Mi mossi
in maniera febbrile, preparando tutta la messinscena con precisione maniacale,
com’era mio solito. Non avrei rinunciato, proprio facendo
quell’atto estremo da cui sapevo non c’era più ritorno, alla
vista della mia umiliazione finale. A distanza di tempo, quando ormai sono
cambiate molte cose, pur restando le stesse, mi chiedo davvero cosa avessi
nella testa, in quel momento. Trucioli, forse, o foglie secche. Le vere
motivazioni di quel gesto, che fu una delle cause di una rovina futura, mi sono
ancora oscure. Fu il dolore? L’incoscienza? L’egoismo? O forse una
delle mie solite esagerazioni, dovute a manie di protagonismo non proprio
nascoste? Io, ovviamente, non avevo avuto la seppur minima intenzione di
partire, di dedicarmi ad una vita
solitaria e peregrina, vagando di terra in terra in cerca di una pace effimera,
già dall’inizio. Semplicemente, ero troppo debole, troppo ferita
per rialzare il capo, per rialzarsi e continuare a combattere. Ero stata
schiantata, schiantata dalla mia stessa, tremenda, ingenuità, un
topolino al servizio di un nido di vipere. Avevo tentennato quel girono, nel
fuoco, ma non avrei ceduto ora, proprio in quel momento. mi sentivo matura per
andarmene una volta e per sempre. Avevo anche vissuto ben tre vite umane,
no? Gli uomini avrebbero pagato per
vivere anche solo metà della mia esistenza. Non potevo lamentarmi, e
potevo decidere con tranquillità di morire, vero? Ero ancora giovane tra
gli elfi, ma con questo? Ne ero pienamente conscia, anche in quel momento
critico. Ero adulta, si, ma nemmeno a metà del percorso che ad un elfo
è riservato. Dubitai, però, che un qualsiasi mio simile avesse
subito l’ingiustizia ella vita come avevo fatto io. No: io non intendevo
vivere ancora, umiliarmi di fronte alla vita, soffrire ancora, e far soffrire.
Rimanere ancora viva era un’utopia, un dolce sogno. Non potevo più
toccare uno solo dei miei affetti, perché ero sporca, impura, omicida.
Potevo ancora sentirmi zuppa del sangue del mio amato. Non potevo vivere con
gli altri, con i miei affetti, perché io non meritavo loro,
semplicemente. Ero troppo meschina per i grandi cuori che avevano accompagnato
la mia infanzia e giovinezza. Ogni cosa che avrei fatto, ogni secondo della mia
esistenza, sarebbe stato scandito dalla solitudine estrema che io stessa avevo
cercato. Non avrei potuto più vivere con Tijorn, che ormai aveva davvero
trovato la sua ragione di esistere, e che certamente non avrebbe sopportato una
zavorra com’ero io, o con Junielle, che sicuramente ancora ricordava con
amarezza l’epiteto che le avevo affibbiato durante la mia ultima visita,
solo perché ero una sciocca bestia, che non voleva farsi toccare. I
piccoli non meritavano di passare l’infanzia, o quello che ne rimaneva,
con me, non potevo allevare, egoisticamente, i figli di coloro che avevo
ucciso. Non era mio diritto. Amarto era solo un vecchio elfo malato, e non
sarei riuscita a fargli compagnia come meritava. Non ero più una Spia. I
miei antichi compagni mi avrebbero rigettata ed ostacolata in ogni modo a loro
possibile. Ero stata tradita dalla mia Regina, trattata come la più vile
delle servette, umiliata come una schiava. I ribelli mi volevano morta, e mi
avrebbero, probabilmente, anche torturata se fossi finita nelle loro mani.
