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Autore: emotjon    25/11/2014    15 recensioni
Heidi, 20 anni. Zayn, 22 anni.
Lei, cieca. Lui, grande osservatore.
Lei gli insegnerà ad ascoltare.
Lui le insegnerà a vedere.
E insieme impareranno ad amare.
Genere: Romantico, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti, Zayn Malik
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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30.




 
Heidi.

Giorno 1.
Si pensa che il giorno dopo un intervento chirurgico, una ragazza possa e debba starsene a letto, con gli occhi chiusi, la testa posata sul cuscino e le ginocchia comodamente rannicchiate al petto. Senza fare assolutamente niente che non sia respirare, mangiare o al massimo pensare. Pensavo mi avrebbero lasciata in pace, almeno il primo giorno. Pensavo di non dover rispondere a domande su domande, di non dover essere visitata; pensavo addirittura che il dottor Harrison avrebbe potuto evitarmi le visite, il primo giorno.
Ma, ehi, evidentemente mi sbagliavo.
La voce sussurrata di una delle infermiere mi da il buongiorno, mentre appena sveglia la sento muoversi poco lontana dal mio letto, a sfiorare con le dita sullo schermo dei macchinari che mi monitorano, col quel bip continuo e sempre uguale che nonostante tutto mi ha lasciata dormire abbastanza e abbastanza bene. Mugugno qualcosa e la sento sorridere, prima che prenda a fischiettare, allegra ma non fastidiosa. Ed è strano, perché ho sempre trovato le infermiere insopportabili – e molto, molto fastidiose.
«Mi ha detto il dottore che le infermiere non ti vanno a genio…». Tento un sorriso, tirandomi a sedere sul letto ignorando la leggera fitta alla testa e cercando di non strapparmi gli aghi dalle braccia. Stufa del dolore e degli ospedali, questa ragazza mi sta decisamente più simpatica del resto del mondo, ora come ora. «Io sono una volontaria del reparto, e posso stare con te tutto il giorno». La sento battere le mani come una bambina coi regali di Natale, e improvvisamente mi viene da ridere, di gusto. «Mi chiamo Janice, a proposito».
E mentre mi toglie aghi e tubi dalle braccia con più delicatezza di qualunque altra infermiera l’abbia mai fatto, scopro che Janice ha venticinque anni, la testa rasata a zero e la pelle color cioccolato, da come la descrive lei. Scopro che le piace leggere e ama la musica – qualsiasi genere di musica e qualunque tipo di libri; scopro che adora parlare e che ha un figlio di cinque anni a casa, che rimane con la nonna quando lei ha i turni da volontaria qui all’ospedale e che…
«Si può..?». Smetto di ridere ad un aneddoto su suo figlio non appena sento un bussare leggero alla porta e la sua voce arrivarmi nitida ma un po’ roca alle orecchie. Deve aver dormito poco o niente, ma un sorriso mi compare ugualmente sulle labbra, prima che la ragazza seduta sul bordo del mio letto scoppi a ridere. «Ciao, piccola», mi sussurra Zayn posandomi un bacio sulla fronte, che sa di caffè e sigarette, ma non mi da per niente fastidio. Tutto, pur di non dover sentire ancora medicinali e disinfettante.
«Ciao…». E mi sento avvampare, ma non mi interessa.
«C’è tua madre, in corridoio», mormora ancora, passandomi le dita tiepide sulle braccia ora completamente libere dagli aghi. Mi formicola la pelle, sotto il suo tocco, e sono terribilmente tentata di lasciarmi andare ad un sospiro, ma le voci del dottor Harrison e della dottoressa Blackwood – la donna che mi ha operato – riempiono l’aria, prima che Janice e Zayn vengano cacciati in corridoio per poter parlare con me liberamente e senza andare contro il segreto professionale o che so io. «Ci vediamo dopo», scherza il mio ragazzo lasciandomi un bacio veloce sulle labbra che grazie al cielo riesce a far ridere anche me.
A risata scomparsa, sono un milione di parole che escono da due paia di labbra senza che io riesca ad assimilarle tutte. Sono parole su parole, che dopo una decina di minuti e l’ingresso che un’infermiera che con poca delicatezza mi infila un ago nell’incavo di un gomito senza curarsi di non farmi male, mi fanno venire mal di testa. Strizzo gli occhi e alzo una mano verso la fronte, massaggiandomi le tempie con due dita.
All’improvviso mi vengono in mente le parole di Zayn in una situazione simile e «Non c’è bisogno che mi diciate con quanti aghi, tubi o elettrodi dobbiate riempirmi la pelle… fatelo e basta». E, a parte le deboli proteste della dottoressa, il mio medico trattiene a stento una risata e mi dice semplicemente che l’infermiera mi ha messo su una flebo.
Annuisco con un sospiro, senza bisogno che lui mi dica altro.
Chemio terapia.
La chemio fa schifo, sinceramente.
Non ho idea di quali sostanze ci siano nella flebo che mi hanno attaccato, e nemmeno voglio saperlo, a dire il vero. Sembra una flebo di fisiologica, all’inizio. La mia “infermiera” mi ha detto che è un liquido trasparente come l’acqua, che la flebo è piuttosto grande e che l’ago che mi hanno infilato nel braccio è piuttosto grosso per essere solo un ago. Mi ha fatta ridere, mentre le labbra di Zayn mi si posavano sul collo nascondendo un sorriso divertito al resto del mondo.
Quello che però non si vede da quel liquido trasparente in quella semplice sacca di plastica con quell’ago enorme che ti trapassa la carne, è il dopo. E so perfettamente che devo farlo per impedire al tumore di tornare, per stare bene, per aumentare le possibilità di tornare a vedere e Dio solo sa cosa, ma forse se avessi saputo le conseguenze mi sarei opposta almeno un po’ – anche se non sarebbe servito a niente.
