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Autore: RandomWriter    08/12/2014    12 recensioni
Si era trasferita con il corpo, ma la sua mente tornava sempre là. Cambiare aria le avrebbe fatto bene, era quello che sentiva ripetere da mesi. E forse avevano ragione. Perchè anche se il dolore a volte tornava, Erin poteva far finta che fosse tutto un sogno, dove lei non esisteva più. Le bastava essere qualcun altro.
"In her shoes" è la storia dai toni rosa e vivaci, che però cela una vena di mistero dietro il passato dei suoi personaggi. Ognuno di essi ha una caratterizzazione compiuta, un suo ruolo ben definito all'interno dell storia che si svilupperà nel corso di numerosi capitoli. Lascio a voi la l'incarico di trovare la pazienza per leggerli. Nel caso decidiate di inoltrarvi in questa attività, non mi rimane che augurarvi: BUONA LETTURA
Genere: Commedia, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Un po' tutti
Note: Missing Moments, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'In her shoes'
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CAPITOLO 42: LET’S MOVE!
 

Il contatto dei piedi nudi con la sabbia tiepida era una sensazione completamente estranea a Nathaniel e per questo, ancora più piacevole ed elettrizzante; quando andava al mare in estate infatti, era abituato a sentire il fuoco sulla pelle.
Era la prima volta che visitava San Francisco in inverno e, contrariamente a quanto immaginava, era quasi più bella della versione estiva che aveva conosciuto in passato. In fondo era per metà svedese ed in quel momento gli sembrava che la sua natura per metà scandinava volesse fuoriuscire.
La sera prima Castiel l’aveva caldamente invitato a non restarsene rintanato nel campus e cercare qualche distrazione, ma poiché dopo due settimane l’ex segretario del liceo non aveva ancora una compagnia fissa di amici, non sapeva bene come impiegare quella giornata.
Su consiglio di Andrew, che alloggiava nella stanza accanto alla sua del dormitorio, Nathaniel aveva optato per una passeggiata sulla spiaggia di Baker Beach, dalla quale si godeva di una favolosa vista del più famoso ponte californiano. La temperatura sfiorava i 12 gradi e i raggi luminosi del sole che picchiavano sulle creste delle onde, sembravano cospargere il mare di diamanti iridescenti.
Il ragazzo sorrise leggermente, deliziato da quella vista, anche se si rammaricò del brusio attorno a lui: ovunque si girasse, c’erano persone che avevano avuto la sua stessa idea: chi camminava in solitudine, chi si intratteneva con gruppi di amici e c’era anche chi, contrariamente alla legge della contea, era tranquillamente seduto a fumare.
Continuò a camminare, cercando di isolarsi dal mondo, cosa che per altro che non richiedeva un grande sforzo da parte sua. Ripensò per l’ennesima volta a Rosalya, cercando di convincersi che aver lasciato tutto in sospeso tra di loro, fosse stata la scelta giusta.
Eppure la amava, l’aveva sempre amata. Ma proprio per questo, quando lei si era presentata a casa sua, sostenendo di ricambiare i suo sentimenti, la sua reazione avrebbe dovuto essere diversa. L’aveva desiderata così tanto che quando il suo sogno si era materializzato, lui si era tirato indietro, come se temesse che fosse troppo bello per essere vero.
Sospirò, più intensamente di quanto avrebbe dovuto, tanto che una bambina alzò lo sguardo incuriosita verso quel bellissimo ragazzo dai capelli dorati e lo ammirò sognante. Nathaniel continuò il suo percorso, meditando su quell’indole che voleva disperatamente cambiare: più passava il tempo e più aveva la sensazione che la mentalità di suo padre si impossessasse di lui, privandolo delle emozioni e della spontaneità dei ragazzi della sua età.
Gustave aveva sempre aspirato e mirato alla conformazione di un erede dotato di un’eccellente capacità di raziocinio e analisi della situazione, ma queste doti dovevano essere accompagnate anche da una certa insensibilità emotiva che, a suo avviso, avrebbe agevolato il figlio nella scalata al successo; secondo la logica paterna, i sentimenti erano un terribile ostacolo, accecando l’uomo e distraendolo dal suo obiettivo. Del resto, il signor Daniels aveva sperimentato in prima persona quanto anche una semplice infatuazione potesse essere fatale: si era innamorato perdutamente di una bellissima svedese, avevano passato due settimane a fare l’amore chiusi in un albergo circondati dalla neve, sussurrandole dolci promesse che avrebbero coronato quella relazione apparentemente perfetta. Tornato in America però, si era accorto di non amare Ingrid, che rappresentava solo una fin troppo appagante avventura sotto le lenzuola: lei lo aveva fatto sentire vivo come non era mai accaduto prima, a causa di un’adolescenza difficile fatta di rinunce e duro lavoro, ma non poteva darle niente di più. Di certo non quell’amore romantico che lui non aveva ancora conosciuto.
Era tornato al suo lavoro, rappresentato all’epoca da una piccola impresa di progettazione software che era riuscito a mettere in piedi dopo anni di sacrifici e si era dedicato anima e corpo nella sua realizzazione, dimenticando Ingrid e la fredda Svezia in cui l’aveva lasciata.
A distanza di un mese però, la sua segretaria era entrata nel suo ufficio, tenendo in mano il cordless. Aveva un’espressione sconvolta e, quando Gustave cercò di carpirne la motivazione, la donna si limitò ad allungargli la cornetta, sostenendo che una donna dallo strano accento aveva una cosa molto importante da riferirgli.
Riconobbe all’istante il timbro di Ingrid ma ci mise molto più tempo a metabolizzare quanto la donna gli vomitò addosso: era incinta.
La prima reazione dell’uomo fu di rabbia, come se gli fosse appena stato fatto un torto irreparabile, di cui lui non aveva alcuna colpa o responsabilità. Non aveva mai desiderato un figlio, non sapeva cosa significasse essere padre poiché non ne aveva mai avuto uno e soprattutto, non l’avrebbe voluto da quella donna; da quando era partito dalla Svezia infatti, più passavano i giorni e più si rendeva conto di quanto in basso si fosse spinto a lasciarsi abbindolare da una simile persona. Solo una volta lontano da lei aveva realizzato quanto la sua bellezza servisse a celare delle irreparabili pecche quanto a capacità intellettuali.
L’opinione deplorevole che il padre nutriva verso la madre era cosa ben nota tanto al figlio maschio, quanto alla sorella: sia Ambra che Nathaniel erano consapevoli di vivere all’interno di un matrimonio che era fallito sul nascere.
Gustave aveva sposato Ingrid solo perché spinto dal senso del dovere e la secondogenita era nata da un’infantile capriccio da parte della madre di avere una figlia femmina, dono che la natura fu così magnanima da concederle. Mentre Ingrid era quel tipo di persona a cui la vita sembrava esaudire ogni desiderio, la figlia era cresciuta con il rammarico che sin dalla sua nascita le era stato fatto un torto: anno dopo anno infatti, realizzava quanto il suo essere femmina fosse agli occhi della società benestante, sinonimo di figura frivola e inutile, come del resto lo era la madre.
Tuttavia i due fratelli non erano pienamente coscienti di tutti i retroscena della loro famiglia. Uno dei segreti che i genitori custodivano con più attenzione era che, dopo la nascita di Nathaniel, Gustave avesse preteso l’esecuzione di un test di paternità sul suo potenziale erede; non si sarebbe legato in matrimonio ad Ingrid, con il dubbio che nelle vene del neonato scorresse il sangue di uno sconosciuto. D’altronde la sua fortuna aumentava di mese in mese e la personalità opportunistica della svedese lasciava alito a ipotesi poco encomiabili.
Anche se la donna sapeva di avere la coscienza pulita, inevitabilmente quella condizione inappellabile spezzò l’ultimo filo di speranza per un amore che a quel punto non sarebbe mai sbocciato e che neanche la nascita di un figlio avrebbe creato; Nathaniel venne riconosciuto come figlio di Gustave Daniels ma questo non bastò all’uomo per sentirsi un papà. I Daniels divennero ufficialmente una famiglia, ma dietro un’apparenza di benessere e felicità, si nascondevano quattro persone insoddisfatte.
Sin da bambino, Nathaniel aveva vissuto in quell’ambiente così artefatto e freddo che aveva finito per reprimere i suoi sentimenti, cercando di mostrarsi sempre posato e misurato. Non biasimava chi lo considerava un ragazzo noioso e purtroppo per lui, frequentemente era stato così etichettato.
 
La prima persona che era riuscita a vedere qualcosa di diverso in lui aveva otto anni e un viso che spesso e volentieri si corrucciava: Nathaniel sorrise rimembrando la prima volta che vide Castiel.
 
“bambini, fate silenzio!” si arrabbiò la maestra Paula, battendo le mani un paio di volte per richiamare l’attenzione nell’aula. Venti testoline si voltarono verso di lei, per poi abbassare lo sguardo verso il loro coetaneo che quasi sembrava nascondersi dietro la gonna scozzese dell’insegnante.
“lui è Nathaniel. Da oggi sarà il vostro nuovo compagno. Viene da un posto molto lontano… la Svezia!”
Alcuni dei piccoli scolari aggrottarono le sopracciglia e una bambina dall’aria saputella, intervenne:
“e dov’è questo paese?”
“nel Nord Europa, Evelyn” spiegò pazientemente la maestra Paula, accomodandosi gli occhiali sul naso “lì fa molto più freddo che qui a Morristown”
“ci sono anche i pinguini là?”
Nathaniel spostò lo sguardo verso l’alunno che aveva appena formulato quella domanda tanto sciocca. Non veniva dal Polo Sud, per cui non capiva se chi aveva appena parlato volesse solo prenderlo in giro.
“no, non ci sono i pinguini in Svezia…Castiel” precisò la donna con un sorriso “perché ti sei fissato con i pinguini ultimamente?”
 
Come scoprì successivamente Nathaniel, il suo nuovo compagno di classe aveva visto un documentario su quegli strani uccelli e ne era rimasto talmente colpito che ogni volta che sentiva il nome di un paese sconosciuto, interrompeva il discorso con “ci sono i pinguini là?”. Quella stranezza durò per un paio di mesi, ma a distanza di tanti anni il biondo se ne ricordava ancora.
Due giorni dopo il suo arrivo a Morristown, il piccolo Nathaniel non era ancora riuscito a farsi degli amici. Non aveva difficoltà ad esprimersi in inglese dal momento che il padre, essendo americano, gli parlava nella sua lingua nativa anche quando vivevano in Svezia, ma ciò di cui il bambino era completamente sprovvisto, era la capacità di aprirsi agli altri. Durante la ricreazione era rimasto sempre da solo, sperando con tutto il cuore che qualche bambino lo invitasse a giocare. Mangiucchiava il suo panino al burro di arachidi amorevolmente preparato da Molly, cercando di farlo durare il più possibile, in quanto pretesto per non restarsene con le mani in mano.
Non si era accorto delle bambine parlavano di lui, lasciandosi sfuggire dei risolini divertiti e sciocchi, troppo elettrizzate dalla novità rappresentata da quel bambino così carino. Nonostante questo però, nessuna di loro si era mai fatta avanti. I suoi primi due giorni di scuola era passati così, in solitudine, ma poi era arrivata la gita al parco naturalistico di Allentown:
 
Nathaniel chiudeva la fila di bambini, annoiandosi terribilmente. Non aveva nessuno con cui chiacchierare, i suoi compagni lo ignoravano e lui non riusciva né provava ad inserirsi nelle loro conversazioni. Improvvisamente, con la coda dell’occhio, notò un movimento tra le fronde e scrutò il punto incriminato. Vide spuntare due lunghe orecchie biancastre: una lepre. Era la prima volta che ne vedeva una dal vivo e il suo colore così singolare per quella zona, attirò talmente la sua attenzione, che si dimenticò del resto della scolaresca e si precipitò a inseguirla.
Gli era venuta in mente la storia di Alice nel paese delle meraviglie e, nel suo cuore di bambino, qualcosa gli diceva che seguendo quella versione selvatica del Bianconiglio, sarebbe arrivato anche lui in un mondo magico. Diversamente però dall’eroina creata da Carroll, Nathaniel perse di vista l’animale e si trovò al centro di una radura. Si guardò attorno avvertendo un’ansia crescente che sfociò ben presto nel terrore: si era perso. Aveva già scordato da quale direzione fosse arrivato e la barriera naturale rappresentata dagli abeti attorno a lui gli impedivano di avere una visuale più profonda.
Le lacrime cominciarono a salirgli in gola, finchè avvertì una voce che il giorno prima l’aveva particolarmente divertito in mensa, distinguendosi come sobillatrice di cori di protesta: facendosi spazio tra la fitta vegetazione emerse Castiel, intento a levarsi un ramo secco che si era impigliato nei capelli. Borbottava parole che il biondino non riusciva a decifrare, finchè se lo trovò a pochi passi da lui:
“perché corri dietro ai conigli? Sei stupido per caso?”
 
