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Autore: Akita    29/10/2008    2 recensioni
Storia in fase di profonda revisione ed aggiornamento
Lsyn è una Spia, legata al suo regno fino alla morte da un vincolo d'obbedienza più forte di ogni cosa. Un orribile incidente le ha stravolto la vita. Per cinquant'anni, allora, vaga, alla ricerca del Principe. La sua redenzione. O forse la sua rovina. Perchè il compimento del suo destino di avvicina. Lei però non lo sa. [...]Da quel momento in poi, mi sarei giocata la vita. Beh, non che m'importasse molto. La mia esistenza si era svolta sempre così, perennemente a contatto con la morte, giocandoci come con una vecchia amica venuta a prendere il tè. Che cosa buffa. Vivere, per prepararsi a morire. Lo fanno tutti, o è il destino di ogni Spia?[...]
Genere: Fantasy, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Memorie dei Rinnegati.'
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Mi mossi in maniera febbrile, preparando tutta la messinscena con precisione maniacale, com’era mio solito

Mi mossi in maniera febbrile, preparando tutta la messinscena con precisione maniacale, com’era mio solito. Non avrei rinunciato, proprio facendo quell’atto estremo da cui sapevo non c’era più ritorno, alla vista della mia umiliazione finale. A distanza di tempo, quando ormai sono cambiate molte cose, pur restando le stesse, mi chiedo davvero cosa avessi nella testa, in quel momento. Trucioli, forse, o foglie secche. Le vere motivazioni di quel gesto, che fu una delle cause di una rovina futura, mi sono ancora oscure. Fu il dolore? L’incoscienza? L’egoismo? O forse una delle mie solite esagerazioni, dovute a manie di protagonismo non proprio nascoste? Io, ovviamente, non avevo avuto la seppur minima intenzione di partire, di dedicarmi  ad una vita solitaria e peregrina, vagando di terra in terra in cerca di una pace effimera, già dall’inizio. Semplicemente, ero troppo debole, troppo ferita per rialzare il capo, per rialzarsi e continuare a combattere. Ero stata schiantata, schiantata dalla mia stessa, tremenda, ingenuità, un topolino al servizio di un nido di vipere. Avevo tentennato quel girono, nel fuoco, ma non avrei ceduto ora, proprio in quel momento. mi sentivo matura per andarmene una volta e per sempre. Avevo anche vissuto ben tre vite umane, no?  Gli uomini avrebbero pagato per vivere anche solo metà della mia esistenza. Non potevo lamentarmi, e potevo decidere con tranquillità di morire, vero? Ero ancora giovane tra gli elfi, ma con questo? Ne ero pienamente conscia, anche in quel momento critico. Ero adulta, si, ma nemmeno a metà del percorso che ad un elfo è riservato. Dubitai, però, che un qualsiasi mio simile avesse subito l’ingiustizia ella vita come avevo fatto io. No: io non intendevo vivere ancora, umiliarmi di fronte alla vita, soffrire ancora, e far soffrire. Rimanere ancora viva era un’utopia, un dolce sogno. Non potevo più toccare uno solo dei miei affetti, perché ero sporca, impura, omicida. Potevo ancora sentirmi zuppa del sangue del mio amato. Non potevo vivere con gli altri, con i miei affetti, perché io non meritavo loro, semplicemente. Ero troppo meschina per i grandi cuori che avevano accompagnato la mia infanzia e giovinezza. Ogni cosa che avrei fatto, ogni secondo della mia esistenza, sarebbe stato scandito dalla solitudine estrema che io stessa avevo cercato. Non avrei potuto più vivere con Tijorn, che ormai aveva davvero trovato la sua ragione di esistere, e che certamente non avrebbe sopportato una zavorra com’ero io, o con Junielle, che sicuramente ancora ricordava con amarezza l’epiteto che le avevo affibbiato durante la mia ultima visita, solo perché ero una sciocca bestia, che non voleva farsi toccare. I piccoli non meritavano di passare l’infanzia, o quello che ne rimaneva, con me, non potevo allevare, egoisticamente, i figli di coloro che avevo ucciso. Non era mio diritto. Amarto era solo un vecchio elfo malato, e non sarei riuscita a fargli compagnia come meritava. Non ero più una Spia. I miei antichi compagni mi avrebbero rigettata ed ostacolata in ogni modo a loro possibile. Ero stata tradita dalla mia Regina, trattata come la più vile delle servette, umiliata come una schiava. I ribelli mi volevano morta, e mi avrebbero, probabilmente, anche torturata se fossi finita nelle loro mani. Tutte le altre persone che avrebbero potuto capirmi, capire il mio gesto, rimproverarmi, per poi accettarmi, senza orrore alcuno, erano certamente morte, o lontane. Era un senso di vuota desolazione, quello che provavo, come se fossi in mezzo ad un deserto, sola, un deserto che io stessa mi ero creata. E quello spiazzo bruciato, incenerito, ormai da tanto sterile, era la mia anima. Ero stata annientata, annichilita. Capii in un lampo ciò che mi aveva sempre voluto dire Eiron, il suo desiderio di essere ricordato in modo degno, di smettere di essere umiliato. Come lui non voleva vivere senz’ali, straniero tra la sua gente, io non volevo vivere con quel fardello che era la mia memoria, il fardello di quella che era stata un’ossessione, e mi aveva allontanata dagli affetti più cari. Avevo si, bruciato ogni traccia del mio terribile operato, ma nella mia memoria era tutto fin troppo nitido. Ero stata ridotta ad un niente, un guscio senza possibilità di salvezza. Ed io volevo precipitare, non volevo far altro che precipitare in un riposante oblio, non pensare più, essere fuori dalla portata di tutto e tutti, senza sensazioni, senza dolore, senza coscienza. Riposarsi, dormire, per sempre, e nulla più. Cercavo solo quello, ero in cerca solo della pace, che in ogni modo mi era stata negata in vita, nella mia esistenza per un vano, vuoto ideale. Avevo perso tutto, tranne la vita. Ed, in quel momento, ero io a volermene disfare.

