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Autore: Aimondev    15/11/2014    1 recensioni
L'umanità è a rischio estinzione.
Ogni giorno Zeus distrugge una polis Greca.
Ermes è stato assassinato.
Nelle forge di Efesto è in lavorazione un'armata di colossi più grandi di qualsiasi edificio umano.
Esseri mostruosi fuoriescono dalle loro spoglie mortali affermando che l'inizio di una nuova era è cominciato.
Il mondo è già stato sconvolto ma adesso Klearcos, l'assassino più abile di tutta la Grecia, sa per cosa combattere.
Genere: Avventura, Drammatico, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'L'alba degli eroi senza nome'
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I nomi in grassetto stanno a indicare personaggi mitologici documentati (su internet e fuori)

http://it.wikipedia.org/wiki/Seconda_guerra_messenica

Quel sole tinto di rosso era di cattivo auspicio per i locali poiché presagiva che, di lì a poco, sarebbe stato versato molto sangue.

La regione chiamata Messenia era la riserva di schiavi di Sparta. Gli abitanti, dopo aver perso una guerra contro i laconici, furono privati di ogni diritto e chiamati Iloti. Gli spartani li tennero a bada per decadi con la sola forza del terrore derivato dalla propria abilità guerriera, superiore a quella di chiunque.  Ma in realtà erano invece gli spartani a temere nascostamente la loro forza. I messeni erano dieci volte più numerosi: erano centinaia di migliaia. Un popolo intero che bruciava nel fuoco del rancore.

 

E ora l’infuocata luce dell’astro si rifletteva sullo scudo di un uomo che dall’alto di un colle scrutava i suoi nemici. Il suo volto era celato da un elmo avvolgente della forma di un falcone.

Alle sue spalle lo seguivano una miriade di guerrieri. Così tanti che forse una tale armata non era mai stata veduta prima in Grecia. Molti avevano armature in cuoio, altri erano coperti di pellicce, la maggior parte erano vestiti solo con le proprie stoffe. Ma alcune centinaia di loro, avevano un equipaggiamento da oplita.

 

Quell’armata infatti era originariamente formata da uomini di ogni sotto-regione della Messenia, i quali avevano trucidato le esigue forze spartane locali e dato fuoco a tutti gli accampamenti di controllo in quelle zone. Infine avevano rubato le loro armature.

 

“Sono un’infinità, comandante! E sono pervasi da una foga che non è di questo mondo! Attaccano i nostri soldati come se la loro vita non valesse niente. Si immolano sulle lance dei nostri opliti per permettere a quelli dietro di loro di avere il sopravvento!”

Aveva spiegato il capitano Tirteo al polemarco Anassandro, nella tenda comando.


“Non mi interessano queste scuse!” gridò il comandante scagliando un bicchiere colmo di vino ai piedi dell’interlocutore.

“Il vallo che difendiamo è l’ultimo baluardo prima della sacra Sparta, te ne rendi conto? Schiererai nuovamente i tuoi uomini e questa volta dovranno avere successo. Non esiste sconfitta per uno spartano fintanto che non si trovi esanime sul proprio scudo! ORA ANDIAMO A CREARE UNA LINEA DIFENSIVA!”

 

Alcuni comandanti, come Emperamo, udite quelle parole schiamazzarono fomentati. L’altro polemarco Anassidamo, approvò la decisione del suo pari in silenzio.

 

“Mio signore. Lasciate a me il comando della prima linea”

Aveva detto rocamente Leneo, un tetro e cupo capitano spartano i cui modi avevano sempre inquietato il suo superiore. L’uomo si leccava la bocca in continuazione e i suoi occhi erano quelli di una belva feroce.

Tutti rabbrividirono.  Si conosceva bene tra le fila lacedemoni il disprezzo che quell’uomo avesse per la vita umana, compreso quella dei suoi sottoposti e dei modi brutali con cui essi venivano puniti.

Come poteva una tale bestia essere stata partorita da una donna spartana? Chi lo conosceva dall’infanzia lo ricordava come un giovane spartiata eccelso in ogni sua dote, piuttosto chiuso in se stesso, ma non di certo una belva come era diventato solo di recente.