Ogni volta che ripensava a quella scena, Nathaniel doveva trattenersi dall’esplodere in una risata. Gli sembrava quasi di rivedere quella sensazione di un’ansia che svaniva, seguita dall’irritazione scaturita a causa del tono piccato con cui gli si era rivolto il suo compagno di classe. Faticava quasi a credere che la loro amicizia fossse nata con un piccolo bisticcio.
 
“lo stupido sarai tu… era una lepre”
Con un passo incerto, il biondino si era affrettato a colmare la distanza tra lui e il suo simile, unica speranza per tornare sulla retta via. Diversamente da lui, Castiel sembrava perfettamente sicuro di sé e padrone della situazione. Teneva in mano la cartina che la maestra Paula aveva dato ai suoi scolari con raffigurate tutte le specie animali e vegetali che avrebbero osservato quel giorno e portava al collo un binocolo che sembrava troppo grande per il suo corpicino di bambino. Offeso per la parole che gli aveva rivolto il piccolo svedese, aveva replicato:
se sei tanto intelligente arrangiati da solo a tornare dagli altri”
Il piccolo esploratore aveva così voltato le spalle, facendolo precipitare nel panico.
 
“a-aspetta!” lo aveva richiamato Nathaniel, correndogli dietro.
Castiel si fermò di colpo, sorridendo beffardo. Quella smorfia, che già in tenera età lo contraddistingueva, sarebbe diventata negli anni il suo marchio di fabbrica.
“non sai come tornare indietro eh?” lo canzonò.
“no” ammise l’altro con un candore tale da lasciarlo per un attimo spiazzato “tu invece?” soggiunse speranzoso.
Castiel si portò una mano sul capo e se lo grattò, guardandosi attorno.
“non ne ho idea”
Nathaniel sgranò gli occhi di fronte a quella notizia e alla tranquillità con cui gli era stata comunicata.
“andiamo un po’ in giro a caso e prima o poi sentiremo le loro voci” propose, assolutamente rilassato e sottovalutando la gravità della situazione.
“assolutamente no!” si impuntò il biondino “quando ci si perde bisogna rimanere fermi in un punto”
Castiel scrollò le spalle e, con una pacatezza che rasentava l’apatia, replicò:
“allora rimani pure qua tu… io vado”
Il panico deformò l’espressione del suo compagno di classe:
“vengo con te!” gli urlò dietro, correndogli appresso. Castiel ridacchiò divertito e insieme, i due bambini si inoltrarono nel bosco.
 
“PALLAAAAAA!”
La tempia sinistra di Nathaniel venne colpita da un oggetto sferico e piuttosto rigido, destabilizzandolo. Il suo collo fu costretto a sporgersi di lato, rischiando quasi di fargli perdere l’equilibrio.
“EPPURE TI AVEVO DETTO PALLA!” lo rimproverò canzonatoria, una voce irritantemente familiare.
Strappato violentemente dall’onda di nostalgici ricordi, il ragazzo fu costretto a cercare la fonte di quella prepotenza: con un’espressione tra l’irritato e il beffardo, gli si stava avvicinando una ragazza dai corti capelli rossicci.
“quindi adesso sarebbe colpa mia, Sophia?” la rimbeccò, scrollandosi la sabbia che la palla aveva lasciato sui suoi capelli.
“finchè non guardi dove vai, direi proprio di sì” replicò placidamente lei, raccogliendo il missile sferico che gli aveva lanciato. Gli si avvicinò, guardandolo dritto negli occhi, quasi a sfidarlo.
“ero sovrappensiero” si giustificò lui.
stella, se continui così prima o poi ti tireranno sotto per strada”
Nathaniel si irritò alquanto per l’appellativo derisorio con cui gli si era rivolta la ragazza ma non fece in tempo a replicare che una seconda figura soggiunse, interrompendo la loro conversazione:
“è un tuo amico?”
Il biondo osservò la corporatura robusta e la treccia alla francese che intrecciavano i capelli corvini della sconosciuta.
“no Carly, è il fratello di una mia amica” la corresse Sophia.
Carly analizzò il ragazzo, sorridendogli amichevole:
“vuoi unirti a noi? Ci mancherebbe giusto un quinto giocatore”
Nathaniel spostò lo sguardo in un punto alle spalle delle due ragazze e notò la presenza di altre sette persone, divise da una rete di pallavolo.
“beach volley?”
“no, hockey su ghiaccio” rispose sarcastica Sophia.
Il sopracciglio di Nathaniel cominciò a tremare per la stizza, come raramente gli accadeva. Quanto a Sophia invece, non riusciva a tenere lo sguardo fisso su quel ragazzo senza sentire crescere in lei una certa insofferenza. La prima e ultima volta che l’aveva visto, si era sforzata di essere più gentile possibile con lui, in nome dell’amicizia che la legava ad Ambra. Quel giorno però, si era svegliata con il piede sbagliato e le buone maniere erano state accantonate senza possibilità di appello… e inoltre sapeva di avere un ottimo motivo per serbare del rancore al ragazzo.
“simpatica” borbottò acido il biondo, mentre altre due figure maschili si unirono al trio.
“problemi?” chiese un ragazzo con un viso allungato e il mento sottile. Nonostante i dieci gradi, portava una t-shirt a maniche corte, dalla quale si potevano osservare dei vistosi tatuaggi. Accanto a lui, un suo amico, più basso di una spanna e dall’aria decisamente più cordiale:
“è uno che conosco Adrian” lo freddò Sophia, rivolgendosi al ragazzo più alto “mi sa che abbiamo trovato il quinto uomo, così lasciamo in pace Space”
“non capisco perché continui a portartelo dietro Merida” farfugliò Adrian, rivolgendo un’occhiata fugace alle sue spalle. Nathaniel notò allora la presenza di un ottavo elemento seduto a bordo campo. Era seduto sulla sabbia, con la schiena incurvata in avanti, intento a leggere un voluminoso tomo.
“è un po’ particolare, per questo mi piace” lo difese Sophia “e comunque smettila con quel soprannome del cavolo!”
“parli proprio tu che affibbi soprannomi a destra e a manca” s’intromise il secondo ragazzo.
“i nomignoli che invento io sono carini, Junior”
Junior scrollò le spalle e si rivolse a Nathaniel:
“quindi vieni anche tu dalla Pennsylvania”
“no, sono del New Jersey, ma non abito lontano da Allentown”
“è da tanto che vi conoscete?” indagò Carly.
“ci siamo visti per la prima volta due settimane fa” spiegò Sophia, facendo cenno ai presenti di tornare al campo di pallavolo.
Nathaniel si era così trovato coinvolto come giocatore in una partita di gente che, fatta eccezione per la rossa, non aveva mai visto prima. Cercò di fare mente locale dei nomi: Carly era la ragazza grassottella, con la treccia e i capelli neri, Junior era il ragazzo basso con i capelli tinti di biondo sulle punte, mentre Adrian era quello tatuato.
Fu Carly a presentargli il resto della compagnia, ma disorientato dalla numerosità di informazioni che riceveva, Nathaniel cercò di concentrarsi soprattutto sui nomi dei suoi prossimi compagni di squadra: oltre a Carly, gli aveva stretto la mano una ragazza molto carina, dalle gambe chilometriche messe in evidenza da dei pantaloncini attillati. Si era presentata con il nome di Daphne, giustificando le sue origini greche. Aveva raccolto scompostamente i capelli in uno chignon basso, lasciando che qualche ciocca ondulata le sfuggisse davanti al viso. Continuava a sorridere al nuovo arrivato, mettendolo in evidente disagio, mentre Cedric, che si era posizionato sotto la rete, si era limitato solo ad un cenno con il capo. Non sembrava un tipo particolarmente loquace di suo, ma da quando Daphne aveva posato gli occhi sul biondino venuto dalla costa orientale, il giocatore pareva essersi ancora più irrigidito. Ed infine c’era un certo Gerard, un tipo tranquillo, che non spiccava per alcuna caratteristica particolare.
“cominciamo?” sbottò spazientito Adrian, dall’altra parte della rete.
“Space tieni i punti” intervenne Junior, guardando il ragazzo seduto in solitudine sulla sabbia.
Aveva un taglio che a Nathaniel ricordò quello di Castiel, ma i capelli di Space erano talmente lunghi da coprirli anche gli occhi. Sollevò pigramente il capo, distogliendo con una lentezza da bradipo quei ciuffi che gli precludevano la vista, rivelando un viso lentigginoso e adornato da un paio di occhiali neri.
“teneteveli voi i punti, io sto leggendo” replicò, senza lasciare spazio ad ulteriori proteste, e rifondò il naso tra le pagine del libro che teneva appoggiato sulle ginocchia.
Sophia ridacchiò, mediando:
“lasciatelo in pace, lo sapete che è allergico allo sport… e poi è solo un’amichevole”
“e da quando in qua sei così poco competitiva tu?” chiese una sua compagna di squadra di cui Nathaniel non era sicuro di ricordare il nome. Forse era Alisa o qualcosa di analogo.
“abbiamo un ospite oggi Alysha” sorrise Sophia guardando divertita il biondo “dobbiamo andarci leggeri”
Nathaniel sorrise, mentre l’eccitazione di cominciare a giocare si faceva strada in lui. Erano passati due anni dall’ultima volta che aveva disputato una partita, la quale risaliva al terzo anno di liceo, in cui giocava nella squadra di calcio della scuola. Pallavolo non era mai stato il suo forte, ma la dimestichezza che aveva con i piedi, riusciva a compensare la sua scarsa abilità come pallavolista.
La partita iniziò.
Junior si posizionò a fondo campo e lanciò la palla in aria, schiacciandola con veemenza oltre la rete. Con un bagher perfetto, Daphne ammortizzò il colpo, convogliando la sfera verso Cedric che la palleggiò in aria mentre Carly spiccava un salto. Nonostante la stazza, rivelò un’elevazione discreta e schiacciò la palla contro il suolo avversario. Sophia intercettò rapida il passaggio, buttandosi sulla sabbia, evitando così di concedere  il punto agli avversari e Alysha migliorò la traiettoria, orientando la palla verso Adrian. Il ragazzo spiccò un salto e, con quanta più forza gli era possibile, la lanciò contro il nuovo arrivato.
Disorientato per la velocità con cui si era svolta quella sequenza di azioni, Nathaniel era completamente impreparato. Vide la palla sfrecciare alla sua destra ma le braccia non furono così rapide da seguirne il movimento. Ormai la sfera era a pochi centimetri dal suolo quando il suo piede destro scattò di lato, colpendola con l’interno. L’oggetto rimbalzò, descrivendo una parabola perfetta la cui traiettoria venne prontamente intercettata da Carly. Gli avversari, presi alla sprovvista, quando ormai erano certi di aver concluso l’azione, non furono abbastanza svelti da attuare una difesa e la giocata si concluse con il primo punto segnato dalla squadra di Nathaniel.
“sei stato fortunato amico” dichiarò, quasi minaccioso Adrian. Aveva un sorriso strano, in cui, nonostante le premesse di un gioco tra amici, si leggeva la determinazione di vincere.
“così pare” minimizzò l’altro, sorridendogli con aria di sfida.
“ricominciamo!” intervenne Sophia. Nella sua voce c’era una nota di fastidio, come se quel semplice 1-0 a sfavore della sua squadra fosse un intollerabile affronto.
La battuta toccò a Carly che lanciò la palla dal basso, intercettando lo spazio tra Sophia e Junior. Quest’ultimo si sporse di lato, congiungendo le mani e facendo rimbalzare su di esse la sfera. La palla volò sopra la testa di Sophia, arrivando a Alysha: la ragazza alzò la palla verso Adrian ma il ragazzo non riuscì a schiacciarla sul campo avversario grazie al muro creato da Cedric.
Fu così che venne segnato anche il secondo punto.
Space aveva sollevato il viso, e con un’espressione annoiata, aveva studiato le espressioni dei giocatori: la squadra di Sophia sembrava innervosirsi mentre in quella del nuovo arrivato si respirava un clima di trepidante allegria.
Daphne raccolse la palla e si mise alla battuta. Il tiro risultò pulito, mirando l’angolo sinistro a fondo del campo avversario. Junior si precipitò ma il quinto giocatore della squadra, Mark, lo redarguì:
“è fuori, lasciala andare!”
Junior si fidò di quell’esortazione, ma proprio per pochi centimetri, la palla rimase nell’area del campo, tracciata in precedenza, consentendo agli avversari di segnare il terzo punto.
“ma cacchio Junior! Potevi buttarti!” lo criticò Sophia, cercando di trattenere la rabbia.
“calmati Meri” ridacchiò Alysha, storpiando il soprannome dell’amica “siamo appena all’inizio”
“non credevo ci sareste andati leggeri sul serio” li derise Nathaniel seguito a ruota dal resto della sua squadra, che al momento stava conducendo il gioco.
La ragazza cacciò un lungo sospiro e puntò le iridi verdastre contro il fratello di una delle sue più care amiche:
“d’accordo fratellino” pensò tra sé e sé “se vuoi la guerra, che guerra sia”
 