Tutte le altre persone che avrebbero potuto capirmi, capire il mio gesto,
rimproverarmi, per poi accettarmi, senza orrore alcuno, erano certamente morte,
o lontane. Era un senso di vuota desolazione, quello che provavo, come se fossi
in mezzo ad un deserto, sola, un deserto che io stessa mi ero creata. E quello
spiazzo bruciato, incenerito, ormai da tanto sterile, era la mia anima. Ero
stata annientata, annichilita. Capii in un lampo ciò che mi aveva sempre
voluto dire Eiron, il suo desiderio di essere ricordato in modo degno, di
smettere di essere umiliato. Come lui non voleva vivere senz’ali,
straniero tra la sua gente, io non volevo vivere con quel fardello che era la
mia memoria, il fardello di quella che era stata un’ossessione, e mi
aveva allontanata dagli affetti più cari. Avevo si, bruciato ogni
traccia del mio terribile operato, ma nella mia memoria era tutto fin troppo
nitido. Ero stata ridotta ad un niente, un guscio senza possibilità di
salvezza. Ed io volevo precipitare, non volevo far altro che precipitare in un
riposante oblio, non pensare più, essere fuori dalla portata di tutto e
tutti, senza sensazioni, senza dolore, senza coscienza. Riposarsi, dormire, per
sempre, e nulla più. Cercavo solo quello, ero in cerca solo della pace,
che in ogni modo mi era stata negata in vita, nella mia esistenza per un vano,
vuoto ideale. Avevo perso tutto, tranne la vita. Ed, in quel momento, ero io a
volermene disfare.
Avendo
già tutto progettato, agii in fretta, senza inutili pensieri, o
preamboli, già gustando il nulla in cui sarei discesa. Libera,
finalmente, da tutta la disperazione, tutto lo smarrimento e la sofferenza che
avevo causato a me ed agli altri. Non ne vedevo l’ora. Accesi tutte le
candele, una a una, posizionandole sul loro supporto, fino a quando
l’intera, piccola camera, non fu illuminata a giorno. Dovevo vedere bene
tutto quello che sarebbe accaduto. Dopo che l’ultimo stoppino
cominciò ad ardere, afferrai i supporti e li posizionai in modo da
formare un cerchio perfetto, di cui io sarei stata il centro. Suicidio si, ma
con un minimo di eleganza. Il cerchio: da un cerchio era iniziato tutto, da un
cerchio doveva finire. Non ero esente da uno sprazzo di pura pazzia. Suicidarsi
è un atto che richiede fegato, molto fegato, ed un’incoscienza
pura, incoscienza del valore della redenzione, della punizione, del pentimento.
Strano scriverlo, io che l’ho cercato l’ho desiderato, l’ho
invocato, io che ne ho gioito, io, che tante volte ci sono arrivata molto
vicina. Tali sono i piani di una mente irrimediabilmente distorta. Solo ora
capisco, dopo aver visto infinito orrore. Solo ora, dopo essermi torturata in
una delle maniere più atroci che conoscessi, dopo aver sofferto
infinitamente. Che ragionevolezza potevo provare, allora, com’ero
ridotta, fermamente convinta di essere sola? Il mio unico pensiero, in quella
camera illuminata, era quello di farla finita, subito, nel modo più
doloroso che conoscessi. Perché, si, io dovevo soffrire, e molto, per
quello che avevo fatto. Mi ero macchiata le mani di crimini terribili, e non
potevo mettervi riparo. Ero, o sarei stata, perduta. Ed allora, solo per il
puro desiderio di farlo, dovevo pagare tutto il male fatto. Basta, solo quello.
