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Autore: Ely79    17/11/2014    1 recensioni
Dopo il ritorno dal Grande Vuoto, Alexis ha scelto di restare sulla Terra. La sua nuova vita, sotto l'ala "protettiva" dello Sceriffo Anderson e dei suoi amici si presenta meno idilliaca di quanto immaginasse dal principio, non tutto è rose e fiori. Ciò nonostante, sa di poter contare su un aiuto fuori del comune. Un amico erede di tradizioni antiche e misteriose, ben lontano dal mondo tecnologico o di magia oscura cui lei è abituata.
Ispirata alla saga "Crossgames" di Shade Owl, pubblicata su EFP.
Genere: Commedia, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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XIII. Ur
XIII. Ur - Erica1

Le cose si erano fatte interessanti dopo l’uscita di scena del Liaigh. Alexis e Robert erano rimasti soli sul divano della donna e avevano parlato della serata fin quando la sete aveva spinto la donna verso il frigorifero. Quando tornò offrendo una birra a Robert, questi prese entrambe le bottiglie e le stappò col coltello del nonno.
«Prima non mi hai risposto» le ricordò, sfiorandole la cicatrice con il vetro umido mentre gliele restituiva.
Alexis rimase un attimo a fissare il segno lasciato dalla condensa sulla pelle, poi sedette al suo fianco, molto più vicina di prima, e posò sul pavimento la propria birra. Scoprì entrambi i polsi e gli mostrò i segni che li attraversavano.
«Me le sono fatte la prima volta che sono morta» iniziò, stupendosi della tranquillità della propria voce. «Ero consapevole di aver aiutato delle persone a uscire da un inferno, ma al tempo stesso non vedevo nulla di fronte a me se non un’agonia eterna. Eppure, quando credevo che tutto fosse finito, mi sono ritrovata a respirare di nuovo, giusto in tempo per fare i conti con la parte peggiore di me. Una parte così sbagliata e aberrante che ho dovuto combatterla per non svanire. E anche in quel caso, quando ero certa di essere stata sopraffatta, ho riaperto gli occhi e ho scoperto di esserci ancora. All’inizio ero nauseata, ne avevo abbastanza di quel tira e molla. Poi però ho deciso che dovevo ricominciare a lottare. Dovevo farlo per me stessa».
Robert annuì appena, riconoscendosi nelle sue parole. Rivedeva ogni missione e ogni singolo momento di dubbio, ogni paura, le cadute e le risalite.
«Ora sono qui, vivo una vita che mi piace anche se all’inizio è stata difficile, a volte persino spaventosa. Adesso però amo le sue novità, i suoi vuoti e i suoi problemi. Ho deciso che voglio morire solo un’altra volta. E voglio sia per il naturale corso dell’esistenza; niente guerre, battaglie o nemici. In quel momento vorrò vicine le persone che mi vogliono bene, per poter guardare in faccia Azrael e dirle: “ho fatto quel che dovevo, è il mio momento, sono felice e pronta a seguirti”» concluse sorridendo mentre raccoglieva la bottiglia e si appoggiava allo schienale.
Prese un profondo respiro, emozionata dalle sue stesse considerazioni. Non aveva mai detto nulla del genere neppure a Corentin, forse era addirittura la prima volta che lo dichiarava a sé stessa, ma sentiva che Robert era in grado di capirla. Si voltò a guardarlo e scoprì che ciò su cui poggiava la nuca non era il divano, bensì il bicipite del Maggiore. Non sembrava sorpreso, né infastidito dalla cosa. Anzi. La osservava soppesando le sue parole, incuriosito da quel nome.
L’abbiamo fatto tutti. Non è poi così assurdo parlarci quando ti alita sul collo, considerò, ricordando quando durante una missione, bloccato dietro un blindato sotto il fuoco nemico e con una brutta ferita alla gamba, aveva chiesto a “Leni” di passare in un altro momento.
Piegò il braccio, poggiando la punta delle dita su quello di Alexis in una stretta appena accennata. Allungò la bottiglia verso la sua e fecero un brindisi alle chance della vita e ai ritardi della Nera Signora.
«Ora mi spieghi perché Tim ce l’ha così tanto con le tue colazioni?» domandò.
«Tim?» chiese esterrefatta, tossicchiando per il sorso che le era andato di traverso.
«Lo Sceriffo».
«Sì, sì. Lo so di chi stai parlando ma… nessuno di noi lo chiama Tim! Lui è Timmi!»
«E poi vi chiedete perché s’incazza? È un diminutivo da prima elementare!» rise.
«E tu che ti fai chiamare Bobbie dai tuoi fratelli? O Bob da Corentin?» gli fece notare con una punta di perfidia.
«La cosa terminerà a breve. Ancora un mesetto e scatteranno sull’attenti a ogni mia sillaba» annunciò cinico.
«Sei un dittatore, Signor Soldato col Cappellino Colorato» lo riprese facendogli una linguaccia.
«Bada, Recluta del Non So Cosa. Potrei interessarmi alla tua… di educazione» minacciò ammiccando senza distogliere lo sguardo dalle sue labbra.