La signora Phoenix si assicurò che il portafoglio fosse saldamente chiuso in borsa e riprese con la sua camminata accelerata:
“mamma” la richiamò Kim con voce lamentosa, strisciando quasi sul marciapiede “perché hai tutta questa fretta? Rallenta!”
“parli proprio tu! Corri sempre per niente, adesso che c’è da andare a fare spese fai il bradipo? Tutta tuo padre” la rimproverò Lois, decelerando.
“lo sai che io e lo shopping non andiamo molto d’accordo” farfugliò Kim, lanciando occhiate fugaci attorno a sé. Non solo odiava fare shopping, odiava pure farlo con sua madre. Lois era sempre troppo chiassosa, troppo esuberante per i modi più schivi e riservati della figlia. Del resto la ragazza non aveva una vera e propria compagnia femminile con cui dedicarsi a quell’attività e portarsi al seguito Trevor e i suoi amici maschi era assolutamente fuori discussione:
“andrai in giro per il paese a giocare e ti vuoi presentare con i vestiti che hai?” insistette Lois, facendole segno di seguirla mentre il semaforo per i pedoni segnava il via libera.
in giro per il paese” le fece il verso Kim “Boris ha detto che cercheranno di organizzare le partite in modo che da minimizzare gli spostamenti… e poi scusa, cosa c’entra come sono vestita? In campo devo indossare la divisa”
“ma cioccolatina mia” pazientò la mamma, che con quel vezzeggiativo si era appena giocata quel poco di buonumore che restava alla figlia “ti rendi conto che incontrerai centinaia di ragazzi? In mezzo a loro potrebbe esserci l’uomo della tua vita!”
“ma perché diavolo sei così ossessionata da questa storia!” protestò Kim, avvampando per il nervoso.
“non voglio che tu resti sola tesoro… e poi io voglio diventare nonna un giorno!”
Per un pelo Kim non piantò il naso contro il palo che, lo shock per l’affermazione di sua madre, le aveva impedito di notare.
“potresti almeno evitare di urlare per strada” le bisbigliò furente, notando dei risolini da parte di alcuni passanti.
“oh, ma che te ne frega tesoro? Sono una persona allegra io!”
“anche troppo” farfugliò tra sé e sé la ragazza. Lois nel frattempo si era fermata davanti ad una vetrina di vestiti. Kim sbirciò oltre il vetro, convinta che avrebbe notato solo quel genere di capi molto femminili che la madre sognava di farle indossare. Contrariamente alle sue aspettative però, i manichini erano vestiti con abiti dal taglio casual, senza pizzi o strass, accessori che facevano arricciare il naso alla giovane cestista.
Interpretando correttamente il silenzio della figlia, Lois le sussurrò, finalmente a bassa voce:
“allora? Conosco o no i tuoi gusti?”
 
Le due donne entrarono nel negozio, notando la presenza di altre tre clienti. C’era una sola commessa, che si spostava abilmente tra le tre donne, regalando a ciascuna dei preziosi consigli. Volava agilmente da un angolo all’altro del negozio, recuperando gonne e camicette a seconda delle necessità di chi doveva accontentare. Kim rimase quasi incantata nel leggere i movimenti della commessa e la grazia con cui si destreggiava; aveva due occhi molto chiari, color del grano e un sorriso bianchissimo, che la velocista ricondusse a quello di una persona che da settimane era diventata il suo chiodo fisso.
“posso aiutarvi?” le accolse la donna, chinandosi quasi verso le due donne.
Le labbra di Lois si socchiusero, come se avesse bisogno di qualche secondo di silenzio per formulare un discorso, poi, con un tono decisamente più alto del necessario, strillò:
“OH MIO DIO! WHITNEY!”
La commessa sgranò gli occhi e studiò con più attenzione la cliente che aveva appena indovinato il suo nome:
“Lois?” chiese incerta. Di fronte all’espressione affermativa e solare della donna, anche Whitney si lasciò sfuggire un gridolino entusiasta; le due si lanciarono le braccia al collo e, saltellando sul posto come due ragazzine, cominciarono a sovrapporre le parole dell’una su quelle dell’altra, tale era la frenesia di parlarsi:
“non ci posso credere! Whitney! Cosa saranno? Dieci anni che non ci vediamo?”
“anche di più. Non sapevo vivessi a Morristown!”
“io e mio marito ci siamo traferiti qui dopo la nascita di Kim” spiegò Lois, strattonando a sé la figlia, che cercò di fare buon viso a cattivo gioco. La commessa spostò lo sguardo verso Kim, che superava entrambe in altezza, e commentò compiaciuta:
“complimenti Lois, è una gran bella ragazza”
La cestista ringraziò la propria carnagione scura che le impediva di mostrare il rossore che le era esploso in faccia, mentre le due donne continuavano a chiacchierare, sull’onda dei ricordi:
“ma pensa. Scopro solo ora che sei qui. Ma non è da tanto che hai aperto questo negozio, vero?”
“no, sono un paio d’anni” la tranquillizzò Whitney, invitando le due donne a seguirla al centro del locale.
“tu Kim guardati un po’ in giro” la liquidò la madre e, prendendo da parte quella vecchia conoscenza, le due cominciarono a parlottare tra di loro.
La ragazza, rimasta sola, potè studiare tranquillamente la vasta scelta di vestiti proposti dal negozio e si sorprese del fatto che molti di questi fossero di suo gusto. Aveva appena adocchiato un maglione con fantasie a zig-zag, quando sentì la voce acuta della madre che la chiamava:
“KIM! LO SAI CHE WHITNEY HA UN FIGLIO CHE VIENE A SCUOLA CON TE?” strillò, in preda a un esagerato entusiasmo che sembrò divertire le altre clienti.
La ragazza annuì per educazione, disinteressata dall’argomento, ma Whitney non sembrava altrettanto staccata.
“vai al Dolce Amoris?” le chiese sorpresa.
Kim annuì e vide sul volto della donna distendersi un sorriso radioso, troppo simile a quello del capitano della sua squadra. Talmente uguale che, prima che donna completasse la frase, Kim aveva già fatto il fatidico collegamento, quello che giustificava la familiarità di quel sorriso:
“allora tu devi essere la famosa Kim che si allena con Dajan tutti i sabati. Mi ha detto che sei bravissima a basket”
La ragazza sentì mancarle un battito e scrutò quella donna che sin dal primo sguardo le aveva ispirato simpatia. Più la osservava, e più riscontrava in lei delle somiglianze con il figlio. Non era solo il sorriso, era anche quello sguardo, quelle sopracciglia scure e ben delineate.
“ma non ci posso credere!” aveva enfatizzato Lois, spalancando esageratamente la bocca.
“dopo che l’hanno nominato capitano, l’ho visto un po’ più teso” continuò a parlare Whitney, rivolgendosi con orgoglio all’amica.
“capitano” ripetè ammirata Lois, annuendo in direzione della figlia, quasi a voler puntualizzare qualcosa a cui Kim non prestava sufficientemente importanza.
La figlia sollevò gli occhi al cielo ma, anche se da un lato voleva allontanarsi da quell’imbarazzante situazione, dall’altro era troppo curiosa di scoprire qualcosa di più sul ragazzo. Si avvicinò quindi furtivamente alle due signore e finse di provare dell’interesse per un vestito color rosa confetto.
“e tuo marito? Che lavoro fa?” chiese Lois, mentre l’amica congedava una cliente che aveva appena acquistato uno scialle di seta.
La donna sospirò, lasciando che un sorriso triste anticipasse la risposta alla domanda che le era stata posta:
“Dajan non ha mai conosciuto suo padre. Se n’è andato prima che nascesse e da allora non l’ho più visto”
Lois si intristì mentre Kim si torturò il labbro inferiore.
Non immaginava che il ragazzo fosse orfano di padre, dal momento che lo vedeva sempre allegro e solare.
“ma io e Dajan ce la siamo sempre cavata alla grande” spiegò Whitney, tirando fuori un’energia e una positività ammirevoli “crescendo lui è diventato molto protettivo verso di me. Temevo che senza un padre, sarebbe cresciuto senza il rispetto per le gerarchie e invece non potrei essere più orgogliosa di mio figlio” concluse, dopo aver restituito il resto alla seconda cliente.
Kim sorrise tra sé e sé.
Non poteva essere più d’accordo.
 
12-7.
Sophia continuava a ripetere quel numero dentro di sé, sentendo il sangue andarle al cervello. Appena riuscivano a segnare un punto, gli avversari replicavano segnandone due di seguito. La partita non aveva preso la piega giusta e l’unica direzione che doveva intraprendere per una come lei era quella della vittoria.
Quando cercavano di mirare il pallone in punti irraggiungibili del perimetro di gioco, Nathaniel riusciva sempre a intercettarne la traiettoria e deviare il colpo con un abile tocco di piede. Se in tutta la partita aveva fatto cinque bagher, erano già tanti.
Al tredicesimo punto, segnato per l’ennesima volta grazie all’intervento del calciatore, Sophia non riuscì a trattenersi:
“ehi Ronaldo! Stiamo giocando a pallavolo!” sbottò in direzione del biondo “non puoi usare sempre i piedi!”
“il regolamento non lo vieta” s’intromise Daphne, portando le mani sui fianchi.
“questa è pallavolo” rinfrancò Sophia, lanciando saette all’avversario.
“invece di arrabbiarti” intervenne Nathaniel “perché non provi anche tu ad intercettare qualche palla con i piedi? Se lo facessi, non perdesti così miseramente”
La sua squadra scoppiò a ridere mentre la ragazza lasciava che del vapore ad alta pressione le fuoriuscisse dalla orecchie.
Nathaniel invece non riusciva a togliersi quel sorrisino divertito: stuzzicare Sophia lo faceva tornare indietro di un anno, quando a rispondere alle sue provocazioni era un ragazzo dai capelli assurdamente rossi.
 
Armin accettò di buon grado la busta con i contanti frutto delle ultime settimane di lavoro al ristorante cinese del signor Yang.
“non ti ho detlatto i piatti che hai lotto Alminio altlimenti salesti stato in debito con me” gli ricordò l’uomo, guardandolo quasi con fare minaccioso.
Il moro ridacchiò nervosamente mentre il fratello, che si differenziava da lui solo per il colore dei capelli, commentò divertito:
“mi sorprende che mio fratello non abbia mandato a fuoco il locale”.
Il ristoratore guardò l’altro ragazzo, cliente abituale del suo locale e precisò:
“tuo flatello è un blavo lagazzo, pelò è un flagello”
“concordo” ammise Alexy, mentre Armin gli mollava un pizzicotto. Il moro si era rassegnato a rinunciare al lavoro di lavapiatti, proprio perché era risultato troppo pesante per la sua natura svogliata e poco propensa agli sforzi fisici. Inoltre, dopo la notte della Vigilia, Ambra non l’aveva più affiancato davanti all’acquaio, così anche quel poco di buona volontà e incentivo che aveva, erano sfumati.
“Lin è in casa?” chiese Alexy, vedendo passare la sorella maggiore della cinese. La recita scolastica organizzata qualche mese prima, gli aveva fornito l’opportunità per conoscere meglio Lin: inizialmente Alexy aveva pensato di sfruttarla come aggancio per arrivare ad Ambra, oggetto delle attenzioni del fratello, ma in quel periodo la bionda e la mora aveva litigato pesantemente. Tuttavia il gemello artista aveva scoperto che dietro l’apparenza di una ragazza sciocca e frivola, viveva una persona sveglia e sensibile. Andavano molto d’accordo e gli era dispiaciuto vederla isolata e in solitudine dopo la sospensione di Ambra, così ogni tanto cercava di andarla a trovare durante i cambi dell’ora.
“sì, è di sopra con Ambra… vi faccio strada?” si propose Haily. Le orecchie di Armin sembrarono quasi vibrare, come se un impulso elettrico le avesse attraversate in quell’istante.
Sorridendo sornione, Alexy replicò che sarebbe stato ben lieto di scambiare due chiacchiere con la ragazza.
 
