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Autore: pandaisia    12/12/2014    3 recensioni
STORIA MOMENTANEAMENTE SOSPESA "« Il mio nome è Guinevere, fatene tesoro mio giovane adorato. Presto sarete un vampiro, ed il sarò vostra madre per l'eternità. » Pronunciò la donna, immobile al suo posto. Aveva le mani in grembo e gli occhi fissi in quelli del ragazzo inglese. Il suo accento infrancesito ed un poco pezzente, completamente svanito. « NO! » Urlò Adrian, coprendosi le orecchie con le mani pallide: la voce della donna pareva il suono delle unghie su una superficie liscia, delle forchette contro i piatti di porcellana buona. Non riusciva ad ascoltarla, ed ogni cosa intorno a lui vorticava. In un limbo di straziante dolore, sentiva di star sanguinando. Un dolore alle membra, un dolore all'anima, che pareva dolore fisico. « Non accetto un no come risposta. » "
Genere: Angst, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, Crack Pairing
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza | Contesto: Contesto generale/vago, Sovrannaturale
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03. LA MORTE TI HA SORRISO



GUINEVERE


Passeggiava tra pallide lapidi mangiate dal muschio e dagli anni trascorsi. Passeggiava, madame, recando sul capo un ombrellino di pizzo e seta nera. Totalmente inutile, se il cielo avesse preso a piangere ancora una volta. Totalmente inutile comunque, giacché lo utilizzava per ripararsi dalla luce delle stelle. Ad ogni passo sulla sua gola dondolava una goccia rubino, quasi fosse una pozza di sangue insinuatasi là tra le scapole. Una pietra grossa e pesante, sgrezzata dalle mani di qualche artista gioielliere della bella Parigi. Guinevere si dondolava dalle punte ai tacchi, rimuginando sorniona tanto quanto un grosso gatto da salotto. Eppure nessuna parte della sua esile figura ricordava quella di un felino, se non gli occhi e le labbra. Così taglienti, così affilate, così seducenti. Vestiva d'un lungo abito di seta color degli occhi di sua madre. Verde bottiglia, e blu cobalto. Ricordava quelle due pietre, nonostante fossero passati secoli dal momento in cui l'aveva viste l'ultima volta. Le donò uno sguardo innamorato, osservando il cielo. Sua madre portava il nome di Astra, ed era così bella che da bambina ella le danzava intorno sulla punta dei piedi desiderando d'esser come lei. Di tutte quelle preghiere, ben poco aveva ottenuto. A differenza della genitrice, però, Guinevere era sopravvissuta alla pestilenza del milletrecentoquarantasette. Quel morbo nero appestò Marsiglia partendo dal porto, laddove infetti e cadaveri attraccarono le loro bigie imbarcazioni di morte, la giovinetta sedicenne e la madre all'epoca erano semplici prostitute e campavano in una piccola casa a ridosso del mercato del pesce. Poco più avanti, si ergeva una casa di piacere. La loro casa di piacere, quella in cui lavoravano aprendo le cosce per soddisfare qualche marinaio grassoccio e unto. Molti amanti, avevano avuto le donne, molti bambini uccisi ancora nei loro ventri. Guinevere aveva dato un nome ad ognuno di loro, feti abbandonati e persi nei canali. Divenuti pasto dei pesci. Tra i suoi amanti però ce n'era uno che non apprezzava le carni più esperte della madre, e che desiderava lei pagando oro soltanto per parlarle. "Non ti fidare dei marinai", le diceva sempre Astra, ma quello non era un marinaio. Alle prime avvisaglie di pestilenza, ai primi bubboni sul corpo, le due donne vennero cacciate e private di quei pochi denari raccattati dalle braghe calate di chissà chi.