Avrei dovuto ascoltare i dottori quando mi parlavano degli effetti della terapia. Avrei dovuto assimilare parole come nausea, debolezza, mancamenti. Avrei dovuto, sì. Se l’avessi fatto sarei stata pronta a sopportare il mal di stomaco, credo. Forse avrei chiesto al mio ragazzo di uscire dalla stanza prima che la flebo finisse, o solo prima che un conato mi contraesse lo stomaco.
Comunque, non lo voglio vicino quando rigetterò l’anima.
Mi tocco lo stomaco con una smorfia, abbassando le palpebre e sentendo il mio ragazzo irrigidirsi al mio fianco, la stretta sulla mia mano che si fa più forte, come mi stesse chiedendo che succede. Non riesco a parlare, però, costretta a coprirmi la bocca con la mano, nel momento esatto in cui un’infermiera arriva a staccarmi la flebo ormai vuota. Sento Janice imprecare a bassa voce, prima che faccia rumore di fianco al letto e mi posi in fretta quello che immagino sia un catino sulle gambe e mi sussurri di buttare fuori tutto.
Sì, fa schifo proprio come sembra. Per questo non voglio che Zayn mi veda star male. Perché fa schifo proprio come sembra. Ma, per quanto provi e mugolare che voglio che esca e per quanto provi a non dare l’idea di star davvero male, non riesco a mandarlo via, e Janice non mi aiuta per niente. Al contrario, la sento sorridere, quando il mio ragazzo – iperprotettivo e testardo da morire – sbuffa, probabilmente alza gli occhi al cielo, e si alza in piedi; mi si mette affianco, con una mano ad accarezzarmi la schiena mentre i conati mi scuotono, e le labbra posatemi sulla testa, mormorandomi che non ha intenzione di andare da nessuna parte e che la superiamo insieme.
Sorriderei, se potessi.

Giorno 2.
Ricordate i sintomi post chemio? Nausea, debolezza e mancamenti.
Sopravvissuta al primo sintomo, per un attimo ho creduto che il mio organismo mi desse tregua un paio di giorni, almeno fino alla seduta di chemio successiva. Credevo male, ovviamente. Okay, non so cosa pensavo, dato che la sfortuna è perennemente dalla mia da quando ho avuto l’incidente – Zayn escluso. Forse essere positiva e sempre col sorriso sulle labbra non serve, se non vengo mai ricambiata con un pizzico di pace.
«E’ venuta ad aprirmi alla porta mezza nuda», mi dice Zayn ridendo, alludendo alla sua migliore amica dai capelli rossi che mi cammina accanto dall’altro lato, sbuffando leggermente e probabilmente arrossendo sulle guance e sul collo. Ridacchio, dando poi una gomitata al ragazzo al mio fianco per intimargli di smetterla. «Che c’è, era esilarante… ma la parte migliore è che Harry è caduto dal divano, sbattendo il…». Rido, portando una mano alle sue labbra e fermando le ultime parole contro la mia pelle.
Non voglio sapere cosa abbia battuto Harry cadendo dal divano. Ho già immaginato abbastanza senza che lui me lo dica, tanto che arrossisco, lasciando la presa sulla sua bocca e nascondendo il viso contro la sua spalla mentre mormoro qualcosa che assomiglia a “ti prego, amore, non me li fare immaginare nudi”, che lo fa ridere contro la mia testa rasata. Un millimetro di capelli fa capolino, tranne che nel punto in cui un grosso cerotto ne impedisce la crescita; aveva ragione lui, tanto ricrescono.
Victoria e Charlotte ci superano di qualche passo, continuando a chiacchierare e ridere come fossero amiche da tutta una vita. Mi viene da sorridere, mentre le mie dita si rintrecciano a quelle di Zayn, perché sta andando bene, tutto sommato. Sono viva, ho lui, e va bene. Non è il meglio che potrei chiedere, ma nemmeno il peggio che mi potesse capitare.
«Secondo te come andrà?».
«Te l’ho detto che finiremo ad avere settant’anni insieme, tra capelli da intrecciare, tatuaggi scoloriti e mal di schiena, no?». Ridacchio, annuendo alla sua assurda promessa di rimanere insieme sempre, fino alla fine dei nostri giorni. Magari lui mi intreccerà i capelli, io gli bacerò un tatuaggio scolorito e finiremo per fare l’amore tra vecchie lenzuola che ne avranno viste di tutti i colori. Ma, no, non è quello che intendevo, e lui lo sa perfettamente. «Sono convinto che i tuoi bellissimi occhi celesti rivedranno lo stesso cielo che ha dato loro colore quando sei nata».
«E mi porterai a vedere il mare?», gli chiedo con un sorriso che non riesco a fermare.
«Ti porto a vedere quello che vuoi, principessa».
Sono le ultime parole che sento nitidamente, prima che il respiro mi si faccia pesante e le gambe mi tremino. Mi aggrappo alla sua mano, che lui lascia dopo qualche istante per stringermi un fianco, per tenermi su, dato che è evidente che sono troppo debole anche solo per stare in piedi. I mancamenti, il dannatissimo terzo sintomo della chemio. Mi sfarfallano le ciglia e sento la sua voce chiamarmi, come lontana anni luce, direttamente da una stella. Il mio mondo però non è più tanto nero, e me ne accorgo solo quando svengo tra le sue braccia, col mio nome che si affievolisce e le mie orecchie che riescono a sentire solo silenzio.
Mi risveglia il suono del macchinario nella mia stanza. Quel bip insistente e monotono che sopporto a stento. Mi risveglia il chiacchiericcio di due voci familiari, ma cerco di non muovermi per capire al meglio a chi appartengano e cosa stiano dicendo. Sono curiosa di natura, inutile negarlo.
