── La
Comitiva degli Aspiranti Suicidi ──
“We know we
shouldn't do it but we do it anyway”
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“Il suicidio non elimina la possibilità che la vita
peggiori.
Il suicidio elimina la possibilità che essa diventi
migliore.”
Oliver Sykes
November 8/9
SUNDAY/MONDAY
Arrivato a
casa, la prima cosa che fece fu controllare la segreteria telefonica. Non
frequentava molta gente, ma quelle poche persone che conosceva, per motivi a
lui oscuri, ritenevano opportuno intasargli il telefono con i loro stupidi
messaggi. Si sedette su una sedia della cucina e ascoltò:
“Mark, ciao, sono
io, Peter. Volevo chiederti se oggi ti andava di venire allo spet-tacolo di
Heinrich. Chiama, se vuoi.”
Sono
troppo stanco, magari un’altra volta.
“Salve, signor Williams! Sono la signora
McGravy, la vicina! Dei parenti mi hanno portato delle mele buonissime e volevo
dargliene un po’. Lei è sempre così stanco che un po’ di frutta le farà senz’altro bene!”
Quella
vecchietta è davvero adorabile…
“Ehi, Marcolino,
come va? Sono Frank. Volevo dirti che ho sistemato quelle scar-toffie che mi
avevi dato. Se vieni allo spettacolo poi ne parliamo con calma… Ma so che non lo
farai. A lunedì!”
Già.
Non verrò. Allora perché me lo chiedi?
“Ciao papà, sono
Morgan. Qui tutto bene, mamma è felice perché finalmente è riu-scita a far
fiorire il pesco. Voleva ringraziarti per essere venuto e dirti che hai
dimenti-cato un cappello: te lo spedisce o puoi farne a meno fino alle prossime
vacanze? Ciao.”
Chi se
ne frega del cappello…
Staccò il filo del
telefono con uno strattone e andò a farsi una doccia; passando dal soggiorno vide
che Lù – un meticcio che tempo prima aveva trovato
all’incrocio di casa sua – si andava ad accucciare sul divano, cercando di
coprirsi alla bell’e meglio con una coperta scovata chissà dove.
Stare sotto il getto dell’acqua calda lo
rilassava, come se quello bastasse a ripulirlo da tutti i pensieri e le energie
negative: era uno dei pochi metodi che conosceva per calmarsi e placare la
rabbia che gli avvelenava il sangue.
«Lù, vieni qui!» gridò dal bagno, poggiando
la fronte contro la superficie fredda e liscia della doccia mentre un’infinità
di gocce d’acqua gli scivolava lungo il corpo. Ancora gli doleva la guancia
dove Agnes gli aveva dato uno schiaffo quando lui, in un nostalgico slancio di
affetto, aveva cercato di baciarla su un angolo delle labbra.
Il cane corse subito da lui, aprendo a
fatica la porta della stanza con il muso e le zampe anteriori.
«L’accappatoio. Prendi l’accappatoio, Lù.»
L’animale lo fissò qualche istante, poi il
padrone lo vide sparire nel corridoio.
Aveva solo un anno e da qualche tempo Mark
avevo preso l’abitudine di portarlo da un ragazzo che si divertiva ad
insegnargli alcuni giochetti, come stare dritto su due zampe o riportare gli
oggetti; lo aveva incontrato al parco, mentre portava Lù a sgranchirsi un po’
le zampe. Andrew – così si chiamava – era un eccentrico e distratto ragazzino
dai luminosi occhi verde acqua e i capelli viola (“È pervinca, non viola!”,
continuava a ripetere, ma per Mark le graduazioni dei vari pigmenti si limitavano
ai colori primari e secondari).
«Oh, l’hai portato davvero,» constatò
sorpreso quando vide il cucciolo spuntare con l’accappatoio tra le zanne.
«bravo!» Gli accarezzò la testa e attese che uscisse, invece la bestiola rimase
lì, a fissare il padrone in attesa di una ricompensa. «Ok, bravo. Sei stato
molto bravo, ma ora devi uscire, su, va’ via.»