“Iris che ti prende?”
Lysandre si voltò sorpreso verso l’amica, che era rimasta a pochi passi di distanza da lui e Violet. Fino a qualche secondo prima, i tre stavano camminando per strada, diretti verso la biblioteca, dove avevano appuntamento con Kentin. Quel giorno era stata organizzata una lettura di poesie e la rossa, di malavoglia, si era lasciata trascinare in quell’uscita. Non aveva una gran voglia di vedere Kentin al di fuori della scuola. Erano passate ormai tre settimane dal suo arrivo e in tutto quel lasso di tempo, il loro rapporto non era minimamente cambiato: l’ex militare aveva legato con tutti i suoi amici, tranne che con lei. Durante l’attività del club di giardinaggio si parlavano lo stretto indispensabile e, cogliendo il fastidio e il disagio che riusciva a scaturire in lui, la ragazza preferiva che fossero gli altri membri del club a istruirlo.
Per contro, il suo rapporto con Dake era migliorato moltissimo: dopo il concerto, Iris aveva notato un raffreddamento nell’atteggiamento del surfista e la cosa, anziché deluderla, l’aveva sollevata: sapeva che il suo interesse per lei non poteva durare a lungo, non era certo una ragazza interessante e la certezza che non nutriva più secondi fini verso di lei, aveva fatto sì che si sentisse molto più a suo agio con il surfista.
Si era fermata per chinarsi ad annusare uno strano esemplare di fiore: era cresciuto su un muretto di mattoni, sfidando il rigido clima invernale. Aveva dei petali rosati e un pistillo bianco:
“questo deve essere un…” riflettè tra sé quando Lysandre tornò a chiamarla:
“allora?”
L’insistenza del ragazzo la divertì, poiché non era consono nella sua natura essere così insistente e impaziente. Sapeva quanto il giovane poeta ci tenesse a non tardare a quell’appuntamento letterario, così dimenticò il suo fiore e raggiunse i due amici.
 
“se posso permettermi, quello non fa per te”
Kim spostò lo sguardo verso la voce gentile di Whitney che, senza che la ragazza se ne accorgesse, si era portata accanto a lei. La cestista teneva ancora in mano un vestito di un colore che neanche sotto tortura avrebbe mai accettato di indossare. Mollò imbarazzata la presa da quel rosa confetto, mentre la commessa sorrideva comprensiva. Fino a qualche secondo prima, Kim era talmente sovrappensiero che non si era accorta che le due donne avevano interrotto la loro conversazione: Lois aveva cominciato a spostarsi tra gli scaffali, alla ricerca di qualcosa di adatto alla figlia, mentre Whtiney era giunta in aiuto alla ragazza.
“che gusti hai? Preferisci qualcosa di semplice?”
“direi proprio di sì” confermò Kim, sollevata nell’apprendere che la donna avesse indovinato le sue preferenze. Lois aveva appena riesumato una camicetta colorata, molto aderente in vita e l’aveva sollevata per mostrarla alla figlia. Di fronte all’espressione eloquentemente schifata che aveva ricevuto come risposta, ripose amareggiata il capo sullo scaffale. Whitney, che era di spalle, non si era accorta di quella comunicazione muta, e presentò alla giovane cliente tre proposte:
“se cerchi un capo invernale, che sia pratico, potresti provare questo maglione” e le mostrò esattamente lo stesso indumento che Kim aveva adocchiato appena entrata. Di fronte al sorriso della ragazza, la donna intuì di avere fatto centro e, con ottimismo, le mostrò la seconda proposta: era una maglia a pipistrello, nera con uno scollo a barchetta. Non aveva decori particolari, era una tinta unita che scendeva lunga fino al sedere.
Kim studiò quello che le sembrava un telo nero e di fronte alla sua perplessità, la donna le spiegò pazientemente come indossarlo.
“sono sicura che addosso a te farà un figurone”
Kim arrossì e spostò l’interesse verso l’ultimo capo: era maglia ancora più larga della precedente che una volta indossata avrebbe lasciato le spalle scoperte. Assomigliava quasi ad una mantellina ed era di un bel grigio perla.
“immagino che non ti piacciano molto i colori troppo vivaci”
Kim sorrise, compiacendosi di quanto quella donna fosse abile nell’intuire la sua personalità: a meno che non si trattasse delle divise sportive, la ragazza faceva l’impossibile per optare per colori neutri e il più possibile monocromatici.
Accolse i tre capi dalle mani della donna, mentre Lois si univa alle due:
“quindi tuo figlio verrà qui a momenti?”
Kim trasalì. Avrebbe visto Dajan in una delle situazioni per lei più disagevoli possibili: mentre comprava vestiti.
“sì, è andato a fare la spesa. Tra venti minuti chiudo così andiamo a casa a pranzo” spiegò la commessa, indicando a Kim i camerini.
Quest’ultima era un fascio di nervi. Si barricò dietro il drappo rosso e alla velocità della luce si spogliò. Se fosse stata abbastanza rapida, prima che il capitano arrivasse, lei e sua madre sarebbero già state fuori da quel negozio.
Indossò alla svelta il primo maglione e senza neanche specchiarsi, affacciò la testa fuori dal camerino:
“mi piace il maglione mamma. Prendiamo questo”
“provati anche gli altri capi tesoro!” la rimbeccò Lois, che, a contrario della figlia, voleva intrattenersi fino all’ultimo in quel negozio.
Kim ricacciò dentro la testa, rimuginando infastidita mentre la madre protestava sul fatto che avrebbe voluto vedere come le stavano quei vestiti.
Afferrò il capo color grigio e dopo neanche un minuto, già faceva capolino fuori dal camerino:
“lascia che ti vediamo Kim” ridacchiò Whitney, ed essendo lei l’autrice di quella proposta, la cestista questa volta non potè sottrarvisi. Scostò la tenda del camerino e, cercando di camuffare tutto il suo disagio, si sottopose al giudizio delle due donne:
“con quel fisico ti sta bene ogni cosa Kim” commentò deliziata Whitney, alzandosi per accomodare al meglio il vestito della cliente. La ragazza la lasciò fare, sentendosi come una bambina.
“eppure finisce per mettersi sempre le solite tute la ginnastica!” si lamentò la madre.
“oh beh, quelle sono molto comode” mediò la commessa, guadagnandosi un sorriso di gratitudine da parte di Kim.
“ah beh certo, anche tu andavi sempre in giro in tuta da ragazza” ricordò Lois, ripensando all’abbigliamento della sua ex vicina di casa. Quest’ultima aveva fatto voltare Kim verso lo specchio, invitandola a osservarsi con attenzione.
“ti sta molto bene, ma io punto tutto sulla maglia nera”
“nera?” si insospettì la donna “ma alle carnagioni scure stanno meglio i colori vivaci”
“il nero va benissimo mamma” la zittì Kim, ansiosa di tornare a nascondersi dietro la tenda del camerino. Mancava un solo capo e poi sarebbe stata libera.
Whitney assecondò la sua trepidazione e la lasciò andare. Una volta all’interno, Kim effettuò l’ultimo cambio; prima di uscire allo scoperto però, l’occhio le cadde sullo specchio interno: pur essendo un capo casual, aveva un che di elegante e molto raffinato. Non si era mai vista così e, ripensando allo stile di Brigitte, ipotizzò che un simile articolo non avrebbe fatto brutta figura nell’armadio della modella. Decisasi su quale fosse il suo articolo preferito dei tre che aveva passato in rassegna, si mostrò alle due donne, questa volta con la consapevolezza che ormai il pericolo era scampato: non aveva sentito nessuna voce maschile entrare in negozio e da lì a due minuti, sarebbe uscita da quel campo minato. Mentre abbandonava il camerino, con una mano cercò di pettinarsi i capelli che i continui cambi avevano ormai elettrizzato. Teneva lo sguardo puntato verso il basso e fu proprio a causa di questa posa che si accorse solo all’ultimo dell’arrivo di una terza persona: Dajan aveva appena varcato la porta del negozio.
Appena riconobbe Kim, il sacchetto della spesa gli scivolò dalle mani, sbattendo contro il suolo, mentre la ragazza divenne una statua di sale:
“ah tesoro, sei arrivato finalmente” lo accolse Whitney, raggiungendo il figlio “guarda un po’ chi è venuta qua oggi…”
Decisamente quell’esortazione era inutile dal momento che il ragazzo non aveva staccato gli occhi di dosso dalla cliente più giovane sin da quando aveva messo piede nel locale. Dajan non aveva mai visto Kim vestita così bene, motivo per il quale ci aveva messo qualche secondo a riconoscerla.
Quest’ultima stava già battendo in ritirata, borbottando giustificazioni incomprensibili, ma Whtiney la bloccò:
“aspetta Kim, sentiamo un parere maschile visto che ce l’abbiamo a disposizione”
La ragazza cominciò ad affondare le unghie nella carne, tale era l’imbarazzante situazione in cui si trovava. Lei e Dajan sul campo da basket si sentivano a loro agio, ma aveva notato che al di fuori, c’era sempre una strana tensione tra di loro, probabilmente a causa dei sentimenti romantici che lei nutriva verso il ragazzo.
Il capitano si grattò il mento in imbarazzo e, senza guardare in faccia la modella, farfugliò:
“ti sta bene”
La madre lo guardò in silenzio, finchè un largo sorriso le illuminò il viso.
Cercò lo sguardo dell’amica che sembrava pensare esattamente la stessa cosa.
“direi allora Kim che la scelta è facile”
 
Mentre la ragazza si rivestiva, Dajan andò nel retro del negozio a sistemare alcuni scatoloni, così Lois si avvicinò all’amica, approfittando dell’occasione per parlarle a quattr’occhi:
“ma tu ne sapevi niente?” indagò, senza specificare alcunché. La donna intuì perfettamente il riferimento implicito e facendo spallucce, ammise:
“io e Dajan abbiamo un bellissimo rapporto, comunichiamo molto; sulla sua vita sentimentale però è sempre stato molto riservato... tuttavia, quando mi parla della tua Kim, gli si illuminano gli occhi”
A quel punto erano le iridi di Lois a brillare per la gioia: l’aver visto quell’orso di sua figlia sciogliersi come un ghiacciolo appena era entrato il ragazzo le aveva regalato un’ondata di ottimismo circa le sue future speranze.
Guardò la maglia nera che la figlia aveva scelto e commentò:
“ma non è il caso che Kim provi un altro colore? Che so, il rosso per esempio?”
Whitney sorrise furbescamente e, facendole l’occhiolino, spiegò:
“il nero è il colore preferito di mio figlio”
 
Lin cominciò a picchiare furentemente i tasti della calcolatrice, esasperata dall’ennesima espressione non risolta.
“non serve a nulla rifare gli stessi passaggi dieci volte” osservò Ambra divertita.
La pazienza della cinesina era ormai agli sgoccioli e il libro di matematica stava rischiando seriamente di volare dalla finestra.
“non capisco perché non deve venirmi giusta! Guarda qua: 2x alla seconda più tre x meno quattro è l’equazione della parabola, e fin qui ci sono” scandì, guardando l’amica come a voler trovare una conferma che l’autorizzasse a proseguire il suo ragionamento “quindi se ci metto questo qua dentro, poi gli butto sotto quest’altro, dovrebbe venire fuori questa roba qua no?”
“non ti esprimi così quando sei interrogata, vero?” indagò la bionda un po’ preoccupata.
“oh no, gesticolo anche!” aggiunse l’amica, strappando una risatina alla sua insegnante. Ambra infatti si era offerta di aiutarla a prepararsi per l’interrogazione di matematica del giorno successivo, anche se l’impresa si stava rivelando alquanto complessa.
Si allungò a controllare il testo dell’esercizio, abbozzandolo su un foglio mentre la mora domandava:
“hai parlato con tuo padre? Ti ha dato per il permesso per andare a San Francisco?”
“alla fine ho deciso di pagarmelo io il viaggio, con i soldi che ho da parte”
Lin rimase basita, mentre Ambra ripensò alla conversazione avuta con il padre il giorno prima:
 