 

“Va bene, Leneo. Terrai tu la prima linea.” Rispose Anassandro

 

Le falangi spartane si disposero cingendo tutto il perimetro di quelle colline, dalle quali sarebbe discesa l’orda di lì a poco. Erano appena diecimila, contro un intero popolo in movimento e avevano lo svantaggio della posizione. Nonostante ciò erano tutti consapevoli di quanto potesse essere letale e inamovibile una falange spartana sulla difensiva. Quale che fosse stato l’esito, sarebbe stata un’ecatombe.

 

Il capoguerra dei messeni teneva alto il suo scudo lucente, gridando e incitando il popolo alle sue spalle. Mai come ora dagli occhi di quegli iloti risplendeva la speranza di una vittoria.

Androclo, Alone, Dafni  preparate la fanteria per lo scontro frontale” comandò l’uomo con l’elmo da falcone ai suoi luogotenenti.

“…Alettore, Ischi: la cavalleria sui lati”

 

E migliaia di messeni discesero dalle colline come onde di tempesta: miriadi di corpi di uomini, donne, anziani e fanciulli armati solo di bastoni e di grezze lame. Tutti pronti a morire per una folle speranza di libertà.

 

“Cianippo!” Urlò Leneo ad uno dei suoi pentecotarchi. Sguinzaglia i cani.

“Sicuro!”  urlò compiaciuto l’addestratore solcato da infinite cicatrici.

“Liberate i molossi!”  ordinò a sua volta ai suoi uomini.

Appena I quadrupedi furono liberati dalle loro gabbie, schizzarono indiavolati verso quella moltitudine.  

I molossi balzavano sulle loro prede con tanta rapidità da non lasciar loro il tempo di reagire. Azzannavano le loro vittime al collo trucidandole sul colpo, segno che quelle belve erano state appositamente addestrate per uccidere più che portate a espletare il loro primario bisogno di cibo.

I cani difatti, una volta sbranata la preda non esitavano un istante a lanciarsi sulla successiva.

 

Tra le fila dei messeni ci fu subito scompiglio.

Non fatevi prendere dal panico!”  Gridò Androclo. E quando una delle bestie balzò su di lui, con lesta prontezza, il comandante si scansò su un lato e la decapitò al volo con la sua spada.

Il muso della bestia roteò in aria innumerevoli volte, prima di precipitare a terra ancora mugghiante. Vincendo quell’iniziale paura, la spropositata quantità di combattenti incominciò ad avere la meglio sugli animali, abbattendosi su di loro come mosche su una carogna. Anche le donne, munite di grossi coltelli si gettarono contro i quadrupedi occupati a divorare i corpi delle precedenti vittime. 

 

Le bestie avevano avuto un impatto travolgente su quella prima ondata di uomini, squartandone alcune centinaia e mandandone in rotta altrettanti. I pochi cani rimasti guaivano da una parte all’altra dello schieramento, venendo colpiti di tanto in tanto da qualcheduno che si trovasse alla loro portata.

Il comandante Alone, noto nel suo villaggio per essere un eccellente guaritore, era chino su una donna ferita, cercando di fermare l’emorragia di una lesione.

Le grida dei suoi sottoposti lo distolsero dal suo lavoro.  Quando alzò lo sguardo vide una marea di frecce oscurare il cielo. Nessuno avrebbe avuto il tempo di scappare, e solo in pochi tra loro possedevano uno scudo. Lui non era tra questi.

 

Ma proprio mentre quell’infinità di dardi stava per abbattersi su di loro, avvenne qualcosa di innaturale quanto spaventoso.  Si chiese se non stesse solo vivendo uno stranissimo sogno quando quelle frecce furono deviate dalla loro direzione attuale da un’onda d’aria proveniente dal basso.

Alcune di esse si frantumarono su un muro invisibile, altre tornarono indietro nel loro verso.  Gli arcieri lacedemoni che avevano serbato il tiro si trovarono del tutto alla sprovvista. Molti di loro caddero trafitti dai loro stessi proiettili.

 

Ma cosa era accaduto?

