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Autore: Flora    31/01/2005    10 recensioni
Menfi, Egitto. Alessandro scopre qualcosa su Efestione. Ma certe verità è meglio rimangano inespresse.
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Si sedette al suo fianco e inclinò il volto per osservarlo, improvvisamente turbato da questo suo segreto momento di vulnerabilità. Fu come vederlo per la prima volta, nonostante lo conoscesse da una vita intera. Si sentiva colpevole, un intruso all’interno di un santuario consacrato, eppure incapace di staccare lo sguardo da quella pelle che gli era familiare tanto quanto la sua e che adesso gli appariva ignota e inestimabile – forse perché strappata in segreto allo scorrere del tempo.
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Questa storia fa parte del mio ciclo di racconti su Alessandro il Grande.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Antichità, Antichità greco/romana
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Nota dell’autrice: Questo racconto è ispirato a fatti e personaggi storici. La ricostruzione degli eventi e della cronologia, così come la caratterizzazione dei personaggi, è basata sulle relative fonti storiche accreditate. Nel delineare la figura di Alessandro il Grande di Macedonia e dei suoi contemporanei, mi sono rifatta ad Arriano, Plutarco e Curzio Rufo. Nel delineare il personaggio di Efestione, ho tenuto conto di alcune teorie che gli attribuirebbero probabili origini ateniesi, anziché macedoni. La ricostruzione della sua vita precedentemente all’incontro con Alessandro è tuttavia di mia invenzione, dato che Efestione appare nelle fonti solo successivamente.



Il respiro del Nilo






L’acqua era fresca e aveva il profumo di essenze sconosciute.
Il vapore rimaneva sospeso nell’aria umida, le piastrelle smaltate d’azzurro erano lucide e lisce al tocco delle sue dita. Si lasciava galleggiare sulla superficie della vasca come faceva da bambino, quando giocava sulla riva del lago, e guardava l’alto soffitto con le incisioni di divinità straniere di cui non ricordava i nomi.
Faceva caldo. Persino la primavera riusciva a essere afosa a Menfi.
La stanza da bagno non aveva finestre e le ombre si addensavano scure nei nascondigli tra le colonne, mentre i riflessi disegnavano mobili striature iridescenti sulle pareti. Un giovane schiavo etiope dalla pelle brunita e gli occhi dipinti lo attendeva ai bordi della vasca con un telo di lino tra le mani.
Alessandro emerse dall’acqua e si diresse verso di lui. La sua pelle appena rinfrescata sembrò protestare al contatto con l’aria e si affrettò ad avvolgersi nel panno.
Lo schiavo lo aiutò a sdraiarsi su un letto coperto da morbide stoffe e fece cenno a un altro servo di avvicinarsi. Il ragazzo aveva capelli nerissimi e la pelle color dell’ambra; portava un vasetto d’alabastro tra le mani. Versò l’olio profumato sul corpo del Re e cominciò a massaggiarlo, levigando e ammorbidendo la sua pelle seccata dal sole.
Alessandro sospirò. Socchiuse gli occhi, abbandonandosi a quelle mani abili; il profumo di mirra e incenso sembrava stordirlo, appannargli i sensi e illanguidirgli il corpo.
Il ragazzo etiope gli porse una coppa decorata a fregi d’oro e Alessandro si appoggiò sul gomito, prendendola tra le mani; il vino egiziano era speziato e sapeva di miele e cannella. Gli mancava l’aspro vino macedone, il sapore ruvido dell’uva appena pigiata, ma non era quella l’unica cosa cui faticava ad abituarsi.
Lasciò scivolare lo sguardo sulla massiccia statua del dio-bue che sembrava fare la guardia alla porta d’entrata. Aveva un cerchio d’oro sospeso tra le corna e la parete dietro di lui era completamente ricoperta da quegli strani disegni che i sacerdoti del luogo si ostinavano a chiamare scrittura. Aveva persino visto alcune raffigurazioni che lo ritraevano con la doppia corona bianca e rossa e gli scribi erano già all’opera per affiancare alle sue effigi un’altra miriade di quei simboli incomprensibili.
Oh sì, era davvero difficile adattarsi a un posto dove ogni suo più piccolo desiderio veniva esaudito ancor prima che fosse formulato, ed era persino più arduo abituarsi a certi fasti con il ricordo dei mesi interminabili passati ad assediare Tiro e Gaza ancora impresso nella carne e nella memoria – giorni in cui la sola idea di un bagno o di un letto morbido sembrava impossibile. Si toccò la spalla e seguì con le dita la linea della cicatrice in rilievo che correva dalla base del collo alla clavicola; la pietra lanciata dalla catapulta a Gaza l’aveva preso solo di striscio. Se il tiro fosse stato di poco più alto l’avrebbe centrato in piena testa, ma anche così il dolore non l’aveva fatto dormire per notti intere. Adesso andava meglio ma la pelle era ancora tesa e infiammata, rendendogli difficile persino alzare il braccio.
