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Autore: AnnabelleTheGhost    06/11/2014    1 recensioni
Avete mai avuto quell'insano desiderio di uccidere qualcuno che odiate, ma siete stati ovviamente fermati dalla vostra legge morale?
In questo mondo alternativo, nel 2006 è passato l'Atto del Terrore, che legalizza l'omicidio.
Quello che potrebbe sembrare un normale ragazzo è invece uno dei maggiori sostenitori di questo regime e qui sono raccolte le sue memorie.
[NOTA: Il primo è un mero capitolo introduttivo senza alcuna scena scabrosa; aspettatevi il peggio dal secondo in poi. Se siete persone facilmente impressionabili, questa non è una storia adatta a voi]
Genere: Erotico, Horror, Satirico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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2. The Masquerade

 

Balla, mia piccola,
Danza nel sangue
Librati, leggera
Mia dolce lady
 
Volteggia leggiadra
Sotto la luna.
Avvicinarsi a te
Nessuna bestia potrà

 
 
 
 
Il fascino del proibito risiede nel rischio, nell’osare esser temerari e trasgredire. Una volta superate le nostre inibizioni oltrepassare il valico invisibile tracciato tra moralità e il suo opposto ci è semplice.
Ma quando vengono a mancare gli elementi fondamentali alla base del  nostro anelito verso ciò che è illecito rimane solo un senso di vuota e profonda insoddisfazione.
Pian piano ci rendemmo conto di essere inappagati, oramai privati delle regole.
Eravamo tremendamente attratti da ciò che era orripilante per il resto del mondo ma, ottenuta l’approvazione dei potenti, avevamo perso l’eccitazione legata alla disobbedienza.
All’atto Kaewprasert vennero aggiunte delle postille, simulando così l’avvento di una forma di governo più repubblicana e meno anarchica ma era solo la facciata. Un adesivo col volto sorridente che, una volta staccato, rivela il marcio nascosto.
La situazione, sfuggita di mano, richiedeva un intervento per ritornare in carreggiata e fu per questo che vennero imposti solo dieci omicidi annuali a persona e, dunque, agire sempre a volto scoperto.
Fu la scintilla che riaccese l’interesse negli animi dell’ormai depravata popolazione: una nuova occasione per trasgredire alle regole.
Iniziò il periodo che chiamammo “The masquerade”, dove ogni assassino si scelse una maschera e un nome, operando come un vero serial killer da film horror.
I volti più noti degli assassini cinematografici furono i primi ad essere presi: calate le tenebre nuovi Jason, Jack, Hannibal, Leatherface, Jigsaw, Chucky spuntarono dalle ombre.
Facce disgustose e terrificanti, che avrebbero dimorato negli incubi dei più piccoli.
C’è chi non puntava ad essere associato a leggende del cinema, bensì ad essere ricordato, lasciando segni specifici sul luogo della strage o improvvisandosi Peter Parker alla ricerca della nuova maschera personale perfetta.
La sera in cui mi presentai alla Masquerade devo ammettere che, eccitato dall’idea, non peccai di originalità: presi dal ripostiglio la prima cosa che poteva avvicinarsi a una maschera e la indossai.
Essa risaliva ai miei primi anni di scuola primaria. Era ormai vecchia, logora. Il tessuto bianco era sfilacciato e ingiallito dal tempo, lembi di pelle rosea erano ben visibile da sotto la maschera.
Risultavo un patetico Pierrot in felpa nera col cappuccio alzato e il solito paio di jeans strappati. Ma ero un cazzo di Pierrot che aveva i posti in prima fila, per diamine!
Seduto sul marciapiede davanti al cortile di casa mia ammiravo quei folli che correvano da una parte all’altra della strada per farsi a fette e ascoltavo gli strilli di coloro che venivano maciullati nei loro letti.
Nella casa esattamente di fronte alla mia era entrato dieci minuti fa un uomo con la maschera di Guy Fawkes ed era ininterrottamente da cinque minuti che non mi perdevo un solo rumore che provenisse da quella abitazione: urla, risate, passi affrettati e il rombo della motosega, mentre le finestre si coloravano di rosso.
Ero talmente concentrato che mi colse alla sprovvista un getto d’acqua che mi inzuppò il lato sinistro del viso. Portai le mani sulla felpa e tastai il tessuto umido che, però, risultò essere impregnato anche di una sostanza molliccia. La strinsi tra le dita e spostai la mano di fronte agli occhi.
Brandelli di carne appiccicosa scivolarono dalle dita, per atterrare sul palmo della mano, totalmente ricoperto di sangue.
Strinsi le dita e, senza neanche accorgermene, il mio respiro si fece via via più affannoso mentre mi voltavo verso l’ignoto.
La mia testa non riuscì neanche a completare la sua rotazione che venne fermata da qualcosa di freddo e umido. Il mio naso si ritrovò a contatto con quello di uno sconosciuto, o meglio, quello che era rimasto di un naso maciullato, che lasciava interamente scoperte le ossa sottostanti.
Il mio sguardo era fisso negli occhi sgranati che si ritrovavano a pochi centimetri dal mio volto e non potei evitar di notare, con la coda dell’occhio, che dalla bocca spalancata colavano copiosamente grumi di sangue, che si depositavano sulla mia spalla.