Giunta dinanzi alla tomba di Lucille Decroix, ella si fermò. Quando la odiava, quella baldracca. La odiava e l'amava, madre della di lei più dolce maledizione. Sotto il terreno, dinanzi a quella lapide, non v'era niente che terra ed una bara vuota. Lucille Decroix non era morta, ma giaceva non più viva in qualche letto freddo riscaldata soltanto dal bollore d'un corpo prossimo a divenire cena per lei e la sua corte. Lucille Decroix, matriarca della famiglia dall'omonimo nome, era nata tra le sponde del Nilo ed addolorata dalla morte del suo mondo di sabbia e divinità inesistenti, era scivolata nel Mediterraneo portata come concubina a chissà quale italico patrizio. Quello la prese come amante, soggiogandola, e quando ancora portava il nome di Lux, diede alla luce numerosi figlioli morti tra gli ultimi portatori del gladio. Sarebbe perita anche lei, data in pasto alle bestie dalle lunghe zanne ed il mantello d'oro, se non fosse stato per la magia: assai potente ed altrettanto innata, l'aveva sacrificata e s'era sacrificata divenendo serva delle tenebre e del sangue d'ogni uomo. Schiava, indossante abiti di pregiata fattura, aveva condannato alla stessa sorte il suo ultimo, e ventenne, figliolo. Luca secoli più tardi prese nome assai diverso, accentato e sinuoso come un serpente covato in seno. Lucàs Decroix era stato per Guinevere una sciagura perché, conducendola al fatal respiro, l'aveva salvata ed ella aveva sorriso alla morte come il mostro dalle labbra scarlatte di trucco che era.
Il figlio della schiava l'aveva tratta in inganno, millantando di poterla redimere da quel passato di giovane donna di malaffare, e con siffatta truffa l'aveva legata a se con un doppio nodo scorsoio. Se l'uno fosse caduto, l'altra sarebbe morta. Ma l'uomo del suo cuore e delle sue maledizioni era perito per mano degli uomini di lettere ed ella, addolorata, era tuttavia sopravvissuta. Così come la madre, spinta alla temporanea pazzia da quell'attacco disumano. Ma come avrebbero potuto loro, bestie macellaie e mietitrici, parlare di umanità quando nelle loro vene scorreva denso rubino rubato ad uomini qualsiasi? Con quel pensiero la bella Guinevere si riscosse, e baciate due dita della mancina le poggiò sulla lapide a salutare la donna con tacito rispetto. « Madame. » Una voce bassa, pochi passi tra le pietre umide di quell'altrettanto bagnato cimitero. Aveva piovuto per tutto il dì, ed ella aveva semplicemente dormito ascoltando di tanto in tanto i tuoni lontani. Allora, quando quegli scoppi le riempivano le orecchie, apriva gli occhi nel profondo buio del suo rifugio e, fasciata di candide sete arricciate, attendeva che quel sonno obbligato tornasse a stringerla tra le braccia come un possessivo amante. Disprezzava quei suoi simili decisi a camminare durante le giornate assolate, pronti a sudare ed arrischiarsi alla morte pur di assecondare quel loro desiderio di passeggiare col petto gonfio di boria. Si sarebbero stupidi,i comuni mortali, di quanti di loro vivevano tra quelle strade e quei tetti così deliziosamente appuntiti. « Gustave, ditemi. » Si voltò placida, le labbra inclinate in un sorriso da gatta. Non era stata lei a renderlo ciò che era, bensì uno dei suoi amanti prediletti. Portava il nome di Dandelion quel farabutto, ed in ogni modo aveva tentato d'ucciderla. Non era ancora giunta la di lei ora però, ne sarebbe mai giunta. Nonostante ella non fosse la madre di Gustav, giovane dai capelli castani pettinati all'indietro, nutriva per lui una sorta d'affetto. Forse si trattava di pena, forse dispiacere. Eppur lo comprendeva almeno un poco, e non lo disprezzava com'altri vampiri avevano fatto nel vederlo giungere con la prediletta dei Decroix. Gustave viveva a Parigi, in quartiere vecchio e dismesso, e non aveva casa quando Dandelion lo trovò. Se ne stava in una cantina, umida e gelida, con sua madre e le sue due sorelle minori: due infanti o poco più. Avevano solo una stufa, e la usavano per ogni cosa. La usavano per cucinare, quando potevano, e per riscaldarsi, per far bollire l'acqua piovana con cui a turno si lavavano. Lo portò via una sera che elemosinava un lavoro da