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Autore: emotjon    18/11/2014    9 recensioni
Heidi, 20 anni. Zayn, 22 anni.
Lei, cieca. Lui, grande osservatore.
Lei gli insegnerà ad ascoltare.
Lui le insegnerà a vedere.
E insieme impareranno ad amare.
Genere: Romantico, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti, Zayn Malik
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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29.




Nathan.

Fermo in coda, l’autostrada sembra un serpente del quale vedi solo la coda e non la testa. Sembra che essa non finisca mai, sembra che la coda di auto non abbia fine. Tu sei una delle tante macchine ferme, fissi il parabrezza e i fiocchi di neve che vi cadono sopra senza fare rumore, e non sai quando potrai muoverti, quando potrai andare avanti anche solo di qualche metro. Non sai quanto durerà né quando ripartirai.
E quel tempo è il tempo perfetto per pensare.
Non mi è mai piaciuto stare fermo ad aspettare. Ad aspettare cosa, poi? Aspettare di andare avanti, ma per andare dove? Chiudo un momento gli occhi, trovandomi di fronte gli occhi grigi della mia… migliore amica? Ariel è davvero solo quello? Stringo la presa sul volante, prima di sospirare sconfitto e accendermi una sigaretta, l’ennesima di quella mattina nevosa che sta finendo; sento il fumo grattare in gola mentre aspiro per fargli raggiungere velocemente i polmoni; sento la nicotina rilassarmi le cellule, uccidere i polmoni, farmi male come sempre ma mai abbastanza da far male davvero. Espiro lentamente, osservando il denso fumo grigio riempire l’abitacolo e posarsi ovunque, senza via d’uscita.
Ho passato tre settimane a vagare in questo modo, ad aspettare che qualcosa nella mia vita si muovesse senza che dovessi per forza fare qualcosa per farla muovere. Ho passato tre settimane ad aspettare un segno, guidando una città di seguito all’altra solo per respirare aria diversa, gente nuova; solo per allontanarmi dal passato, dal presente, dal futuro. Da Doniya, da Ariel, da me stesso.
Ho pensato tre settimane a ripensare al passato. A ripensare alla vecchia banda, allo spaccio, a Zayn. A Doniya, a quanto lei avesse sempre odiato tutta quella parte della mia vita. Alle notti da ubriaco e fatto e violento. Ai polsi lividi e alle labbra gonfie. Ho rivissuto il modo in cui mi abbracciava, il modo in cui mi faceva calmare quando mi incazzavo, il modo in cui le sue labbra si fondevano con le mie o il modo in cui amavo farci l’amore fino al mattino, fregandocene totalmente del resto.
Ho ripensato alle anfetamine che ci calavamo io e Ariel, alle birre che ci scolavamo e alle urla da ubriachi che liberavamo nell’aria fredda della notte mentre i treni ci passavano davanti sfiorandoci appena. Io ed Ariel abbiamo sempre aspettato tutto insieme; aspettavamo Doniya, ci aspettavamo l’un l’altra, aspettavamo che le pasticche facessero effetto, attendevamo che il treno fischiasse e che il vento ci arrivasse addosso facendoci quasi cadere a terra.
Ho ripensato all’incidente. Al funerale. Al processo. Alla prigione.
Ho ripensato a come Perrie mi si sia buttata tra le braccia una volta fuori. A come volesse starmi vicina perché voleva aiutarmi a fare non so cosa per vendicarmi di Zayn. Che poi, che colpe aveva lui? Ho ripensato alla sua voce mentre mi diceva che lei era l’unica che non ce l’aveva davvero con me, l’unica che capiva come mi sentissi per via di Zayn quando in realtà non era vero. Nessuno capiva. Nessuno aveva mai capito.
Nessuno tranne Ariel.
