In
bianco e nero
“We are who we are
On our darkest day
When we're miles away
So we'll come
We will find our way home”
(Fun. , “Carry on”)
10. Cerchi sulla pelle
Tra
i due uomini non volò una sola parola finché non furono in ascensore. Gin,
palesemente seccato dalla piega che stava prendendo la situazione, camminava
spedito, imponendo ai suoi passi pesanti di risuonare da soli nel silenzio del
corridoio, coprendo addirittura quelli di un Vodka che, poco dietro, lo seguiva
indeciso sul da farsi. Quando infine la porta scorrevole dell'ascensore si
aprì, Vodka ruppe la tensione.
“Che
piano?” chiese, facendo scorrere l'indice sui pulsanti.
“Settimo.”
rispose l'altro, cercando di mascherare con un tono calmo la sua evidente
impazienza.
Vodka
premette il tasto su cui risplendeva opaco il numero richiesto. Il settimo
piano era l'ultimo, quello in cui erano localizzati dei piccoli appartamenti
riservati ai membri più importanti operanti nella zona. Vodka, proprio per il
fatto di dover spesso rimanere a contatto con sorvegliati speciali tenuti nelle
celle del seminterrato, era riuscito ad ottenerne uno in fondo al corridoio,
dall'altra parte rispetto al vano dell'ascensore. Non era grande, appena una
stanza e un bagno, come una sistemazione d'albergo, ma era accogliente quanto
bastava e lontano da occhi indiscreti. Prima avrebbe volentieri schiacciato un
pisolino nel suo letto se non avesse dimenticato le chiavi dell'appartamento
nel cruscotto della macchina: troppo stanco per tornare fino al garage, si era
accomodato in una poltroncina degli studi del primo piano. Su cui, si accorse
solo allora, doveva aver lasciato la sua cravatta.
Vodka
non aveva mai visto l'appartamento riservato a Gin. Sospettava che fosse più
grande del suo, ma non poteva esserne davvero sicuro. Il suo capo aveva tenuto
quelle stanze sempre e solo per sé. Di tanto in tanto, quando aveva voglia di
rimanere lontano da tutti, vi si rifugiava per uscirne solo quando era sicuro
di essersi disintossicato dal mondo abbastanza da poterne assumere una nuova
dose. Quando avevano bisogno di scambiare due parole con calma, di solito
usavano l'appartamentino di Vodka. L'uomo sperò che Gin volesse semplicemente
sparire nella sua camera, senza dire altro: se gli avesse chiesto di discutere
riguardo al caso Kudo, avrebbe voluto usare la camera di Vodka e sarebbe stato
costretto a dirgli che le chiavi erano otto piani più in basso, nel parcheggio
sotterraneo. Per Gin quello sarebbe stato un imprevisto piccolo che, sommato a
quelli che già dovevano essersi verificati, avrebbe potuto far esplodere il suo
malumore.
“Andiamo
nella tua stanza, lì potremo parlare in tranquillità.” sentì dire Vodka, quando
l'ascensore si fermò. Bingo. L'uomo con gli occhiali si schiarì la voce
tossicchiando e, come sicurò di sé, sprofondò le mani nelle tasche della giacca
alla ricerca delle chiavi. Tastò e controllò, fingendo di esser sicuro di
trovarle.
“Accidenti,
Gin, devo averle lasciate in macchina” disse alla fine, come se la cosa lo
stupisse e lo irritasse allo stesso tempo. Guardava con la coda dell'occhio il
suo capo, per verificarne la reazione. Quello restò sorprendentemente
tranquillo, immerso nei suoi pensieri. Disse con noncuranza: “Allora faremo da
me.”
Estrasse
un mazzo di chiavi dalla tasca della giacca e scelse quella giusta, una lunga e
sottile, solo tastandola con i polpastrelli. La separò dalle altre e la tenne
in mano, dirigendosi verso la seconda porta sulla destra del corridoio. Vodka
stava sempre dietro di lui, fiatando appena.
Non
appena entrarono, l’omone provò una leggera soddisfazione nel constatare che la
stanza, seppur più spaziosa, non fosse tanto diversa dalla sua. Vi era
semplicemente la camera da letto, un bagno, e sulla sinistra un'altra porta,
chiusa, che probabilmente doveva dare su un piccolo studio. Gin si sedette
sulla sedia davanti alla scrivania, rimettendo a posto qualche foglio in
disordine e storcendo appena il naso alla vista del posacenere pieno di
mozziconi. Non si ricordava mai di svuotarlo. Vodka, una volta certo che il
capo avesse scelto la sedia, si accomodò sulla ben più comoda poltroncina
accanto alla finestra. Quest'ultima era stata lasciata socchiusa, e nella
camera la temperatura era più che gradevole. L'uomo con gli occhiali tossicchiò
per richiamare l'attenzione. Gin smise di sistemare i fogli e si girò a
guardarlo. Si era lasciato andare sullo schienale della sedia, come a
stiracchiarsi.
