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Autore: Sselene    20/12/2014    0 recensioni
Partecipante al contest Legendary Tales di Yuko Majo | Dopo quasi sedici anni di lutto, la città Erdner torna a brillare: la Principessa Lisabelle, rapita da un'Arpia quand'era solo un'infante, è stata finalmente ritrovata e riportata a casa. Ma dopo quasi sedici anni passati lontano dagli umani in compagnia di una belva, c'è tanto che deve di nuovo imparare, a partire dal'alfabeto. E per lei, mezza umana e mezza belva, non c'è insegnante migliore di Ryan, che ha sulle spalle sia l'addestramento da guardia reale che l'insegnamento da pedagogo.
Genere: Angst, Fluff, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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La mattina del 19 settembre 1603, mio padre rientrò un po’ dopo il solito orario, quando io e mia madre già eravamo a tavola a fare colazione e il pasto per lui, più sostanzioso data la nottata di lavoro, pronto ma ancora in pentola per tenerlo caldo.
“Il Re vorrebbe incontrarti,” disse, che non fu affatto la sorpresa. La sorpresa fu quando, dopo qualche istante di silenzio, riprese a parlare. “Ryan? Mi hai sentito?”
Alzai sorpreso lo sguardo dalla mia colazione.
“Credevo parlassi con mamma,” ammisi. “È per la Principessa, no? Di certo il Re ha richiesto mamma per un compito tanto delicato.”
“Non mi ha detto per quali motivi vuole parlarti,” rispose mio padre, sebbene sapessimo tutti che fosse come io dicevo. “Ma vuole parlare con te ed è stato molto chiaro su questo.”
“Sei proprio sicuro?” Insistetti.
Papà rise, sedendosi a tavola con noi con il suo pasto e un bicchiere di vino.
“No, devo essermi sbagliato, hai ragione tu,” mi rispose. “Certo si riferiva all’altro mio figlio Ryan che si occupa dell’insegnamento.”
“È così facile confondersi,” gli diede corda mia madre, sorridendo divertita da sopra la tazza di the.
“Sì, ho capito, è stato un commento sciocco,” borbottai vagamente imbarazzato. “Ammetterete che c’è da sorprendersi per la richiesta del Re, però. Ero certo avrebbe richiesto l’aiuto di mamma, eravamo tutti certi avrebbe richiesto mamma.”
“Non posso negarlo,” ammise mia madre. “Avrò peccato di presunzione, ma ero certa sarei stata convocata. C’è forse qualcosa che puoi dirci per fare chiarezza?” Chiese a mio padre.
Improvvisamente, la sua espressione, un attimo prima lieve e divertita, mutò in qualcosa di più pesante, come se un’ombra si fosse addensata sul suo viso.
“Questa è la prima notte che ho lavorato da quando è tornata la Principessa, lo sapete,” mormorò, pendendo il discorso stranamente alla larga. “Quindi non posso certo sapere se quella vissuta oggi è un’esperienza ripetuta, se ha davvero a che fare con la Principessa o con altro… tutto ciò che posso dirvi sono solo mie supposizioni o informazioni prive di contesto…”
Io e mia madre ci scambiammo un’occhiata apprensiva: se mio padre era tanto esitante nel parlarci di quelle cose, dovevano essere particolarmente delicate.
“Cos’è successo stanotte, Conrad?” Domandò mia madre, posando una mano sulla sua.
“Urla,” rispose concisamente mio padre. “Urla tremende, disperate, non ne ho mai sentite simili…”
“Urla?” ripeté mia madre, lanciandomi un’altra occhiata, in viso un’espressione confusa che certo rispecchiavo perfettamente.
“E credi fosse la Principessa?” Chiesi sconvolto.
“Io non credo nulla,” rispose immediatamente mio padre, con tono difensivo. “So solo che questa notte si sono sentite delle urla femminili e che una delle guardie diurne è stata tenuta tutta la notte nell’infermeria del castello.”
“Ma chi?” Domandò mia madre, immediatamente in apprensione all’idea di un qualche suo ex-studente in difficoltà.
“Uno che ha fatto trasferimento dall’esercito… Stane, mi pare si chiami, ma non ne sono sicuro. Nessuno che tu conosca, in ogni caso,” la rassicurò mio padre, baciandole il dorso della mano.
“Ed è stato portato in infermeria per cosa?” Chiesi io. “Cosa… in cosa sto andando a buttarmi?”