Solo Ariel capiva come avessi sofferto giorno per giorno a fare del male a Doniya; solo lei capiva cosa avessi sentito quando lei era morta; solo lei capiva come si stesse ad essere totalmente ubriachi e fatti. Lei capiva, perché passava le stesse cose, o forse anche peggio. Lei doveva sorbirsi Doniya che mi abbracciava e mi baciava quando sarebbe voluta essere lei, morsi che facevano sanguinare le labbra e spinte troppo forti e polsi lividi compresi. Lei aveva sempre accettato quella parte di me, anche il dolore, anche il buio.
Era cieca, nei miei confronti. Lei era la luce, ma si faceva assorbire completamente dal buio, da me. Solo, non ne avevo mai capito il motivo. Non l’avevo mai nemmeno provato ad indovinare finché non me lo aveva detto lei raccontando tutto alla sorella. Era cieca, se riusciva ad amarmi in quel modo. È cieca, se riesce a passare sopra alla droga, all’alcool, alla galera e alla violenza.
Cieca, eppure mi vede. Mi guarda.
E non c’è nessun altro che vorrei mi guardasse in quel modo.
Faccio tutto talmente in automatico che non mi accorgo dello scorrere della coda, né di premere sull’acceleratore per ripartire. A malapena mi rendo conto di essere quasi arrivato e di accendere l’ultima sigaretta del pacchetto; accesa a stento, con l’ultimo respiro di fuoco dell’accendino che ho rubato a non ricordo chi, non ricordo quando.
E sono tanto distratto da prendere l’uscita sbagliata, da non aspettare il resto al casello autostradale e da sbagliare strada due volte prima di arrivare a casa dell’unica ragazza alla quale potrei mai chiedere scusa pensandolo davvero e guardandola negli occhi. Ci sarebbe Doniya, ma i suoi occhi non li vedo da troppo e non li vedrò mai più. C’è Ariel, solo lei. Ma a casa non c’è nessuno, solo la sua vecchia vicina di casa che mi dice con una smorfia disgustata che se sto cercando lei la troverò in ospedale.
Ma no, non sono il tipo di persona da andare in paranoia per una notizia del genere, così le do le spalle senza nemmeno ringraziarla e riscendo le scale. Risalgo in macchina con un sospiro, rimetto in moto passandomi una mano tra i capelli e mi maledico per aver finito le sigarette durante il viaggio. Faccio inversione verso il centro senza pensare minimamente al perché Ariel potrebbe essere in ospedale.
In fondo, lo so già.
Le mando un messaggio camminando sotto la neve leggera dal parcheggio all’ingresso dell’ospedale. Non ho intenzione di entrare, subire occhiatacce su occhiatacce e dover chiedere di una ragazza che in fondo nemmeno conosco. Ho visto Heidi tre volte sì e no, quando Perrie mi ha proposto di seguire lei e Zayn per capire se potevamo usarla in qualche modo. Avrei dovuto farmi gli affari miei e vivere il mio schifo di vita senza Doniya. Peccato che io lo capisca solo ora, con la schiena posata contro una colonna e le porte automatiche dell’ospedale che si aprono alla comparsa di Ariel.
Trattengo un sorriso, al vederla. Al vedere la sua espressione stupita. Le labbra struccate leggermente schiuse, gli occhi grigi contornati dalle lunghissime ciglia chiare un poco sgranati e un leggero brivido che la scuote, forse colpa del cambio di temperatura, forse colpa mia. «Ciao…». Riesco a malapena a sussurrare un saluto, e nemmeno guardandola negli occhi. Non ci riesco, è come se in sua presenza tutte le cicatrici che ormai dovrebbero essersi rimarginate si riaprissero, riprendessero a sanguinare. Sanguino, davanti a lei, più umano che mai.
«Pensavo non tornassi…».
E sollevo lo sguardo, trovandola più vicina di un paio di passi, con gli occhi quasi argentati che cercano i miei. Ma lo sguardo è un po’ perso, come si stesse trattenendo dal piangere, dall’urlarmi contro o – nella migliore delle ipotesi – dall’avvicinarsi ancora e abbracciarmi. Mi scappa un sospiro, mentre abbasso le palpebre qualche istante e quando le risollevo la trovo ad un metro scarso da me.