Tutti gli uomini presenti, messeni e spartani, si rivolsero basiti verso colui che aveva gridato poco prima del miracolo.

L’uomo con l’elmo da falcone aveva alzato il suo scudo lucente, ma nulla di più. Eppure gran parte degli astanti era convinta che fosse opera di magia divina.


E questa volta furono gli spartani ad essere spauriti e in preda allo scompiglio.

Gli iloti lanciarono un grido di esultanza. E dopo che il falcone si sincerò che tutti i mastini fossero stati massacrati, comandò una seconda carica. L’orda ricominciò la sua corsa verso i nemici.

Decine di migliaia di uomini si aggiunsero alle poche migliaia precedenti andando a creare una massa di uomini di tutt’altra consistenza.  La portata di quell’attacco fu così sconfinata che fin sulla linea dell’orizzonte si poteva ammirare la forza con cui la Messenia minacciava Sparta.  Gli scudi spartani formavano un argine che si andava a estendere per diversi chilometri.

Quando quella forza inarrestabile colpì quel muro inamovibile l’impatto fu devastante.

Una massa di umanità fuori controllo si abbatteva sul ferro degli scudi ribaltandosi o facendo ribaltare i loro nemici. Il peso di quella quantità si fiondò sugli spartani con tale imponente foga, da rendere inutile la loro abilità di combattenti. Innumerevoli iloti furono trafitti dalla selva di lance degli spartani, ma il loro numero era così grande che le perdite non furono altro che una goccia nell’oceano.

 

Cianippo, l’addestratore di cani, fustigava i nemici col suo flagello. Tre uomini furono feriti gravemente. Altri si tenevano lontani.

Il comandante degli iloti Dafni, uomo di grande costituzione, rimase impassibile. Continuò a marciare coprendosi il volto con le braccia.  La frusta gli lacerava la pelle e lambiva lo strato muscolare sottostante, eppure l’uomo pareva insensibile alle frustate. Giunto a un passo da Cianippo, scattante gli mise una mano al collo. Le sue mani da lavoratore della terra erano callose e molto più grandi del normale. Cianippo lasciò cadere la sferza. La stretta al collo era così forte che gli uscì del sangue dal naso.  Restò a fissare allibito il suo assassino per quegli ultimi attimi, prima che anche gli occhi gli schizzassero fuori dalle orbite.

Dafni sorrise. I suoi stessi uomini ebbero paura di lui, ma inneggiarono lo stesso il suo nome.

 

La cavalleria messenica incombette ai lati. Centinaia di uomini vestiti di pelli e muniti di bastoni e qualche lama furono intercettati da cavalieri ben più armati subordinati di Sparta: gli elidi di Pisa.

La disciplina a cavallo dei cavalieri elidi spazzò via gran parte di quegli straccioni in groppa agli equini. Le loro stesse cavalcature persero il controllo disarcionandoli.

I sopravvissuti rimasti a terra videro il rapido disfacimento della loro divisione.

 

Re Enomao, signore degli elidi, in piedi sulla sua quadriga dalle ruote dentate trainata da un tiro di cavalle rapide come il vento, si faceva largo in mezzo allo schieramento nemico tranciando le ossa degli equini nemici.

“Psilla! Apinna! Forza galoppate come il vento!”  Spronò Mirtilo, servitore di Enomao nonché miglior auriga greco.

Il comandante messeno Alettore riuscì a colpire e atterrare un paio di cavalieri elidi con il suo lungo bastone. Poi si rivolse verso il loro re.

Il confronto durò poco. Le ossa pastorali della sua cavalcatura schizzarono in aria, tranciate dalle ruote dentate e, nel momento in cui il comandante rimase in aria prossimo a morire, maledisse quella fredda indifferenza sul viso del suo assassino.

Per Enomao quello scontro non era stato più impegnativo di schiacciare una mosca. Non provava niente nell’uccidere nemici così deboli.

Alettore si schiantò a terra rompendosi l’osso del collo.

