prossima giovane promessa del rugby. Adesso chissà dov’erano quei due, ma sarebbero arrivati nel cuore della notte, svegliando Hannah di soprassalto, per reclamare quegli esercizi svolti e quella produzione che la ragazza stava iniziando. Connie li avrebbe controllati e, se fossero stati soddisfacenti, l’avrebbe lasciata in pace fino al prossimo venerdì, altrimenti…
Hannah si alzò di scatto, si sporse sopra il tavolo e aprì la finestra. Le mancava l’aria. Il vociare degli universitari mezzi ubriachi e i suoni delle auto su Oxford Street entravano con prepotenza, schiacciandola ancora di più. Lasciò cadere la matita sul quaderno e si portò le mani agli occhi. Non poteva piangere: Connie si sarebbe accorta della carta umida e allora sarebbero stati guai. Hannah non voleva guai e non li aveva mai voluti, però veniva sempre coinvolta in situazioni come quella. Aveva persino cambiato città per scappare dai bulli, ma non era riuscita a fuggire davvero. I guai l’avevano trovata comunque e adesso si chiamavano Connie.
Era a un buon punto, in anticipo sulla tabella di marcia. Poteva prendersi senza problemi una pausa, almeno quello lo poteva fare. Andò nel salottino. Dietro la porta aveva sistemato una cucina in miniatura: un mobile con due armadietti, uno in basso e l’altro in alto, con in mezzo un ripiano dove era collocato un forno a microonde. Accanto alla dispensa improvvisata, c’era un mini frigo. Lo aprì e prese una bottiglietta d’acqua e una tavoletta di cioccolata. Gli zuccheri erano essenziali al cervello durante lo studio, inoltre la cioccolata alleviava il dolore. Due piccioni con una fava. Scartò l’involucro della barretta e lo buttò nel cestino dall’altro lato del mobile-dispensa, poi andò a sedersi sul divano, a commiserarsi, quadratino di cioccolata dopo quadratino di cioccolata. Ora sì che poteva piangere. Si sfogò come poté, tra un morso e l’atro. Le lacrime le avevano lasciato un sapore salmastro sulle labbra, rendendo aspro il gusto dolce della cioccolata.
Finito lo spuntino, si diresse in bagno. Sciacquò con prepotenza il viso per rimuovere ogni traccia di cioccolata o pianto. Quella era ormai la routine del venerdì sera e Hannah non aveva così tanta forza per opporcisi. Doveva solo tener duro fino alla laurea. Se c’era riuscita per tutte le medie e le superiori, poteva riuscirci anche all’università. Con passo lento e demotivato, tornò in camera sua, alla sua scrivania. Riprese in mano quella dannata matita e continuò quel dannato tema per la sua dannata ex-coinquilina.

   
 
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