Molly stava spolverando il prezioso mobile in legno massello del corridoio principale quando vide Ambra avvicinarsi a lei. La ragazza aveva una strana luce negli occhi e, come scoprì successivamente la sua ex balia, una delle sue più care amiche l’aveva appena invitata ad andarla a trovare dall’altra parte del paese.
“mio padre è nel suo ufficio?”
“credo di sì tesoro”
Ambra ringraziò e proseguì, trovandosi davanti alla porta che più di tutte odiava aprire in quella villa enorme.
Entrando, notò che il padre era talmente assorto ad analizzare il foglio che teneva in mano, da non accorgersi della sua presenza. La figlia si schiarì la voce e solo quando lo chiamò, Gustave si accorse di lei.
La scrutò con misurata curiosità e aspettò che fosse Ambra a formulare la sua richiesta.
“posso parlarti un minuto?”
L’uomo annuì, imitando la stessa espressione pensierosa del ritratto alle sue spalle, che lo rappresentava dieci anni prima.
“siediti”
“preferisco restare in piedi” replicò la figlia, che non intendeva intrattenersi in quella stanza più del necessario. Gustave sembrò leggerle nel pensiero e sorrise amaro, scambiando con lei un’occhiata di intesa, che spiazzò la figlia. Quegli atteggiamenti gli ricordavano lui da giovane.
“v-volevo chiederti se non hai nulla in contrario che vada in California una settimana” tentò Ambra.
Normalmente si rivolgeva al padre affrontandolo con la massima freddezza e distacco, ma quel giorno c’era qualcosa di diverso in lui, anche se non riusciva ancora a concepire di cosa si trattasse.
“quando?” valutò Gustave, andando dritto al puntoe gettando preventivamente l’occhio sul calendario da tavolo.
“pensavo a febbraio, nel periodo in cui non avrò verifiche o interrogazioni”
“e come mai questa richiesta?”
“mi ha invitato una mia amica”
Gustave cambiò espressione, scrutando la figlia con una strana luce negli occhi:
“amica?” ripetè quasi sconcertato.
“non la conosci” tagliò corto Ambra, che intuiva perfettamente i pensieri del padre. A parte Lin e Charlotte, Ambra non gli aveva mai presentato altre persone e durante il suo mese di punizione, nessuno era andato a trovarla, confermando nel padre il sospetto che la figlia fosse una ragazza molto sola.
“se è per questo sono parecchie le cose che non conosco di te Ambra”
Quella frase così sibillina la disorientò per un attimo: non era abituata a vederlo affrontare quel genere di discussioni.
“e sarebbe colpa mia?”
“che importanza ha ormai?” chiese sconfitto. Roteò sulla sedia girevole, dando le spalle alle figlia. Cominciò a osservare i libri che adornavano la libreria, come se in quel momento fosse l’unica presenza umana della stanza.
Disorientata per la strana piega che aveva preso la loro conversazione, Ambra ne approfittò per sbirciare i fogli sulla scrivania. I caratteri erano scritti in piccolo ma, analizzando rapidamente l’andamento di alcuni trend economici, il segno negativo davanti a certi numeri, fecero balenare un sospetto nella sua mente; poteva sempre sbagliarsi, del resto non conosceva il significato di quei documenti, ma nel dubbio, decise che per quel viaggio non gli avrebbe chiesto soldi:
“comunque sono venuta più che altro per avvertirti. Il viaggio me lo pago io, quindi se anche hai qualcosa in contrario, non è un mio problema” e con quella formula di chiusura, si congedò sbrigativamente dal padre; più restava in quell’ufficio e più si sentiva a disagio: era una sensazione nuova per lei e di certo, non intendeva prolungarla più del necessario. Quando Ambra chiuse la porta, Gustave non si era nemmeno voltato verso di lei. Continuava a tenere lo sguardo fisso sulle costine pregiate dei suoi libri. Sua figlia gli assomigliava più di quanto avesse mai immaginato: gli angoli della bocca gli si incurvarono verso l’alto e, sorprendendosi lui stesso, nel riflesso della vetrina del mobile, vide un sorriso stanco.
 
“comunque credo di andarci a Febbraio. Dopo la chiamo e le dico se può andare”
“sarà molto contenta di-“
“Lin! Hai visite!”
Le due ragazze si voltarono verso Haily che aveva appena fatto capolino nella stanza.
“e chi è?”
surprisal!” replicò in cinese Alexy, entrando nella stanza. Dietro di lui, manifestando un imbarazzo maggiore, si stava facendo strada il gemello. Quando Ambra identificò Armin, cominciò a sorridere, senza capacitarsi di quanto fosse cambiato il suo viso. I suoi occhi zaffiro avevano cominciato a brillare, come la pietra di cui ne ricordavano il colore.
“siete venuti per la paga?” indovinò Lin, accogliendoli nella stanza.  Fece accomodare i due ragazzi sul suo letto, mentre lei e Ambra giravano le sedie verso di loro.
“matematica?” indagò Alexy.
“sì, mi interrogano. Ambra mi sta dando una mano”
L’espressione incuriosita con cui i due ragazzi cominciarono a studiarla mise parecchio a disagio Ambra: sapeva che i suoi conoscenti faticavano ad abituarsi al suo cambio di personalità e in un certo senso, lei per prima aveva ancora qualche difficoltà ad accettare di mostrare il lato più nobile del suo carattere.
“Erin mi ha detto che sei una secchia Ambra” iniziò Alexy “se non fosse che sei un anno più indietro di me, ti chiederei volentieri una mano. Questo idiota è troppo egoista per aiutare il suo fratellino” scherzò, scompigliando i capelli ad Armin.
“non hai bisogno di nessun aiuto” borbottò l’altro “basterebbe semplicemente che non passassi le ore di matematica a scaricarti musica e leggere fiabe”
“leggi fiabe?” ripeterono le due ragazze sorprese.
“mi piacciono molto” ammise Alexy, senza pudore.
“anche alla tua amica Sophia piacciono tanto, non è vero?” chiese Lin, rivolgendosi ad Ambra.
“la sorella di Erin?” indagò il gemello con gli occhi azzurri “so che siete molto amiche”
“già, andrò a trovarla in febbraio”
“ah sì? Vai a San Francisco?” intervenne Armin.
“sì, probabilmente durante il torneo”
“aspetta Ambra, ma in quel periodo non hai la serata annuale di gala?”
I due fratelli tornarono a fissare la bionda che, gesticolando nervosamente con le dita, spiegò:
“sì, e non mi dispiacerebbe affatto saltarla… però la faranno dopo il torneo, quindi ci dovrò andare”
“e Nathaniel verrà?”
“no, non credo proprio: si giocherà la scusa che è lontano per non venire”
“ma tu allora con chi ci vai scusa? Mi hai sempre detto che una ragazza non si presenta da sola a questo genere di eventi” obiettò Lin, consapevole del fatto che Nathaniel era l’unico partner maschile che Ambra poteva prendere in considerazione per quel genere di iniziative.
“ci andrò da sola e che si fotta pure l’etichetta” sbottò Ambra, facendo sogghignare i due ragazzi.
“però è un peccato” osservò Alexy “voglio dire, se già è una serata noiosa, non è giusto che la passi da sola” e dopo aver concluso quella frase, lanciò un’occhiata eloquente al fratello moro che, improvvisamente vide raddoppiare gli occhi puntati su di lui: anche Lin infatti, con un sorriso mellifluo lo stava fissando, quasi a volergli comunicare mentalmente le sue intenzioni.
Ambra invece alternava lo sguardo da un elemento all’altro, sentendosi sempre più a disagio. Lin era consapevole dei suoi sentimenti per il moro ma non voleva che questi fossero fatti trapelare, così sviò:
“non è detto che ci vada, inventerò una scusa e piuttosto quella sera vengo a cena qui con Molly visto che ci teneva”
Ma né Lin né Alexy sembravano aver dato retta al piano proposto dalla bionda.
“allora potremo venire anche io e Alexy, così posso rivedere Molly!” se ne uscì Armin, che faceva finta di non cogliere la situazione in cui voleva cacciarlo il fratello.
“penso che tra gli amici di Nathaniel, tu e tuo fratello foste i suoi preferiti” commentò Ambra.
“non cambiamo discorso!” si impuntò Lin con decisione:
“qui Ambra ti serve un cavaliere e Armin è un nullafacente cronico: ti accompagnerà lui”
“esatto” approvò Alexy “è la volta buona che si stacca dai videogiochi e impara a comportarsi da ometto”
Armin lo strattonò e a denti stretti gli sussurrò:
“mi stai mettendo in difficoltà. So cosa stai cercando di fare ma lascia che faccia le cose secondo i miei tempi”
“i tuoi tempi sono letargici. Tra te, Castiel e Nathaniel non so chi sia preso peggio”
Mentre i due confabulavano, anche Ambra aveva cominciato a protestare con Lin:
“non puoi obbligarlo a sorbirsi una serata del genere!”
“oh, sono sicura che in fondo ci verrà volentieri”
Intanto Armin era sempre più infastidito dall’insistenza del fratello:
“smettila Al. Non me la sento di mettermi in mezzo a tutti quei ricconi… preferisco di gran lunga l’idea della cena di Ambra”
“ma se vai al galà sarete da soli, scemo!”
“appunto! E se faccio la figura dell’idiota?”
“di certo non sarebbe una novità per lei”
Irritato per la battutina del fratello, Armin si indispose al punto da asserire:
“io non ci vado. Discorso chiuso”
Alexy lo guardò minaccioso e, a denti stretti, ribattè:
“tu prova a tirarti indietro e io ti assicuro che Ambra verrà a conoscenza della tua doppia identità, nuvoletta mia
Il fratello sbiancò, mentre Alexy sorrise vittorioso, rivolgendosi alle due donne.
“Armin ha detto che verrà molto volentieri Ambra, problema risolto!”
La bionda lo guardò sospettosa e cercando la verità nello sguardo di Armin, indagò:
“veramente?”
Quel semplice avverbio era stato proferito con una certa ansia e speranza, tali da urtare non poco il ragazzo. Sentendosi in una posizione alquanto imbarazzante e, senza riuscire a specchiarsi negli occhi di lei, mugolò un esclamazione affermativa.
 
