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Autore: daisyssins    27/11/2014    12 recensioni
"...Le sembrava quasi impossibile non dare “troppo peso” ad una persona come Luke Hemmings, perché certe persone, quando ti entrano dentro, non è che tu possa farci un granché. Lei lo odiava, non aveva mai odiato tanto una persona quanto lui, sapeva chi era, aveva paura di lui, una fottuta paura, perché le ricordava tutto quello da cui stava scappando."
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«Sei strana. E sei bellissima» sussurrò lui come se fosse la cosa più naturale del mondo, facendo scorrere le dita tra i capelli corti della ragazza.
Phillis sbottò in una breve risata sarcastica, prima di «E tu sei matto.» rispondere divertita.
«Io sarò anche matto, ma tu resti strana. E bellissima.»
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«Luke, ho paura, stai perdendo sangue..»
«Ancora non te l'hanno insegnato, Phillis? Il sangue è il problema minore. E' questo ciò che succede quando cadi a pezzi.»
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La verità ha un peso che non tutti, e non sempre, hanno la forza di reggere.
Trailer Pieces: https://www.youtube.com/watch?v=vDjiY7tFH8U&feature=youtu.be
Genere: Angst, Drammatico, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Luke Hemmings, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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Should've been here.

Quella sera, Phillis tornò a casa accompagnata dalle chiacchiere insensate di Lucy, che cercava in tutti i modi di distrarla.
Parlava, l’amica, perché solo questo le veniva in mente di fare; cercava di coprire con le proprie parole tranquillizzanti il caos di pensieri che si annidava nella mente di Phillis, senza lasciarle scampo.
Ma, prima o poi, alle proprie paure bisogna far fronte.
E per Phillis questo momento arrivò  quando non appena entrò in casa fu colpita da uno schiaffo talmente forte da girarle il viso, da farle mancare il respiro per qualche momento.
“Potrei dirti di tutto, arrabbiata come sono, ma mi trattengo. Uno schiaffo solo è molto meno di quello che meriti, ma io le mani con te non me le sporco. L’ho sempre saputo che saresti stata una delusione”
Una delusione. Chissà perché, quelle parole non la sorprendevano più di tanto. Lo aveva capito anni addietro che qualsiasi cosa avrebbe fatto  non sarebbe mai stata capace di andare bene, di sentirsi giusta. All’altezza delle aspettative. Si strinse nelle spalle, guardò negli occhi sua madre, quella madre che mai come allora le era sembrata così diversa da lei.
“Austin è tornato” pronunciò poi lapidaria, prima di allontanarsi senza aspettare ulteriormente lasciando sua madre lì, da sola in quell’ingresso, con un’espressione indecifrabile dipinta sul volto.
Si passò le mani sul viso stancamente, dirigendosi verso il salotto.
“Phillis. Possiamo parlare un attimo?”.
Suo padre. Aveva quasi dimenticato che era tornato, rimuovendo anche la fuga di quella mattina da scuola, il pedinamento, Luke. Aveva rimosso tutto quello che era successo prima. Phillis si arrestò nell’atto di salire le scale, tornando sui propri passi. Suo padre era lì, seduto sul divano chiaro del soggiorno, un quotidiano aperto sulle gambe accavallate. Sembrava che quei mesi non gli fossero mai passati addosso, che lui non si fosse mai mosso di lì. Eppure quei mesi c’erano stati. Così come c’era stata la sua