“Non lo so,” ammise mio padre con un sospiro. “Ufficialmente, si è parlato di uno sciocco incidente con uno dei levrieri del re, ma mi sembra così strano.”
“Una guardia reale che si fa atterrare da un levriero… suona come una barzelletta,” concesse mia madre.
“Ma cosa credi sia successo?” Insistetti io. “Qual è il collegamento tra questa guardia in infermeria, le urla e la Principessa? E me?”
“Immagino lo scoprirai a breve,” rispose semplicemente mio padre. “Di certo non puoi rifiutare l’invito del Re.”
Inutile negarlo, mio padre aveva completamente ragione. Se il Re mi aveva convocato, io ero obbligato a presentarmi a lui, qualunque ne fosse il motivo. Se poi la sua richiesta fosse stata incettabile, avrei dovuto trovare un modo di districarmene con tatto.
Sospirai, inghiottendo l’ultimo boccone di pane.
“Sarà meglio che vada, allora, prima scopro cosa vuole il Re da me, meglio è.”
“Legati i capelli,” mi disse mio padre. “Almeno sembri una persona un po’ più a modo.”
“Oh,” esclamò mia madre, alzando lo sguardo. “Mettiti la fascia, che ti sta tanto bene.”
“Sembra un pirata con quella fascia, Malia.”
“Non dire sciocchezze, Conrad, gli sta tanto bene.”
Sospirai e lasciai i miei genitori al loro piccolo battibecco; ma comunque mi legai i capelli come papà mi aveva detto e indossai la fascia che mamma mi aveva consigliato. Non avevo mai provato imbarazzo per i miei capelli inusuali, per quanto alcuni storcessero il naso, ma l’idea di giungere innanzi al Re mi metteva incredibilmente a disagio.
“Sono abbastanza decente, secondo voi?” Domandai tornando nella sala da pranzo.
I miei mi guardarono attentamente, poi si guardarono l’un l’altro e poi, in contemporanea, si strinsero nelle spalle.
“Ci accontentiamo,” rispose mio padre.
“Non è colpa tua se non hai ereditato il fascino dei tuoi genitori,” commentò mia madre.
“Sé,” sbuffai, scuotendo il capo mentre loro ridevano. “Non siete divertenti, comunque.”
“Non preoccuparti, stai benissimo,” mi rassicurò mamma. “E poi il Re ti conosce già…”
“Una cosa è conoscermi come il figlio di una delle sue Guardie, però, ed un’altra conoscermi come l’insegnante della sua unica figlia finalmente ritrovata,” feci notare io.
“Sta’ tranquillo, vedrai che andrà tutto bene,” insistette lei. “Ma vai, perché farti attendere dal Re è una pessima idea.”
Annuii, più per dare sicurezza a me stesso che per acconsentire a quelle parole, poi sospirai.
“Vado,” mi dissi, decidendomi finalmente ad uscire di casa.
 
Grazie al teletrasportatore, praticamente ad un passo da casa mia, ero davanti al castello solo una ventina di minuti dopo aver lasciato casa; per colpa del teletrasportatore, però, passai dieci minuti seduto all’esterno della stanza di trasporto con la testa tra le gambe e lo stomaco in subbuglio.
“Capita a molti, la prima volta,” mi rassicurò la guardia, senza però nascondere l’espressione divertita con cui mi guardava. “Vedrai che ti abituerai.”
Grugnii con tono affermativo, ma non avevo neanche la forza di esprimermi a parole.
“Ryan, su, il Re ti aspetta,” continuò lei, spingendomi delicatamente con la base della lancia.
Inspirai ancora profondamente e finalmente mi alzai. Il mondo vorticò furiosamente attorno a me per qualche istante, ma poi si stabilizzò.
“Buonagiornata,” mormorai alla guardia, con voce roca.
La donna rispose al mio saluto con un cenno cortese del capo e un sorriso divertito in viso. Non aspettò neanche che mi allontanassi di molto prima di cominciare a ridere con il suo collega ed io mi sentii avvampare, ma cercai di non curarmene troppo e di concentrarmi sul mio obiettivo.
Il castello si ergeva su quasi la totalità della superficie dell’isola, di modo che tre dei suoi lati finissero direttamente sul confine dello scoglio e soltanto davanti alla facciata ci fosse uno spazio, neanche troppo ampio, con un piccolo giardino ben curato e il gazebo in pietra che conteneva il portale.