L’uomo agitò una mano in direzione della
porta, ma il cane rimase immobile. Rassegnato, Mark uscì dalla doccia e si
avvolse nel morbido accappatoio di tela. Non perse tempo ad asciugare i corti
capelli scuri, arrancando fino in camera da letto per cercare qualcosa da
mettersi. Dopo un’attenta analisi ad un mucchio di vestiti sulla sedia vicino
all’armadio, scelse d’indossare una vecchia tuta dall’aspetto vergognoso,
consumata e di una taglia più grande del dovuto. Quindi si mise davanti lo
specchio, fissando il suo riflesso con aria assente, poi si tastò il viso ed
imprecò contro le occhiaie. Aveva un aspetto orribile, stanco e trascurato, ma
non se ne badava più del dovuto, vivendo un’esistenza dissoluta in cui l’unica
cosa degna di attenzione era il lavoro.
Più tardi, quando si sorprese a girovagare
per casa senza nulla da fare, decise di andare a dormire. Si distese sul letto,
sotto le coperte calde, fissando le crepe nel soffitto (erano così tante che,
durante le notti insonni si divertiva ad associarle alle costellazioni). Lù
venne subito ad accucciarsi accanto a lui, sollevando le lenzuola con il muso
per poi mettersi con la testa sul cuscino
e la schiena contro il braccio sinistro del padrone; chiuse gli occhi e
dimostrò la sua approvazione con un versetto acuto e inarticolato,
addormentandosi poco dopo. Mark sentiva la cassa toracica dell’animale
gonfiarsi con regolarità mentre lui s’intratteneva contando le pecore: una
volta arrivato alla numero settecentono-vantanove si rese conto che, invece di
cominciare a contare le decine successive, ripartiva da seicento, ritornando a
settecentonovantanove per ripetere l’operazione errata ancora una volta, finché
non perse il conto e decise di mandare al diavolo quelle stramaledettissime
pecore. Innervosito da quella sciocca faccenda, si alzò; il cane si destò anche
lui, lanciandogli un’occhiata infastidita. Il moro presi un taglierino nascosto
tra i vestiti della cassettiera e lo analizzò alla luce della piccola lampada
sul comodino, seduto sul bordo del letto, mentre con mano tremante ne
accarezzava la lama affilata. Il cane scostò le coperte per raggiungerlo,
incuriosito da quell’oggetto luccicante; si rannicchiò vicino al padrone,
poggiando il muso sulla sua coscia e stette in silenzio, con gli occhietti
marroni fissi sulle mani dell’uomo, che premette la punta della lama sul
pollice finché non lo vide arrossarsi; spostò il taglierino verso il basso,
lasciando un piccolo taglio sul polpastrello. Osservò il sangue raggrumarsi
sulla superficie e poi colare lentamente lungo il dito. Rimase lì, fermo,
guardando quell’inutile spettacolo senza alcun intento apparente.
Mark possedeva un carattere iracondo, il
suo corpo era come un involucro di rabbia compressa, pronto ad esplodere ogni
volta che si apriva uno spiraglio; si alterava per le ragioni più frivole ed
ogni problema gli suscitava una voglia irrefrenabile di distruggere tutto ciò
che lo circondava. Frank l’aveva soprannominato Hulk, ma utilizzava quel
nomignolo di rado per timore d’innervosire l’amico. Occasionalmente gli
capitava di ripensare a tutti gli errori commessi nella sua vita, a tutte le
persone che aveva fatto soffrire, tutte le volte che aveva picchiato Peter,
l’unico che gli era sempre stato a fianco, che non l’aveva mai abbandonato
neanche nei periodi più bui; gli capitava di pensare ai litigi con Agnes, al
piccolo Morgan che lo guardava spaventato e al giorno in cui perse tutto ciò che
aveva. In quei momenti provava un moto di repulsione per sé stesso e desiderava
punirsi per ogni sua azione sconveniente.