Quel volto raccapricciante si allontanò dal mio viso, abbastanza da poter notare che i capelli erano tirati verso l’altro e stretti da una mano guantata.
La testa oscillava di fronte a me, come un grottesco pendolo e, non importava la sua angolazione, ma sembrava che tenesse gli occhi fissi su di me. Mi si ghiacciò il sangue.
Non era quel terrore che ti avviluppa le viscere dopo l’orrida visione di un corpo mutilato. No. Non temevo che una testa morta potesse farmi del male. Quello che mi spaventava era il possessore di quella mano guantata e lo stesso trattamento che poteva riservare a me.
Non ero del tutto impreparato: avevo un’arma al mio fianco. Ma ero seduto, in posizione svantaggiosa, colto alla sprovvista e totalmente ignaro di chi potesse essere il mio potenziale carnefice.
Sollevai lo sguardo lentamente. Dall’oscurità emergeva una maschera veneziana bianca, che rendeva impossibile identificare qualsiasi tratto del viso di questo sconosciuto. Neanche gli occhi. Nei buchi all’altezza delle orbite scorgevo solo dei pozzi color pece.
Non sarei in grado di descrivere quella figura: i contorni del suo corpo sembravano fusi con l’oscurità. Pareva solo una testa fluttuante e, nonostante non potessi vedere i suoi occhi, ero certo che mi stesse fissando.
La mano guantata si aprì. I capelli scivolarono tra le dita dell’assassino e la testa rotolò sul prato, lasciando pezzi di carne come un sentiero di briciole di Pollicino.
Spostai lo sguardo verso la testa che, nella sua rotazione, lasciava prima scoperto il volto, poi i capelli, il volto, poi i capelli. E si fermò quando l’erba aveva ricoperto il viso, fortunatamente.
Affascinato da quella testa che perdeva pezzi mi ero dimenticato per un istante di essere in pericolo mortale. Che stolto a distogliere lo sguardo! In quel frangente magari avrei potuto afferrare il mio coltello ed attaccare per primo!
Quando riportai lo sguardo verso la maschera questa era svanita. Abbassai il capo, di poco, ma sufficiente per trovarmi di fronte la maschera. Stavolta gli occhi erano visibili.
Come avevo appena sperimentato con quella parte di cadavere smembrato, anche questi occhi mi fissavano, spalancati. L’iride verde si perdeva in quella landa desolata di bianco.
Il mio cuore, illuso di potersi finalmente rilassare, perse un colpo o due, per poi riprendere a battere frenetico. Perfino quell’organo che mi garantiva la vita voleva fuggire, farsi spazio tra le costole e lacerarmi il petto, abbandonandomi con questa agghiacciante creatura dell’ombra.
Quegli occhi continuavano a guardarmi, a scrutarmi l’anima e non avevano intenzione di smetterla.
Erano vicini, troppo vicini.
E io non avevo idea di come allontanarli, pietrificato com’ero.
“Sta’ più attento, smidollato”
A sorpresa, fu lui a parlare, con una voce che pareva un sospiro. Non vidi labbra muoversi e non sentii il suo fiato sul mio viso. Sulla maschera rimaneva quella piccola boccuccia nera, ferma e imperturbabile. Avvertii un leggero fastidio nelle parole che proferì ma non mi torse un capello.
Se ne andò, risucchiato dalle ombre della notte ed io rimasi lì, impietrito, incapace di muovermi.
A farmi compagnia rimase la testa, capovolta, e un corpo decapitato. Non l’avevo notato prima, coperto dalla figura di quell’assassino misterioso, ma c’era un cadavere a pochi metri da me. Una veste bianca trasparente coperta di schizzi rossi si muoveva seguendo i capricci del vento e lasciando intravedere il corpo di una donna. Vicino ai suoi resti c’era un’ascia, con la lama imbrattata di sangue.
Sarà stata la paura, il freddo o il rifiuto categorico dei muscoli di muoversi ma restai in quel punto per un paio di minuti, prima che riuscissi ad alzarmi.
Raccolsi il coltello, che era rimasto accanto a me per tutto questo tempo. Lo infilai in tasca e da quel momento scrutai intorno a me con fare più guardingo.
Procedendo al centro della carreggiata, mi allontanai da casa mia. La strada era, come al solito, ricoperta di sangue ma, per la prima volta dall’inizio dell’Era del Terrore, non rimasi a guardare i cadaveri. Erano molto meno del solito; ciononostante mi ritrovai incapace di scrutare quei corpi, immaginando me stesso al loro posto.
Ogni volta che notavo un uomo mascherato il mio cuore batteva più forte fino a quando non mi accertavo che la sua non fosse una maschera veneziana.
Quegli occhi verdi continuavano a tormentarmi. Sentivo ancora il suo sguardo addosso, che strisciava sui miei vestiti, sulla mia pelle. Sentivo ancora la felpa umida nel punto in cui si era spappolata parte di quel cadavere.
Quell’ambiente che fino a pochi minuti prima riusciva ad affascinarmi, adesso mi intimoriva, e non mi era mai successo prima.
Decisi di fare dietro-front verso casa. Stanotte avrei fatto una lunga dormita, messo da parte il ricordo della maschera e l’indomani sarei tornato più attivo di prima. O almeno, era questo ciò in cui speravo ardentemente

  
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