Per questo motivo, quando fui abbastanza lontano da non sentire più la risata delle guardie del portale fui anche abbastanza vicino da sentire le parole delle guardie al portone.
Nessuno dei due uomini mi era familiare, ma non era strano. Sebbene mio padre facesse parte delle Guardie Reali sin da ragazzo, io personalmente non mi ero mostrato spesso a corte.
“Non m’interessa,” stava dicendo uno dei due, una mano alzata al viso per sfiorarsi delle profonde ferite d’artiglio e i denti digrignati. “Se devo ancora avvicinarmi a quella cagna…”
Il suo collega mi notò in quel momento e batté una mano sulla spalla dell’altro per farlo zittire, indicandomi poi con un cenno del capo.
“Buonagiornata,” salutai con cortesia, fingendo di non aver sentito nulla di quel piccolo sfogo. “Il Re ha richiesto la mia presenza. Sono Ryan.”
Le due guardie si lanciarono appena un’occhiata, poi quella ferita parlò, un’espressione seccata in viso e la lancia poggiata alla spalla con fare annoiato.
“Ryan chi?” Mi chiese con tono acido.
La domanda mi colse totalmente impreparato e non seppi cosa rispondere. Sarei certo rimasto lì a lungo, se non avessi avuto un aiuto dall’interno.
“Ryan!” Mi chiamò qualcuno dall’interno del castello, affrettandosi verso di noi, un sorriso ampio in viso. “Ti stavamo aspettando.”
Chi mi stava venendo incontro, scivolando facilmente tra le due guardie per accostarsi a me, era Bryn, cugina di non so bene quale grado di mio padre e valletta del Re.
“Papà mi ha detto che il Re mi cercava e sono venuto subito…”
“Hai fatto bene, il Re ha molta urgenza,” confermò Bryn, facendomi cenno di seguirla mentre tornava dentro il Castello.
Le due guardie si fecero da parte evidentemente malvolentieri, ma di certo non si opposero.
“Ma chi sono quei due?” Domandai a bassa voce a Bryn quando fummo abbastanza lontano.
“Oh, non far caso a loro, vengono dall’esercito, sono un po’… strani…” Mi rassicurò lei.
Fu impossibile, a quel punto, non collegare l’uomo ferito alla persona di cui papà mi aveva parlato solo poco prima.
“Slane?” Chiesi, cercando di ricordare il nome che mi era stato detto.
“Skene,” mi corresse Bryn, lanciandomi un’occhiata curiosa, un’implicita domanda su come fossi a conoscenza del suo nome.
“Papà mi ha detto che una guardia dell’esercito è stata attaccata da uno dei levrieri de Re, questa notte,” risposi io.
Notai l’irrigidimento di Bryn solo perché stavo osservando con attenzione le sue reazioni. Se anche la discussione a tavola con i miei non mi avesse riempito di dubbi, di certo l’avrebbe fatto vedere Skene: le sue ferite non erano affatto riconducibili ad un levriero.
“Già,” rispose brevemente. “Aspetta qui, avviso il Re che sei arrivato.”
Non mi ero neanche reso conto che, parlando, eravamo arrivati fino alla Sala del Trono. Annuii a Bryn, seguendola con lo sguardo mentre entrava nella stanza. Non avevo avuto molto modo di pensare, da quando avevo saputo che il Re voleva vedermi e dovetti impegnarmi per continuare a non farlo. Mancava ormai poco per sapere esattamente cosa volesse da me, non era il momento giusto per perdermi nelle mie teorie, mi sarei solo ritrovato con troppa ansia per rimanere lucido.
Le porte si riaprirono dopo quella che mi sembrò un’eternità e Bryn mi fece cenno di entrare.
La Sala del Trono era certo di quanto più immenso io avessi mai visto in tutta la mia vita. Molto più lunga che larga, era un infinito rettangolo arredato da quanto di più lussuoso esistesse nell’intero Regno: il tappeto rosso acceso che, dalla porta, portava sin ai tre troni in fondo alla stanza era stato portato lì dall’angolo più estremo del mondo; e le pareti erano decorate da arazzi intessuti in seta e filo d’oro dalle mani dei migliori artigiani del Sud; i tre troni erano pure opere d’arte, maestose costruzioni in oro e pietre preziose che si diceva luccicassero perennemente, anche nel buio totale.