“Vuoi
chiedermi che cosa mi ha detto quell'imbecille?”
A
Vodka non servì annuire. Era chiaro che fosse più che interessato a conoscere i
dettagli dell'interrogatorio.
“Un
bel niente.” ringhiò Gin. Si vedeva nettamente come la cosa non gli facesse
granché piacere. Vodka si chiese che cosa davvero il suo capo sperasse di
ottenere. Quel ragazzo non sembrava essere a conoscenza di nulla, o comunque
non vedeva come avrebbe potuto portarli da Shinichi Kudo. Certo, ne aveva
conosciuto il padre e forse poteva averne sentito parlare, ma qualcosa nell'espressione
spaesata di Newman gli aveva suggerito che su Shinichi non ne sapesse poi più
di tanto. E di sicuro anche il capo doveva aver avuto quell'impressione,
altrimenti non sarebbe stato tanto nervoso.
“Se
domani non ci dirà niente di nuovo, dovremo cercare un'altra strada.”
“Cos'ha
detto?” chiese Vodka. Voleva conoscere qualche particolare in più su
quell'interrogatorio. Gin morse appena il labbro e accese un'altra sigaretta.
“Te
l'ho detto, nulla.”
“Ad
un certo punto ha parlato.”
“Sostiene
di non aver mai visto Shinichi Kudo. E non ha detto niente riguardo al padre.
L'ho informato del fatto che se domani non avrà niente da dirci, non subirà un
trattamento esattamente simpatico.”
Vodka
si prese qualche attimo prima di rispondere. La situazione stava peggiorando.
Era chiaro come il sole che quell'attore non li avrebbe portati da nessuna
parte, almeno non in quel modo. Ed era altrettanto chiaro che il capo si
ostinava su di lui solo perché non sapeva che pesci prendere in quel momento:
il fatto di essere stato probabilmente anticipato da Shinichi Kudo doveva
corrodergli l'anima e non poco.
“Capo”
“Che
c'è?” chiese quello annoiato.
“Credi
davvero che se ne caverà fuori qualcosa da questo buco?”
“Parli
di Newman?”
Vodka
annuì. Gin guardò oltre la finestra e, con finta noncuranza, disse solo: “Non
lo so.”
La
bugia era lampante agli occhi del suo compagno, ma finse di non accorgersene.
Entrambi sapevano di aver intrapreso un vicolo cieco.
“Vodka”
“Sì?”
“Fai
un giro ad Haido o Beika domani. Non si sa mai che possa succedere qualcosa di
nuovo. Dell'attore mi occupo io. Mi raccomando, silenzio assoluto. Prendi
ordini solo da me.”
Pronunciò
l'ultima frase con una voce tanto glaciale e perentoria che Vodka ebbe
l'impressione che, se non avesse seguito per filo e per segno le sue istruzioni,
non sarebbe arrivato all'inizio del mese successivo.
“Certo,
Gin. Sempre e comunque.”
Si
mise scherzosamente sull'attenti, imitando il gesto con la mano e irrigidendosi
sulla poltrona. Voleva spezzare la tensione, ma tutto quello che guadagnò fu un'occhiata
sarcastica.
“Puoi
andare. Tienimi informato su qualsiasi cosa.”
Senza
dire altro Vodka uscì, salutando con un gesto il suo compagno. In quel momento
Gin aveva bisogno di restare solo con i suoi pensieri, senza inutili parole
nell'aria. Spense la sigaretta, che andò ad aggiungersi alle innumerevoli
ammassate sul posacenere.