assenza, si era sentita, Phillis l’aveva percepita chiaramente. Certe volte ciò che ci manca è più presente di ciò che c’è, e lei lo sapeva: aveva dato per scontato la presenza di suo padre, come qualcosa di ovvio, che dovesse esserci per forza; era andata avanti così, gli aveva voluto bene, Phillis lo ricordava. Così come ricordava il momento – non molti anni addietro – in cui aveva capito che niente dura per sempre, niente resta immutato. Così il suo affetto per suo padre si era presto consumato, insieme al rispetto che provava per quell’uomo che, da cinque anni a quella parte, l’aveva abbandonata.
Si fermò, Phillis, e cercò disperatamente in sé il coraggio di guardare negli occhi quell’uomo; lo fece, ed il suo cuore subì un’altra pugnalata, l’ennesima. Si chiese distrattamente a quanti colpi avrebbe potuto resistere il suo organo vitale, prima di fermare la propria corsa. A quanto pareva, fin troppi.
“Perché sei scappata, stamattina?”
“Non sono scappata. Ho preso una via secondaria”.
Suo padre abbassò gli occhi sulle proprie scarpe, rise con sarcasmo. “Certo che non sei scappata. Ti sei solo allontanata a passo veloce, giusto? Ma la domanda resta quella”.
La ragazza scrollò le spalle, abbassando lo sguardo.
“Forse non mi andava di vederti. Dopo tanti mesi, forse avevo paura.”
“Di cosa?”. La domanda del padre risuonò preoccupata, quasi ansiosa, come se temesse la risposta.
Phillis sospirò e “Di guardarti negli occhi e non riconoscerti” parlò flebilmente.
Poté scorgere chiaramente la tensione annidarsi dietro gli occhi di suo padre, che sospirò pesantemente. Portò una mano a scompigliare i capelli già disordinati di loro, un gesto che – Phillis poté ricordare – era solito compiere quando era nervoso. C’erano tante cose che avevano caratterizzato suo padre, e che adesso non sapeva nemmeno se valessero più. Avrebbe voluto chiederglielo. Sapere se aveva ancora la stessa risata, allegra e un po’ singhiozzante, o se il fumo delle sigarette che non si decideva ad abbandonare l’aveva cambiata. Avrebbe voluto sapere se era ancora pistacchio e fragola, il suo frappè preferito, gli stessi gusti che amava anche lei. Avrebbe voluto chiedergli se suonava ancora la chitarra, se componeva ancora canzoni per lei, anche se era lontano, anche se lei comunque non avrebbe potuto più ascoltarle. Avrebbe voluto sapere se durante i giorni umidi gli faceva ancora male il ginocchio al quale si operò tanti anni prima.
C’erano così tante cose che avrebbe voluto chiedere a suo padre, e che probabilmente non gli avrebbe chiesto mai. Stette in silenzio, Phillis, con lo sguardo basso ed uno strano peso sul petto, ad aspettare che fosse proprio lui a rompere quel silenzio.
E, dopo alcuni attimi, suo padre lo fece per davvero.
“Tua madre non intendeva dire davvero quelle cose, sai. È solo nervosa. Ti vuole bene, tanto.”
Phillis annuì. “Certo. Certo che mi vuole bene, è mia madre”.
Pronunciò quelle parole nelle quali non credeva neanche lei, le pronunciò in maniera consapevole, convincente. Sarebbe quasi potuta sembrare sincera, agli occhi di qualcuno che non la conosceva bene. Qualcuno come suo padre.
“Già. Ovvio che lo sai, la conosci meglio di me. Sai com’è fatta. È solo preoccupata. Le passerà presto, vedrai”.
“Sì. Ora scusami, sono stanca. Vado di sopra, non aspettatemi per la cena”.
E, detto ciò, Phillis si allontanò, lasciandosi alle spalle suo padre e tutti i ricordi che portava con sé.