Stava posizionando la lama sul palmo della
mano, quando Lù gli diede un colpetto sul braccio, come ad intimargli di
smettere. Mark gli accarezzò distrattamente la testa e posò il taglierino dove
l’aveva preso, macchiando accidentalmente di sangue una maglietta conservata
nello stesso cassetto. Leccò il polpastrello per pulirlo, facendo un salto in
cucina per saccheggiare il frigorifero (forse il cibo l’avrebbe distratto da
quei tristi pensieri). L’aprii, guardò dentro senza prendere nulla, poi lo
richiuse. Ripeté la stessa operazione un paio di volte, sperando forse che,
riaprendolo, comparisse qualcosa capace di stuzzicargli l’appetito. Purtroppo
non successe nulla del genere e fu costretto a tornare sotto le coperte,
appuntandosi mentalmente di fare la spesa e comprare qualcosa capace di
stuzzicare la sua gola. Tentò dunque di arrovellarsi il cervello con pensieri
noiosi e questioni futili per alimentare la sonnolenza, ma non riuscii
ugualmente a prender sonno, allora si mise seduto, accese il lume e aprii il
cassetto del comodino: prese la sua copia di “David Copperfiel” e iniziò a
leggere. Adorava quel romanzo, uno dei pochi che avesse mai letto in vita sua.
Dopo svariati minuti si rese conto di star leggendo la stessa pagina per la
quinta volta senza riuscire a comprenderne il significato; posò il libro sul
ripiano del comodino, lasciando il cassetto aperto, e si rannicchiò sotto le
coperte con il fiato di Lù che gli solleticava la nuca.
Sul punto di addormentarsi, dopo ore di
tentativi, sentì bussare alla porta. Imprecò ad alta voce, scostando le coperte
con tanta veemenza da disfare tutto il letto. Si alzò e raggiunse l’ingresso in
un attimo, pronto a picchiare l’idiota che lo aveva svegliato.
«Chi cazzo è il genio che bussa a quest…?!»
Davanti la porta c’erano Peter, il suo
amico d’infanzia; quel biondino riccone di Frank; Heinrich, al quale doveva
subito chieder scusa; Gregor, il barista, ed Edward, un conoscente simpatico
che gestiva una piccola libreria in centro.
Mark si massaggiò la fronte sospirando.
«Ehi, non c’è bisogno di urlare» disse
Peter mentre reggeva tre cartoni di pizza. «Visto che tu non sei venuto da noi,
Frank ha pensato di venire da te.»
«Se Maometto non va dalla montagna…» aveva
cantilenato l’avvocato.
Perché Frank non si fa mai i cazzi suoi?,
penso Mark, che in realtà si limitò ad abbozzare un sorrisetto mortificato,
grattandosi distrattamente la nuca mentre sentiva Lù trottare dalla camera da
letto fino alla porta principale per fare le feste agli ospiti – la comune
prassi canina di ogni quadrupede da compagnia che si rispetti.
«Oh, ciao bello! Ma come siamo fatti
grandi, eh?» Frank, con la voce più stupida che potesse fare, s’inginocchiò per
grattare il ventre del cane.
«Che schifo, Frank! Non ti fare leccare
sulla faccia!» lo rimproverò Peter, entrando in casa con lo sguardo di una
mamma premurosa che studia l’intero arredamento della dimora del figlio con
aria circospetta.
A Peter piacevano gli animali, ma aveva un
rigido codice igienico, a differenza di Frank e Mark, che a confronto erano dei
luridi sciattoni, soprattutto il moro, perché l’avvocato non faceva dormire
nessuna bestia sul letto – eccezion fatta per le ragazze dai facili costumi con
cui era solito copulare.
«Altrimenti non mi baci più, tesoruccio?»
rispose sprezzante l’altro, facendo gli occhi da cerbiatto mentre sporgeva il
labbro inferiore.