spazzacamino poco lontano dal luogo in cui sarebbe sorta la torre di ferro, imprigionandolo nelle dorate stanze del proprio appartamento. Per quanto quello pregasse di lasciarlo andare, di lasciarlo correre da chi necessitava di lui, l'uomo gli negava quella possibilità con voce grave e sguardi disgustati. Lo tenne, come proprio giocattolo personale, per assai molto tempo ed in fine lo prese per la gola portandolo ad un passo dalla morte: nessuno vuole davvero morire, lo sapevano loro che con la nera tunica e la falce andavano a braccetto. « Quel giovane sta giungendo, è assetato. » Gustave divenne una creatura notturna ed altrettanto rapidamente com'era scomparso dalla vita della piccola e spezzata famiglia, aveva fatto ritorno in quella cantina: non aveva trovato nessuno, o almeno nessuno in vita, fatta eccesione per la sorella più piccola. Una bambina ch'egli nascose nella soffitta dell'abitazione di Dandelion, e che lui non trovò tappata bene lassù in alto. Quando, per l'ennesima volta, il giovane desiderò di morderla e dissanguarla, la portò al cospetto del proprio creatore ed egli non la volle, non la accettò. Disse di metterla alla porta. Fu in quel frangente che Guinevere lo conobbe, spaventato per la possibilità di vedere quella dolce creatura diventare una prostituta sul ciglio di un marciapiede. "Lo farò io, se tu non hai abbastanza fegato da farlo!" Aveva sussurrato al proprio amante, e seduta sul di lui grembo l'aveva sbeffeggiato. "Se lo farai, Guinevere, non sarai più ben accetta in questa casa, ne in nessuna di quelle della mia genia." Un sussurro ferino, quello dell'uomo dai lunghi crini castani e dagli occhi di rugiada, eppure ella s'era alzata e, smossa la veste che indossava, aveva afferrato la creatura e l'umana trascinandoli via. "A mai più, mio amato!" Furono quelle le ultime parole pronunciate al cospetto di un Dandelion assai stupito, che giurò vendetta. Marcy non divenne mai una di loro, ma perse la vita in quella cupa transizione che l'avrebbe altrimenti resa immortale: debole ed ammalata, prossima alla morte per colpa della tosse, aveva chiesto che ciò accadesse quanto prima consapevole di non superare quel lento e sudicio processo. « Ebbene, offritegli qualcosa da sorseggiare. » Soffiò, così come allora, con la sola differenza che la vergine giunta tra le mani della giovane francese non morì mai per mano sua, giacchè giaceva senza vita già perduta nella vera morte. Gustave non s'era mai ripreso da quel brutto fatto. « Sarà fatto, Madame. » Il giovane annuì, sparendo nell'ombra di quella notte ben poco illuminata. Pochi passi, e solitaria s'ergeva una cripta dalle fattezze greche. Pareva un tempio, ma le colonne dagli intarsi corizi reggevano il pesante portone erano di nera ardesia.


ADRIAN


Doleva, il corpo dell'erede della famiglia Fitz-Maurice. Doleva come se l'avessero sbattuto contro una parete e bastonato in ogni dove. Doleva come se fosse stato trafitto da lunghe lame di vetuste baionette. Doleva ad ogni passo, mentre seguitava a camminare senza rendersi conto di dove stesse andando. Aveva atteso che il sole calasse e la pioggia diminuisse, dopodiché Adrian era semplicemente uscito senza proferir parola a nessuno se non alla sorella che ancora l'odiava per quello schiaffo schioccatole in piena guancia: l'aveva vista massaggiarla, ed egli s'era scusato con una lunga occhiata prima di sfuggire ai dubbiosi sguardi altrui: d'ogni cosa si sentiva sporco e colpevole, eppure dentro al petto qualcosa sgomitava perché quella grave sensazione svanisse lasciando il posto all'immotivata arroganza ed all'attraente boria che gli avrebbe disteso il volto. Un fruscio, ed il lento peregrinare del giovane errante s'arrestò. Immobile, tra due lapidi ormai senza nome, egli si guardò intorno senza veder nessuno. Gustave, in un attimo, si palesò al suo sguardo abbandonando il suo nascondiglio: scivolò semplicemente giù dall'albero su cui s'era appollaiato, ed atterrando sulle suole delle scarpe, si raddrizzò alto e pallido come una statua. Si scambiarono un lungo sguardo, intenso, ed avrebbero potuto accanirsi l'uno sull'altro se sono il fato l'avesse voluto.