«Pensavo di non tornare, infatti», ammetto trattenendomi dallo scostarle una ciocca di capelli scuri dal viso. E ho pensato davvero di non tornare. L’ho pensato anche quella mattina fermo in coda in autostrada ad aspettare un segno che non è arrivato o ad aspettare semplicemente che la neve smettesse di cadere.
«Perché sei qui allora?». E al diavolo tutto, non riesco a trattenermi dal prenderle una mano che le trema da morire e intrecciarne le dita con le mie. Tremo anche io, e lei mi guarda confusa, non aspettandosi un gesto del genere. Sono pulito da una settimana, questo sono io. Senza i fumi dell’alcool, senza gli effetti della coca. «Stai tremando, Nate…». Annuisco appena, prendendo un respiro profondo; è l’astinenza, non posso farci niente. E lei solo guardandomi sembra capirlo, tanto che accenna un mezzo sorriso, che anche se solo per un momento fa smettere di sanguinare quel che mi rimane del cuore.
La guardo, e capisco di aver sbagliato tutto. La guardo, e capisco di aver avuto paura. Una paura folle, folle tanto da non riuscire a respirare. Capisco di aver mascherato la paura con la violenza, con l’alcool, con la droga, con lo spaccio. La guardo, e capisco di aver paura anche ora, guardandola e riuscendo a malapena a respirare decentemente. Ho paura di me stesso, del mio carattere che non ha mai portato a niente di buono; ho paura del suo amore incondizionato per me, per i miei demoni, per tutto quello che sono e che lei conosce alla perfezione ma ama lo stesso, senza paura, senza ripensamenti; ho paura di quell’amore di fronte al quale non ho idea di come comportarmi, semplicemente perché io non so più amare, non ne sono più in grado.
La guardo, e poco alla volta le paure svaniscono, annegate nei suoi limpidi occhi grigi. La guardo, e vorrei non aver sbagliato, vorrei non aver avuto paura. Vorrei aver fermato Doniya prima che salisse in auto e mettesse in moto. Vorrei essermi accorto dei suoi sentimenti prima, avrei voluto ascoltarla quando diceva di voler sparire, magari aiutarla a farlo, sparire con lei e aspettare insieme che il dolore passasse, come avevamo sempre fatto.
«Perché senza di te mi manca un pezzo…», mormoro piano sfiorandole una guancia con un sospiro. Vedo i suoi occhi diventare lucidi. Il mio mare in tempesta, i suoi occhi. La mia ancora in mezzo all’oceano, le sue iridi. Una lacrima le sfugge con un mezzo singhiozzo, prima che possa colmare la distanza e abbracciarmi lasciandosi abbracciare di rimando. «Solo che non so come riattaccarlo, quel pezzo», sussurro ancora, tenendola stretta come avessi paura che possa scappare.
«Fidati, un modo lo troviamo…».
Ha la voce rotta dalle lacrime che premono per uscire, gli occhi fermi nei miei e il labbro inferiore che le trema appena, eppure penso di non aver mai visto niente di più bello. In qualche modo riesco a sussurrarle che le voglio bene, e sento il suo sussurro in risposta, a dirmi che – per il momento – va bene così.
E continuo a stringerla, continuo a godermi il leggero suono dei suoi respiri nelle orecchie, continuo a tenere gli occhi chiusi e una mano sulla sua schiena per non farla allontanare quanto serve per non riuscire più a riprenderla. Continuo a stringerla fino a che non sentiamo le porte a vetri aprirsi, allora apro gli occhi, mentre Ariel dal canto proprio si irrigidisce appena, al sentire la voce di Zayn.
Non riesco a lasciarla andare. Non ci riesco, e non voglio.