Peter e Frank trascorrevano metà del loro
tempo a prendersi in giro, anche in ambiti amorosi et similia. Peter avrebbe
dovuto sposarsi diversi anni prima, ma il fatidico giorno la sposa – per
circostanze che il giovane poliziotto ritenne opportuno non divulgare – non si
fece viva. Da allora nessuno lo vide più in compagnia di una ragazza e questo
è, tutt’oggi, uno dei motivi principali per cui Peter viene deriso
dall’avvocato. Mark, invece, divorziò dopo un anno di matrimonio per colpa del
suo grosso problema nel gestire la rabbia; Heinrich era troppo impegnato con il
violino e la musica per perder tempo in faccende tanto frivole – anche se
occasionalmente usciva con qualche collega, una in particolare, bionda e con
dei bellissimi occhi verdi –, mentre Edward era un tipo molto silenzioso e
introverso, di cui nessuno sapeva molto, situazione sen-timentale compresa.
Franklin era l’unico, tra di loro, che non aveva questo tipo di problema: ogni
volta che qualche conoscente lo incontrava era in compagnia di una ragazza
diversa – e occasionalmente anche qualche ragazzo, visto che quando si parlava
di sesso non faceva discriminazioni di alcun tipo – e più il tempo passava, più
le sue compagnie diventavano giovani e belle. Aveva una predilezione per le
rosse – ancor meglio se piene di lentiggini –, ma anche per le donne dalla
pelle scura, color cioccolato, e per qualunque tipo di straniera.
«Abbiamo preso sei pizze diverse» spiegò
Heinrich, che teneva gli altri tre cartoni in mano.
Frank, dopo aver elargito la giusta
quantità di coccole a Lù, raggiunse la cucina con nonchalance, prendendo posto
al piccolo tavolo mentre gli altri si premuravano di apparecchiare. Tipico di
lui.
Peter aveva trovato da sé piatti di plastica
e tovaglioli ed era aiutato da Heinrich, mentre Edward si guardava con aria
curiosa in giro: non era mai stato in casa di Mark e, da libraio, si dispiacque
nel notare quanti pochi romanzi campeggiavano abbandonati sulle mensole,
divorati dalla polvere, ma non se ne sorprese più del dovuto, dopotutto Mark
non sembrava un gran lettore. Probabilmente il suo lavoro a Scotland Yard lo
teneva troppo occupato per lasciargli il tempo di addentrarsi tra le pagine di
un libro.
«Mark, dov’è l’apribottiglie?» chiese Gregor
con la testa dentro il frigorifero, intento ad ispezionare le misere provviste
congelate del poliziotto.
«Cercalo.»
«Come sei gentile…!» rispose seccato il
barista, riempiendo il congelatore di bottiglie di birra che aveva portato dal
suo locale. Successivamente controllò i vari cassetti dei banconi, finché non
urlò: «Trovato!»
Trionfante, il moro alzò le braccia,
reggendo il cavatappi come un trofeo di guerra; nello stesso istante vide Mark
intento ad aprire una birra con un coltello. Allo schiocco del tappo che
saltava in aria il barista scoppiò in una sonora risata. Forse era un po’
brillo.
«Mi dispiace che tu non sia venuto allo
spettacolo» confesso il violinista con un sorrisetto intimidito, da bambino.
«Scusami, Heinrich,» rispose Mark,
mortificato, «non me la sentivo di venire. Il viaggio non è andato molto bene.»
Sospirò stancamente e si voltò verso la bestiola che guaiva ai piedi del
tavolo: probabilmente voleva un po’ di pizza anche lui e, nonostante Edward
insistesse per dargliela, Mark glielo proibì.
«Guarda come ti fissa, come fai a
resistergli?»
«La cipolla gli fa male e non voglio che si
prenda cattive abitudini.»
«Come il padrone?» bofonchiò Frank,
sistemandosi gli occhiali con aria compiaciuta.
Mark lo fulminò con lo sguardo e l’avvocato
non aprì più bocca per i successivi dieci minuti – che furono relativamente
brevi –; nel frattempo Edward e Peter si apprestavano a tagliare le pizze per
creare dei piatti misti.
«Ah, Mark!»
«Sì, Frank?»