« Seguimi, Adrian Fitz-Maurice, la nostra signora mi ha detto d'accontentare la tua sete. » Fece invece il francese, la voce mellifua e gentile. Lui si avvicinò, d'un passo e di uno ancora, osservando il mailcoach della cravatta del giovane rampollo inglese. Lì dietro, malamente coperto, vi era un circolare segno che conosceva sin troppo bene. I cerchi perfetti di due denti lunghi ed affilati. La cravatta, borgogna, odorava un poco di sangue. Adrian se ne accorse, per certo, e coprì il collo con una mano. « No. » Sentenziò, ma non indietreggiò spaventato bensì mosse un passo avanti. Gustave l'afferrò per un gomito, e scuotendolo se lo trascinò dietro con incredibile forza ed altrettanta ferocia: lo sentiva, sentiva quanto fosse agitato e preoccupato. Egli, di certo, non comprendeva perché gli avessero fatto ciò. Non comprendeva perché avesse almeno quattro morsi sul corpo altrimenti chiaro e deliziosamente muscoloso. A quel pensiero, egli, si leccò le labbra truffaldino trattenendo un grazioso sorriso sornione. « Devi farlo, invece, o morirai tra le più atroci sofferenze. Vuoi forse morire? » Parlava ad Adrian come se fosse un cucciolo un poco sciocco e di certo tocco, lo carezzava con le parole e con gli sguardi: quel giovane inglese gli piaceva molto, lo trovava oltremodo fascinoso ed inquietante. Lo avrebbe conosciuto certamente meglio, dopotutto portava al collo il monile che era stato forgiato per la propria sorella. Adrian rimase in silenzio, soffocato dalla preoccupazione. « Se morire significa non essere più questa orrida bestia quale sono, allora sì. Desidero morire con tutto il cuore. » Adrian aveva la voce bassa, colma di disprezzo. Sciocchezze, che assurdità. Pensò Gustave schioccando la lingua sul palato, assai piccato da cotanta stupidità e fermandosi dinanzi a lui lo schiaffeggiò. Così, semplicemente, lo colpì con la destra su entrambe le guance e non gli permise in alcun modo di ricambiare quel gesto assai grave. Lo sentì irrigidirsi, e bestemmiare a mezza bocca contro ogni divinità esistente. Lo trascinò un poco più forte, e giunti nei pressi della medesima cripta in cui s'era ritirata Guinevere, egli lo rassettò e gli sistemò i capelli all'indietro sulla testa. Doveva essere perfetto, gli disse, giacché di lì a qualche minuto avrebbe incontrato sua madre, ed i suoi fratelli. Egli non comprendeva, o per lo meno fingeva di farlo.
La cripta non era altro che uno stanzone vuoto, spoglio, in cui alti candelabri gocciolavano sul pavimento cera scarlatta odorosa di buono: quell'odore gli punse lo stomaco, e la gola riarsa si strinse un poco di più. « Prima che tu lo chieda, sì è sangue l'odore che ti sta facendo tanto angustiare. Sangue nei ceri, per l'esattezza. Sangue di vergine, è sublime. » La voce di Gustave rimbombava nell'ambiente in cui si trovavano, e che s'apprestavano a raggiungere. Nei pressi della parete dinanzi all'ingresso v'era la statua di una donna dai lunghi crini ondulati, ed il francese ne sfiorò gli occhi proferendo solenni parole di ringraziamento: un click, ed una scala nascosta si palesò nella navata centrare di quel luogo. Tra i candelabri, il pavimento scivolò via mostrando la discesa verso gli inferi. Fu quello il pensiero del giovane uomo, che si lasciò condurre osservando intorno a se ogni piccolo anfratto abilmente scavato nella roccia. V'erano loculi rotondi, poco più grandi di una testa umana, ed erano proprio ciò che conservavano: crani, integri e scarnificati, con lunghe zanne al posto dei canini o degli incisivi. Sotto ogni loculo, v'era inciso in bella grafia su di una targhetta d'ottone un nome. Contò due Charlotte, un Thimothy, due Edgard ed uno Sherlock. L'ultimo che vide, prima di venir trascinato via con una spinta, era Lucàs. « Chi sono? » S'azzardò a domandare, mentre di lui al posto della fame s'allargava il terrore. Gustave non rispose, in un primo momento, armeggiando con la serratura di un portale di ferro su cui s'aggrappava una pianta assai violetta. « I nostri defunti, coloro i quali vogliamo ricordare in eterno. » Si decise finalmente a rispondergli, la voce solenne ed assai bassa. « Perchè soltanto le teste? » A quel quesito, nessuno ebbe l'ardire di trovar soluzione. Non il francese, non quelli che in silenzio li spiavano. Discesero un'altra solitaria rampa di scale, assai più larga e curata della precedente, ritrovandosi in salone rotondo poco più grande di una comunissima sala da ballo. Le pareti scure, illuminate d'oro da fiaccole ardenti, risplendevano laddove la luce sfiorava vecchi quadri dalle cornici di metalli preziosi. Il soffitto a volta pareva esser stato costruito sotto ad un lago, ed erano molte le creature che si vedevano transitare lassù sopra di loro. In fine, da qualche parte, suonava una lenta melodia al pianoforte: non seppe dire, egli, da dove provenisse, ma quel luogo lo faceva sentire quasi amato. Una sensazione assai piacevole, assai rassicurante, assai senza alcuna ombra di dubbio tremendamente pericolosa.