 

In un punto imprecisato della battaglia, il Falcone si faceva strada in mezzo alle linee del nemico puntando il suo scudo contro i soldati. Un bassorilievo circolare su di esso prese a illuminarsi di una strana luce azzurra. Nel giro di un attimo tutti i soldati furono scaraventati via dalle loro posizioni per poi riprecipitare finendo per morire o ferirsi gravemente. I messeni al suo seguito finirono le vite di quelli caduti a terra e attaccarono di nuovo.

 

Ovunque passava il Falco, gli spartiati venivano catapultati in aria prima ancora di riuscire ad avvicinarsi abbastanza da poterlo attaccare. Tutti gli altri, intimoriti da quel potere fuori dal mondo, per quanto fossero valorosi guerrieri, si ritrovarono impotenti a fuggire verso le retrovie.

 

“Bene, bene, bene…Falcone Nero, Sideris. O come vuoi essere chiamato. Ci sei tu in persona dietro a questo attacco  proferì una voce roca alle spalle del guerriero dallo scudo lucente.

 

Il comandante Leneo si stagliava in piedi in mezzo a quello sterminio e a quella morte fresca. Dietro di lui c’erano cinque guerrieri spartani tutti con lo stesso sguardo e la stessa perfidia negli occhi. Una perfidia che non aveva nulla di naturale…Nulla di umano.

Leneo si leccò la bocca.  Abante, Dedalione Prendetelo”

Due dei cinque soldati alle sue spalle sorrisero diabolicamente e dei sinistri riflessi balenarono nei loro occhi.

Il loro corpo fu pervaso da tremiti convulsivi. Dalla bocca schiumarono torrenti di bile e saliva. Gli occhi si rigirarono completamente. Dalle loro carni emersero protuberanze artigliate, affiorarono scaglie, spuntarono piume.

Urlarono entrambi. Dapprima le loro grida erano umane. Poi alla voce naturale se ne aggiunse una seconda più squillante, più stridula. 

 

Messeni e lacedemoni interruppero i loro scontri facendo cerchio attorno a quegli indicibili orrori. 

Ognuno di loro era a conoscenza dell’esistenza di mostruosità come i centauri, i ciclopi o altre creature presenti nelle narrazioni degli anziani. Ma questi esseri avevano sempre fatto parte delle storie e mai della realtà. Un silenzio panico era calato su quella parte di piana, e adesso tutti gli spettatori sapevano che quelle degli anziani non erano più solo storie.

Due immani ali piumate fuoriuscirono dalle spalle di Dedalione, che con un balzo spiccò il volo.

Intanto Abante era divenuto così grosso che le sue vesti e persino l’armatura non erano più state in grado di contenerlo. Egli aveva scaglie verdognole su tutti i suoi quasi tre metri di altezza e dalle sue robuste mascelle sporgevano due file di denti aguzzi. Dal posteriore faceva agitare sinuosamente una lunghissima coda.

La coscienza dell’uomo che fu un tempo si sentì onnipotente.

I suoi occhi gialli contemplarono la carne umana che aveva attorno. Con inverosimile agilità, si approssimò ad alcuni soldati e, spalancando le fauci fece guizzare una rosea lingua biforcuta con la quale agguantò un guerriero messeno per attirarlo a se.

La corazza di cuoio non trattenne la pressa del suo morso e i denti affondarono profondamente nel petto della vittima.

Abante fu meravigliato dalla facilità con la quale riusciva a dare la morte. Volle testare ancora le sue capacità.

Sguisciò tra le linee degli uomini con una rapidità incontrastabile. I lunghi artigli che fuoriuscivano dagli arti ne dilaniavano le armature penetrando nei loro punti vitali.

Con veloci spazzate di coda ne buttava a terra cinque per volta. I primi a subire l’impatto della sferzata si ruppero la spina dorsale.

Nessuno era al sicuro dai suoi attacchi, né i messeni né gli spartani. Erano tutte prede per Abante.

Non c’era modo di placare una simile forza. Entrambi gli schieramenti arretrarono attoniti. Alcuni uomini fuggirono terrorizzati.