«Mi sono spaventato a morte, dio…». Cerco di non trattenere il fiato al suono di quelle parole, dette dalla voce di Zayn. È chiaro a cosa si stia riferendo, perché ricordo alla perfezione di essere svenuta tra le sue braccia, mentre prometteva di regalarmi l’azzurro del cielo e il blu del mare. «C’era da aspettarselo, con la chemio, ma… non lo so, mi sono spaventato». Vorrei sorridere, ma voglio capire con chi stia parlando, e l’olfatto non mi è di aiuto, con tutto quel disinfettante che permea l’aria.
«Cazzo se la ami, eh?».
Una voce femminile, che non riconosco perché non l’ho mai sentita. O forse l’ho già udita, magari in un sogno, o nel sogno di un sogno, ma non riesco ad associarla ad alcun volto. Deve essere sua amica, di certo non mia. Io ho solo Victoria, la principessa delle puritane, che non direbbe una parolaccia nemmeno se sotto tortura.
Sento Zayn scoppiare a ridere, e il suo sguardo scivolarmi addosso, fermarsi sul mio viso, sul labbro che forse mi trema un po’ e sulle palpebre abbassate che lottano strenuamente per non alzarsi e far notare che sono sveglia. Non ho fatto i conti con lui, però. Non ho preso in considerazione quanto lui mi conosca.
«Abbastanza da capire che è sveglia…», lo sento dire, sollevato. Percepisco il sollievo, insieme col divertimento, nella sua voce, e sbuffo, prima aprire gli occhi e rendermi conto che davvero il mondo è meno nero dal solito. «Che c’è?», mi sento chiedere dopo una manciata di secondi, quando sbatto le palpebre a ripetizione per assicurarmi che non sia solo un bel – bellissimo – sogno.
«Le tenebre hanno lascio spazio al grigio piombo, amore».
E rido di gusto, quando in un lampo lo sento prendermi il viso tra le mani e stamparmi un bacio sulle labbra, poi sulla punta del naso, poi di nuovo alle labbra, più profondo. Abbastanza spinto da far ridere la ragazza che non conosco e da farmi perdere completamente un respiro, per donarlo a lui e far mio uno dei suoi.

Giorno 3.
La seconda seduta di chemio va “meglio” della prima. Il che è tutto dire. Riesco a trattenermi dal vomitare anche l’anima per due ore, nelle quali sono troppo impegnata a ridere alle battute che Ariel – la ragazza dalla voce sconosciuta ma familiare – rivolge a Charlotte – che scopro con non poca sorpresa essere la sorella. La rossa si nasconde nel mio abbraccio, sul divanetto che ho scoperto avere in quella credo troppo bianca camera di ospedale.
Zayn è al lavoro, e ho finto di crederci, dato che il tono piuttosto sarcastico di Ariel faceva pensare a tutt’altro. Ho inarcato un sopracciglio e mi sono limitata a sorridere quando sua sorella mi ha lasciato un bacio divertito su una guancia, scuotendo poi la testa leggermente, con l’odore del suo profumo ad arrivarmi alle narici sconfiggendo finalmente la patina di disinfettante con cui sto mio malgrado imparando a convivere. E il fatto che lei abbia scosso la testa divertita mi ha fatto proprio pensare che il mio ragazzo non fosse dove mi avessero detto loro.
Non ho motivo di non fidarmi di lui, per cui ci sono passata sopra con un sorriso e il mal di stomaco crescente che mi ha costretta a far allontanare le ragazze per permettere alla nausea di fare il suo corso. E non ho nemmeno avuto il tempo di stupirmi, quando questa volta è stata Charlotte a passarmi il catino e accarezzarmi la schiena. Mi sono vergognata sotto il suo tocco, ma lei continuava a dire che non c’era problema, che era tutto okay e che aveva visto di peggio.
Immagino che aiutare la sorella – o Harry – dopo una sbronza, sia abbastanza naturale per lei, così mi limito ad annuire e a ringraziarla stringendole una mano e tentando un sorriso – più una smorfia che altro, a giudicare dalla sua risata quando ricambia la stretta sulle mie dita fredde.
Sento la voce di Zayn arrivarmi alle orecchie solo a sera, quando lo sento chiamare me e Louis da pochi metri di distanza; il mio migliore amico mi ha convinta a fare due passi lungo il corridoio nonostante mi sentissi debole, e devo ammettere che gli sono grata, molto. Mi ha fatta distrarre tutto il pomeriggio, descrivendomi il corridoio di oncologia come fosse lo scenario di una sparatoria con annesso inseguimento del criminale. E, davvero, credo di non aver mai riso così tanto per così poco.
Il «Ciao, piccola» allegro e spensierato di Zayn riesce a farmi morire una risata in gola, rischiando di farmi strozzare con un suono. Altro che il proverbiale strozzarsi con la saliva. Lui ridacchia, abbracciandomi e lasciandomi un bacio lievissimo sulla fronte, che fa sospirare Louis. Lo sento anche borbottare qualcosa, ma il fatto che il mio ragazzo mi tenga tanto stretta da riuscire a sollevarmi da terra per baciarmi sulle labbra mi distrae da tutto il resto.
«L’orario di visita è quasi finito», gli faccio notare arrossendo appena dopo aver ricambiato il bacio. Mi fa ancora strano baciarlo davanti a tutti, con lo sguardo di tutti addosso, con i mormorii che mi accompagnano da quella che mi sembra una vita, quando al contrario sono solo poco più di tre anni. Louis mi saluta  con un bacio su una guancia appena Zayn mi rimette giù, infatti. Ma il mio ragazzo sembra non avere intenzione di andarsene, per niente al mondo. «Ti farai cacciare…», mormoro ridacchiando, quando mi risolleva da terra iniziando a camminare verso la mia camera. A dire il vero non me ne frega un accidente dell’orario di visita, non me n’è mai importato di meno.