Una volta messo lo specchio al centro, vicino al punto dove avevo deciso avrei
passato gli ultimi istanti di consapevolezza, passai a questioni più
terrene. Sapevo che Greg, il mattino dopo, avrebbe trovato uno scempio, e che,
forse, la sua reputazione ne sarebbe stata rovinata. Non fa bene alla storia
della locanda una suicida, soprattutto quando avrebbe lasciato un disastro
dietro di sé, come prevedevo stesse per succedere. Dalla mia borsa, che
avevo posato sul letto, estrassi tutti i pochi spiccioli che avevo, e li
sparpagliai sulle lenzuola candide, mettendo anche il piccolo pugnale, che non
mi sarebbe servito, e altri gingilli di qualche valore. Dovevo pagare il grande
favore che mi stava facendo il grasso oste, no? Ed io gli ero grata, molto
grata. Dopo aver sbrigato quell’ultimo affare, cominciai la sceneggiata
vera e propria. Con calma esemplare, senza cambiare minimamente espressione, mi
slacciai il lungo mantello nero che portavo, così vecchio e rattoppato
un mio fedele compagno, e lasciai che scivolasse, con un debole fruscio, a
terra. Non dovevo essere intralciata in nessun modo. Rimasi, così, solo
con i miei abiti neri e comodi, lisi ed un po’ scoloriti. La seconda cosa
che feci, fu quella di togliermi il cinturone a cui avevo assicurato la spada,
lasciando che cadesse sul mantello. Qualcosa di esso, tuttavia, ancora mi
serviva. Dal bellissimo fodero grigio satinato, estrassi la bellissima spada
ricurva di Eiron, dall’elsa filigranata d’argento, e da quella lama
larga, ma così leggera, con impresso su quel motto, che tanto mi era
alieno. Ero stata sempre fedele a cosa? Avevo servito il sangue, la morte, fino
all’ultimo respiro. Ma quella non era fedeltà: di niente si
trattava, se non morboso attaccamento, e quasi di necessità. Una
necessità che mi avrebbe portata alla tomba, ben presto. Fissai la
spada, scintillante alla fievole luce rossastra delle candele. Era superba,
sembrava quasi guardarmi, fredda ed altera. Sembrava quasi rilucere di sangue
fantasma, il sangue di tutte le vittime innocenti, che era stata costretta ad
assaggiare. Era un’arma maledetta: con questa avevo dato il colpo di
grazia ad Eiron, ucciso Chekaril, ucciso Aevo, minacciato. Mai una cosa buona
era scaturita dall’uso di quella spada, mai ero riuscita a tenere fede
alla preghiera che Kyrre mi aveva fatto. Ma ben presto, con il mio stesso
sangue, ogni peccato sarebbe stato lavato da quella magnifica lama, ogni errore
ripagato con la mia sofferenza. E quell’arma, come sempre succedeva, non
sarebbe stata tolta dal mio cadavere, e avrebbe finito di seminare miseria nel
mondo. avrebbe riposato con me. Forse quello mi rendeva felice. Con la mano
sana, strinsi il pomo lavorato
dell’ara, e sospirai. Stavo per fare il gesto che, se fossi vissuta
ancora, mi avrebbe cambiato la vita. Perché io non volevo più
vedermi con la maschera, quell’oggetto infernale, la causa di ogni mio
male. Volevo essere com’ero, un mostro, sfregiata, orrenda. Ma me stessa.
Avevo trovato, per quel gesto, un pizzico della dignità che per
cinquant’anni non avevo avuto. Ero riuscita a vivere, in quel viaggio da
incubo, senza maschera, e non ero stata allontanata anzi: ero stata accettata.
Cosa importava, allora, nel momento della mia morte, se mi fossi vista o meno?
Molto, molto più di quanto si possa pensare. Potevo, e dovevo, fare i
conti con me stessa, con Lsyn, senza mediazioni, senza quella sorta di
cuscinetto protettore che era la mia maschera. Dovevo uscire dalle mie
illusioni, dal mio dolore e dalla mia stupidità quasi infantile, come
avevo abbandonato la casa a Sharilar, e dovevo vedere cos’ero realmente
diventata. Solo così potevo ammazzarmi avendo la piena consapevolezza
del gesto commesso. E poi la maschera aveva cominciato a soffocarmi. Volevo
essere libera. E quale giorno migliore di quello della mia morte? Era l’ultima
volta che facevo quei gesti, che tante volte avevo ripetuto con così
tanta negligenza. Gustai quegli ultimi attimi di libertà, quegli ultimi
attimi di consapevolezza, ben conscia di star per morire, e mi slacciai la
maschera con estrema lentezza, lasciando poi che cadesse, come se non l’avessi