« Ti presento Alice, mio adorato Adrian, si offre a te questa notte: il suo corpo vergine ed il suo sangue, perchè tu ti nutra di lei. Non è vero, cara? » Voce di donna lo fece voltare: la riconobbe in pochi ed inutili battiti di ciglia. Al suo fianco una giovane vestita d'una pallida veste, annuiva piano. Quella che aveva parlato l'aveva incontrata la notte in cui era uscito a cercare sua sorella: passeggiava da sola lungo la via del fiume e s'era finta stupida d'incontrare un giovane a quell'ora tarda. Lui, sul primo momento, l'aveva scambiata per una prostituta ed ella l'aveva preso in giro dicendogli che non erano certo i soldi a mancarle. Dopo quel momento, ogni ricordo s'era fatto confuso e frusciante. « Voi. » Pronunciò Adrian, spaventato e disturbato da tale eterea visione: quella donna ogni modo gli provocava una assuefazione, una sorta di intorpidimento del corpo. Si sentiva assai leggero, frastornato ed inebetito. Ogni di lui scaltrezza, svanita. « Il mio nome è Guinevere, fatene tesoro mio giovane adorato. Presto sarete un vampiro, ed il sarò vostra madre per l'eternità. » Pronunciò la donna, immobile al suo posto. Aveva le mani in grembo e gli occhi fissi in quelli del ragazzo inglese. Il suo accento infrancesito ed un poco pezzente, completamente svanito. « NO! » Urlò Adrian, coprendosi le orecchie con le mani pallide: la voce della donna pareva il suono delle unghie su una superficie liscia, delle forchette contro i piatti di porcellana buona. Non riusciva ad ascoltarla, ed ogni cosa intorno a lui vorticava. In un limbo di straziante dolore, sentiva di star sanguinando. Un dolore alle membra, un dolore all'anima, che pareva dolore fisico. « Non accetto un no come risposta. » Adrian urlò ancora, inneggiando al nome della madre e della sorella. Al sentir nominare Caroline, Guinevere rise di gusto sollevando il capo al soffitto di vetro. Per quella oramai non c'era più redenzione, ed ella ben lo sapeva. Pochi passi verso la vergine vestita di candido pallore di seta, e la baciò sulla fronte augurandole piano buona fortuna. Il giovane, disteso supino sul pavimento, tremò. Alice fece lo stesso, e quasi le cedettero le gambe quando uno stiletto argenteo le si conficcò un poco nelle carni del collo sino a farlo sanguinare: l'intera sala, adombrata ma popolosa, tremò e spasimò per quel delizioso odore. « Mio Signore. » pigolò la giovane, che non doveva avere più di sedici anni. A piccoli passi lo raggiunse, lo scosse, lo osservò sollevare il capo e comprese che era troppo tardi per fuggire. Lucenti zanne s'erano fatte spazio al posto dei canini di Adrian, che l'osservava famelico con gli occhi iniettati di scarlatto rubino. Il volto, una maschera di pallida cera contratta di profonde vene del medesimo vermiglio. Le pupille, assai dilatate, sembravano quelle di un gatto selvatico. « Non sono il tuo signore. » Sentenziò, arrochito, prima di spingerla sul gelido pavimento di marmo. « Non sono il tuo signore. » Ripeté, ed un nuovo grido riempì l'aria: urla di donna. Urla di una vergine che non avrebbe mai posto la propria innocenza nelle mani del proprio amato.

   
 
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