«E’ possibile che io abbia corrotto le infermiere per farmi restare tutta la notte», mi sussurra contro l’orecchio senza lasciarmi andare. Rabbrividisco, trattenendo una risata e lasciando che le sue mani scivolino sotto il camice, ad accarezzarmi la parte bassa della schiena e le cosce nude. Stringo la presa sulle sue spalle e mi lascio andare ad un sospiro, ripensando alle parole “tutta la notte”. «Ho promesso loro un caffè, in cambio di poter restare quanto voglio…». Lo sento scendere con le labbra lungo il mio collo, nella più piacevole delle torture, mentre le sue mani mi si arrampicano lungo la schiena, portandosi dietro il sottile pezzo di stoffa che mi copre.
«Tutta la notte?», chiedo per conferma, praticamente contro le sue labbra.
«Tutta la notte».

Giorno 4.
Ho sempre pensato che Victoria non fosse in grado di svegliare le persone con grazia. Per esperienza personale, la mia migliore amica salta addosso alle persone per svegliarle, urla, scuote, strepita, si scandalizza per niente. Beh, scopro di aver ragione – per una volta – quando la sento gridare di prima mattina, il che mi fa sobbalzare e aprire gli occhi di scatto, con la mano stretta spasmodicamente sulla maglietta di Zayn, che si irrigidisce sotto di me borbottando qualcosa di poco comprensibile.
Richiudo gli occhi, infastidita dalla luce, e mi accoccolo un po’ di più contro il petto del moro, ignorando le urla da assatanata della mia migliore amica. Mi riscuoto solo quando mi rendo conto del fastidio, della luce che mi è sembrato di vedere quando ho aperto gli occhi di soprassalto.
«Vic… chiama il dottor Harrison…», riesco a dire con la voce tutto sommato piuttosto ferma. Mi sollevo a sedere facendo leva su una braccio, appoggiandomi tranquillamente al petto di Zayn, che alle mie parole sembra svegliarsi del tutto, chiedendomi cosa ci sia che non va. Riapro gli occhi sperando che per una volta non sia stato solo un sogno e… è tutto troppo luminoso e terribilmente sfocato, tanto a costringermi a riabbassare le palpebre per il fastidio. È come se avessero riacceso la luce dopo anni di buio, e a stento mi trattengo dal mettermi a piangere. «E’ possibile che io stia svalvolando, ma ti giuro che vedo tanta luce, se apro gli occhi…».
La mia migliore amica si decide finalmente ad uscire dalla stanza, a quelle parole, e il mio ragazzo si tira a sedere, cingendomi un fianco e baciandomi una spalla. Apparentemente tranquillo, ma le labbra gli tremano contro la mia pelle e la mano che mi stringe il fianco stringe quasi abbastanza da rischiare di farmi male.
«Ti credo, lo sai…».
Annuisco a stento, provando a riaprire gli occhi. Fa meno male, ma non da meno fastidio. Tengo le palpebre sollevate solo per provare a capirci qualcosa. Mi sento come se un raggio di sole mi colpisse in pieno viso, rendendo tutto sfocato e poco visibile; è tutto troppo confuso e poco a fuoco perché possa vedere davvero qualcosa, ma è luce, e non posso fare a meno di ridacchiare, portandomi una mano davanti al viso e vedendone i contorni immersi nella luce, col resto della stanza che ai miei occhi rimane di qualche tono più chiaro, meno luminoso. Mi viene da ridere, e non riesco a trattenermi, facendo ridacchiare anche Zayn, davanti a tanto entusiasmo.
Poi è il solito fiume di parole del medico, che però non mi fa perdere il sorriso, mentre continuo a guardare affascinata le scie e le macchie di luce chiara che riempiono il mio campo visivo. Mi accorgo che l’intensità della luce cambia a seconda di quello che i miei occhi puntano, come se le mie iridi avessero una specie di filtro che mi fa vedere più luminose le cose chiare e meno accecanti gli oggetti scuri, come un vecchio film in bianco e nero visto da dietro una spessa vetrata che riflette la luce.
«Come faccio ad abituarmi a tutta questa luce?», chiedo ad un certo punto, e Zayn scoppia a ridere, poco lontano da me. Inarco un sopracciglio, contrariata, e mi rendo conto che forse non sono stata attenta a quel che diceva il medico, come sempre. Mi passo una mano dietro il collo, grattandolo soprappensiero e arrossendo violentemente. «Ero distratta dalle macchie di luce…», cerco di giustificarmi provando a trattenere un sorriso, senza troppo successo, a giudicare dalle due risate che mi riempiono le orecchie.
E «Occhiali da sole», mi dice semplicemente il dottor Harrison. Lo sento sorridere entusiasta, e il grazie che mi lascia le labbra vale più di qualsiasi altra parola avessi potuto dire, a giudicare dal suo borbottio imbarazzato. Grazie, di tutto.

Giorno 5.
Sono l’unica paziente a girare dentro l’ospedale con gli occhiali da sole, in pieno inverno e con la neve che cade fuori dalle finestre. Le lenti mi proteggono dalla troppa e improvvisa luce che i miei occhi ora riescono a vedere, lo so. Mi permettono di tenere le palpebre sollevate, di essere reattiva alla luce come non lo ero dall’incidente, quando i fari dell’altra auto ci hanno illuminati a giorno, costringendomi a coprirmi gli per la troppa luce.
Sono l’unica ragazza di vent’anni con un tumore presumibilmente rimossomi interamente dal cranio, con un foulard di non so che colore in testa per coprire l’immenso cerotto che protegge l’immensa cicatrice che ho alla testa. L’unica in quell’ospedale ad avere un ragazzo – anch’esso rasato a zero – che cerca di farmi ridere continuamente, nonostante la situazione.