***

«Appena in tempo!» esclamò Kyle allontanando con uno spintone il fratello e correndo attraverso il soggiorno, additandolo irritato appena raggiunta una porta. «Questa è la prima e l’ultima volta che mi lascio coinvolgere nelle tue paranoie! E il fatto che quel Sykes sia entrato tanto alla svelta nelle tue simpatie è a dir poco sospetto!»

Il brusco strappo dal piano delle correnti d’energia onirica a quello materiale aveva lasciato Timmi confuso e malfermo più di quanto si aspettasse, tanto che non riuscì a replicare al volo all’insinuazione, peraltro fondata.
«Paranoie? Io sono il suo tutore, devo sapere cosa combina!» sbottò raddrizzandosi e massaggiando la spalla che l’altro gli aveva stretto fino a poco prima. «E poi cosa sono queste gelosie? Tu eri uno stronzo e lui…»
«Abbassa la voce!» soffiò furibondo il fratello sparendo nel corridoio, lasciandosi alle spalle una scia azzurrata.
Timmi avrebbe preferito evitare d’imporre a qualcuno di dargli una mano, ma era assolutamente digiuno di magia celtica, in particolar modo dei nodi protettivi che Corentin aveva sparso strategicamente nel piccolo appartamento, così si era sentito in obbligo di mettere di mezzo Kyle, che s’intendeva di eludere trappole e muoversi nell’ombra. Era bastato ricordargli la faccenda del caffè dell’anno precedente per convincerlo: far leva su suoi presunti torti funzionava sempre. Grazie a lui aveva potuto seguire in tutta tranquillità il post barbecue, infischiandosene delle protezioni che oscillavano sospese a mezz’aria nella stanza, e quel che aveva visto l’aveva fatto sentire soddisfatto. Forse per una volta la sirena aveva ragione: quel Sykes avrebbe potuto far parte della banda e quell’incontro nel suo passato era una credenziale non da poco.
Ha i coglioni e le esperienze giuste per reggere la verità. E poi c’è qualcos’altro che devo ancora capire, ma già basta e avanza, pensò. Bisogna solo convincere i Sommi Scassapalle. Mi toccherà elemosinare una mano da Liz e sperare che al Maggiore non prenda un esaurimento. Mi seccherebbe perdere uno così.
«… lei fa la nanna, come dovrebbero farla tutti i bravi bimbi e le brave bimbe. Non come papà che alle tre del mattino è ancora in piedi a fare cose stupide e moralmente scorrette per farsi perdonare presunte mancanze» rimbrottò Kyle avanzando nel soggiorno con un fagottino tra le braccia. «Guarda chi è venuto a trovarti».
Un buffo risolino proveniva da una nuvola di riccioli arruffati, identici a quelli di Arshan se non fosse stato per il loro color muschio, segno inequivocabile della discendenza demoniaca che si faceva evidente solo al riparo da occhi indiscreti.
«Chi c’è lì?» domandò, voltandosi un poco.
Una manina si allungò rapida a indicare lo Sceriffo, per sparire altrettanto velocemente fra le pieghe di un pigiamino punteggiato di stelline sorridenti e lune appisolate tra soffici nuvolette.