Re Leopoldo, altero e magnificente sul trono centrale, indossava abiti tanto ricchi che ne avevo visti di simili solo alle cerimonie, ma fu Regina Katarina a levarmi del tutto il fiato. Era cosa ben nota che le donne della famiglia della Regina fossero state benedette da tempi immemori di incedibile bellezza, ma comunque non ero preparato per ciò che mi trovai di fronte: gli occhi della Regina, zaffiri brillanti incastonati in un viso di alabastro, si fissarono su di me come se potessero guardarmi attraverso e le sue labbra, piccole e rosate, erano appena schiuse in un dolce sorriso che mi scaldò lo stomaco.
Mi resi conto di essere rimasto bloccato a guardarla solo quando Bryn, schiarendosi la gola, mi riscosse dai miei pensieri. Mi sentii avvampare di imbarazzo, per la seconda volta nel giro di pochi momenti.
“Miei Signori,” mormorai dopo quell’infinito silenzio, inchinandomi profondamente davanti. “Sono mortificato, io…”
“Non scusarti, Ryan,” mi rassicurò con tono gentile la Regina. “È la prima volta che ti trovi alla nostra presenza, non è forse vero? È reazione comune.”
“Vorremmo ringraziarti per aver accettato il nostro invito tanto repentinamente, Ryan… certo tuo padre non può essere tornato a casa molto tempo fa,” si intromise il Re, cambiando nettamente discorso; cosa per cui gli fui immensamente grato.
“Sono venuto appena mi è stato comunicato il Vostro desiderio di vedermi, Sire,” risposi con lo sguardo fisso sul pavimento. “Mi sono sentito molto onorato dalla Vostra richiesta.”
“Siamo noi onorati che tu sia venuto,” ribatté il Re, ma aveva un certo tono frettoloso in quello scambio di cortesie. “Ryan, tu sei un pedagogo attestato, non è forse vero?”
“Sì, mio Signore,” confermai, senza scendere nei dettagli.
Non c’era bisogno che il Re e la Regina sapessero che avevo l’attestato solo da due anni e che non mi ero mai concretamente occupato dell’educazione di qualcuno, non se davvero mi avevano chiamato lì per occuparmi della Principessa.
“Ma hai studiato anche come guardia, vero?” Chiese ancora lui. “E continui ad allenarti, direi…”
“Sì, mio Signore,” confermai nuovamente. “Per due anni interi ho seguito l’addestramento, prima di rendermi conto che non era ciò che desideravo fare della mia vita e cominciare invece gli studi di pedagogia. Ma tuttora cerco di ritagliarmi un po’ di tempo per mantenere una buona attività fisica.”
Cosa che non mi risultava affatto difficile, data la totale mancanza di lavoro.
La mia risposta fu seguita da un lungo silenzio, così mi azzardai ad alzare lo sguardo per cercare di capire dalle espressioni dei miei Signori cosa stessero pensando. I Regnanti erano rivolti l’uno verso l’altra e sembrava stessero intavolando un’intera discussione solo con gli sguardi. Poi il Re si volse nuovamente verso di me, annuendo appena.
“La Principessa Lisabelle è stata lontana da un essere umano per l’intera sua vita, disgraziatamente, e questo ha limitato le sue capacità di apprendimento. Per questo vorremmo che tu ti occupassi della sua educazione.”
Cercai di contenere il sorriso che minacciava di spalancarsi fin troppo entusiasta sul mio viso, limitandomi ad annuire e ad inchinarmi di nuovo.
“Sarà un grande onore per me accettare questo incarico, mio Signore.”
Il re mormorò qualcosa che non compresi, qualcosa che sembrava stranamente simile ad un ‘vedremo’, ma non ebbi modo di chiedergli di ripetersi perché lui stava già facendo cenno di avvicinarsi ad una delle guardie, dotate persino di elmo, ai lati del trono. Questa mi si avvicinò, porgendomi una grossa chiave dorata.
“È la chiave della stanza della Principessa,” mi spiegò il Re. “Bryn ti indicherà la strada.”
Accanto a me, Bryn si inchinò profondamente e poi si avviò con passi decisi alla porta. Mi inchinai a mia volta e mormorai un saluto educato ai Regnanti, poi mi affrettai a seguirla.