«Per quella cosa che mi avevi chiesto… Be’,
ho risolto tutto io. Come sempre. Sono un genio, lo sai. I documenti sono tutti
nella mia valigetta, ci sono anche delle copie, se le vuoi.»
«Grazie» mormorò con scarso entusiasmo il
padrone di casa. Aveva chiesto a Franklin di aiutarlo con un piccolo malinteso
che aveva avuto con un cliente di Gregor: per colpa di questo tale dal buffo
accento era scoppiata una rissa nel suo bar e Mark, nel tentativo di placare lo
straniero, aveva finito per azzuffarsi con quest’ultimo, provocando diversi
danni al locale, troppi per poterli pagare tutti. Fortunatamente Frank era un
avvocato famoso e dal talento innato, capace di far passare per innocente
perfino un assassino seriale, e non gli ci volle molto per far ricadere la colpa
sul turista olandese (“Questo non è un comporta-mento molto inglese! Noi siamo
dei gentlemen”, protestava Edward ad ogni suo imbroglio; “Invece è
assolutamente inglesissimo” era solito ribattere Franklin).
Tra un sorso di birra e l’altro parlarono del
più e del meno, del lavoro, di ragazze, del tempo che scorre… Sciocchezze,
insomma, nulla degno di nota, le solite chiacchiere tra amici. Erano un
gruppetto piuttosto buffo e squinternato. Mark li aveva conosciuti tramite
Peter, che a sua volta era stato introdotto nel gruppo da Heinrich; Frank era
l’avvocato di quest’ultimo e da anni frequentava con assiduità il bar di Gregor
e la libreria di Edward. Un intreccio piuttosto curioso.
Fu una conversazione leggera, piacevole, e
per qualche ora tutti riuscirono a distrarsi e ridere un po’. Sfortunatamente
finirono per essere abbastanza alticci da non poter guidare fino a casa,
costringendo così Mark ad ospitarli per la notte; anche se avesse avuto voglia
di farsi il giro della città per lasciarli ognuno nelle proprie dimore, era
troppo ubriaco perfino per riconoscere che la macchina posteggiata nel garage
era la sua, ma a discapito di ciò casa sua era troppo piccola e non aveva un
numero sufficienti di letti. Aveva sonno, desiderava solo accasciarsi su qualunque
superficie glielo consentisse e addormentarsi fino a mezzo giorno, ma doveva
trovare una collocazione a quei cinque idioti. Ac-compagnò Peter ed Edward in
camera sua e li mise alla bell’e meglio sul letto, facendo attenzione a
coprirli per bene (o almeno questo è ciò che tentò di fare, visto che la
coperta continuava a cadergli dalle mani). Prima di uscire gli lanciò
un’occhiata: Edward si era avvinghiato a Peter, che teneva una gamba fuori dal
materasso e aveva già cominciato a russare. Mark sorrise a quello spettacolo,
lasciando la porta aperta nel caso uno di loro si fosse sentito male per la
sbronza. A quel punto tornò in cucina e disse a Gregor ed Heinrich che loro due
avrebbero potuto dormire sul divanoletto della cucina.
«E Frank?» chiese il barista, lanciando
un’occhiata al biondo che giaceva su una sedia con la fronte poggiata contro il
tavolo.
«Lasciatelo lì» borbottò, poi prese uno dei
piumoni più leggeri che aveva e se ne andò in salotto senza aspettarli,
convinto di poter dormire sul divano del soggiorno, peccato che lì ci fosse
niente di meno che Lù, con tanto di cuscini e coperta. Rassegnato e troppo
stanco per ribattere, si avvolse nel piumone e si sedette sulla poltrona,
tentando di addormentarsi con l’aiuto di qualche Xanax, pur consapevole che il
giorno successivo si sarebbe svegliato con un gran mal di testa.
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Questo
è l’altro capitolo che non mi convince, vediamo se siete del mio
stesso
parere o lo trovate più che decente.
Spero
non ci siano errori, ammetto di averlo riletto alla bell’e meglio perché
questi
ultimi giorni sono stati abbastanza stressanti.
Christopher