Avendo già tutto progettato, agii in fretta, senza inutili pensieri, o preamboli, già gustando il nulla in cui sarei discesa. Libera, finalmente, da tutta la disperazione, tutto lo smarrimento e la sofferenza che avevo causato a me ed agli altri. Non ne vedevo l’ora. Accesi tutte le candele, una a una, posizionandole sul loro supporto, fino a quando l’intera, piccola camera, non fu illuminata a giorno. Dovevo vedere bene tutto quello che sarebbe accaduto. Dopo che l’ultimo stoppino cominciò ad ardere, afferrai i supporti e li posizionai in modo da formare un cerchio perfetto, di cui io sarei stata il centro. Suicidio si, ma con un minimo di eleganza. Il cerchio: da un cerchio era iniziato tutto, da un cerchio doveva finire. Non ero esente da uno sprazzo di pura pazzia. Suicidarsi è un atto che richiede fegato, molto fegato, ed un’incoscienza pura, incoscienza del valore della redenzione, della punizione, del pentimento. Strano scriverlo, io che l’ho cercato l’ho desiderato, l’ho invocato, io che ne ho gioito, io, che tante volte ci sono arrivata molto vicina. Tali sono i piani di una mente irrimediabilmente distorta. Solo ora capisco, dopo aver visto infinito orrore. Solo ora, dopo essermi torturata in una delle maniere più atroci che conoscessi, dopo aver sofferto infinitamente. Che ragionevolezza potevo provare, allora, com’ero ridotta, fermamente convinta di essere sola? Il mio unico pensiero, in quella camera illuminata, era quello di farla finita, subito, nel modo più doloroso che conoscessi. Perché, si, io dovevo soffrire, e molto, per quello che avevo fatto. Mi ero macchiata le mani di crimini terribili, e non potevo mettervi riparo. Ero, o sarei stata, perduta. Ed allora, solo per il puro desiderio di farlo, dovevo pagare tutto il male fatto. Basta, solo quello. Una volta messo lo specchio al centro, vicino al punto dove avevo deciso avrei passato gli ultimi istanti di consapevolezza, passai a questioni più terrene. Sapevo che Greg, il mattino dopo, avrebbe trovato uno scempio, e che, forse, la sua reputazione ne sarebbe stata rovinata. Non fa bene alla storia della locanda una suicida, soprattutto quando avrebbe lasciato un disastro dietro di sé, come prevedevo stesse per succedere. Dalla mia borsa, che avevo posato sul letto, estrassi tutti i pochi spiccioli che avevo, e li sparpagliai sulle lenzuola candide, mettendo anche il piccolo pugnale, che non mi sarebbe servito, e altri gingilli di qualche valore. Dovevo pagare il grande favore che mi stava facendo il grasso oste, no? Ed io gli ero grata, molto grata. Dopo aver sbrigato quell’ultimo affare, cominciai la sceneggiata vera e propria. Con calma esemplare, senza cambiare minimamente espressione, mi slacciai il lungo mantello nero che portavo, così vecchio e rattoppato un mio fedele compagno, e lasciai che scivolasse, con un debole fruscio, a terra. Non dovevo essere intralciata in nessun modo. Rimasi, così, solo con i miei abiti neri e comodi, lisi ed un po’ scoloriti. La seconda cosa che feci, fu quella di togliermi il cinturone a cui avevo assicurato la spada, lasciando che cadesse sul mantello. Qualcosa di esso, tuttavia, ancora mi serviva. Dal bellissimo fodero grigio satinato, estrassi la bellissima spada ricurva di Eiron, dall’elsa filigranata d’argento, e da quella lama larga, ma così leggera, con impresso su quel motto, che