«Chi? Dillo bene, altrimenti non ti sente!» la incitò sottovoce.
«Gjio» rispose la bimba spiandolo furtiva da sotto il braccio.
«Eh, già. È proprio lo zio Timmi che è venuto a sgridarti perché non fai la nanna» cantilenò squadrandolo con un’espressione sorniona da dietro le lenti. «Vediamo se lui riesce a farti dormire».
«Mi hai preso per una baby-sitter? C’è Nadine per… no… No! Dannazione, Kyle!» protestò, ma era troppo tardi.
«Gjio! Gjio!» pigolò la bimba aggrappandosi al suo collo e ridendo tutta felice.
Sei un bastardo, sillabò rivolto al fratello ma dalla sua faccia era evidente che la cosa non lo infastidiva più di tanto.  
Stravedeva per Robin, in città lo sapevano tutti: gli ricordava sua figlia da piccola. Non si somigliavano nell’aspetto, tuttavia quel modo di raggomitolarsi sulla sua spalla, di stringersi a lui, di sgambettare quando si divertivano, erano identici. E quei gesti avevano un effetto calmante sulle nevrosi di Timmi che era stato riscontrato in pochi altri casi.
«Ehi, ciao lattughina. Che ci fai in piedi? Mi aspettavi?» le domandò
Robin fece di sì con la testa, solleticandogli l’orecchio con i boccoli.
«Accia butta! Accia butta!» reclamò pizzicandogli la guancia tra uno sbadiglio e l’altro.
«Vuoi che il tuo super-zio preferito fa la faccia brutta? E va bene! Arriva la faccia brutta!»
«Per l’amor del cielo, Timmi… poi non dorme!» sbadigliò affranto Kyle, guardando il viso deformarsi come fosse fatto di gomma.
«Non è colpa mia se ha gli incubi. È lei che vuole!» obbiettò, con la bocca all’altezza di uno zigomo.
L’immagine era a dir poco spaventosa, tuttavia scatenava l’ilarità della piccina che si divertiva un mondo a tirare la pelle da tutte le parti, scompisciandosi a ogni nuova configurazione o colore assumesse il volto dello zio.
«Non ha gli incubi: continua a ridere e vuole che lo faccia anch’io. Ma con me non si diverte così tanto» precisò.
«Bisogna essere portati per certe cose, saper offrire la performance migliore, dare tutto…» ma s’interruppe, colpito da un pensiero. «Cos’è che dicevi? Sai, quella cosa delle donne che hanno il nostro cuore».
«Sì… dunque… “non importa che tu sia un licantropo, un templare o un demone. La donna che tiene in mano il tuo cuore è la sola persona al mondo che devi temere”» disse Kyle recuperando delicatamente la figlioletta che aveva cominciato a sonnecchiare sulla spalla dello zio, stringendosela al petto.
Nel giro di un paio di minuti, Robin era tornata nel mondo dei sogni sorridendo beata.
«Lo sai che abbiamo un bel problema?» sospirò lo Sceriffo, dondolando sui talloni.
«Ti riferisci al fatto che questa donnina si è presa i nostri cuori senza permesso?» bisbigliò cullandola.
«Allora non sei così stupido…» malignò.

***

Quando aprì gli occhi, Alexis si ritrovò nel proprio letto.