Due mani artigliate agguantarono un paio di fuggiaschi. I due uomini videro il terreno sotto i proprio piedi farsi sempre più distante. Videro gli eserciti diventare sempre più piccoli fino a sembrare formiche e videro l’intero vallo che gli spartani stavano difendendo in un unico sguardo. Poi precipitarono.

Non soddisfatta, la creatura volante che li aveva afferrati si calò in picchiata su un gruppo di messeni in fuga travolgendoli e uccidendoli nell’impatto.

Dedalione, lo spartano mutato in volatile, era più piccolo di Abante, la sua altezza superava appena i due metri. Dalle sue spalle spuntavano grosse ali la cui apertura alare doveva superare il doppio della propria altezza. Al centro del viso aveva ora un adunco becco e il suo intero corpo era ricoperto di piume e di penne. I suoi rapaci occhi sottili fissavano l’uomo con l’elmo del falcone.

 

“Quale ironia per il Falcone Nero, essere destinato a perire per mano di un falco…Un vero uomo falco. Ciò che lui non sarà mai.”    La sua voce era stridula e lacerante, fin troppo fastidiosa.

 

“Sei diventato un falco adesso, questo è vero… Ma sei mai stato un uomo?” Rispose il condottiero dei messeni.

La mostruosità con la forma di falco stridette offesa e incominciò a battere fortemente le ali alzando un gran polverone.

La visuale del condottiero era molto limitata. Attivò il suo scudo e un’altra di quelle potentissime ondate d’aria spazzò via la polvere.
La vista che ottenne rivelò Abante, l’uomo rettile incombere su di lui con le sue zampe artigliate. Le sue mani immonde languirono lo scudo per un istante, prima che la bestia fosse investita in pieno dal getto di potere emanato da esso. Fu sbalzata di pochi metri, ma riuscì a cadere in piedi frenandosi al terreno con le sue grinfie.

 

Il Falcone avvertì poi uno spostamento d’aria alle sue spalle, e se non fosse stato per i suoi riflessi fulminei, sarebbe stato certamente squartato.

Invece in quella frazione d’istante si accorse di Dedalione e, voltandosi di scatto riuscì a parare l’attacco nemico e respingerlo di qualche metro, ma la foga con cui era stato colpito lo fece crollare a terra di schiena.

 

Abante dall’altra parte, si approfittò del momento per far guizzare la sua lingua contro l’uomo caduto. La protuberanza si appiccicò all’elmo del Falcone strappandoglielo via dalla testa.

Il muso di falco vibrò in aria come l’animale che rappresentava e poi crollò a terra emettendo un rumore metallico.

 

“Ero curioso di saperlo…” sibilò la creatura.

“È Dunque questo il vero volto del Falcone Nero” .

 

L’uomo, adesso divelto del suo avvolgente copricapo, si ricompose.

I suoi lunghi capelli biondo cenere erano smossi dal vento, gli occhi di identico colore attraversavano temerari il mostruoso muso del suo nemico: era Aristomene.

 

Si stagliava in piedi, da solo, tra i due mostri. Entrambi pronti a scattare su di lui.

Il temerario luogotenente del Falcone incominciò a vacillare. La sua testa si fece pesante, e avvertì il tocco della paura.  Si aspettava la venuta dei mostri. Sideris glielo aveva presagito in alcuni scritti che gli aveva lasciato trovare. Ma Aristomene, forte del suo scudo dai poteri epici, credeva di essere divenuto imbattibile. Ora, trovatisi davanti a quei mostri, non lo pensava più.

“In fondo, sei solo umano” Commentò Dedalione.

Una pioggia di frecce si abbatté sul corpo piumato del mostro. Quel tiro non gli procurò gravi danni, visto lo spessore delle penne che lo ricoprivano, ma uno dei dardi s’inculcò sotto il suo occhio, trapassandogli il volto.

L’essere si voltò furente stridendo in modo così acuto e stridulo da costringere tutti gli umani presenti a coprirsi le orecchie.

La seconda cavalleria dei messeni era giunta sul campo e aveva trovato il coraggio di opporsi al proprio destino.

“Affronta noi, bestia!” gridò Ischi, il comandante di quel plotone a cavallo.