tanto mi era alieno. Ero stata sempre fedele a cosa? Avevo servito il sangue, la morte, fino all’ultimo respiro. Ma quella non era fedeltà: di niente si trattava, se non morboso attaccamento, e quasi di necessità. Una necessità che mi avrebbe portata alla tomba, ben presto. Fissai la spada, scintillante alla fievole luce rossastra delle candele. Era superba, sembrava quasi guardarmi, fredda ed altera. Sembrava quasi rilucere di sangue fantasma, il sangue di tutte le vittime innocenti, che era stata costretta ad assaggiare. Era un’arma maledetta: con questa avevo dato il colpo di grazia ad Eiron, ucciso Chekaril, ucciso Aevo, minacciato. Mai una cosa buona era scaturita dall’uso di quella spada, mai ero riuscita a tenere fede alla preghiera che Kyrre mi aveva fatto. Ma ben presto, con il mio stesso sangue, ogni peccato sarebbe stato lavato da quella magnifica lama, ogni errore ripagato con la mia sofferenza. E quell’arma, come sempre succedeva, non sarebbe stata tolta dal mio cadavere, e avrebbe finito di seminare miseria nel mondo. avrebbe riposato con me. Forse quello mi rendeva felice. Con la mano sana, strinsi  il pomo lavorato dell’ara, e sospirai. Stavo per fare il gesto che, se fossi vissuta ancora, mi avrebbe cambiato la vita. Perché io non volevo più vedermi con la maschera, quell’oggetto infernale, la causa di ogni mio male. Volevo essere com’ero, un mostro, sfregiata, orrenda. Ma me stessa. Avevo trovato, per quel gesto, un pizzico della dignità che per cinquant’anni non avevo avuto. Ero riuscita a vivere, in quel viaggio da incubo, senza maschera, e non ero stata allontanata anzi: ero stata accettata. Cosa importava, allora, nel momento della mia morte, se mi fossi vista o meno? Molto, molto più di quanto si possa pensare. Potevo, e dovevo, fare i conti con me stessa, con Lsyn, senza mediazioni, senza quella sorta di cuscinetto protettore che era la mia maschera. Dovevo uscire dalle mie illusioni, dal mio dolore e dalla mia stupidità quasi infantile, come avevo abbandonato la casa a Sharilar, e dovevo vedere cos’ero realmente diventata. Solo così potevo ammazzarmi avendo la piena consapevolezza del gesto commesso. E poi la maschera aveva cominciato a soffocarmi. Volevo essere libera. E quale giorno migliore di quello della mia morte? Era l’ultima volta che facevo quei gesti, che tante volte avevo ripetuto con così tanta negligenza. Gustai quegli ultimi attimi di libertà, quegli ultimi attimi di consapevolezza, ben conscia di star per morire, e mi slacciai la maschera con estrema lentezza, lasciando poi che cadesse, come se non l’avessi fatto apposta. Non feci nulla, nemmeno un movimento, quando cadde a terra. Non mi mossi, rimanendo a guardare, come stordita, nemmeno quando, con uno schianto sonoro, la maschera di frantumò in tre pezzi, che finirono sparpagliati per la stanza. Rimasi per un po’ a guardare il mio atto, all’apparenza così semplice. Lsyn, l’Ombra, il Mostro, era morta. Non c’era modo migliore per esprimerlo. Mi scollai di dosso la strana sensazione alla gola che cominciavo a provare e, muovendomi con velocità, ancora la spada stretta nella mano, andai vicino allo specchio, di fronte. Dovevo vedermi bene quando mi sarei trafitta. Rimirai la mia bruttezza, le mie cicatrici e, con una mano, le sfiorai. La sensazione di ruvido non mi disgustò. Non avevo più timore