Era strano: non ricordava di essere scesa dal divano. Le ultime cose che aveva chiare erano Corentin che se ne andava da casa sua verso l’una e mezza, lei e Rob che restavano sul divano in compagnia di un altro paio di birre a parlare della sua rinata voglia di vivere, dei dolci biologici e vegani che componevano le sue colazioni e che a suo giudizio lui avrebbe dovuto assolutamente provare, dei posti più suggestivi nei dintorni della cittadina, dei progetti che Rob aveva per migliorare l’attività del ranch del padre,...
Poi, qualcosa le riaffiorò alla mente. Le parole “Operazione Bella Addormentata” e la strana sensazione di sentirsi leggera, dondolante nell’aria. Dato che Robert non era lì, poteva supporre con ragionevole certezza che l’avesse portata in camera una volta addormentata. Ulteriore prova furono i vestiti che aveva addosso: gli stessi della sera precedente.
Si alzò, raggiungendo in punta di piedi il minuscolo disimpegno. La luce filtrava nel bagno attraverso la tenda e la scala antincendio, rivelando l’assenza di altre persone. Cercò segni della presenza di Rob attraverso uno spiraglio dell’altra porta, ma del Berretto Verde non c’era traccia, se non la fodera stropicciata del divano, là dove si erano seduti alcune ore prima, e la coppia di bottiglie sul tavolino poco distante. Soggiorno e cucinino erano vuoti e silenziosi, eccettuati i consueti rumori dalla strada.
Alexis si appoggiò allo stipite, provando un misto di sollievo e delusione. Per qualche strano motivo era felice di non averlo trovato addormentato sul divano – si sarebbe sentita una pessima padrona di casa, ma allo stesso tempo era intristita dalla sua assenza. Era curiosa di scoprire come si arrangiassero i militari terrestri in simili situazioni, anche perché dubitava che quei due posti e mezzo di imbottitura potessero accogliere decentemente l’intera mole del Maggiore Sykes.
Attraversando la stanza gettò una rapida occhiata alla porta d’ingresso, accorgendosi che la grossa serratura era stata chiusa e non c’era traccia delle chiavi.
Appese con due magneti sull’anta del frigorifero, c’erano la catenina e le targhette di Robert, luccicanti nella luce che entrava dalla finestra. Un’altra calamita reggeva un messaggio, scritto su uno scontrino del supermercato.

“SENZA QUESTE MI SENTO NUDO. PUOI RIDARMELE OGGI ALLE 19:30 QUANDO VENGO A PRENDERTI? SPERO TI PIACCIA IL PESCE: NEL LAGHETTO CE NE SONO TROPPI.
ROB
PS. LE CHIAVI SONO NELLA CASSETTA DELLA POSTA”