«Torni dentro?», le chiedo con un mezzo sorriso giocherellando con una ciocca dei suoi capelli. Quel gesto le fa inarcare un sopracciglio e ridacchiare tra sé, prima che annuisca, ma senza staccarsi da me nemmeno di un millimetro. Continua a tenere le braccia intorno al mio torace e gli occhi nei miei, le labbra stirate nell’ombra di un sorriso furbo e uno strano brillio negli occhi che mi fa sentire integro, ancora, anche se solo per il momento di un respiro non troppo profondo.
«Ci vediamo al bar più tardi..?».
«Devo ancora capire come tu faccia ad amarmi…».
«Devo ancora capire come tu faccia a non capirlo», ribatte lei con un sorriso divertito, lasciandomi andare. La osservo fare qualche passo – che mi da il tempo di riappoggiarmi con la schiena ala colonna – prima di vederla tornare indietro e stamparmi un bacio veloce sulle labbra, che mi fa scoppiare a ridere. «Questa… – mormora  alludendo alla mia risata, che forse stona un po’ con il candore della neve ma non le interessa – è una delle ragioni». Finisce la frase con un altro bacio prima di allontanarsi salutando Zayn con un mezzo sorriso che lui ricambia scuotendo la testa.
Non so se sia divertito da lei o disgustato da me. E nemmeno mi interessa.
Osservo qualche secondo il suo viso mentre si accende una sigaretta e la porta nervosamente alle labbra, senza però riuscire a dire una parola né riuscire a guardarmi. Osservo i lineamenti marcati del suo volto, cambiati col passare degli anni ma sempre riconoscibili alla perfezione, sempre fin troppo simili a quelli di sua sorella. Osservo la carnagione ambrata, arrossata sulle guance – ricoperte del centimetro abbondante di barba che so che non ha mai voglia di rasare – per il freddo invernale. Osservo le sopracciglia aggrottate mentre aspira il fumo dalla sigaretta e la fronte che gli si rilassa quando butta fuori il fumo in un unico respiro, calmato da quel minimo afflusso di nicotina nei polmoni. Osservo una mano passare pigra sulla testa rasata di fresco e le palpebre sfarfallargli qualche istante, prima che col tiro successivo della sigaretta si decida a guardarmi.
«Mi ha detto Ariel che siete tutti qui per la tua ragazza…», riesco a dire, con un tono di voce abbastanza alto e fermo da attirare la sua attenzione e far scivolare le sue iridi nelle mie. Me ne pento immediatamente; non avrei attirato la sua attenzione se avessi considerato l’effetto delle sue iridi su di me. Occhi castani come Doniya, profondi come i suoi, pieni di un sentimento che forse non ho mai capito appieno. Prendo fiato, distogliendo lo sguardo per un momento, ripensando alla sua ragazza, a quel poco che so di lei e alla sua condizione… è solo colpa mia se Doniya è morta, come è colpa mia se la ragazza di Zayn – di cui non ricordo il nome, ma poco importa – non ci vede e forse non ci vedrà mai. «Mi dispiace…».
Vedo Zayn annuire poco convinto, con la presa sulla sigaretta che si fa più salda e la mano libera che si chiude istintivamente a pugno. Noto le unghie conficcarglisi nella pelle, e i denti digrignati, con la mascella contratta tanto che arrivo a pensare che voglia prendermi a pugni.
Non lo biasimo, comunque. Non l’ho mai fatto.
Non dice niente, però. Gli bastano un paio di respiri più profondi e l’aria fredda e intorpidirgli i polmoni, perché le mani strette a pungo e la mascella gli si rilassino nel modo più naturale che c’è. E lo invidio, perché io non sono capace di trattenere la rabbia in quel modo, non sono mai stato in grado. Lo invidio, da morire.
«La amavo davvero, tua sorella, Zayn».
«Avresti dovuto fermarla, se la amavi davvero».