La chiave che mi era stata consegnata pesava tra le mie dita, ma, nello stesso momento, mi alleggeriva l’animo come solo il ricevere l’attestato da pedagogo era riuscito a fare prima. Finalmente avrei potuto dimostrare le mie capacità e non con uno studente qualsiasi, ma con la Principessa di Erdner, una possibilità che certo qualsiasi altro pedagogo avrebbe voluto avere.
Ero talmente preso dall’entusiasmo che mi ero facilmente dimenticato di tutto il resto: delle urla di cui mi aveva parlato mio padre, delle strane ferite di Skene; persino il fatto che il Re avesse scelto me al di sopra di ogni altro pedagogo mi sembrò, in quell’attimo, la cosa più ovvia e sensata.
Poi Bryn si fermò al centro di un incrocio di corridoi, indicandomi quello che proseguiva ancora a lungo alla mia destra e che era totalmente deserto, se non per la presenza di una sentinella davanti una delle porte.
“È lì,” mi disse, stringendomi con affetto una mano sul braccio. “Buona fortuna.”
Fu il suo tono a congelare del tutto il mio entusiasmo, quel sottotono di preoccupazione che potevo sentire anche nella sua voce educata per anni e anni alla neutralità. La presenza di una guardia davanti alla porta, poi, era facilmente spiegabile ma non era affatto rassicurante.
Bryn mi sorrise, a labbra strette, poi mi lasciò lì all’incrocio e si allontanò lungo il corridoio da dove eravamo venuti. Io inspirai profondamente e raggiunsi la stanza di Lisabelle.
“Sono Ryan,” mi presentai. “I Regnanti mi hanno affidato il compito di occuparmi dell’educazione della Principessa.” E dicendolo mostrai anche la chiave, perché desse validità alle mie parole.
La sentinella, una ragazza che doveva avere la mia età, guardò la chiave e poi me. Si soffermò a lungo ad osservare i muscoli che la mia maglia lasciava scoperti, ma con uno sguardo quasi clinico, come se stesse assestandone le effettive capacità.
“Stia attento,” mi disse mentre si spostava dietro di me per lasciarmi libero l’accesso alla porta. Pure in quella posizione, non mi sfuggì il modo in cui mosse la lancia per tenerla puntata contro l’ingesso. Non avevano messo lì una guardia per proteggere la Principessa, ma per proteggere dalla Principessa; e quasi mi passò la voglia di entrare.
Inspirando profondamente, infilai la chiave nella toppa e girai, aprendo lentamente la porta.
Così come Regina Katarina, anche la Principessa Lisabelle era stata benedetta da un’immensa bellezza: i suoi lineamenti dolci e puliti, i suoi occhi azzurri, le sue labbra rosate erano esattamente gli stessi della madre, ma, forse per la giovane età, apparivano ancora più belli. Ma le sue labbra erano tirate all’indietro in un ringhio su denti innaturalmente affilati; i suoi capelli, che su sua madre erano lisci e acconciati in maniera complessa, erano tagliati in maniera casuale; persino le sue unghie, sia delle mani che dei piedi, erano insolitamente lunghe e appuntite, sebbene alcune fossero spezzato.
Più che un essere umano, sembrava una bestia ferale pronta ad attaccare.
“Devo chiudere,” disse la guardia, riscuotendomi. “Se vuole uscire, esca ora.”
“No, no,” risposi, sebbene non sentissi dentro la stessa sicurezza che riuscii ad imprimere alle mie parole. “Resto qui, è il mio compito.”
“Come vuole,” ribatté semplicemente lei e mi chiuse la porta alle spalle.
Il ringhio della principessa sembrò aumentare di intensità.
“Lisabelle,” la chiamai con tono rassicurante ed un sorriso in viso. “Io sono Ryan.”
La risposta fu un semplice ringhio. Provai ad avvicinarmi di un passo, molto cautamente, ma lei non dovette apprezzare perché scattò in avanti, facendo battere i denti in un morso che mi avrebbe certo staccato la pelle dalle ossa con facilità. Il movimento, comunque, mi aiutò a notare la manetta di metallo pesante stretta attorno ad una delle sue caviglie e che le impediva di raggiungere la porta.
Mi sedetti lentamente a terra, approfittando del suo impedimento, cercando di risultare il meno pericoloso possibile.
“Riesci a capirmi quando parlo, Lisabelle?” Chiesi.
Lei ringhiò, facendo scattare di nuovo la mandibola. Io mi ritrovai a sospirare, passandomi le mani sul viso.