Sono l’unica a riuscire a ridere davvero, in una situazione del genere. L’unica a sorridere dopo aver vomitato l’anima per la terza volta in meno di una settimana. L’unica a riuscire a ridere dopo una dissacrante e massacrante seduta di chemio terapia.
«I contorni delle cose li vedo, amore!», gli ripeto per la millesima volta scoppiando a ridere, quando mi tira a sé per non farmi andare a sbattere contro qualcosa – forse un carrello delle infermiere. Lo sento borbottare qualcosa, prima che mi dica verso che reparto stiamo andando. Un giro un pediatria, tanto per restare allegri. Allora mi fermo all’improvviso e gli stampo un bacio su una guancia, fin troppo vicino alle labbra.
«Lo sai che ti amo, vero?».
«Lo so». Mormoro una conferma abbassando le palpebre e accennando un sorriso. «Perché pediatria?», gli chiedo poi lasciando che mi riprenda a braccetto e intrecci le mie dita con le sue. Lo sento prendere un respiro profondo, e l’aria tiepida mi arriva sull’orecchio, facendomi rabbrividire. Immagini di bambini costretti in ospedale mi riempiono la mente in bianco e nero e il cuore a colori, facendomi quasi male, ma proprio non capisco perché pediatria.
«Da piccolo mi sono rotto una gamba e il polso cadendo dalla casa sull’albero, mi hanno tenuto in ospedale qualcosa come un mese… ed è stato quando abbiamo scoperto che Doniya era ipovedente», lo sento aggiungere dopo qualche istante, mentre le immagini di un piccolo Zayn costretto a letto mi riempiono la mente, facendomi mordere un labbro per non interromperlo quando arriva a parlare della sorella. «Aveva otto anni, ed era nella mia stanza qui nel reparto… inciampò in uno sgabello di quelli piccoli, di plastica… batté il ginocchio e il naso sul pavimento, giurando poi che per un momento non aveva visto assolutamente nulla». Provo ad annuire, ma riesco a malapena a respirare, davanti ad una cosa del genere. Capisco dove vuole arrivare solo quando continua a parlare, e solo dopo avermi stretto la mano più forte. «Credevo fosse colpa mia, se lei non vedeva più… e anche se mia madre mi diceva che non era così, io mi sono sempre sentito un po’ in colpa per Doniya…».
«Dove vuoi arrivare?».
Ci fermiamo dopo qualche istante, apparentemente in mezzo al corridoio, dato che vedo solo punti di luce e qualche contorno. Non saprei ben dire se siamo fermi davanti ad una porta, al muro vuoto, ad un’infermiera o a qualsiasi altra cosa. Ma prendo comunque un respiro profondo, aspettando che lui continui a parlare. Ho bisogno che continui, con tutto il cuore.
«Con te sta succedendo l’esatto contrario, in qualche modo… e volevo che tu sapessi come mi fai sentire ogni giorno, come mi sento quando ti tengo per mano, o ti bacio, o quando facciamo l’amore… volevo che tu sapessi che il mio mondo era in bianco e nero, prima che arrivassi tu…».
Sento di avere le lacrime agli occhi, ma sinceramente non mi importa, quando lo fermo con un gesto della mano, prima di sfilarmi gli occhiali da sole. È cambiato qualcosa, ancora. Qualcosa che mi fa portare una mano alla bocca e trattenermi a stento dall’urlare, dallo scoppiare a ridere o dal baciarlo così, in mezzo ad un corridoio dalle pareti celesti e con gli occhi aperti per non perdermi più nulla, mai più.
Sono solo macchie. Oggetti smussati, poco a fuoco, troppo saturi di luce perché possa riuscire a distinguerli davvero. Ma sono macchie di colore. Distinguo la parete celeste, dietro la sagoma poco definita del mio ragazzo; distinguo i camici rosa delle infermiere; il bianco immacolato delle porte delle stanze. Distinguo il maglioncino rosso che indossa Zayn e i pantaloni scuri.
Mi viene da piangere. Piangere come non ho mai fatto e baciarlo come non ho mai avuto possibilità di fare davvero, perché sostanzialmente in questi pochi mesi sono sempre andata alla cieca. Sento una lacrima bollente scivolarmi lungo la guancia e finire sulle labbra; sento il sapore del sale sulla lingua non appena ne passo la punta su di esse. Sento il respiro di Zayn farsi incerto, confuso, impaurito.
«Fino a poco tempo fa credevo di dover rimanere nel buio per il resto del miei giorni… tu mi hai dato una luce, la promessa di vedere il mare, un cuore capace di amarmi come nessuno aveva mai fatto e… i colori, amore. Mi hai appena ridato i colori», mormoro, senza riuscire a trattenermi dal ridere tra le lacrime, soprattutto sulle ultime parole.
E non credevo qualcuno potesse stringere qualcun altro come lui sta stringendo me.

Giorno 6.
Non ho intenzione di descrivere la risonanza magnetica che mi hanno fatto questa mattina. Non ci tengo a rivivere un ago infilato nel braccio e la sensazione di freddo per tutto il corpo, né il momento in cui due infermiere mi hanno fatta sdraiare sul piano del macchinario, prima di accenderlo e farmi finire in quello che so essere un tunnel, che fa un rumore allucinante, detto tra noi.
Ho chiuso gli occhi e cercato di chiudere anche le orecchie, pensando a tutt’altro e rimanendo ferma e immobile mentre mi analizzavano il cervello. Niente di nuovo, la parte in cui qualcuno mi analizza; sono una cavia da laboratorio, la ragazza sopravvissuta ad un incidente d’auto mortale, che ha perso la vista ma non per colpa dell’incidente, che dopo tre anni scopre di avere una massa che preme su qualche strano e minuscolo organo, che si fa riempire di aghi e aprire la testa, pur di risolvere qualcosa.