della mia immagine. Come presa da una debolezza improvvisa, crollai in ginocchio, la spada ben ferma in mano. La puntai così verso il ventre, afferrandola anche con l’altra mano, con mortale lentezza. Erano i miei ultimi atti, e dovevo gustarli fino in fondo. Avrei fatto in modo di avere una morte molto lenta, e dolorosa, dissanguandomi goccia a goccia. Non mi sarei compromessa organi vitali, ed avrei prolungato in questo modo l’agonia. Sapevo come fare. Una lunga, straziante agonia. Era quello che volevo. Mi fissai, lì, inginocchiata davanti allo specchio, un fantasma sfregiato, dallo sguardo lucente e pazzo. “dimmi un po’, Lsyn..”. Dissi così a me  stessa, a voce alta e gracchiante, guardandomi fissa negli occhi, guardando fisso il mio orrido riflesso, che mi osservava, sogghignante e tormentato. Sorridente ed orrendamente torto. Sfregiato e perfetto. Il boia e la vittima. Il problema era stabilire chi fosse chi. Il mio testamento. Un testamento che avrei ascoltato da sola. Un po’ matto, vero, ma non posso stabilire cosa fossi, allora.  “Quante vite hai spezzato? Quanti innocenti hai trucidato? Vedi bene, ora,che la stessa spada che colpì un morbido collo, ora si prenderà la sua vendetta, il suo tributo di sangue. È così che va il mondo, Lsyn. Devi assaporare l’amaro calice fino alla sua feccia, fino all’ultima goccia. Soffriamo, dunque, e da ciò ricaviamo gioia!”. Smisi di parlare, forse accorgendomi della vana vacuità delle mie parole, e chiusi gli occhi. Li serrai, digrignando i denti. Dovevo concentrarmi. Tra poco avrei smesso di soffrire. Ne fui felice. Alzai la spada con entrambe le mani. Rimasi per un attimo ferma, gustando quell’ultimo momento di tensione. Era venuto il momento di pagare per tutto. Rimasi per un altro attimo a gustarmi quel vibrante silenzio, che assentiva con la sua grandezza al mio atto. Poi, agii. Calai la spada che Eiron, con tanta previdenza, mi aveva donato, con forza, verso il mio addome. Senza paura. Nessuno mi fermò, stavolta, nessuno. Nemmeno me stessa. Sentii così senza esitazioni il morso gelido dell’acciaio temprato attraversarmi da parte a parte, ed un immediato, atroce dolore, impadronirsi di me, un dolore che avevo sempre collegato con i Tengu, ed i loro scettri.  Mi contrassi, stavolta senza più nessun pensiero in testa. Ancora rabbrividisco al ricordo di quella tremenda sensazione. Ma allora ne ero felice, molto felice. Ricavavo gioia da ogni stilla di tormento. Mi lasciai sfuggire un gemito, un gemito di puro dolore, involontario, e qualcosa di caldo si riversò fuori dalla mia bocca. Sentii un orribile sapore metallico in fondo alla gola, qualcosa di viscido ed amaro sulla lingua. Sangue? Si, sangue. Il mio sangue. Ridacchiai, felice. Stavo per smettere di soffrire. Non sentii di essere caduta in avanti, infrangendo lo specchio con gran fracasso. Non so quanto rimasi lì, ad agonizzare allegramente. La vista cominciò, finalmente, dopo un tempo che mi parve infinito. ad offuscarsi. Il dolore, dapprima presente e fastidioso, cominciò ad essere lontano ed ovattato. Volavo in un mare di soffice lanugine. In un tempo ed un luogo imprecisati, sentii una porta aprirsi, sbattendo e degli strilli di terrore. Qualcosa mi afferrò per le spalle. Mani delicate. Conoscevo quella stretta. Il mio amato Chekaril. “sei venuto a prendermi…”. Mormorai. E persi i sensi.