Aveva perso. Lei che in ogni gioco di squadra puntava sempre alla vittoria.
Ciò che più le bruciava era che quella sconfitta le fosse stata inferta da un ragazzo come Nathaniel. Così a modo, misurato e in una parola: perfetto. Non sopportava i tipi come lui e sapeva di avere una ragione in più per non vedere di buon occhio quel soggetto.
I suoi amici, diversamente da lei, avevano abbandonato lo spirito di competizione che aveva alimentato la partita e avevano cominciato a chiacchierare amabilmente con il ragazzo.
Persino Adrian e Cedric, che si erano dimostrati un po’ ostili nei suoi confronti, si erano lasciati vincere dalla curiosità e avevano preso parte alla conversazione.
Nathaniel sembrava destreggiarsi abilmente tra i molteplici interlocutori, rivolgendo alternativamente la parola a tutti, senza lasciare nessuno escluso.
“e questo dove l’hai tirato fuori?”
Sophia si voltò verso il suo amico Space che, come sempre, era rimasto in disparte rispetto al resto del gruppo. Il ragazzo aveva chiuso il libro di fantascienza e si era portato accanto a lei:
“è il fratello di Ambra”
“ah sì? A proposito, ti ha detto quando verrà a trovarti?”
Sophia tracciò un arco sulla sabbia con la punta del piede e sospirò:
“spero il prima possibile”
Dopo un po’ i suoi amici cominciarono a dileguarsi, chi per andare a lavorare, chi all’università e chi semplicemente a bighellonare da qualche altra parte. Nathaniel aveva scoperto infatti quanto fosse eterogeneo quel gruppo di persone, faticando a capire quali dinamiche li rendessero uniti come gruppo. Dedusse quindi che avevano un concetto molto elastico di amicizia e potevano passare anche settimane senza avere notizie gli uni degli altri.
Era rimasto solo con Sophia e con il suo silenzioso amico Space. La prima, per qualche imprecisato motivo che poteva forse attribuirsi all’umiliazione recente sconfitta, era determinata a non rivolgergli la parola, fatta eccezione per commenti sarcastici; Space invece sembrava non considerare Nathaniel più interessante di una cozza attaccata ad uno scoglio.
Rassegnato di fronte al disinteresse che suscitava nei due, il biondo annunciò che sarebbe tornato al campus e quella notizia venne subito accolta dai due, con un tale sollievo che fornì al ragazzo un pretesto in più per andarsene.
Si salutarono ma appena Nathaniel e i due amici fecero tre passi, realizzarono che si sarebbe spostati nella stessa direzione:
“ma come!” sbottò Sophia “dici che vuoi andartene e poi ci segui?”
“ma io devo andare di qua!” protestò il ragazzo.
“puoi fare anche il giro di là!” spiegò lei, indicando una pista pedonale che collegava la spiaggia al centro città.
“ma sarò pur libero di fare il giro che mi pare no?”
Sophia mise il broncio, finchè un pensiero le attraversò la mente e, a giudicare dal risolino che si lasciò sfuggire, doveva essere alquanto buffo; con un’aria beffarda, che il biondo conosceva fin troppo bene, lo stuzzicò:
“non è piccolo lord che hai paura di perderti?”
“m-ma cosa dici!” si arrabbiò l’altro che del resto, non intendeva intraprendere un percorso diverso da quello dell’andata.
Mentre bisticciavano, i due continuavano a camminare, lasciando in disparte Space.
“dovresti fare come Pollicino e provare con le briciole di pane” lo schernì Sophia.
“si può sapere perché sei così irritante tu? È tutto il giorno che ce l’hai con me!”
“ho i miei buoni motivi!” lo rimbeccò l’altra.
“ma se ci siamo visti una volta sola prima di oggi!”
“e spero che questa sia l’ultima, mi dai troppo sui nervi”
“non che tu sia esattamente un mostro di simpatia”
Space continuava a guardare i due, allungando sempre di più la distanza. Non c’era modo per uno come lui di immettersi in quel dibattito, tanto era serrato.
“di certo non sarò io a venirti a cercare, anche se sarei curioso di capire cosa ti ho fatto di male”
“a me niente, è a tua sorella che ne hai fatto”
“io?” ripetè Nathaniel basito.
Sophia si bloccò, puntandogli uno sguardo duro contro i suoi occhi nocciola.
“perché non hai aiutato Ambra l’anno scorso? Stava affrontando un periodo durissimo e tu non ti sei accorto di nulla! Quanto sei insensibile?”
Sputò quell’accusa con una tale rabbia e rancore che il ragazzo non sapeva come replicare. Era completamente disorientato perché non immaginava che simili parole sarebbero uscite da quella ragazza. Del resto quando si erano conosciuti la prima volta, due settimane prima, non era stata così ostile nei suoi confronti.
Non sapeva come replicare perché in fondo, Sophia aveva perfettamente ragione: era stato così cieco e indifferente verso Ambra, da non accorgersi di quanto avesse somatizzato il dolore per la loro situazione familiare. Aveva preferito credere che sua sorella fosse forte e insensibile, invece lei era semplicemente troppo orgogliosa per ammettere di aver bisogno di qualcuno che la sollevasse da quella terribile depressione. Lui aveva fallito nel suo ruolo di fratello, quando invece quella fastidiosa ragazza accanto a lui in quella spiaggia della California, era riuscita dove lui non aveva neanche tentato.
Voleva giustificarsi, ma ogni scusa suonava vuota e debole.
 
NOOOOOOOOOOOOOOOOO!!!!!!!!!!!!!!!!
 
Un urlo disperato li fece sobbalzare, facendo loro puntare lo sguardo verso il mare.
Sull’acqua salata, in cui ribollivano delle onde impetuose a causa del vento che si era levato, si distingueva la sagoma di un bambino che si agitava terrorizzato. A tre metri di altezza, su una sporgenza della roccia si trovava la madre, evidentemente incinta,  che tremava e sbraitava senza controllo, mentre assisteva impotente all’affogamento del figlio.
Nathaniel non fece neanche in tempo a togliersi le scarpe che vide sfrecciare Sophia accanto a lui.
Con uno scatto fulmineo, la ragazza si tuffò nel gelido oceano e sfidò le onde, raggiungendo il ragazzino. Il freddo era quasi doloroso per i suoi muscoli, impedendole quell’agilità che normalmente aveva in acqua. La vittima continuava a dimenarsi, e nonostante l’arrivo della sua salvatrice, non riusciva a calmarsi. Sophia lo afferrò ma aveva l’impressione che le onde fossero sempre più violente, rendendo meno salda la sua presa sul ragazzino. Anche incamerare ossigeno si stava rivelando un’operazione più complicata del previsto. Le sembrava che stessero passando interi minuti senza fare alcun progresso se non quello di lasciarsi andare sempre di più alla fatica: sentiva un dolore sempre più forte al torace e le gambe sempre più atrofizzate dal gelo. Il bambino aveva smesso di agitarsi, facendole temere il peggio.
Cercò con un estremo sforzo di portare entrambi con la testa fuori dall’acqua ma l’ennesima onda vanificò il suo tentativo, ricacciandola con veemenza sott’acqua. Aprì gli occhi e vide la sagoma del bambino, che come lei, era vestito pesantemente. Il loro abbigliamento invernale infatti rendeva enormemente più limitato e faticoso ogni suo movimento.
Ripensò alle raccomandazioni del dottor Wright, di non affaticare il cuore e tale consapevolezza contribuì a incrementare la sua rassegnazione. Per l’ennesima volta l’impulso l’aveva tradita e non le sarebbe stata concessa un’altra opportunità: come nei videogiochi che tanto amava, aveva esaurito le vite.
Era talmente paralizzata dal freddo, che quasi non avvertì la morsa che le aveva afferrato il braccio e che l’aveva costretta a tornare a tenere la testa sopra l’acqua.
Socchiuse gli occhi e vide una chioma bionda e delle mani, che le sembravano addirittura calde, che si portavano sul suo viso, per poi schiaffeggiarlo:
“forza, resisti!”
Istintivamente la ragazza serrò la presa sul bambino che realizzò di stringere ancora attorno a sè. Si lasciò strascinare verso la baia, spostamento che era agevolato dalle onde che però non la smettevano di sommergerla alternativamente. Tuttavia, in quel percorso contrario, la sua testa non rimaneva a lungo sott’acqua, poiché c’era qualcuno che si assicurava di lasciarla respirare.
Sentì il contatto con la sabbia, quasi bollente rispetto al gelo che la attraversava.
Poi delle mani.
Come delle carezze troppo frenetiche ed energiche per essere tali.
Le sue braccia erano sfregate da quei palmi che scivolavano convulsamente contro di esse e finalmente, Sophia riuscì a mettere a fuoco il viso preoccupato di Nathaniel: con le gocce salmastre che scendevano copiosamente dai suoi capelli che l’acqua aveva reso più scuri, e il labbro inferiore che tremava, il ragazzo cercava di scaldarla.
Lei avvertì poi il peso di qualcosa di asciutto coprirle le spalle e fu proprio il biondo ad accomodarglielo stretto, avvolgendola completamente; lentamente, un’ondata di calore cominciava a diffondersi nel suo corpo, riscaldandola dall’interno; tutt’attorno a loro si era formata una piccola folla: c’era chi accorreva con asciugamani, altri con delle bevande calde o altri semplicemente si informavano sulle condizioni di salute dei tre. La madre del bambino era appena giunta sulla spiaggia, correndo il più velocemente possibile data la sua delicata condizione. Aveva abbracciato stretto il pargolo e lo teneva avvolto nel suo giubbotto, ignorando le voci dei presenti.
“tieni ragazzo” disse un vecchietto, allungando a Nathaniel il proprio cappotto. Il biondo accettò con un sorriso, mentre Sophia tornava a riprendere un po’ di colore e lucidità.
Lo guardava di sottecchi, ancora troppo stremata e infreddolita per riuscire a dirgli qualcosa. Il suo corpo era ancora percorso da brividi ma questi si attenuavano sempre di più.
Lui sorrideva modestamente, mentre un sacco di mani e voci si accavallavano per complimentarsi per il suo eroico gesto. Alcuni degli spettatori cercavano di interagire anche con Sophia, informandosi circa le sue condizioni, ma quest’ultima era troppo presa dal profilo del biondo per accorgersene.
Nathaniel ringraziava chi a sua volta lo elogiava e cercava di minimizzare tutte le lodi che gli venivano rivolte. La ragazza notò che, diversamente da lei, si era tuffato in mare senza l’ingombrante cappotto e con l’accortezza di togliersi le scarpe.
Il biondo non sembrava quasi sentire il freddo, come se il semplice giubbotto che gli era stato prestato sprigionasse un calore intrinseco. Non mancava di lanciarle qualche occhiata fugace, quasi ad assicurarsi che si stesse realmente riprendendo.
Sophia, per la prima volta in quella giornata, gli sorrise leggermente, rivolgendo il suo primo pensiero alla sorella:
“lo sai Erin… forse avevi ragione tu: questi principi azzurri non sono poi tanto male”
 