Ho riavuto la luce. Ho riavuto i colori.
All’incirca, certo. Non vedo come vedevo prima dell’incidente, ma quell’eterno ottimista che è il mio medico è fiducioso che con passare dei giorni io possa mettere a fuoco tutto. Potrebbe anche succedere da un momento all’altro, ma devo essere onesta, non ci credo più di tanto. Magari ha ragione, certo, ma senza la mano di Zayn nella mia non credo ad un accidente.
Credo solo che mi scoppierà la testa e di questo passo le mie braccia diventeranno uno scolapasta, con tutti i buchi che devono subire e il rumore dei macchinari costantemente nelle orecchie – non scherzo quando dico che lo sento anche quando dormo, il che è il motivo principale per cui odio gli ospedali, ma questa è un’altra storia.
È quando vengo riaccompagnata in camera e i medici iniziano a parlare, che mi accorgo veramente dell’assenza di Zayn. Charlotte e Harry mi hanno detto che è al lavoro, ma sta facendo i doppi turni da due giorni, se è vero, e non ne capisco il motivo. I suoi migliori amici non hanno voluto dirmelo, e non li biasimo… solo, detesto che non mi si dicano le cose come stanno davvero. Non mi va a genio come comportamento, soprattutto se è lui a non dirmi le cose, a mentirmi. Certo, mia madre mi stringe la mano come forse non l’ha mai stretta, con più speranza di quanto non abbia mai avuto da tre anni a questa parte. Ma no, non è proprio la stessa cosa.
Comunque sia, il dottor Harrison e la dottoressa Blackwood mi informano che dalla risonanza non si vede assolutamente nulla di anomalo – il che è una bellissima notizia –, che il tumore è completamente scomparso dalla mia vita, che non si dovrebbe riformare e che posso addirittura sospendere le sedute di chemio. Tutte notizie incredibilmente belle, per cui mia madre scoppia a piangere contro la mia spalla, ma io non riesco a dire niente, né a sorridere.
«Tesoro, è fantastico… non sei contenta?».
«Al settimo cielo», riesco a mentire, col sorriso più finto di sempre sul viso. Lei non sembra accorgersene, i medici continuano a parlare, e io torno ad essere una cavia per gli esperimenti, alla quale dicono i risultati di essi senza che lei abbia la possibilità di capirli davvero.
Ma nessuno se ne accorge, e io riesco ad accennare un sorriso solo quando sento la voce di Zayn nelle orecchie. Nessuno si rende conto di quel sorriso, di come lo stringo e di come maschero la tristezza. Nessuno dice niente, e io ho la conferma del fatto che nessuno di loro mi conosce abbastanza bene da capirlo, nemmeno mia madre.
Sorrido, ci passo sopra. È solo un momento no.

Giorno 7.
È la luce a svegliarmi. È strano, dio. Mi sveglia il fastidio della luce contro le palpebre. Ricordavo a stento come fosse svegliarsi per la troppa luce, ed è strano da morire che io stia provando di nuovo quella sensazione, quando fino a poco tempo fa credevo che avrei vissuto al buio per il resto della vita.
Più strano ancora, è il fatto che io debba subito chiudere gli occhi, una volta aperti. Non è la stessa sensazione di qualche giorno fa, con le macchie di luce, le macchie di colore. Questa volta chiudo gli occhi per il fastidio del riflesso della luce che entra dalla finestra, sul muro di un grigio chiarissimo. Trattengo il respiro, davanti a quella scoperta… non posso aver sognato l’esatto colore della vernice con cui è stata dipinta quella parete che non ho mai visto prima, come non posso aver immaginato il riflesso della luce su di essa senza averla vista davvero.
E riaprendo gli occhi, con le mani strette nel lenzuolo dell’ospedale tanto da rischiare di strapparlo, metto a fuoco. Apro la bocca come per dire qualcosa, ma faccio fatica a respirare, quando vedo finalmente qualcosa che non sia buio, qualcosa che non siano macchie poco distinte di luce e di colore. Le prime cose che vedo sono il muro grigio, il divanetto di pelle nera dall’altra parte della stanza, il rosso fuoco dei capelli di Charlotte e gli occhi verdi di Harry, che mi guardano spaesati, come si fosse accorto che effettivamente qualcosa è cambiato.
Mi prendo qualche istante per osservarli, ora che posso. Lui, seduto un po’ scomposto, coi capelli scompigliati, gli occhi sgranati e le labbra schiuse, e una mano tra i capelli rossi di lei, la cui testa è posata sulle sue cosce, mentre il suo corpo minuto è rannicchiato sulla parte libera del divano, fasciato da un paio di jeans scuri strappati sulle ginocchia e un maglione grigio piombo di parecchie taglie più grandi, che sospetto essere del suo ragazzo, magari rubato non troppo di nascosto dal suo armadio.
Sposto lo sguardo reso appannato dalle lacrime verso il basso, verso le mie mani, e finalmente sento Harry realizzare cosa sia appena accaduto, il fatto che io li abbia appena visti, visti davvero, non solo immaginati. «Cazzo, ci vedi…», lo sento imprecare mentre io mi osservo le dita, incantata dalla loro forma, dal colore della mia pelle rosa chiaro, dalle unghie che forse sono troppo lunghe ma mi piacciono da impazzire. «Charlie, svegliati, porca puttana!». E scoppio a ridere, non posso farne a meno. Forse è proprio la mia risata che la sveglia del tutto, che le fa aprire gli occhi – credo castani – e le fa dare uno schiaffo sulla gamba al suo ragazzo.