Da quel momento in poi, i miei ricordi si fanno sfumati, e non riesco a capire cosa sia realtà, e cosa, invece, dovuto solo al puro delirio.

Entrai così in un mondo dove luce, spazio tempo, non avevano significato. Quello che sognai fu solo il frutto di una mente folle.

Vidi un arcobaleno di colori, un magico caleidoscopio davanti ai miei occhi, e sentii strani rumori ai margini della mia coscienza.

Poi persi i sensi.

Sentii dopo un po’ qualcuno urlare, di nuovo. Dov’ero finita? Conoscevo quel viso strano, davanti a me. Era una mia amica, qualche secolo fa. La testa gli andava a fuoco, o forse sono i capelli. Erano così rossi. Forse urlano perché c’era un incendio, chissà. Ero tra le braccia di qualcuno. Chekaril, non fare lo spiritoso!

Ancora, svenni.

Chi mi aveva sdraiato su quella superficie dura? Che avevo combinato di brutto? Ero morta? Mi ero ubriacata? Quanto avevo bevuto? Strano, io ero astemia. Mi sentivo però così strana…così…leggera… come se avessi potuto prendere il volo da un momento all’altro, solo volendo. E faceva freddo. Tanto freddo. Chi era quell’’uomo barbuto, che incombeva su di me? Via, barbone, sciò! Che mi voleva fare? Cercai di agitarmi, ma i miei arti non mi rispondevano. Dov’ero? Dovevo essere in acqua. Era tutto così bagnato. Il barbuto si voltò verso una donna strana, dal viso sconvolto. Dovevo averla vista da qualche parte, tanto tempo fa. I capelli le stavano andando a fuoco. “è molto grave. Sta perdendo troppo sangue”. Disse l’uomo, serio. Chi era grave? I bambini stavano male? Li avevano attaccati? Ero un’irresponsabile…Lainay mi avrebbe staccato la testa dal collo se gli fosse successo qualcosa qualcosa! Accidenti, mi dovevo alzare! “cercherò di fare il possibile”. Girandosi di nuovo, il barbone si avventò su di me, con artigli da avvoltoio. Che voleva fare il mostro? Mi straziava il ventre, perché? Si stava cibando di me! Erano tutti mostri, quelli! Urlai qualcosa.

 Persi i sensi di nuovo.

C’era un tipo strano vicino a me. Era sdraiato accanto. Il collo gli pendeva, inerte. I mostri sicuramente l’avevano mangiato. Allora eravamo morti tutti e due. Lui mi sorrise, e mi accarezzò il viso. Aveva le mani gelide. Sorrise di nuovo. I suoi denti erano affilati, e lui si sporse per baciarmi, per mordermi. Urlai di nuovo.

Non capii più nulla, per un tempo indeterminato di tempo.

C’era solo dolore attorno a me. Cosa stava succedendo? Qualcuno avrebbe fatto meglio ad allontanare tutti quei folletti dispettosi dalla mia pancia. Mi stavano tirando, pizzicando, e facevano male. Mi agitai. Una nuova fitta, lancinante.

Poi solo buio.

Chi erano quei bambini dallo sguardo di cerbiatto, accanto a me? Dovevo averli visti qualche secolo prima. Sono i figli della rossa, lo so. Faceva caldo. Avevo caldo. Il maschietto mi disse qualcosa. Non lo capii. Però mi ricordava qualcuno. Di chi ero prigioniera? La sua mano si alzò. Mi gocciolò qualcosa dalla fronte. Era una bella sensazione.

Non capii più nulla.

Ero in un incendio. Ero in un fuoco e mi dovevo salvare. Mi stavano bruciando viva. C’erano tante mani che piovevano dal cielo, e tante voci che chiamavano, o chiamavano qualcuno, non so. Cosa? Lsyn? Chi sarà? Che strano nome. Mi ricordava un vecchio cieco intento a ballare con una bottiglia, chissà perché.

 Svenni.