La rabbia nella sua voce roca è quasi totalmente mascherata, nascosta a chiunque non sappia dove cercare, a chiunque non lo conosca tanto bene da sapere della sua esistenza. La rabbia c’è, e per quanto lui possa provare a nasconderla io la scoverò sempre; semplicemente, gli ho insegnato io ad essere così, ad arrabbiarsi, a farsi vedere cattivo. Il dolore è nascosto al meglio, ma riesco comunque a vederlo nei suoi occhi castani tanto simili a quelli della sorella da costringermi a deglutire nervosamente.
Prendo un respiro profondo, con le palpebre abbassate e le mani che continuano a tremarmi un po’ per via dell’astinenza. Prendo fiato, rilasciando poi le parole che forse avrei dovuto dirgli anni prima, al funerale dell’unica persona che ci abbia sempre uniti e separati allo stesso tempo.
«Credi che non ci abbia provato? Credi che mi sarei preso la colpa di tutto se non l’avessi amata? Credi davvero che potessi usarla e basta? Ho amato solo lei nel mio schifo di vita, e lo sai… solo lei… mentre tutti andavano avanti, io sognavo il suono della sua voce, la sua risata, i suoi occhi mezzi vuoti e il calore della sua pelle…».
Faccio una pausa, notando i suoi pugni rilassarsi completamente e una delle sue mani passare sulla testa e grattarsi il collo per qualche secondo, prima di prendere fiato e guardarmi da dietro un velo di dolore. Sembra quasi che non sappia cosa dire, che io l’abbia spiazzato. Ma è tutta la verità: sua sorella è l’unica persona che io abbia mai potuto amare, solo lei.
«Non mi dispiace averti rotto il naso, al funerale», lo sento dire in un soffio, ma con l’ombra di un sorriso a distorcergli le labbra. Sorride come lei, non posso fare a meno di notarlo. E annuisce pianissimo, Zayn; un po’ come se non ne fosse convinto fino in fondo, un po’ come le mie parole l’avessero toccato, come se ci credesse davvero. E, beh, era ora che la risolvessimo, in fondo.
Scoppio a ridere, lasciando andare la testa contro la colonna di metallo e passandomi poi una mano ancora leggermente tremante tra i capelli scuri e troppo lunghi. Per un attimo mi chiedo se mi taglierei i capelli a zero per qualcuno… e la risposta è sì. Per Doniya l’avrei fatto. Per Ariel lo farei. Tiro le punte con un briciolo di nervosismo, tornando a guardare Zayn non appena la mano mi finisce automaticamente in tasca, ancora tremante, ma stretta sul tessuto abbastanza da non sentirla.
Lascio che la mia risata risuoni tra i fiocchi di neve, fin troppo bianca per sembrare vera e fin troppo fitta per non esserlo. Lascio che quel suono si perda  nel giro di pochi secondi, libero di volare dove vuole, libero di raggiungere colei che lo faceva scaturire anche quando non c’era nulla per cui dover sorridere. Lascio che i polmoni si svuotino di quella risata e si riempiano di aria gelata, gelata quasi quanto la mia anima.
«Vorrei essere morto io nell’incidente», ammetto, nelle migliori scuse che io possa concepire. Perché non mi sono mai scusato, non ne sono mai stato capace. Ho fatto tutto il necessario per dovermi scusare ma mai abbastanza per scusarmi davvero. Guardo Zayn negli occhi un po’ sgranati dalla sorpresa, un po’ lucidi, prima che lui possa scuotere la testa e accennare un altro sorriso. Non so come, ma la mia mente ringrazia chiunque ci sia lassù per avermi aiutato a risolverla.
Devi ringraziare Ariel, e lo sai.
Sento distintamente la voce della mia coscienza – quel poco che ne rimane – e vedo le stesse parole formarsi negli occhi limpidi e profondi di quello che una volta era il mio migliore amico. Annuisco tra me, un po’ per rispondere alla voce nella mia mente e un po’ per rispondere a lui ma senza dover necessariamente parlare.