“Sarà una lunga cosa…”
 
Ero a casa per pranzo, dopo una lunga mattinata che non aveva portato a nulla.
Mia madre mi lanciò un sorriso da sopra la spalla intanto che lavorava ai fornelli insieme a mio padre, muovendosi attorno a lui con gesti perfezionati in anni e anni di matrimonio.
“Com’è andata?” Mi chiese gioviale.
Io mi accasciai ad una delle sedie, poggiando la fronte sul tavolo, senza neanche provare a non apparire sfinito quanto mi sentivo. Rimasi in silenzio a lungo, ponderando sulla domanda, poi sospirai.
“Hai presente la teoria secondo la quale il linguaggio non è innato, ma viene acquisito dal bambino durante la sua crescita?”
Mia madre rise.
“Certo che la ricordo, Ryan,” mi rispose. “È mia.”
“Beh, la Principessa è la dimostrazione empirica che hai ragione,” rivelai, senza muovermi di mezzo centimetro dalla mia posizione.
“Non parla?” Chiese curiosamente mio padre.
“No e mi ha fatto ben capire che non ha intenzione di cominciare a farlo,” ammisi.
“Oh, quindi siete riusciti comunque a comunicare?” Domandò entusiasta mia madre, affrettandosi vicino a me. “È così interessante, Ryan, devi dirmi tutto! Come avete comunicato?”
Alzai lo sguardo su di lei, sospirando all’interesse pedagogico che potevo vederle brillare negli occhi. Mia madre si era interessata sin da giovane agli studi sulla comunicazione infantile e certo quel mio commento aveva smosso la ricercatrice che c’era in lei.
Mi dispiaceva sinceramente deluderla in quel modo.
“Ringhiando.”
Mamma rimase evidentemente colpita da quella storia, tanto che per lunghi momenti non emise alcun suono, limitandosi a battere lentamente le palpebre, un paio di volte. Fu mio padre a rompere il silenzio.
“Okay,” disse, spegnendo intanto i fornelli. “Perché non ci racconti per bene cos’è successo?”
Sospirai e mi spinsi all’indietro contro lo schienale della sedia, passandomi le mani sui capelli. Ne approfittai per slegarli, anche, con un gesto inutilmente seccato, ma che comunque riuscì a darmi un po’ di sollievo. Anche la presenza dei miei, che si sistemarono seduti ai miei due lati, fu rassicurante.
“I Regnanti mi hanno chiamato per affidarmi l’educazione della Principessa, proprio come sospettavamo,” dissi, cercando di mettere in chiarezza quella mattinata, sia per loro che per me. “L’ho incontrata, anche. La tengono chiusa a chiave in una delle stanze e… non mi sembra strano.”
“Perché ringhia,” propose mio padre ed io mi ritrovai a ridere.
“Fosse solo quello…” mormorai. “Quando mi sono avvicinato ha cercato di azzannarmi. E avrebbe fatto un bel po’ male, ha questi denti affilati da piranha e… e delle unghie lunghissime e altrettanto appuntite. È… non è più un essere umano, è una belva!”
Mamma strinse le labbra e le sopracciglia, certo non apprezzando i termini che stavo usando, ma non disse niente a riguardo. Dopo la descrizione che avevo fatto di Lisabelle, probabilmente li accettava come corretti.
“Quindi hai rinunciato all’incarico?”
“No,” risposi immediatamente a mio padre, senza neanche pensarci un attimo. “La Principessa ha bisogno di qualcuno che la aiuti a ritrovare la sua umanità e sarò onorato di essere quel qualcuno,” spiegai con decisione, ma poi sospirai. “Ma non so da dove partite. Se fosse una bambina, le offrirei dei dolci per spingerla a fidarsi di me, ma dubito che lei li apprezzerebbe.”
Mio padre emise un vago verso assorto, battendo le dita sul tavolo in tono ritmico.
“Quando dobbiamo addestrare i nuovi cani, usiamo la carne,” disse.
“È una ragazzina, non un cane, Conrad!” Esclamò sconvolta mia madre.
“E non può comunque provare ad addolcirla con della carne?” Domandò retoricamente lui, stringendosi nelle spalle.
Mamma scosse il capo con fare incredulo, ma intanto la mia mente già stava andando per la sua strada.
“Beh,” mormorai assorto. “Le Arpie sono carnivore.”
Mia madre strinse le labbra e mi rivolse un’occhiataccia, ma io avevo già preso la mia decisione.
   
 
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