Era scritto in uno stampatello quasi infantile, con il trattino orizzontale delle “a” che le faceva somigliare a triangoli, le “c” e le “g” che ricordavano dei sei. Probabilmente aveva steso la maggior parte dei suoi rapporti a computer. Sentì le guance riempirsi di un sorriso la cui gioia le diede le vertigini.
Decise di lasciar perdere il jogging e, dopo una rapida sistemata, si diresse alla caffetteria. Dovette trattenersi a forza dall’acquistare due brioche: entro sera avrebbero perso tutta la fragranza e non voleva che Rob assaggiasse la brutta copia delle delizie che aveva tanto decantato. Tornando verso casa addentò il dolce, che non le era mai parso tanto buono. Persino il caffè, che aveva preso con una spruzzata di sciroppo alla nocciola e panna montata, sembrava più corroborante del solito.
Prese il cellulare e chiamò Corentin. Doveva essere ridicola con il telefono incastrato tra la spalla e la guancia, la brioche fra le labbra e il sacchetto in bilico sul ginocchio mentre frugava goffamente con una mano in cerca dei tovaglioli di carta e reggeva a fatica il caffè con l’altra.
Il Druido rispose subito, quasi fosse in attesa della chiamata.
«Bonjour, renard».
Alexis s’immobilizzò in quella che poteva apparire una scomodissima posa yoga.
«Niente “petit” stamattina?» bofonchiò raddrizzandosi, rischiando far precipitare a terra la colazione.
«No, sei cresciuta. Ora sei una volpe adulta. Nel Restan è apparso il tuo talismano».
«La casa».
La sua stessa risposta la lasciò spiazzata giusto il tempo di permettere alla densa marmellata di ciliegie che riempiva la sfoglia di tracimarle un poco dalle labbra, precipitando dritta su una scarpa. Scoppiò a ridere. Non aveva guardato il tatuaggio quella mattina, eppure era sicura che all’interno vi fosse qualcosa di nuovo. Lo percepiva distintamente. Sì, ora sentiva davvero di essere a casa, di aver trovato il proprio posto, geograficamente e psicologicamente. E, forse, anche a livello affettivo come sperava Alis.
«Stai guarendo. Hai trovato la tua medicina» ma non le disse che la sera prima anche Robert aveva trovato nella casa il proprio talismano.
Era certo che l’amico avrebbe provveduto ad informarla di persona.
«Lo credo anch’io» ammise arrossendo. «Grazie, Corentin».
«Sono un Liaigh, era mio dovere aiutarti. Se avessi conosciuto qualcuno mesi fa, avresti cominciato a lamentarti che non eri sicura, che mi sbagliavo, che sentivi solo il vuoto, che avevi paura e l’avresti allontanato. Ora non solo sei disposta a lasciarlo entrare nella tua vita, ma ti senti pronta per affrontare tutto ciò che porterà, nel bene o nel male, perché ora ascolti la tua anima dire che è giusto».
«Hai assolutamente ragione» replicò sentendo le medagliette premere sullo stomaco.
La loro presenza aveva un che di rassicurante, piacevole. Meditò di non riconsegnarle al legittimo proprietario.
«Alexis?»
«Sì?»
«Stasera stai attenta al pesce. Bob si vanta di cucinarlo divinamente ma di solito quello che arriva nel piatto sono esperimenti di cucina piuttosto assurdi. E non sempre commestibili. E poi si lamentava del mio infuso di funghi, ma guarda un po’…»
Alexis staccò il cellulare dall’orecchio, fissando allibita la schermata. Corentin le aveva sempre detto di non essere in grado di leggere nel pensiero, quindi non si capacitava di quell’uscita.
«E tu come lo sai?» domandò perplessa, spostandosi dietro un cespuglio per spiare la strada e i palazzi attorno.
Si vedevano solo concittadini immersi nelle loro faccende e la cara Maggie Olson che la fissava incuriosita da dietro la vetrina dell’emporio, pensando forse di non essere in vista con il suo abito giallo evidenziatore. Le venne una gran voglia di sporgere un braccio coronato da un bel dito medio come faceva Timmi, ma la vicinanza ad “Antiqui Mundi” la fece desistere: l’aura signorile di Arshan e Kyle era un vigoroso deterrente.
L’altro sospirò nell’auricolare, soffocando una risata. Dietro si sentiva lo scrosciare di una cascata e qualcosa che ricordava lo sciacquio di una grossa pinna nell’acqua.
«Uno: Rob – come lo chiami tu – ha ritenuto opportuno mettermi al corrente della sua strategia per verificarne… come ha detto? Le potenzialità? No. Le possibilità di riuscita? Insomma, qualcosa del genere. Due: secondo te, dove ho mangiato nelle ultime settimane? Al “Le Dijonnaise”?»


1 Ur – Erica. L'Erica è il simbolo della congiunzione fra la terra fertile e lo spirito del mondo. In Scozia le ragazze nubili piantano un'Erica rossa nel loro giardino, perché si dice che faccia trovare un buon partito. In Irlanda si dice che chi vuole incontrare le fate deve sdraiarsi nell'Erica e loro appariranno, ma fate attenzione a non mangiare le bacche perché la tradizione vuole che si diventi subito un appartenente al Piccolo Popolo e non si potrà mai più tornare indietro. Questo Ogham vi può guidare nel trovare un contatto tra il mondo dello spirito e la guarigione finale.

Writer's Corner
E con questo è tutto. Lascio le prossime avventure di Alexis, Robert, Corentin e Ariel nelle capaci mani di Shade Owl, a cui appartiene come già detto la storia madre. Grazie a chi ha letto, recensito o solo dato un'occhiata.
Torno alle mie storie (o forse no? Chi può dirlo). Vi aspetto!
   
 
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