«Sai Nate? Io e te non siamo poi tanto diversi… tendiamo a scappare quando si mette male, poi ci rendiamo conto di avere accanto la persona senza la quale andremmo a fondo senza possibilità di ritorno… proteggiamo chi amiamo, facciamo le peggio pazzie, ma alla fine ne vale la pena, credimi».
Tendiamo a scappare quando si mette male. Non potrebbe avere più ragione, e lo sa perfettamente, dal modo in cui mi guarda, aspettando che io reagisca alle sue parole. Non so come reagire, però, perché è come se mi avesse letto dentro, come se per lui fossi un fottuto libro, aperto su una pagina a caso, che guarda caso è proprio la pagina che gli serviva. Ci rendiamo conto di avere accanto la persona senza la quale andremmo a fondo senza possibilità di ritorno. Ha ragione di nuovo, io sono tornato per Ariel. Senza di lei sarei già andato a fondo da un pezzo… solo, non me ne sono mai reso conto fino a che non ho rischiato di perderla. Prendo un respiro profondo, chiudendo gli occhi per qualche istante, nelle orecchie solo il rumore delle macchine sulla strada e della neve che continua a cadere. Proteggiamo chi amiamo, facciamo le peggio pazzie. Vero, e ancora vero. Io sono il genere di persona che ama fino a farsi male, e Zayn è evidentemente come me. Siamo più simili di quanto non avessi mai pensato, e le sue parole ne sono la prova lampante.
«Ne vale la pena?».
«Se ti ama nonostante tutto, ne vale la pena».
Mi rivolge un ultimo mezzo sorriso, prima di voltarsi senza aggiungere altro e tornare nell’ospedale con la testa bassa, a guardarsi la punta delle scarpe. Io, al contrario, non posso entrare lì dentro. Devo fare una cosa più importante, devo chiedere scusa alla persona più importante dell’equazione, a quella persona che se lo merita perché sopportare me di certo non è una passeggiata.
Guido verso il cimitero lentamente.
Con la neve che mi ostacola il cammino e continua a cadere in fiocchi piccoli, dritta per la sua strada, ignorando tutto e tutti. La neve mi somiglia. Somiglia a tutti noi figli del caos. Somiglia a chi non sa cosa fare della propria vita, a chi combina un guaio dopo l’altro, a chi non sa chiedere scusa, a chi crede di non poter amare.
Cammino nella neve senza sentire il freddo bagnarmi la giacca o penetrarmi le ossa. Cammino nella neve fino a bagnarmi totalmente i capelli, fino a sentire alcune gocce gelide scendermi sulla nuca e sparire nella giacca, sotto al maglione di lana che dovrei buttare solo per via del buco che ha sotto l’ascella, ma che non riesco a gettare perché inevitabilmente mi ricorda lei.
«Ciao, amore…», riesco appena a mormorare, con le dita ficcate nelle tasche per evitare che si ghiaccino.
Rivolto a quella lapide bianca e ricoperta di neve, con la sua foto incorniciata sopra, mi sfugge una lacrima. Tiro fuori una rosa da dentro il cappotto. L’ho presa dal fioraio all’ingresso; forse gli ho fatto persino pena, da solo a camminare nella neve, con una rosa bianca come lei tenuta al sicuro dal freddo, dalla morte. Metto quel bellissimo fiore in equilibrio sulla lapide, sulla coltre di neve fresca che la ricopre. E sussurro, sussurro le uniche parole che non sono mai riuscito a dirle.
«Scusa, piccola mia».
Scusa se ti ho fatto male. Scusa se non ti ho amato abbastanza. Scusa se mi facevo, se bevevo, se fumavo come una ciminiera. Scusa se ti stringevo i polsi e ti sbattevo contro il muro. Scusa se ti mordevo le labbra fino a farle sanguinare. Scusa se sembrava che non ti amassi. Scusa per Ariel. Scusa per l’incidente. Scusa, perché non meritavi uno come me. Meritavi di essere accarezzata giorno e notte, e meritavi il bacio del buongiorno, e meritavi di essere portata a cena fuori per il tuo compleanno, e meritavi che facessi con te le pazzie che facevo con Ariel. Scusa, per tutto.