fatto apposta. Non feci nulla, nemmeno un movimento, quando cadde a terra. Non mi
mossi, rimanendo a guardare, come stordita, nemmeno quando, con uno schianto
sonoro, la maschera di frantumò in tre pezzi, che finirono sparpagliati
per la stanza. Rimasi per un po’ a guardare il mio atto, all’apparenza
così semplice. Lsyn, l’Ombra, il Mostro, era morta. Non c’era
modo migliore per esprimerlo. Mi scollai di dosso la strana sensazione alla
gola che cominciavo a provare e, muovendomi con velocità, ancora la
spada stretta nella mano, andai vicino allo specchio, di fronte. Dovevo vedermi
bene quando mi sarei trafitta. Rimirai la mia bruttezza, le mie cicatrici e,
con una mano, le sfiorai. La sensazione di ruvido non mi disgustò. Non
avevo più timore della mia immagine. Come presa da una debolezza
improvvisa, crollai in ginocchio, la spada ben ferma in mano. La puntai
così verso il ventre, afferrandola anche con l’altra mano, con
mortale lentezza. Erano i miei ultimi atti, e dovevo gustarli fino in fondo. Avrei
fatto in modo di avere una morte molto lenta, e dolorosa, dissanguandomi goccia
a goccia. Non mi sarei compromessa organi vitali, ed avrei prolungato in questo
modo l’agonia. Sapevo come fare. Una lunga, straziante agonia. Era quello
che volevo. Mi fissai, lì, inginocchiata davanti allo specchio, un
fantasma sfregiato, dallo sguardo lucente e pazzo. “dimmi un po’,
Lsyn..”. Dissi così a me
stessa, a voce alta e gracchiante, guardandomi fissa negli occhi,
guardando fisso il mio orrido riflesso, che mi osservava, sogghignante e
tormentato. Sorridente ed orrendamente torto. Sfregiato e perfetto. Il boia e
la vittima. Il problema era stabilire chi fosse chi. Il mio testamento. Un testamento
che avrei ascoltato da sola. Un po’ matto, vero, ma non posso stabilire
cosa fossi, allora. “Quante
vite hai spezzato? Quanti innocenti hai trucidato? Vedi bene, ora,che la stessa
spada che colpì un morbido collo, ora si prenderà la sua
vendetta, il suo tributo di sangue. È così che va il mondo, Lsyn.
Devi assaporare l’amaro calice fino alla sua feccia, fino all’ultima
goccia. Soffriamo, dunque, e da ciò ricaviamo gioia!”. Smisi di
parlare, forse accorgendomi della vana vacuità delle mie parole, e
chiusi gli occhi. Li serrai, digrignando i denti. Dovevo concentrarmi. Tra poco
avrei smesso di soffrire. Ne fui felice. Alzai la spada con entrambe le mani.
Rimasi per un attimo ferma, gustando quell’ultimo momento di tensione. Era
venuto il momento di pagare per tutto. Rimasi per un altro attimo a gustarmi
quel vibrante silenzio, che assentiva con la sua grandezza al mio atto. Poi,
agii. Calai la spada che Eiron, con tanta previdenza, mi aveva donato, con
forza, verso il mio addome. Senza paura. Nessuno mi fermò, stavolta,
nessuno. Nemmeno me stessa. Sentii così senza esitazioni il morso gelido
dell’acciaio temprato attraversarmi da parte a parte, ed un immediato,
atroce dolore, impadronirsi di me, un dolore che avevo sempre collegato con i
Tengu, ed i loro scettri. Mi
contrassi, stavolta senza più nessun pensiero in testa. Ancora
rabbrividisco al ricordo di quella tremenda sensazione. Ma allora ne ero
felice, molto felice. Ricavavo gioia da ogni stilla di tormento. Mi lasciai
sfuggire un gemito, un gemito di puro dolore, involontario, e qualcosa di caldo
si riversò fuori dalla mia bocca. Sentii un orribile sapore metallico in
fondo alla gola, qualcosa di viscido ed amaro sulla lingua. Sangue? Si, sangue.
Il mio sangue. Ridacchiai, felice. Stavo per smettere di soffrire. Non sentii
di essere caduta in avanti, infrangendo lo specchio con gran fracasso. Non so
quanto rimasi lì, ad agonizzare allegramente. La vista cominciò,
finalmente, dopo un tempo che mi parve infinito. ad offuscarsi. Il dolore,
dapprima presente e fastidioso, cominciò ad essere lontano ed ovattato.
Volavo in un mare di soffice lanugine. In un tempo ed un luogo imprecisati,
sentii una porta aprirsi, sbattendo e degli strilli di terrore. Qualcosa mi
afferrò per le spalle. Mani delicate. Conoscevo quella stretta. Il mio
amato Chekaril. “sei venuto a prendermi…”. Mormorai. E persi
i sensi.