«Che cazzo, Harry…». Si interrompe alzando lo sguardo verso di me, che ancora mi guardo le mani come fossero la miglior scoperta di sempre, la cosa più bella che abbia mai visto. «Cazzo, ci vede! Ci vedi!», esclama saltando su dal divano e rischiando di inciampare nei suoi stessi piedi, mentre la vedo saltellare euforica e battere le mani, prima di passarsele tra i capelli rossi e praticamente saltarmi addosso, facendo ridere sia me che il suo ragazzo, che vedo con la coda dell’occhio alzarci e venirci incontro, fermandosi in fondo al mio letto.
«Ci vedo, ma calmati», le dico ridendo accarezzandole i capelli e guardando Harry con gli occhi lucidi e un sorriso che si riflette anche sul suo viso, pochi secondi più tardi. Charlotte mi stringe forte, scoppiando poi a piangere sulla mia spalla, singhiozzando di gioia. «Calmati, Char… respira», scherzo allontanandola di qualche centimetro per guardarla negli occhi. Le asciugo le lacrime con un sorriso e le poso un bacio sulla fronte. «Me lo fai un favore? Chiamate tutti tranne Zayn».
E vedo Harry annuire con una mezza risata, prima che la sua ragazza riprenda a stringermi e a baciarmi le guance ridendo ogni volta che i miei occhi incontrano i suoi. Ride, Charlotte, e viene da ridere anche a me.
Il dottor Harrison mi visita senza smettere di sorridere. Controlla la reattività delle mie pupille, il colore delle mie iridi e la cicatrice alla testa. Mi stacca dagli ultimi aghi e dagli ultimi elettrodi ridacchiando, mormorando quanto avesse sognato quel momento e abbracciandomi. E io, che non avevo mai creduto di poter abbracciare un medico, ricambio l’abbraccio con l’ombra di una risata imbarazzata ma terribilmente grata. È il mio modo di ringraziarlo, senza bisogno di parlare, per tutto quello che ha fatto per me, testardaggine e antipatia apparente comprese.
Victoria non riesce a smettere di piangere.
La vedo entrare con una mano nei capelli e la treccia sfatta, con mio cugino e mia madre subito dietro, mentre io ed Harry siamo a piedi nudi sul linoleum, a ridere e guardarci le dita ed è come se rimparassi a camminare, come se dovessi ritrovare l’equilibrio ora che non ho più bisogno del bastone né di appoggiarmi necessariamente ad altri mentre cammino. Vedo dove sto andando, ed è una gran bella sensazione, soprattutto quando mi accorgo di quanto siano grandi i piedi del riccio rispetto ai miei, piccoli e pallidi.
Alzo lo sguardo sulla porta, e non c’è niente di meglio che accorgersi di quanto sia bella la mia migliore amica, con la carnagione color cappuccino che impallidisce nel giro di un istante, gli occhi castani sgranati e increduli, le labbra che le tremano e una lacrima che le scende lungo la guancia senza che nemmeno ne sappia il motivo. Non c’è niente di meglio che notare quanto sia cresciuto mio cugino in tre anni, notare il velo di barba e gli occhi color nocciola che sembrano brillare solo per Victoria, che non si muove se non quando lui le dice qualcosa in un orecchio, troppo piano perché io possa sentirlo davvero.
Allora piange, senza riuscire a smettere.
«Chi devo ringraziare per il miracolo?», sento sussurrare da mia madre mentre la mia migliore amica si decide ad abbracciarmi, guancia contro guancia, il suo respiro rotto dalle lacrime che mi penetra nelle orecchie come una macabra ninna nanna. E sorrido debolmente a mia madre, facendo cenno a lei e a mio cugino di venire ad abbracciarmi, un po’ perché mi sono mancati, un po’ perché ora che li vedo non ho intenzione di smettere di farlo. «Zayn non c’è, tesoro?». Scuoto la testa, facendole un occhiolino, che la fa ridere e le fa capire al volo tutto quanto, per fortuna. Non ho voglia di spiegarle che non l’ho fatto chiamare apposta…
«Siamo tutti qui riuniti perché…». Il flusso dei miei pensieri viene interrotto dalla voce ironica del mio migliore amico, fermo sulla porta coi capelli scompigliati, il maglione infilato di corsa e la giacca tenuta sotto braccio. Di Eleanor non c’è traccia, a quanto pare. Ma io proprio non riesco a smettere di guardare lui, portandomi velocemente una mano davanti alla bocca per non urlare di gioia. Lui e i suoi capelli che sono castani ma alla luce dei neon sembrano più chiari e al sole sembrano quasi rossi; lui e l’accenno di barba di cui tre anni fa non c’era traccia; lui e i suoi occhi azzurri che sono del colore del cielo e delle mie stesse iridi. «Cosa…?». Si rende conto delle lacrime di tutti gli altri e dei loro sorrisi a trentadue denti, poi si accorge che lo sto guardando – guardando davvero – e mi si avvicina di qualche passo, prima di tirarmi a sé e sollevarmi da terra, senza fare niente che non sia stringermi e senza dire niente, senza nemmeno piangere.
«Ciao, Lou», mormoro contro il suo orecchio, aggrappandomi ai suoi capelli per non scivolare dal suo abbraccio, anche se quasi mi sta stritolando.
«Mi sono mancati, i tuoi occhi».
«E a me i tuoi», ammetto stringendolo più forte.
Sono andati via tutti, quando mi incanto a guardare fuori dalla finestra, seduta con le ginocchia al petto sul davanzale interno. Ignoro il mio riflesso sul vetro – gli occhi che mi sembrano troppo grandi e troppo azzurri, i capelli biondo chiaro che stanno ricrescendo troppo lentamente e le labbra rosse e un po’screpolate – e mi concentro sulla caduta lenta dei fiocchi di neve persi nel vento e che vorticano come impazziti, prima di toccare finalmente terra e unirsi ad altri fiocchi, ad altra neve, ad altro freddo.