E non appena penso di amarla, una folata di vento gelido mi arriva addosso, ghiacciandomi le ossa e facendomi rabbrividire, mentre mi sento decisamente più leggero. Leggero come la neve. Meno freddo. E col sangue che pompa veloce al cuore, come a ricordarmi che un cuore ce l’ho ancora, che posso ancora amare.

 
***


Heidi.

Muovo piano le dita sul lenzuolo che sembra fatto più di carta che di cotone, respirando a fatica. Respirare mi fa male alla gola, completamente secca. Vorrei tossire, ma credo che non servirebbe a nulla. Magari chiedere dell’acqua, ma ho il sospetto che anche parlare mi possa fare male. Provo a schiarire la gola, pianissimo e ancora con le palpebre abbassate. Non ho il coraggio di aprire gli occhi, e anche se li aprissi il buio perenne mi farebbe venire più mal di testa di quello che sto già soffrendo.
Col passare dei secondi sento diversi suoni arrivarmi alle orecchie, diversi odori – anche se tutti coperti dalla solita patina di disinfettante che caratterizza gli ospedali. Il leggero bip dei macchinari ai quali sono attaccata mi martella nelle orecchie come se mi trovassi in un campanile, con le campane intente a suonare il mezzogiorno. I passi delle infermiere intorno al letto sono quasi ritmici, come si trattasse di un bip differente, più umano ma comunque senza sentimento alcuno a sporcarlo. Le parole soffuse dei medici mi sfiorano appena, come non parlassero di me, come se potessero scivolarmi addosso senza fare altri feriti, altre vittime.
Muovo ancora le dita e aggrotto la fronte, sperando che tutti i suoni spariscano e quell’odore venga sostituito da qualsiasi altra cosa. Se dovessi scegliere, chiederei di poter sentire il forte odore di tabacco e liquirizia che caratterizza Zayn. Andrebbero bene anche dei semplici fiori, una stecca di vaniglia, della cioccolata calda. Qualsiasi cosa, pur di non sentire più quell’odore un po’ acido che quasi mi corrode le narici, la trachea, i polmoni.
E, come se avessero intuito i miei pensieri, i passi si fermano e le parole calano ancor più di volume, fino a diventare un brusio quasi inudibile. Inudibile da chiunque non abbia un udito più sviluppato degli altri, tipo i ciechi, tipo me. Mi scappa un sospiro stanco, e una fitta alla testa mi fa gemere appena, prima che io provi a portare una mano alla testa, fermata prontamente dalla presa tiepida e familiare del dottor Harrison.
«Piano, tigre», mi sento ammonire in tono piuttosto allegro. Un’allegria che ora come ora non riesco a comprendere. Ho mal di testa, mi sento debole come non mai, non ho il coraggio di aprire gli occhi e ho probabilmente una decina di tubicini e aghi attaccati alle braccia. Vorrei solo dormire per il resto della vita, e lui è tanto allegro da trattenere una risata. «E’ probabile che ti senta la testa pesante…».
«Può farle smettere?», riesco a mormorare con voce roca, riposando la mano sul letto, sentendo almeno un paio di tubi tirare leggermente la pelle mentre mi muovo. Trattengo una smorfia, col bip delle macchine che mi rimbomba nelle orecchie e le infermiere che borbottano qualcosa, forse non consapevoli del fatto che io mi stia rivolgendo proprio a loro. Voglio che la smettano, non riesco a pensare. «Può rimanere solo lei, dottore?». Ci riprovo, a voce appena più alta ma pur sempre roca, coi polmoni che raschiano quando respiro e la ferita alla testa che mi pulsa da morire.
Non sento la sua risposta. Non me ne curo.