Ero in un boschetto. Decisamente. Chissà come mi trovavo qui. Dovevo aver dormito a lungo. Che razza di sogni avevo fatto! Mi alzai, tranquilla, senza alcun pensiero e, come se sapessi già cosa fare, mi diressi verso un ruscello, che mormorava placido a poca distanza da me. Mi sedetti, e mi guardai nell’acqua. Ero proprio bella. Il mio viso era liscio come una pesca, senza cicatrici alcune. Mi stiracchiai. Era bello sentirsi liberi, e felici. Guardai per un po’ l’acqua limpida, fino a quando sentii qualcuno sedersi accanto a me, ed il suo riflesso baluginare. Mi girai. Chekaril! Stava bene. L’avevo ucciso, o no, allora? Era il giovane innamorato dei miei ricordi, quello che mi fissava con sguardo ferito, non l’eroe Krish, il donnaiolo crudele. Accettai la sua presenza come fatto normale. “ma tu sei morto”. Gli dissi, dopo un lungo silenzio passato ad osservarci. Non importava, niente affatto. Lui era lì, che mi stringeva a sé e mi donava un dolce bacio. Persi la cognizione del tempo, immersa in una felicità che va al di là della vita e della morte. Dopo quelli che sembrano secoli, ci guardammo di nuovo, ancora abbracciati teneramente.  Come lo amavo, per tutti gli dei! Lui sorrise, triste. “lo so, lo so. Dovresti esserlo anche tu, sai…”. Mi disse, accarezzandomi il viso. Annuii, consapevole ma serena, e lui sospirò. Era bello sentirlo così vicino. “sei stata una matta, Lsyn, una vera matta”. Mi sorrise, ma era un sorriso amaro, molto sarcastico. Mi strinsi a lui.  Non volevo perderlo nemmeno per un attimo. “perché, Lsyn?”. Mi domandò, con voce morbida come le fusa di un gatto. “che colpa avevi? Perché ti volevi suicidare?”. “io ti volevo raggiungere”. Replicai, con la massima naturalezza. Un altro attimo di silenzio. Sentii un’immensa sofferenza farsi strada nel mio petto. “ti amo, Chekaril. Non ho mai smesso di farlo. Come posso convivere con quello che ho fatto? Ti ho ucciso! Non posso sopravvivere con questo macigno sul cuore!”. “ oh si che puoi. Tu devi vivere, amore mio”. Mi rispose, l’espressione tragica, stringendomi forte. “non puoi morire per i tuoi fantasmi. La colpa è stata anche mia,  del mio egoismo e della mia superficialità. Sono stato un bastardo, a trattarti come un giocattolo, come un cavallo. Quando sono andato via, quanto ti ho costretta ad avere un figlio da me non ti ho tenuta in conto, e non ho tenuto in conto il tuo amore, e la tua forza, che è tanta, amore mio, più di quanto tu possa immaginare. Ma sapevo che saresti venuta, Lsyn, perché il tuo amore era troppo profondo, troppo complicato perché io potessi capirlo. Sono stato uno stronzo. Ti ho rubato il cuore, e anche l’aspetto. Mi sono preso tutto di te, e non ti ho lasciato altro che un’ossessione e tanti ricordi amari. Lainay non c’entra nulla. Ora lo so. Ora me ne rendo conto. Ero giovane, allora, giovane e sventato. Un donnaiolo, non credi?”. Mi ammiccò brevemente, prima di riprendere la sua aria seria. “Non ti ho amata come meritavi, ed ho avuto la mia punizione, non credi? Piccola mia…tu non puoi morire per me. Non posso rubarti anche la vita. Devi vivere. Per te, per i piccoli. Non permettere che Lainay faccia di loro uno strumento per il regno. Fatti valere, perché non è finita ancora. Vivi. Per Tijorn e Junielle. Devi vivere. Fallo per me”. Lo fissai, incuriosita. “ma tu non sei reale, vero?”. Domandai, con la morte nel cuore. Mi dispiaceva. Un Chekaril così non poteva esistere. Lui sorrise tristemente, di nuovo. “sono quello che tu immagini io sia, nient’altro”.

 

E poi, non ci fu più nulla. L’oblio stese su di me le sue pietose ali, ed io non vidi né sentii più.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  
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