“etciù!”
“non hai il tempo per starnutire Erin!” la rimproverò Boris, mentre la ragazza si strofinava l’indice contro il naso.
“sei un Cerbero Boris!”
“io il Cerbero? E quella bestiaccia che ti sei portata dietro?” la rimbeccò l’allenatore, indicando una massa di pelo scuro, seduta a bordo campo. Con la lingua che gli penzolava di lato e uno strano ghigno divertito, Demon assisteva ansimando rumorosamente, al dibattito tra la ragazza e l’uomo.
“spiegami di nuovo perché te lo sei portato dietro” inveì il coach, recuperando la palla da basket.
“si sente solo senza Castiel e posso stare con lui solo durante il weekend… che tu hai ben pensato di monopolizzare per l’allenamento” replicò la cestista, con tono piccato.
Demon cominciò ad abbaiare, quasi volesse appoggiare le parole della sua alleata.
“a proposito, il suo padrone l’hai più sentito?”
“ieri sera, ma temo che passeranno altre due settimane prima che riesca a parlare di nuovo con lui”
“come se la sta cavando?”
“bene, ma non è che mi abbia detto molto”
“ma di cosa avete parlato allora?”
“bah, un po’ di tutto” spiegò vagamente la ragazza. Mancavano circa una decina di giorni al torneo e l’ansia crescente aveva contribuito ad accantonare un po’ i suoi pensieri dall’amico. Era fin troppo evidente che Castiel non fremesse dalla voglia di sentirla, così Erin aveva cominciato ad abituarsi all’idea di rispettare gli spazi del ragazzo… anche se, quando pensava a lui sentiva una nostalgia angosciante.
“facciamo un po’ di suicidi” le ordinò Boris.
“perché usi il plurale se poi alla fine sono solo io a correre?” osservò con cinismo la ragazza.
“ma ti lamentavi così tanto anche con Castiel?”
Erin sorrise, ripensando agli allenamenti con il rosso che, in fondo, equivalevano ad una mattinata di relax se paragonati ai ritmi che le imponeva Boris.
“non pensi che sia arrivato il momento di spiegarmi la tua strategia Bors? Dici che mi stai sottoponendo ad un allenamento speciale e ancora non ho capito quale sarà il mio ruolo nella squadra!”
L’allenatore le fece segno di tacere e si iniziare l’esercizio che le aveva ordinato. Erin tuttavia sembra determinata a non lasciar cadere l’argomento.
“non è che per caso non c’è nessuna strategia?” indagò pensierosa.
“Erin corri!”
“no” si impuntò la ragazza “dimmi la verità! So di essere una palla al piede per la squadra, quindi non illudermi con finte promesse. Non sarò mai utile, altro che piano segreto!”
La cestista guardava Boris con determinazione che però sembrava vacillare sotto il peso dell’insoddisfazione personale: era una schiappa, non c’era altro modo di dirlo.
Boris non replicò, così lei capì di aver centrato il punto.
Delusa, si allontanò dal campo, dirigendosi verso Demon che le trotterellò incontro, felice di essere finalmente oggetto delle sue attenzioni.
“dove pensi di andare?”
La voce severa con cui Boris la richiamò le fece venire i brividi. Anche se l’allenatore si arrabbiava spesso, era difficile prenderlo seriamente e c’era sempre qualcosa di comico nel suo modo di rimproverare i ragazzi; ma quella volta, Erin capì che doveva dargli retta.
Si arrestò, con Demon che fremeva dal desiderio di essere accarezzato:
“l’allenamento non è finito Erin” chiarì l’uomo, scandendo le parole “intendevo parlarti proprio oggi della mia strategia, visto che ormai abbiamo concluso la preparazione muscolare, ma volevo farlo al termine degli esercizi, mentre ti riposavi”
L’allenatore la osservava con durezza, indizio della sincerità della sua ammissione e proseguì:
“ma dal momento che non riesci a fidarti di me, siediti che ne parliamo”
La ragazza lo fissò sospettosa e mormorò:
“quindi hai davvero in mente un piano?”
Boris non replicò ma si accovacciò sul pavimento della palestra del liceo. In qualità di preparatore della squadra del liceo, la preside gli aveva consegnato le chiavi della struttura, invitandolo ad usarla anche durante il weekend, se ciò si fosse reso necessario.
Erin lo imitò e con lei, Demon, della cui presenza all’interno dell’istituto, la vecchia preside non sarebbe mai venuta a conoscenza.
“analizziamo i tuoi punti deboli Erin” esordì Boris “sei bassetta per fare basket, di conseguenza non sai schiacciare, sei scarsissima nel gioco sotto canestro e soprattutto, in campo non ti si vede”
Sentendo elencare tutte quelle pecche, l’autostima di Erin le scivolò sotto i piedi. Sapeva di essere impedita, ma ascoltare qualcuno che ammetteva candidamente tutta la sua incapacità era come rigirare il coltello nella piaga.
“tuttavia” precisò alzando l’indice “ho fatto in modo che una di queste cose diventasse il tuo punto forte”
La cestista lo guardò senza capire, aspettando un ulteriore chiarimento:
“ti ho fatta diventare una sorta di tweener
“una che?”
tweener” ripetè l’allenatore, prima di passare alla spiegazione del ruolo “è una posizione non ufficiale della pallacanestro riferita a giocatori che combinano gli attributi di una guardia tiratrice e di un playmaker, ma che non hanno per intero le caratteristiche di uno dei due ruoli. Come il play è più orientato ai passaggi che alla realizzazione, voglio sfruttare la tua visuale di gioco;  tuttavia il tweener manca dell'atteggiamento offensivo di cui un playmaker puro dispone e non ha l'altezza per rientrare nell'ambito del ruolo di guardia tiratrice”
“non c’ho capito granché ma diciamo che sono una specie di ibrido?”
“diciamo così: in un certo senso ti ho creato un ruolo tutto tuo Erin, su misura per te, sfruttando la tua statura e la tua agilità. Avrai un ruolo per lo più difensivo, hai dei riflessi molto buoni quindi riesci a rubare la palla con grande velocità. In campo ti muovi con una scioltezza che passa quasi inosservata, complice anche il fatto che sembri un folletto se paragonata ai giganti che ti giocano attorno. I tuoi compagni sono abituati alla tua presenza e a tenerti d’occhio, ma sono convinta che per i tuoi avversari sarà molto più difficile: il fatto che tu sparisca durante la partita, sarà uno degli assi nella manica della nostra squadra”
La ragazza lo guardò poco convinta:
“sarò anche piccolina ma mica sono un fungo”
Boris ridacchiò e continuò:
“tu Erin non ti rendi conto di come giochi”
“perché come gioco?”
“diciamo che il tuo comportamento in partita riflette la tua personalità: non pensi mai a concludere tu l’azione, lasci sempre che sia qualcun altro a farlo, anche se ti trovi in un’ottima posizione. Passi sempre la palla, hai una visione completa del gioco e della posizione dei giocatori, non riesci a dimenticarti di nessuno. In una parola, sei troppo generosa quando giochi…”
Erin stava per controbattere ma Boris non aveva finito:
“… e quando c’era anche Castiel in squadra ti distraevi a guardarlo un po’ troppo spesso” la rimproverò bonariamente chiudendo gli occhi e inarcando le sopracciglia. La mora dimenticò ciò che voleva dire, sentendosi colta in flagrante, mentre l’allenatore proseguiva:
“comunque sia Erin, non voglio che ti butti giù perché ti sembra di non essere all’altezza di Kim” le disse, affrontando un argomento che tormentava Erin sin da quando aveva visto come la ragazza si muoveva in campo “lei è  un fenomeno, non si discute, ha lo sport nel sangue, ma anche tu a modo tuo sei speciale. Sono molto orgoglioso delle mie ragazze e sono sicuro che saranno determinanti per ottenere un buon piazzamento” e dopo aver pronunciato quelle parole incoraggianti, Boris si alzò, allungando un braccio verso Erin.
La sua cestista lo scrutò dal basso verso l’alto: quando l’aveva visto la prima volta era rimasta sconvolta da quella figura muscolosa e al contempo ridicola. Con il passare delle settimane però, Boris, che ormai i ragazzi chiamavano Bors, era diventato una sorta di zio per la squadra, che riusciva a sollevare il morale degli atleti quando lo sconforto prendeva il sopravvento. Si era affezionata a lui e le parole con cui l’aveva incoraggiata quel giorno iniettarono in lei un'ondata di entusiasmo: Accettò la sua stretta e, stringendogli la mano, esclamò:
“allora? Dicevamo i suicidi?”
 
La testa di Iris ciondolava pesantemente. Erano due ore che era seduta su quella sedia, la cui scomodità era diventata un pretesto per non addormentarsi. Annoiata, si guardò attorno, analizzando per l’ennesima volta l’espressione estasiata con cui Lysandre e Violet ammiravano il famoso poeta Kirot che quel giorno deliziava i lettori con l’interpretazione delle sue poesie.
Non c’era verso che alla rossa tutta quella letteratura andasse a genio. L’uomo aveva una voce terribilmente piatta, priva di intensità ed emozione. Kentin non si era presentato all’appuntamento con gli amici e per questo lei si trovò ad invidiarlo non poco.
Appena Kirot annunciò il termine dell’incontro, la ragazza scattò immediatamente in piedi, fin troppo entusiasta che la sua agonia fosse conclusa.
Lysandre infatti le lanciò un’occhiataccia biasimevole, ma lei lo ignorò ed esortò i due amici ad affrettarsi a seguirla all’esterno. Tutti quei libri che la circondavano le regalavano una sensazione di claustrofobia e non vedeva l’ora di tornare all’aria aperta, ambiente in cui si sentiva più a suo agio. Sin da bambina Iris amava stare in mezzo alla natura e la sua passione dei fiori era scaturita proprio dall’interesse con cui osservava le piante più colorate.
“ti è piaciuto Iris?” chiese ingenuamente Violet che non si era minimamente accorta della totale apatia con cui l’amica aveva seguito la lettura.
“diciamo che non è proprio il mio genere di attività… sono venuta solo per la compagnia” spiegò, facendole l’occhiolino.
“invece di sbadigliare tutto il tempo” la rimproverò gentilmente Lysandre “potevi provare a concentrarti un po’ di più su quello che stavi ascoltando: quella era arte”
“se mi fossi concentrata troppo mi sarei addormentata Lys, è stato meglio aver lasciato che la mia mente si facesse in giro”
Violet sorrise conciliante, mentre l’unico maschio del trio sollevava il sopracciglio:
“ho l’impressione che l’amicizia con mia sorella ti stia influenzando troppo Iris”
“magari” esclamò l’altra “comunque la prossima volta che la vedo mi sente! Non si tira pacco così all’ultimo! Almeno avrei avuto qualcuno con cui lamentarmi”
“a proposito di gente che non si presenta, novità da Kentin?” le domandò il poeta. Iris tentennò, farfugliando qualcosa sul fatto che non aveva il suo numero.
“non ce l’hai?” chiese Lysandre perplesso, tirando fuori il proprio cellulare e controllando la casella messaggi “ero convinto del contrario, anche perché tra di noi, siete quelli che passano più tempo insieme”
La ragazza si irrigidì e si giustificò:
“beh, non siamo sempre insieme durante l’attività del club, anzi… lavoriamo in gruppi diversi”
“chi è che lavora in gruppi diversi?”
I tre si voltarono e riconobbero una figura che Lysandre e Violet non vedevano dai tempi della recita; quanto ad Iris invece, erano settimane che rimaneva in contatto con quello che era diventato uno dei suoi più cari amici:
“Dake!” si elettrizzò “mi avevi detto che non saresti venuto!”
“alla lettura delle poesie” precisò il ragazzo avvicinandosi “infatti spero sia finita, no?”
Iris sorrise, mentre Lysandre riservò anche al nuovo arrivato la stessa espressione corrucciata che aveva rivolto alla rossa poco prima.
“giusto qualche minuto fa” spiegò quest’ultima.
“hanno finito?” chiese una voce ansimante.
I quattro si voltarono verso una figura piega in avanti per la corsa che aveva appena fatto e che cercava disperatamente di prendere fiato. Kentin era uscito di casa in fretta e furia, lasciando il giubbotto aperto e la sciarpa al calduccio dentro il cassetto.
“come mai arrivi solo ora?” gli chiese Lysandre, osservandolo con curiosità.
“quella cazzo di sveglia” farfugliò il militare, mettendosi dritto. Aveva le guance imporporate per lo sforzo di quella sorta di maratona che aveva corso. Nonostante la sua preparazione atletica, ricevuta dall’addestramento militare, aveva preteso troppo dal suo fisico.
Dake sbirciò casualmente l’espressione di Iris e si accorse dello strano sorriso con cui fissava il moro. Non gli aveva staccato gli occhi da quando era arrivato, nemmeno per un attimo.
“siamo sicuri che sia stato un problema della sveglia?” scherzò Dake, dando una piccola gomitata di intesa alla ragazza, per scrollarla dai suoi pensieri. Quel banale gesto non passò inosservato a Kentin che, anche se cercò di non darlo a vedere, si inasprì:
“se così non fosse, sta pur certo che non sarei arrivato correndo come un idiota” replicò a denti stretti.
“potevi prendere l’autobus, avresti fatto prima” osservò Dake placidamente.
“cosa ti fa credere che non l’abbia fatto?”
“allora perché non ti ho visto? Sono sceso alla fermata laggiù un minuto prima che arrivassi”
I due ragazzi si scambiavano quelle frecciatine, ignorando completamente il resto del gruppo: Dake aveva un sorriso quasi beffardo, celando dietro un’apparente gentilezza, un intento provocatorio, mentre Kentin, meno abile a nascondere le proprie emozioni, tradiva una certa tensione e irritazione.
“comunque questo è Kentin” tagliò corto Iris “ e lui è Dakota, ma per gli amici Dake”
“ah, sei il nuovo giardiniere?” si beffò il surfista, stuzzicando il ragazzo.
Quest’ultimo si morse la lingua, come se fosse una punizione per non essere in grado di replicare. Non aveva mai sentito parlare prima di quel ragazzo e il modo in cui si relazionava a Iris non gli piaceva affatto.
“andiamo a casa?” tagliò corto Violet.
I quattro si voltarono e, dopo che Lysandre confermò che era ormai ora di pranzo, decisero di congedarsi.
“mi dispiace che siate venuti per niente” commentò la vocina gentile dell’artista, mentre si incamminavano. I due ritardatari rimasero per un attimo senza parole, ma fu Dake il più abile a trovare quelle giuste:
“per niente? A me non interessavano le poesie, sono venuto solo per…” e cercò Iris prima di concludere la frase “…voi”
La rossa però non si accorse di quell’intesa che invece non sfuggì a Kentin:
“tu lavori Dakota?” domandò, per cambiare argomento.
“Dakota? Chiamami Dake” replicò amabilmente l’altro cogliendo perfettamente il motivo per il quale il militare l’avesse chiamato così: di certo non lo considerava già suo amico “comunque sì, ho finito la scuola qualche anno fa e ora lavoro alla Pentathlon in centro”
“ah” commentò laconico Kentin, calciando un innocente sassolino incappato sul suo percorso.
Lysandre osservò quella strana dinamica tra i due ragazzi e sorrise:
“a proposito Dake, è aperto ora il negozio?”
“sì, facciamo orario continuato. Dovrebbe esserci Pratt di turno”
“ottimo, perché io e Violet dobbiamo farci un salto. Vieni con noi che ci dai un consiglio”
La giovane artista guardò interrogativa il poeta che le rivolse un sorriso complice il quale bastò a sopire in lei ogni perplessità.
“che dovete prendere?” e prima che Lysandre potesse rispondere, Dake si affrettò “comunque Pratt è bravissimo, fatevi consigliare da lui”
“ma io mi fido solo di te” insistette Lysandre, il cui sorriso diventava sempre più inquietante “non ti preoccupare per Iris, la lasciamo in buone mani” aggiunse, iniettando nel ragazzo il sospetto che ci fosse dello scherno in quella frase.
“cosa devi comprare?” tornò a ripetergli Dake.
“te lo spiego per strada, è una sorpresa” e, prendendo il ragazzo per il braccio lo trascinò via.
“aspetta Lys!” protestò l’altro “mica ti ho detto che ci vengo!”
Lysandre si bloccò, voltando meccanicamente il capo. Gli occhi eterocromi erano diventati due fessure, talmente taglienti da rassomigliare all’espressione inquietante di un serial killer. A rendere il tutto ancora più spettrale, era il capo leggermente chinato verso il basso e il sorriso mellifluo, troppo tirato per essere spontaneo:
“e invece tu verrai” gli sussurrò in tono convincente.
Dake trasalì, cacciando giù un grumo di saliva e in pochi secondi, si trovò a dover salutare distrattamente Iris.
La ragazza aveva seguito quella scena senza battere ciglio, non capendone le motivazioni, così come Kentin che da un lato era sollevato nell’assistere all’evaporazione di Dake, ma dall’altro era sempre più nervoso all’idea di restare da solo con la ragazza.
In due settimane il loro rapporto non aveva dato cenno di migliorare e lei gli sembrava sempre più ostile.
“ehm… casa tua dov’è?” le chiese il ragazzo, un po’ in imbarazzo.
“non lontano da qui” replicò l’altra, demoralizzando il suo cavaliere “ci arrivo da sola, non disturbarti, vai pure direttamente a casa tua”
“ma sono di strada… ti accompagno”
Iris lo guardò dubbiosa e obiettò:
“ma se non sai nemmeno dove abito, come fai a dire che sei di strada?”
Kentin si grattò il capo in difficoltà, vergognandosi della figuraccia che aveva appena aggiunto alla lista, mentre la rossa lo scrutava con sincera curiosità. Non ricevendo risposta, cominciò a camminare, così il ragazzo si ingegnò per cambiare argomento:
“è da tanto che conosci Dake?”
Iris riflettè un attimo e pensò:
“da ottobre circa”
“pensavo da più tempo”
“beh all’inizio non mi stava granchè simpatico, ma ora ci vado molto d’accordo… sono sicura che anche per te sarà così”
“sì sì come no” farfugliò il moro, affondando le mani nelle tasche.
“scusa?”
“no niente”
Iris non insistette e continuò ad avanzare, mentre il ragazzo si affannava a trovare qualcosa con cui riempire quell’imbarazzante silenzio. Passarono davanti ad una serie di vetrine, alcune delle quali erano di negozi che stavano chiudendo per la pausa pranzo. Kentin era talmente immerso nei suoi pensieri che quando parlò, non si accorse che Iris non era più accanto a lui. Aveva cominciato una frase sul tempo ma non ricevendo alcun segno di risposta, realizzò che la ragazza era rimasta indietro di pochi passi.
Aveva incollato il naso sulla vetrina di una fioreria e analizzava ogni singola pianta esposta. Il ragazzo ritornò sui suoi passi e commentò quasi apatico, manifestando il suo totale disinteresse per quel settore:
“ti piacciono proprio tanto le piante”
Iris si staccò dal vetro, lasciando l’impronta della punta del naso e gli sorrise; quel sorriso fece collassare il povero Kentin, che era completamente disabituato a vedere quel genere di espressione sul volto della ragazza:
“le amo. Quando sono in mezzo al verde mi estraneo da tutto, e poi i fiori in particolare sono qualcosa di naturalmente meraviglioso, con i loro colori e profumi”
Kentin la ascoltava in silenzio, mentre lei si lasciava trasportare dalla sua passione:
“lo sai che ogni fiore ha un suo significato?”
“e tu li conosci tutti?”
“alcuni” ammise Iris. Kentin scrutò i vegetali e, ignorandone il nome, indicò un fiore appariscente:
“quello cosa simboleggia?”
“il giglio?” chiese conferma Iris “quello è la purezza”
“e quello?” ritentò Kentin
“la dalia? È la riconoscenza”
“e quello là in fondo?”
Iris ridacchiò commentando:
“sembri un bambino”
Sollevato nel vederla allegra e per essere riuscito finalmente ad instaurare una conversazione piacevole con lei, il ragazzo insistette nel sapere il significato di una pianta semi nascosta da un pannello.
“quale dici? Quella con i petali gialli accanto alla margherita?”
“no, il contrario: quella con i petali bianchi accanto ai gialli”
Iris scoppiò a ridere e commentò:
“ma quelle sono margherite! Dopo due settimane al club di giardinaggio, almeno questo fiore dovresti saperlo riconoscere”
Kentin fece spallucce mentre la rossa spiegò:
“rappresenta la semplicità e l’innocenza”
Il ragazzo rimase in silenzio, pensieroso, tenendo sulle spine la ragazza.
“che ti prende?” commentò lei dopo qualche secondo.
“stavo pensando che sei proprio come le margherite tu”
La rossa lo guardò senza capire, così Kentin, riprendendo a camminare, le spiegò:
“voglio dire: semplicità e innocenza sono parole che ti descrivono no?”
“temo di essere più una bocca di leone” sospirò amara.
“perché?”
“è il simbolo dell’indifferenza” spiegò Iris “penso che il mio passare inosservata sia la caratteristica più distintiva”
Kentin sembrò non cogliere a pieno il peso dell’amarezza che gravava su quella considerazione, semplicemente perché non la condivideva affatto.
Per lui Iris era sempre la prima ragazza su cui, involontariamente, finivano per posarsi per primi i suoi occhi. Era convinto che anche se entrando in una stanza ci fosse stato un elefante, la sua attenzione sarebbe stata sempre e comunque calamitata per prima dalla rossa.
“tu passi inosservata? E io che dovrei dire?” disse infine, senza accennarle minimamente a quali pensieri si arrovellassero nella sua mente. Di fronte alla perplessità della ragazza, il moro la accusò ridendo:
“non ti sei neanche ricorda che ci eravamo già conosciuti durante le vacanze di Natale!”
L’indifferenza di Iris nei suoi confronti l’aveva urtato non poco il primo giorno di scuola. Solo con lei si sentiva irritantemente timido e impacciato e non era riuscito a farsi avanti e parlarle del loro primo incontro, deducendone che lei si fosse completamente scordata di lui.
“m-ma io ero convinta che fossi tu a non ricordarti di me” commentò Iris, presa in contropiede.
Dentro di sé sentiva crescere un’eccessiva gioia, mista a sollievo: non aveva rimosso il loro prima incontro dalla sua memoria. Anche il ragazzo era rimasto alquanto sbigottito da quella confessione.
“beh” convenne lui con un sorriso dolcissimo “non sei una che si dimentica facilmente” e, dopo aver pronunciato quella verità, si fece prendere dall’imbarazzo e accelerò il passo; decisamente, si era spinto oltre l’audacia consentitagli dalla sua personalità.
 