Sento solo qualcuno aprire la porta e uscire senza bisogno di dire altro, lasciandomi col suono delle macchine e il respiro leggero del medico, che dopo una manciata di secondi di silenzio sento sedersi sul letto, accanto alle mie gambe. Mormoro un grazie che non sono sicura lui possa aver sentito finché non mi stringe appena il ginocchio, protettivo e preoccupato come solo un padre dovrebbe essere.
«Dicevo, ti potrebbe far male la testa…». Annuisco appena, ancora con le palpebre abbassate, indecisa se aprire gli occhi o meno. Perché ho paura, troppa. «L’intervento però è andato bene, la dottoressa che ti ha operata ha rimosso la massa che premeva sul chiasma ottico». Non posso far altro se non annuire ancora, con le dita strette appena sul lenzuolo e un respiro che mi muore lentamente in gola, oppresso dalla mia paura. «E il senso di stanchezza è dato dai postumi dell’anestesia… se vuoi provare ad aprire gli occhi…».
«Posso provare quando lei sarà uscito?».
Un’altra stretta al ginocchio, come se stesse annuendo. «Dobbiamo tenerti in osservazione qualche giorno, come ti ho spiegato prima, e farti fare qualche seduta di chemio per eliminare le possibilità che il tumore si ripresenti». Stringo le mani fino e conficcare le unghie nei palmi, ma evidentemente non troppo da farmi male, non davanti a lui. Annuisco ancora, trattenendo a stento la voglia di scoppiare a piangere; sono stufa di tutto questo, non ce la faccio più.
«E se non dovessi vedere..?».
«Sarebbe strano se vedessi, subito dopo l’intervento», tenta di rassicurarmi, mentre sento il suo peso abbandonare il mio fianco e la sua mano scostarsi piano dal mio ginocchio, dopo un’ultima stretta. Prende un respiro come se volesse dire altro, ma poi se ne sta in silenzio, prima che io lo senta muovere qualche passo sul linoleum, arrivare alla porta e chiudersela alle spalle.
Lascio andare la testa sui cuscini con un sospiro, ripensando qualche istante alle sue parole. Sarebbe strano se vedessi subito. Dobbiamo tenerti in osservazione. Qualche giorno. Qualche seduta di chemio. La voglia di sprofondare nel materasso troppo freddo aumenta di parola in parola, insieme con la voglia di dormire e risvegliarmi con la vista, senza fatica, senza altri esami, senza vivere le solite angosce per qualche giorno.
Ma forse chiedo troppo, decisamente.
E nemmeno posso pretendere una macchina del tempo per tornare indietro e impedire ad Alex di guidare, ad Ariel di farsi fino a non esserci più davvero e a Doniya di ingelosirsi di lei senza alcun motivo valido. Non posso tornare a tre anni fa, alla camicetta rossa e al cielo blu e agli occhi verdi del mio migliore amico. Non posso, e se potessi probabilmente non lo farei. Per me, per Zayn, per Victoria, per il dolore che fortifica e per i suoni di un mondo che ho scoperto solo dopo l’incidente.
Dopo la perdita di colore, c’è stata la sinfonia del mondo.
Con la sinfonia, c’è stato Zayn.
E non posso tornare indietro, come nemmeno voglio farlo. Ma non posso evitare di far scorrere qualche lacrima, quando finalmente trovo il coraggio di sollevare le palpebre e non vedo nulla che non sia la solita oscurità che pervade il mio solito mondo, col solito dolore che mi stringe lo stomaco e mi fa scoppiare in singhiozzi senza che quasi me ne accorga.
Ma, sarebbe strano se vedessi subito.
Quindi mi addormento cercando di non pensarci, perché l’unica luce che mi serve davvero è in corridoio e gli unici colori che voglio davvero solo quelli che immagino quando ci faccio l’amore. Mi addormento immaginando le sue dita che spazzano via le lacrime, perché in fondo la speranza è l’ultima a morire.


 



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