L’egiziano spalmò un po’ d’unguento sulla ferita e continuò a frizionarlo. Aveva dita esili e delicate e Alessandro pensò con un sorriso alle altre mani – così diverse – che avevano massaggiato la sua pelle dolorante prima di quelle.
Efestione era quasi impazzito dalla preoccupazione a causa di quella maledetta catapulta, a poco era valso dirgli che anche lui aveva la sua buona dose di lividi di cui occuparsi. Non c’era stata sera in cui non avesse insistito per stendergli sulla ferita una quantità irragionevole dell’impasto puzzolente che Filippo gli aveva preparato, ed era sorprendente come le sue mani ruvide di soldato potessero essere delicate quanto quelle d’un ragazzo che non avesse mai impugnato la spada in tutta la sua vita.
Il sorriso sulle labbra gli si allargò pericolosamente. Oh, Efestione sapeva essere decisamente piacevole quando voleva ma non era il caso di andare a dirglielo. Era nato ad Atene ma cresciuto in mezzo ai macedoni, e a un buon macedone le mani servono principalmente per una cosa – la guerra.
Tutto il resto era un segreto tra loro due.
Si alzò lentamente, avvolgendosi il telo attorno ai fianchi; i due schiavi indietreggiarono abbassando gli occhi, senza dire una parola. Sembrava impossibile anche solo incrociare lo sguardo con una di quelle creature diffidenti e cerimoniose, ancor più impensabile farci conversazione. Ne aveva messo in imbarazzo più d’uno, rivolgendosi a loro come era solito fare con i paggi più giovani della sua scorta; ci aveva rinunciato al secondo tentativo.
Ben diversi si erano invece rivelati i sacerdoti, i maledetti sacerdoti che sembravano spadroneggiare indisturbati su quel loro paese carbonizzato dal sole. Non dubitava che anche i persiani avessero avuto il loro bel da fare quaggiù. Gli avevano detto che era impossibile per un re governare quelle terre senza l’appoggio della loro casta o del loro codice sociale, quel Maat che gli appariva come un intrico incomprensibile di riti e cerimonie inutili.
Ma avrebbero dovuto abituarsi a lui, volenti o nolenti.
In verità, sacerdoti a parte, l’Egitto l’aveva accolto a braccia aperte, tributandogli onori insperati. Non aveva dovuto spargere una sola goccia di sangue tra la loro gente, tanto ansiosi erano stati di liberarsi del giogo di Dario.
Li aveva ricambiati sacrificando ai loro Dei, alla divinità-bue che protegge Menfi e aveva permesso che i sacerdoti e gli aristocratici mantenessero le loro cariche in cambio di una promessa di fedeltà.
Era stato incoronato faraone nel palazzo millenario dei re del fiume e, davanti a tutto il loro popolo, l’avevano riconosciuto Dio e sovrano, figlio di Ammon-Ra – padrone del sole.
Figlio di Zeus.
Chiuse gli occhi e per un attimo gli parve di risentire il sibilo della sabbia sopra le dune riarse del deserto e l’odore della vegetazione dell’oasi, tra le palme di Siwa. Il cigolio della barca del sole trainata dai buoi e il canto dei sacerdoti, in una lingua vecchia di secoli e dimenticata da tutti.
E infine, il sospiro sommesso del Dio, perduto nel vento.
Ma non voleva pensarci, non adesso. Presto sarebbe giunto il momento di ripartire, prima che cominciasse la piena del grande fiume. La città che aveva dato ordine di costruire sulla pianura a ovest del delta era ormai quasi ultimata e non c’era più nulla a trattenerlo lì.
Aveva visto e rivisto i progetti della città con Efestione, e i suoi genieri avevano lavorato bene, affidati alla supervisione di quella volpe greca di Cleomene. Il porto naturale attorno al quale era sorta le avrebbe dato pieno accesso all’Egeo, dove sarebbe diventata uno snodo di vitale importanza per i commerci tra l’Ellade e l’Egitto, se non con l’oriente stesso. La città avrebbe prosperato, ne era sicuro, sarebbe cresciuta accanto alle acque del grande fiume, i suoi Dei l’avrebbero protetta, l’avrebbero accudita, cullata, e avrebbe avuto un futuro. Sì, avrebbe avuto un futuro quella città appena nata che portava il suo nome.
Ma era tempo di rimettersi in viaggio. Dario lo stava aspettando e stavolta non gli sarebbe sfuggito, non ci sarebbe stata un’altra Isso.
La caccia era ancora aperta.
Si diresse verso la porta squadrata che conduceva alle stanze del palazzo. Gli schiavi si fecero da parte e si inchinarono al suo passaggio.
I corridoi erano inondati di luce e le ampie terrazze a gradoni dominavano tutta la piana. Il Nilo si snodava come un serpente d’argento tra l’intrico dei canneti e l’oro rovente del deserto. Le acque del dio-fiume erano gravide e si preparavano alla piena estiva. Poteva udire i canti delle donne mentre raccoglievano il papiro attorno alle rive e, lontano, si stagliava il profilo severo del tempio di Ptha.