Solita camera dalle pareti blu notte.
Solita ragazza dai capelli chiari, solito corpo sottile, solito letto bianco.
Solite parole di una solita canzone, che però questa volta fanno male, un po’ più del solito. Perché a volte “Torn”, di Natalie Imbruglia, è semplicemente troppo.
Perché Phillis stava male, aveva pianto tanto, quel pomeriggio. Così tanto che adesso era esausta di cacciare lacrime su lacrime, così tanto che ormai non le riusciva neanche più, di piangere.
Sembrava una disperata. Se ne stava raggomitolata in posizione su quel letto da ore senza far nulla. Fissava la parete e continuava ad ascoltare a ripetizione quella canzone, alternandola solo ogni tanto con “Breakeven” degli Script.
Perché ci sono cose che non sai esprimere, a volte, sensazioni troppo forti e troppo sconvolgenti perché tu riesca a scegliere le parole da usare per descriverle. Era in momenti come quelli che Phillis schiacciava il tasto “play” sul suo cellulare, e lasciava che la musica parlasse al posto suo.
Il problema era che lei l’avrebbe perdonato, Austin.
Che le sarebbe bastato guardare quegli occhi che conosceva tanto bene e sentirlo dire che era tutto un malinteso, che lui l’amava. Le sarebbero andate bene anche le parole, questo era il problema.
Se era di Austin che si trattava, lei si sarebbe lasciata fregare ancora, una volta in più.
Era immersa nel silenzio da ore, e neanche i suoi genitori avevano pensato a disturbarla: non c’era stata sua madre che le faceva pressioni affinché non saltasse la cena, e neanche suo padre che le ricordasse che erano pochi, i momenti in cui potevano stare insieme. C’era stata solo lei e quella stanza che sembrava essersi impregnata di tutto ciò che provava. Si sentiva quasi apatica, in un certo senso, privata di ogni emozione.
Ogni singola cosa avesse provato fino a quel momento era scomparsa, l’aveva abbandonata per andare a saturare l’aria di quella stanza scura. Si era quasi abituata a quel silenzio, motivo per cui sobbalzò, quando le note di “Romeo and Juliet” risuonarono per la stanza, avvisandola di una nuova chiamata.
Phillis si portò il cellulare all’orecchio senza premurarsi di controllare chi avrebbe trovato, dall’altro capo del telefono.
“Pronto?”. La sua voce risuonava quasi rauca, dopo tante ore passate in silenzio.
“Phillis, sono Cal.”
“Cal… Calum?”
Il ragazzo, dall’altra parte, rise.
“Quanti altri Cal conosci, di preciso?”
“Sì, è molto divertente. Cosa c’è, Calum?”
“Niente. Cioè, non è proprio niente. Stasera siamo all’inaugurazione di un nuovo locale. Vuoi venire?”
Phillis si morse una guancia, sovrappensiero. Se le faceva quella domanda, probabilmente significava che Luke non gli aveva parlato di ciò che era successo quella mattina. Luke. Al solo pensiero degli occhi perplessi e un po’ delusi del ragazzo, Phillis sentì una dolorosa morsa allo stomaco.
“Non credo sia una buona idea” rispose dopo un po’.
“E dai, Phillis, che palle. Sarà divertente!”
La ragazza ci provò, a prendere in considerazione l’idea. Però lei non ce la faceva, ecco tutto. Aveva bisogno di stare da sola. Probabilmente i suoi genitori non le avrebbero permesso di uscire. A lei, però, non importava più di tanto di ciò che le era concesso o meno di fare.
“A che ora sarebbe, questa inaugurazione?”
E Calum, dall’altra parte del telefono, esultò.





23/09/2014 21:45
Sono all’inizio del viale.
Cal.