 

Dedalione accettò la sfida e si abbatté furibondo su quei cavalieri. Ali nere incombevano sul loro schieramento. Gli equini imbizzarrivano, sotto le redini degli uomini che cercavano di mantenere il controllo. Il mostrò falciò l’intero reggimento atterrando una decina di soldati. Il comandante Ischi gli scagliò contro una lancia. La frenesia di quella situazione gli impedì di essere maggiormente accurato e l’arma colpì solo la spalla sinistra trapassandola da parte a parte.

 

La creatura ignorò il dolore e lo raggiunse in pochi attimi.

L’artiglio della sua mano destra agguantò il volto di Ischi, mentre con gli arti inferiori lacerava il collo della cavalcatura uccidendola tra atroci dolori.

Gli occhi del mostro Dedalione, ricolmi di un odio senza nome, si assottigliarono cercando di ghermire l’anima stessa della sua vittima assieme alla sua vita.

La testa di Ischi esplose.

 

Intanto Aristomene cercava di prendere in pieno l’uomo lucertola, facendo scaturire dal suo scudo scariche di pura energia che colpivano il terreno deflagrandosi.

Ma il mostro schivava e sguisciava, scansava ed eludeva ogni colpo riducendo sempre più le loro distanze. A cosa serviva un’arma tanto potente se non si era in grado di usarla? Si chiese Aristomene.

Giunto a un metro di distanza, il mostruoso Abante scatenò tutta la sua potenza in un colpo di coda discendente.


Il luogotenente rivoluzionario, con sorpresa del mostro, lasciò andare lo scudo che

era troppo ingombrante da permettergli movimenti fluidi, e con scatto fulmineo schivò il colpo.

La coda collise fragorosamente sul terreno e la spada dell’umano reagì con maggiore rapidità abbattendosi su di essa ma non prima di aver assunto un cupo colore grigio.  La coda del mostro venne tranciata di netto dalla spada divina del guerriero.

 

Abante ruggì di dolore. Con l’artiglio tentò di agguantare il suo avversario che di riflesso, si chinò eludendo e contrattaccando. Il mostro ruggì ancora di più quando si vide il braccio mutilato.

E Aristomene in preda alla furia si lanciò sul suo avversario lacerandogli tranci di carne e squame a ogni colpo. Questa volta era il mostro Abante a sentire il terrore, e con tutta la sua velocità si divincolò allontanandosi il più possibile dal pericoloso guerriero.

“Ora ho capito che questo scudo, per quanto formidabile, non è l’arma adatta per contrastarti” Disse.

 

Gli occhi spaventati di Abante si fecero beffardi e canzonatori. 

“Non pensare che sia finita, miserabile feccia”.

Ruggì ferocemente. I suoi occhi si dilatarono e sul muso spuntarono grosse vene.

Dalle mutilazioni inferte grondò vischioso sangue verde. Poi una nuova coda e un nuovo braccio si rigenerarono dagli orribili squarci.

Tutti gli spettatori dello scontro inorridirono, compreso il suo avversario.

 

Sei veramente un mostro” Commentò Aristomene con un ghigno. Non gli era sfuggito che il suo nemico aveva però il fiato corto a causa di quello sforzo, e che le lacerazioni sul corpo stavano continuando a sanguinare.

Aristomene era in difficoltà: nessuno dei suoi uomini poteva aiutarlo. E non solo per codardia, ma anche perché davanti a un simile avversario si sarebbero ritrovati di fronte a morte certa.

Intorno a lui i messeni avevano respinto gran parte degli spartani e la maggior parte era ferma al limitare dell’area del duello per assistere allo spettacolo. Altri stavano ancora muovendo battaglia contro le file lacedemoni. Ma un piccolo gruppo di spartani era rimasto e lo stava fissando imperscrutabile. C’era un uomo in mezzo ad altri tre  che trucidavano qualsiasi messeno provasse ad avvicinarsi a lui. Era l’uomo che aveva ordinato alla lucertola e al falco di attaccare. Probabilmente doveva essere il più pericoloso sul campo.

L’uomo lo guardava come un lupo fissa la sua preda. Aveva mandato i suoi lacchè solo per testare le capacità di Aristomene, e di questo lui se ne era accorto.