Un bambino dalla pelle scura e gli occhi dipinti con il kohl sbucò da dietro una porta, tenendo tra le braccia un minuscolo gatto candido. Lo osservò curioso per un istante poi scappò via. Alessandro sorrise, stiracchiandosi al sole. Gli unguenti egiziani sembravano fargli bene, persino la spalla si era quietata.
Aveva trascorso tutta la mattina a concedere udienze e ad ascoltare le questue di sacerdoti e funzionari, permettendosi solo alla fine la voluttà di quel bagno; Efestione si era invece recato a cavallo a ispezionare gli enormi granai che si trovavano nell’entroterra e che avrebbero dovuto rifornire anche la nuova città. Aveva approntato un progetto per far sì che le scorte potessero arrivare al delta navigando via fiume, un progetto che Alessandro aveva giudicato brillante.
Sì, Efestione era stato decisamente impegnato negli ultimi tempi, tanto quanto lui stesso, ed era il caso che lo convincesse a riposare un po’.
Raggiunse la porta che dava accesso ai suoi quartieri e la spinse piano; era aperta e si spalancò docilmente rivelandogli la stanza inondata di luce. I teli di lino alle finestre si gonfiavano nel vento e l’aria profumava di palme e datteri freschi.
Su un enorme letto in mezzo alla stanza giaceva Efestione, profondamente addormentato.
Alessandro si avvicinò e lui non si mosse, nonostante il rumore dei suoi passi. Non se ne stupì. Doveva essere esausto.
Gli dava la schiena e il suo corpo era nudo e brunito dal sole. Il viso era voltato verso di lui, in parte nascosto dal braccio sollevato, ma riusciva a scorgere il profilo dei suoi zigomi e le ciglia scure sugli occhi chiusi.
Si sedette al suo fianco e inclinò il volto per osservarlo, improvvisamente turbato da questo suo segreto momento di vulnerabilità. Fu come vederlo per la prima volta, nonostante lo conoscesse da una vita intera. Si sentiva colpevole, un intruso all’interno di un santuario consacrato, eppure incapace di staccare lo sguardo da quella pelle che gli era familiare tanto quanto la sua e che adesso gli appariva ignota, inestimabile – forse perché strappata in segreto allo scorrere del tempo.
Il suo corpo era abbronzato, aveva il colore del grano in estate ed era reso lucido da un velo di sudore. I muscoli seguivano la linea delle sue spalle e scendevano verso i lombi, sottolineando la forma arcuata e compatta dei glutei. I capelli strappavano bagliori aurei alla luce.
Alessandro appoggiò una mano al suo collo e lui si mosse appena, schiudendo le labbra. Si sentiva commosso, emozionato come un bambino alla sua prima scoperta – o era forse l’ebbrezza del predatore che si muove in caccia su di un terreno inesplorato? – e si dava del pazzo per questo, ma non gli importava. Fece scorrere il palmo sulla sua schiena, finché non trovò le ali delle scapole, ripiegate sotto pelle e così fragili, così possenti, come il miracolo stesso della sua esistenza.
Pensava che avrebbe potuto piangere per questo.
Si chinò e lo baciò nel solco tra le spalle, assaporandone il sapore salato e familiare, quel sapore che gli ricordava il sole e l’estate – e le interminabili notti di Mieza impregnate del profumo degli oleandri e delle rose, in Macedonia.
Le cicatrici erano ovunque sul suo corpo, solo la curva dei lombi era ancora liscia, come quella di un ragazzo. Una vecchia ferita che si era procurato cadendo da cavallo gli serpeggiava lungo il fianco simile a un tralcio d’uva; le punte delle lance si erano conficcate indelebili nelle sue spalle e sulle gambe quando si era trovato al Granico in prima linea, e la profonda cicatrice sul braccio destro – rossa, orribilmente frastagliata – era il ricordo che i soldati di Dario gli avevano lasciato a Isso.
Aveva una mezzaluna bianca in rilievo sotto la clavicola, dove gli artigli di un leone l’avevano raggiunto durante una caccia, quando si era preso in pieno petto una zampata destinata a lui – e ancora graffi, scalfitture, le lacerazioni inflittegli dai triballi quando lo aveva seguito nella sua prima campagna, e lo sfregio sul ventre che il battaglione sacro aveva preteso come pegno per la sua sconfitta, trafitto dal cielo, là sulla piana a Cheronea.
Segni, miriadi di linee e intrichi sul quel corpo accarezzato infinite volte – e gli occhi chiusi, come quelli di un bambino.
Lo toccò ancora, sfiorandogli le guance lisce.
Efestione aprì gli occhi di ossidiana e sorrise, come se lo attendesse.
Alessandro si chinò e lo baciò tra le scapole, poi sulla curva flessuosa della schiena – ancora e ancora. Non parlarono. Nessuno di loro parlò. Scivolarono l’uno accanto all’altro, in silenzio.
E fuori dalle finestre il Nilo respirava nel sole.






Fine

  
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