Il nove febbraio.
Erin ricontrollò l’agenda del cellulare, chiedendosi come potesse essere già arrivata quella fatidica data segnata sul calendario più di tre mesi prima.
Erano ormai due ore che erano in viaggio ma, più passavano i minuti e più si sentiva nervosa. Anche il resto della sua squadra era insolitamente silenziosa. Dajan si era seduto da solo, ficcandosi le cuffie bianche nelle orecchie da cui, avvicinandosi si riconoscevano le musiche dei Metallica.
Trevor era impegnato a messaggiare con la sua Brigitte, che non cessava di incoraggiarlo e sostenerlo.
Steve, il più alto della squadra, fingeva di dormire e con lui, anche tutti gli altri sembravano poco inclini alla conversazione. In testa al pullman solo Boris e Faraize erano impegnati a chiacchierare. Ancora Erin non riusciva a capire come, tra tutti i professori di ginnastica del liceo, la preside avesse potuto scegliere il più smidollato in qualità di secondo accompagnatore.
Sbirciò l’espressione di Kim, seduta accanto a lei. Era ormai mezz’ora che non spiccava parola e sembrava completamente immersa nei suoi pensieri. Il paesaggio autostradale scorreva rapido sotto i suoi occhi, senza colpire in modo particolare l’interesse della cestista.
Era surreale l’atmosfera che si respirava in quella vettura, soprattutto per una come Erin che non era abituata alle competizioni sportive. I saggi di ginnastica artistica o di danza erano tutt’altra cosa.
 
Dopo altri venti minuti di viaggio, la corriera imboccò una stradina ciottolosa e arrivò in un piazzale di cemento. L’autista spense il motore, volgendosi verso i due adulti.
Boris fu il primo ad alzarsi dal suo posto e, guardando i suoi ragazzi, sorrise, carico di eccitazione.
Erano tutti tremendamente concentrati: nulla gli ricordava la squadra chiassosa ed esuberante con cui aveva lavorato negli ultimi mesi.
In silenzio quasi spettrale, uno ad uno i cestisti scesero i gradini del mezzo e sostarono sul piazzale.
Tutti e undici puntavano lo sguardo in un’unica direzione: al centro dello spiazzo, si ergeva un edificio a forma cilindrica, sviluppato in più piani.
Anche se erano piuttosto lontani, sembrava loro di sentire il rumore dei palloni sbattuti ritmicamente contro il pavimento del campo. Quella suggestione era forse provocata dalla trepidazione e dall’eccitazione che quasi faceva vibrare i loro muscoli allenati.
L’attesa era finalmente finita: il torneo era iniziato.
 
 
 
 
 
 
NOTE DELL’AUTRICE:
 
Buongiorno ^^
Mi preme chiedervi una cosa, rivolgendomi in particolare a quelle lettrici che erano rimaste (comprensibilmente) un po’ deluse dal capitolo precedente: questo capitolo è venuto meglio? (Non è una ricerca subdola di complimenti)
Le vostre osservazioni della scorsa volta mi hanno fatto incredibilmente piacere, perché mi hanno dato prova della vostra capacità critica e le ho usate come riferimento mentre scrivevo questo capitolo. Spero che il 41 sia stato solo uno scivolone episodico e che con questo, di essere tornata a quel genere di narrazione che piace a voi ^^ (se così non fosse, attendo consigli e suggerimenti ;).
Riconosco che il precedente l’ho fatto in modo piuttosto frettoloso e privo di particolari emozioni… cioè era una cosa di cui mi ero resa conto anche io, quindi chiedo perdono >. Veniamo ora alla spiegazione del titolo: LET’S MOVE!. Come credo sappiate, e correggetemi se sbaglio, è il titolo della campagna mossa da Michelle Obama contro l’obesità in America; ecco… non c’entra una benemerita cippa con il capitolo XD  Ho scelto questo titolo solo perché tra la partita di pallavolo, il salvataggio in acqua  e l’allenamento di Erin, c’è stato un po’ di movimento ;) a quello fisico si sommano le esortazioni da parte dei cupidi di questo capitolo (da una parte Lin e Alexy, mentre dall’altra Lysandre) i quali hanno cercato di smuovere un po’ la situazione tra le varie coppie di cui si occupano (Lysandre in realtà era destinato alla coppia Erin-Castiel, ma era una situazione talmente disperata che ora ha puntato tutto su Iris u.u)…a tal proposito, il fatto che il poeta preferisca Kentin a Dake per la rossa, non implica necessariamente che sia una convinzione condivisa dall’autrice, dal momento che Iris sta cambiando sempre di più la sua opinione sul bel surfista :3… ecco allora un sondaggio: chi preferite stia con Iris? E perché? È solo una mia curiosità ^^.
Finalmente signore, siamo arrivati al secondo evento più atteso, dopo il concerto del liceo: IL TORNEO DI BASKET! Visto che richiederà un bell’impegno narrativo, devo ringraziare in anticipo una fida collaboratrice, che fa della pallacanestro il suo pane quotidiano: Manu_Green8, che è stata così gentile da darmi una mano già in questo capitolo, facendomi delle correzioni tecniche e precise nel dibattito tra Erin e Boris. Diciamo che il ruolo che Boris dice di aver creato per Erin è frutto di un consulto sportivo tra me e Manu XD ;) (quindi, ti ringrazio anche da qui :3).
 
È tutto: grazie per aver letto il capitolo… alla prossima :D
 
P.S. perdonate se non ho fatto il riassunto del capitolo prima ma non ne avevo proprio voglia XD (W la sincerità)
P.S.S: il disegno in basso è opera di una ragazza che ormai non ha quasi più bisogno di presentazioni, ma che non posso fare a meno di ringraziare: _nuvola rossa 95_ ^^
 
  
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