Il finto Falcone Nero era un bersaglio succulento per quei mostri ed era certo che se la battaglia fosse durata troppo, il misterioso spartano l’avrebbe conclusa in fretta.

 

Aristomene era agitato.

Una goccia di sudore freddo calò lungo le tempie: era solo.

Se solo Sideris fosse lì sarebbe stato certo della vittoria, anche se quei mostri lo avessero attaccato tutti insieme. Ma se anche i suoi vecchi compagni come Cercione, Almo o Oreste lo avessero affiancato, avrebbe avuto certamente più possibilità.

Ma adesso doveva pensare a finire quello scontro il più presto possibile o sarebbe stato sopraffatto dalla foga di quei mostri.

 

Raccolse il suo scudo e incominciò a correre verso Abante. Una lancia si schiantò sul terreno davanti a lui, a pochi centimetri dalla sua faccia.

Dedalione era in aria. Aveva trucidato da solo un intero plotone di cavalleria e ora stava scagliando dall’alto tutte le lance dei cadaveri.

 

Aristomene non si fece distrarre. Cambiò direzione e continuò a correre verso il suo nemico.

“Devo essere preciso” pensò.

Basta un piccolo errore, e sono morto.”

Si scansò evitando il colpo di un’altra lancia. Roteò su se stesso e, ingaggiato il bersaglio, scagliò contro di lui il proprio scudo magico.

L’oggetto era veloce e puntava al collo dell’uomo lucertola.

Ma il mostro Abante lo era di più. E abbassandosi rapidamente riuscì a evitare la decapitazione.

“E’ LA MIA SPADA CHE DEVI TEMERE, MOSTRO!”

Urlò il signore dei messeni agitando la sua lama permeata di potere grigio.

 

Abante fece guizzare la sua oblunga lingua che si incollò al polso del nemico bloccandoglielo.

Aristomene non riusciva più a muovere la mano.

“Ti ho preso, finalmente”  Dichiarò la lucertola facendo schioccare la mandibola e preparandosi al pasto imminente.

“No. Io ti ho preso!”

 

Buttandosi di lato, Aristomene schivo una delle lance scagliate da Dedalione, e al contempo costrinse Abante a flettere la testa nella stessa direzione.

 

“Sono stato impreciso con quel lancio, ma  ho vinto lo stesso.” dichiarò l’umano.

La lucertola non capì. Poi la sua testa fu dilaniata di netto all’altezza della mandibola

da un disco dietro di sé.

 

Lo scudo magico aveva cambiato direzione nel volo ripercorrendo quello stesso tratto e decapitando il mostro.

 

L’oggetto collise inculcandosi al terreno.

Rigenera questo!” commentò sprezzante.

 

Aristomene senza perdere tempo lo riprese, puntando il mostro volante che lo bersagliava dall’alto…Troppo in alto per essere colpito dalle onde d’aria del suo scudo.

 

Agendo d’istinto, l’uomo diresse lo scudo nella parte opposta rispetto alla posizione del suo avversario.

La velocità con cui venne sbalzato in aria fu così elevata che Dedalione fu incapacitato a reagire. Sbigottito… fu colpito in pieno da quel proiettile umano, a venti metri da terra.

Arrivato al culmine di quella salita, l’umano incominciò a precipitare. Ammorbidì l’aria col suo scudo per rallentare quella caduta.

 

“Tu sei già morto.”

 

Metà testa dell’uomo falco scivolò dalla sua posizione. Poi il resto del corpo la seguì, sopraffatto dalla forza di gravità, sfracellandosi al suolo.

 

 

 

Parentesi anacronistiche 8:

Armamentario 5: La coda di Cercione.

 

Un’installazione composta di materiali nanorod (o iperdiamante) che comprende un cinturone ricoperto nella parte posteriore da minuscoli aghi che attecchiscono alla spina dorsale per captare i neurotrasmettitori attraverso cui la grossa coda può muoversi e ruotare a comando dell’utilizzatore come fosse un muscolo volontario con articolazioni mobili.

 

 

  
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