Phillis lanciò velocemente un’occhiata allo specchio, rendendosi conto di aver fatto – tutto sommato – un buon lavoro. Le occhiaie erano state nascoste da una passata di correttore, così come gli occhi rossi, che erano stati coperti da una linea di eyeliner scuro.
Aveva indossato una maglia dell’Hard Rock che le aveva portato suo padre da Budapest due anni prima. Ovviamente, non ricordandosi la taglia le aveva portato una maglia un po’ troppo larga, ma a lei piaceva. Ci si nascondeva dentro.
Si aggiustò la felpa scura, annodò i lacci delle Vans, poi lanciò un’occhiata alla finestra. Dopo aver chiuso a chiave la porta della camera, si diresse verso di essa. Era abituata ad usarla per uscire di nascosto quando veniva messa in punizione. Aveva cominciato alcuni anni prima, quando già suo padre c’era e non c’era: aspettava il momento in cui era certa che la madre si fosse addormentata, poi scendeva dal balcone, appoggiandosi con un piede sulla tubatura che percorreva la facciata della villa, con l’altro sulla portafinestra del balcone della sala degli ospiti.
Anche quella volta non fece differenza: scese con pochi agili movimenti, cercando di fare il minimo rumore possibile; poi, come suo solito, scavalcò il cancello di casa e corse letteralmente via.
Faceva freddo, il vento penetrava attraverso la felpa slacciata, aveva la pelle d’oca, ma continuò a correre finché la casa non scomparve dietro le sue spalle, mentre davanti ai suoi occhi, man mano che andava avanti, si faceva più nitida la figura di un’auto nera.
Calum era lì, appoggiato contro una portiera a guardare verso la via fino a pochi attimi prima vuota, la strada dove adesso c’era lei.
“Andiamo” sentenziò appena lo vide.
Non c’era bisogno di convenevoli, non ne aveva il tempo. Voleva solo allontanarsi il più possibile e, magari, per quella sera dimenticare tutto, anche il suo nome.
Il ragazzo la guardò male. “Ciao, eh”.
“Scusa Cal, ciao” fece lei sbrigativa. “Ora muoviamoci, ti prego” .
Calum la guardò negli occhi interrogativo, e si bloccò per pochi istanti, sufficienti a fargli capire che – decisamente – c’era qualcosa che non andava.
Perché aveva sempre visto tante cose, negli occhi di Phillis: fastidio se veniva presa in giro, divertimento davanti alle sue battute scadenti, alle quali di solito nessuno – tranne lei - rideva; felicità quando la campanella suonava, e lei si ritrovava sul muretto fuori della scuola con Lucy; ansia, quando c’era Luke nei paraggi, a volte anche paura.
Ma quel dolore sordo, quella richiesta muta che i suoi occhi esprimevano di dimenticare, di stare bene… Non avrebbe dovuto esserci. Per la prima volta, rimase incastrato nel ghiaccio che erano gli occhi della ragazza e si sentì congelato.
“Allora, andiamo?”
Calum scosse la testa e tornò con i piedi per terra. Annuì alla richiesta impaziente della ragazza, prendendo posto e mettendo in moto l’auto, per poi immettersi nel tranquillizzante traffico di una serata a Sydney.


Bonsoir.
Non so perché saluto in francese, dal momento che - tecnicamente - io sarei quella che non sopporta quella lingua, ma tralasciamo.
Sono piuttosto felice di star riuscendo ad aggiornare in tempo ultimamente, nonostante probabilmente a volte sarebbe meglio se io non lo facessi e basta. E questa, credo si sia capito, è una di quelle volte. Perché è un capitolo estremamente di passaggio, questo, e perché non accade nulla di eclatante. Perché il più delle volte mi fa innervosire postare capitoli così, solo che spesso servono come "ponti" tra un avvenimento e un altro, durante la storia, quindi credo di dovermi mettere l'anima in pace.
E' anche più scialbo del solito e, oddio, per questo mi scuso davvero tanto. >.>
Dal prossimo capitolo la storia si riprenderà, lo giuro. (':
Passo ai ringraziamenti per chi ha recensito, le 10 splendide persone a cui voglio un mondo di bene, e che ogni volta mi fanno sorridere un po' di più: Letizia25, xhimmelx, McPaola, Noemi1496, S_V_A_G, Straightandfast, Eavan, aliconsumate, ohwowlovely, willbefearless.
Vorrei avere il tempo di rispondere a tutte adesso, ma purtroppo la fisica mi chiama, ed io devo rispondere mio malgrado.
Anche per stavolta ho concluso, quindi nulla, ci rivediamo giovedì!
Ida. x


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Trailer Pieces: Trailer "Pieces" - 5SoS FanFiction [ITA]



  
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