Da quel momento
in poi, i miei ricordi si fanno sfumati, e non riesco a capire cosa sia
realtà, e cosa, invece, dovuto solo al puro delirio.
Entrai così
in un mondo dove luce, spazio tempo, non avevano significato. Quello che sognai
fu solo il frutto di una mente folle.
Vidi un
arcobaleno di colori, un magico caleidoscopio davanti ai miei occhi, e sentii
strani rumori ai margini della mia coscienza.
Poi persi
i sensi.
Sentii
dopo un po’ qualcuno urlare, di nuovo. Dov’ero finita? Conoscevo
quel viso strano, davanti a me. Era una mia amica, qualche secolo fa. La testa
gli andava a fuoco, o forse sono i capelli. Erano così rossi. Forse
urlano perché c’era un incendio, chissà. Ero tra le braccia
di qualcuno. Chekaril, non fare lo spiritoso!
Ancora,
svenni.
Chi mi aveva
sdraiato su quella superficie dura? Che avevo combinato di brutto? Ero morta?
Mi ero ubriacata? Quanto avevo bevuto? Strano, io ero astemia. Mi sentivo
però così strana…così…leggera… come se avessi
potuto prendere il volo da un momento all’altro, solo volendo. E faceva
freddo. Tanto freddo. Chi era quell’’uomo barbuto, che incombeva su
di me? Via, barbone, sciò! Che mi voleva fare? Cercai di agitarmi, ma i
miei arti non mi rispondevano. Dov’ero? Dovevo essere in acqua. Era tutto
così bagnato. Il barbuto si voltò verso una donna strana, dal
viso sconvolto. Dovevo averla vista da qualche parte, tanto tempo fa. I capelli
le stavano andando a fuoco. “è molto grave. Sta perdendo troppo
sangue”. Disse l’uomo, serio. Chi era grave? I bambini stavano
male? Li avevano attaccati? Ero un’irresponsabile…Lainay mi avrebbe
staccato la testa dal collo se gli fosse successo qualcosa qualcosa! Accidenti,
mi dovevo alzare! “cercherò di fare il possibile”. Girandosi
di nuovo, il barbone si avventò su di me, con artigli da avvoltoio. Che voleva
fare il mostro? Mi straziava il ventre, perché? Si stava cibando di me! Erano
tutti mostri, quelli! Urlai qualcosa.
Persi i sensi di nuovo.
C’era
un tipo strano vicino a me. Era sdraiato accanto. Il collo gli pendeva, inerte.
I mostri sicuramente l’avevano mangiato. Allora eravamo morti tutti e
due. Lui mi sorrise, e mi accarezzò il viso. Aveva le mani gelide.
Sorrise di nuovo. I suoi denti erano affilati, e lui si sporse per baciarmi,
per mordermi. Urlai di nuovo.
Non capii
più nulla, per un tempo indeterminato di tempo.
C’era
solo dolore attorno a me. Cosa stava succedendo? Qualcuno avrebbe fatto meglio
ad allontanare tutti quei folletti dispettosi dalla mia pancia. Mi stavano
tirando, pizzicando, e facevano male. Mi agitai. Una nuova fitta, lancinante.
Poi solo
buio.
Chi erano
quei bambini dallo sguardo di cerbiatto, accanto a me? Dovevo averli visti
qualche secolo prima. Sono i figli della rossa, lo so. Faceva caldo. Avevo
caldo. Il maschietto mi disse qualcosa. Non lo capii. Però mi ricordava
qualcuno. Di chi ero prigioniera? La sua mano si alzò. Mi gocciolò
qualcosa dalla fronte. Era una bella sensazione.
Non capii
più nulla.
Ero in un
incendio. Ero in un fuoco e mi dovevo salvare. Mi stavano bruciando viva. C’erano
tante mani che piovevano dal cielo, e tante voci che chiamavano, o chiamavano
qualcuno, non so. Cosa? Lsyn? Chi sarà? Che strano nome. Mi ricordava un
vecchio cieco intento a ballare con una bottiglia, chissà perché.
Svenni.