Da bambina volevo essere un fiocco di neve, mi piaceva l’idea di cadere vorticando nel cielo e non sapere esattamente dove sarei atterrata e a quali fiocchi mi sarei mischiata. Mamma mi prendeva in giro, dicendo che ero già un fiocco di neve e non lo sapevo, che i miei capelli quasi bianchi erano raggi di sole congelati, e che i miei occhi erano color del ghiaccio. Allora mettevo il broncio e incrociavo le braccia al petto, finché lei non si arrendeva ridacchiando, promettendomi una tazza di cioccolata calda.
Sorrido, al pensiero, sentendo poi una mano posarmisi sulla spalla e saltando dalla sorpresa. Non mi sono accorta della porta che si apriva, né dei passi sul linoleum. Non mi sono accorta di nulla, troppo concentrata sui miei pensieri e sulla neve che cade senza fare rumore e sul fatto che non riesco a smettere di guardarmi le unghie delle mani e le gambe lasciate scoperte dal camice troppo corto e le caviglie sottili e tutte quelle parti di me che ho potuto solo sentire e mai vedere, per troppo tempo.
E la mano di Zayn sulla spalla fa sì che il mio cuore prenda a battere ad una velocità assurda, irreale. Prendo un respiro profondo ignorando il suo riflesso sulla finestra e «Eri soprappensiero?». Annuisco con un mezzo sorriso, prima di voltarmi e… rimanere a bocca aperta. Inarca un sopracciglio, stranito dalla mia reazione, e capisco che gli altri devono aver seguito le mie indicazioni, tenendo la bocca chiusa. Per Zayn io sono ancora cieca, e non ho proprio idea di come spiegargli che lo vedo, che mi viene da ridere e che lo bacerei fino a starne male. «Amore…». Gli poso due dita sulle labbra, alzandomi poi in piedi e provando ad ignorare gli occhi che gli si sgranano e il sorriso che comprare sotto i miei polpastrelli.
Mi sono alzata in piedi come una che ci vede, non ho potuto evitarlo.
Come non posso evitare di guardarlo, di studiarlo in silenzio, senza dire niente perché semplicemente non c’è alcun bisogno di parlare. Guardo la pelle color caffelatte, gli zigomi un po’ rossi per il freddo che deve far fuori, il velo di barba ispida che gli ricopre le guance; osservo il profilo del naso diritto, le sopracciglia folte e i capelli nero carbone che stanno ricrescendo lentamente dalla sua pelle; liscio con un dito la piccola ruga che gli si è formata tra sopracciglia, ammiro le ciglia lunghe e nere, con la loro ombra proiettata sugli zigomi e il leggero sfarfallare che fanno perché lui possa trattenersi dal piangere.
«Non dare di matto, okay?», mormoro pianissimo prendendogli una mano, intrecciandone le dita e portandomele sul petto, sul cuore che batte forte, troppo forte perché possa cercare di controllarlo con un respiro profondo. Ride, contro le mie dita; ride, e quando quel suono raggiunge le mie orecchie viene da ridere anche me, senza che riesca a trattenermi. «Fa strano dire “ti amo dal primo momento in cui ti ho visto”, perché io ti amo dal primo momento in cui ti ho sentito, in cui ti ho toccato quel giorno sulla metro… fa strano perché io ti vedo solo ora», aggiungo con un sorriso alzandomi in punta di piedi per catturare una lacrima prima che si perda nella sua barba come una goccia di rugiada nella foresta.
«E’ addirittura più strano del fatto che io mi sia innamorato dei tuoi occhi senza che essi mi avessero mai visto», mormora sfiorandomi il collo e l’attaccatura dei capelli con due dita. Stavolta è il turno di sbattere le palpebre per non scoppiare in lacrime, e Zayn ridacchia, con gli occhi che gli si illuminano di uno strano riflesso celeste e un sorriso da far invidia alla più bella delle stelle, coi denti bianchissimi a mordere la punta della lingua.
E ci penso, a quelle poche parole.
Ci penso, fino a che finalmente non mi azzardo a guardarlo negli occhi.
Forse sono castani, o color nocciola. Ma c’è dell’ambra, del miele e qualche goccia di cioccolato fuso. Sono più chiari e limpidi vicino alla pupilla, e scuriscono a mano a mano che ci si allontana da essa, fino a sembrare quasi neri al confine dell’iride. C’è del verde, in quegli occhi, e del nero, qualcosa che ricorda le nuvole cariche di pioggia. C’è lui, in quelle iridi. Mi accorgo appena delle lacrime che mi sfuggono guardando quegli occhi, perché Zayn le cattura con le dita e le spazza via come la neve che cade di fuori viene spazzata via dal vento. E c’è del celeste, nelle sue iridi, che capisco essere il riflesso delle mie quando per un istante distoglie lo sguardo, ed esso sparisce così come è comparso.
«Devo far notare a Victoria che non hai gli occhi castani, sai?».
Lui ride, direttamente sulle mie labbra. Ride sollevandomi da terra e mentre gli cingo il bacino con le gambe. Continua a ridere, e io con lui, facendo finalmente collidere le sue labbra con le mie. Mi toglie il fiato, mi ruba ossigeno, si appropria di parte del mio cuore, solo con le sue labbra che si muovono piano sulle mie. «Hai qualche vestito che non sia questo camice?». Annuisco senza capire, ancora sulle sua labbra e con un sopracciglio leggermente inarcato per la confusione. «Devo farti vedere una cosa…».
Ed è all’improvviso che mi viene in mente una cosa.
L’unica spiegazione plausibile alla sua assenza dei giorni precedenti.
«Ti amo», mormoro dandogli un ultimo bacio sulle labbra, prima che il suo “anch’io” mi riempia le orecchie della melodia migliore di sempre; o, almeno, della melodia migliore che io abbia mai sentito.


 


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