Ero in un
boschetto. Decisamente. Chissà come mi trovavo qui. Dovevo aver dormito
a lungo. Che razza di sogni avevo fatto! Mi alzai, tranquilla, senza alcun
pensiero e, come se sapessi già cosa fare, mi diressi verso un ruscello,
che mormorava placido a poca distanza da me. Mi sedetti, e mi guardai
nell’acqua. Ero proprio bella. Il mio viso era liscio come una pesca,
senza cicatrici alcune. Mi stiracchiai. Era bello sentirsi liberi, e felici. Guardai
per un po’ l’acqua limpida, fino a quando sentii qualcuno sedersi
accanto a me, ed il suo riflesso baluginare. Mi girai. Chekaril! Stava bene. L’avevo
ucciso, o no, allora? Era il giovane innamorato dei miei ricordi, quello che mi
fissava con sguardo ferito, non l’eroe Krish, il donnaiolo crudele.
Accettai la sua presenza come fatto normale. “ma tu sei morto”. Gli
dissi, dopo un lungo silenzio passato ad osservarci. Non importava, niente
affatto. Lui era lì, che mi stringeva a sé e mi donava un dolce
bacio. Persi la cognizione del tempo, immersa in una felicità che va al
di là della vita e della morte. Dopo quelli che sembrano secoli, ci guardammo
di nuovo, ancora abbracciati teneramente.
Come lo amavo, per tutti gli dei! Lui sorrise, triste. “lo so, lo
so. Dovresti esserlo anche tu, sai…”. Mi disse, accarezzandomi il
viso. Annuii, consapevole ma serena, e lui sospirò. Era bello sentirlo
così vicino. “sei stata una matta, Lsyn, una vera matta”. Mi
sorrise, ma era un sorriso amaro, molto sarcastico. Mi strinsi a lui. Non volevo perderlo nemmeno per un
attimo. “perché, Lsyn?”. Mi domandò, con voce morbida
come le fusa di un gatto. “che colpa avevi? Perché ti volevi
suicidare?”. “io ti volevo raggiungere”. Replicai, con la
massima naturalezza. Un altro attimo di silenzio. Sentii un’immensa
sofferenza farsi strada nel mio petto. “ti amo, Chekaril. Non ho mai
smesso di farlo. Come posso convivere con quello che ho fatto? Ti ho ucciso!
Non posso sopravvivere con questo macigno sul cuore!”. “ oh si che
puoi. Tu devi vivere, amore mio”. Mi rispose, l’espressione tragica,
stringendomi forte. “non puoi morire per i tuoi fantasmi. La colpa
è stata anche mia, del mio
egoismo e della mia superficialità. Sono stato un bastardo, a trattarti
come un giocattolo, come un cavallo. Quando sono andato via, quanto ti ho
costretta ad avere un figlio da me non ti ho tenuta in conto, e non ho tenuto
in conto il tuo amore, e la tua forza, che è tanta, amore mio,
più di quanto tu possa immaginare. Ma sapevo che saresti venuta, Lsyn,
perché il tuo amore era troppo profondo, troppo complicato perché
io potessi capirlo. Sono stato uno stronzo. Ti ho rubato il cuore, e anche
l’aspetto. Mi sono preso tutto di te, e non ti ho lasciato altro che
un’ossessione e tanti ricordi amari. Lainay non c’entra nulla. Ora
lo so. Ora me ne rendo conto. Ero giovane, allora, giovane e sventato. Un donnaiolo,
non credi?”. Mi ammiccò brevemente, prima di riprendere la sua
aria seria. “Non ti ho amata come meritavi, ed ho avuto la mia punizione,
non credi? Piccola mia…tu non puoi morire per me. Non posso rubarti anche
la vita. Devi vivere. Per te, per i piccoli. Non permettere che Lainay faccia
di loro uno strumento per il regno. Fatti valere, perché non è
finita ancora. Vivi. Per Tijorn e Junielle. Devi vivere. Fallo per me”.
Lo fissai, incuriosita. “ma tu non sei reale, vero?”. Domandai, con
la morte nel cuore. Mi dispiaceva. Un Chekaril così non poteva esistere.
Lui sorrise tristemente, di nuovo. “sono quello che tu immagini io sia,
nient’altro”.
E poi, non
ci fu più nulla. L’oblio stese su di me le sue pietose ali, ed io
non vidi né sentii più.