Doveva
esserci una via, doveva esserci per forza. Ripensò a quanto era accaduto, a
quanto aveva visto e sentito tra le vie di Beika. Il cartello che annunciava la
chiusura dell'agenzia, la sensazione di essere seguito, l'uomo incappucciato
che aveva intravisto sbirciando con la coda dell'occhio. Che lo stesse
seguendo? Chi poteva essere? Forse lo stesso Shinichi Kudo? Comunque fosse, lui
non aveva paura. Di niente e di nessuno. E poi c'era stato quell'attimo flebile
ma indelebile in cui aveva sentito il profumo di lei. Sherry. Su quello
non aveva alcun dubbio, lo avrebbe riconosciuto anche in mezzo a milioni di
persone. Dov'era? Forse lì, a pochi passi da lui? No, Sherry lo temeva. Lo
sapeva, l'aveva letto infinite volte nei suoi occhi. Non era lei la figura
incappucciata che aveva visto. Non poteva averne la prova, ma ne era certo di
una certezza incorruttibile. Ma allora dov'era? Dove si nascondeva, qual era il
suo rifugio tra quella massa informe di persone insignificanti? Sherry era
sempre stata qualcosa di più per lui. Un qualcosa che lo divertiva, che gli
eccitava la mente e il corpo, che gli inebriava i polmoni e annebbiava la
limpida lucidità calcolatrice del suo cervello. Non avrebbe saputo definire
l'attrazione che aveva da sempre provato per lei, la soddisfazione di poterla
tenere in pugno, tra le sue mani, e quel pensiero fisso che si impadroniva di
lui ogni volta che la fissava; la voglia di averla con sé, sotto di sé, sapere
di poterla spezzare solo stringendola più forte, il suo sguardo spaventato, un
gemito strozzato e il sudore freddo e caldo che scorre lungo la pelle fino a
fondersi con gli occhi umidi di paura.
Gin
si alzò, camminando a passi lenti fino alla finestra socchiusa. Il vetro chiaro
rispecchiava la smorfia che si era dipinta sul volto di lui, e la leggera ruga
disegnata al lato degli occhi e che li rendeva più sottili e taglienti del
solito. Alle volte bastava solo un pensiero, un attimo, una scarica di
adrenalina e via, tutto tornava al suo posto, il malumore si riassorbiva in se
stesso e la convinzione di farcela, o per lo meno di potercela fare, tornava a
regnare sovrana.
Spalancò
la finestra e osservò il cielo che si imbruniva. Lontano, una ciminiera sputava
fuori a sbuffi continui un denso fumo nero. Respirò a pieni polmoni l'aria
inquinata che lo circondava. Cosa importava? Ormai non c'era più nulla che
potesse redimere la sua anima macchiata. Ma forse meglio così: la paura di
essere colpevoli era cosa da stolti. Sentire il male e il peccato scorrere
dentro di sé e provarne indicibile piacere, quello era l'animo del vincitore.
“Sei
sicura che si trattasse proprio di lui?”
Dopo
aver sentito il racconto di Ai, Conan aveva in un primo momento sgranato gli
occhi, per poi lasciarsi andare sulla prima sedia che gli era capitata vicino.
Si era seduto, aveva appena socchiuso le palpebre e massaggiato leggermente il
mento, come alla ricerca di una barba che la sua vera età avrebbe cominciato a
regalargli. E, infine, aveva posto quella domanda.
Ai
se ne stava seduta sul divano, non molto distante, e dondolava le gambe,
facendo oscillare i suoi piedini che non riuscivano a toccare terra. Fissava le
ciabatte lasciate sul pavimento e solo di tanto in tanto sollevava lo sguardo,
come per scrutare di sottecchi l'espressione del suo amico. Reputò quella
domanda indicibilmente inutile. Shinichi sapeva perfettamente che certe cose, o
meglio certe persone, lei non le avrebbe mai confuse con niente e nessun
altro.
“Certo
che sì. Era lì, e l'ho visto esattamente come ora vedo te. Era a pochi passi
dall'agenzia investigativa del padre di Ran.”
Conan
non sembrò stupito da quella conferma. Ma stava lì, immobile, ora torturandosi
le ciocche dei capelli. Non aveva pensato che sarebbero stati così veloci: non
poteva essere una coincidenza la presenza di Gin a Beika, nei pressi della casa
di Ran. Che cosa voleva? Perché mostrarsi, perché andare direttamente in prima
linea? Poi, come se si fosse improvvisamente ricordato di un punto cardine
della questione, si girò improvvisamente verso Ai, lanciandole uno sguardo
apprensivo e ansioso.
“Ti
ha vista?”
Ai
alzò appena lo sguardo, e lo fissò per un attimo, come a decidere quale fosse
la risposta giusta da dare. Aveva omesso, nel racconto, la fondamentale parte
di aver praticamente travolto l'uomo da cui avrebbe dovuto tenersi a miglia di
distanza. Ma in fondo che cos'era un'omissione? Nemmeno una bugia. E anche se
lo fosse stata, avrebbe potuto essere catalogata tra le non ben definite e
amorfe bugie a fin di bene. Sapeva che Shinichi, da bravo detective, non la
pensava allo stesso modo, e per questo si sforzò di essere il più possibile
convincente.
“No,
non credo. Ero distante. Volevo seguirlo, ma l'ho perso di vista.” disse, nel
tono più calmo che riuscì a racimolare.
Conan
stette un attimo in silenzio, fissandola non molto convinto. Aveva capito che
c'era qualcosa che non quadrava nell'animo della sua amica. Ma infine, perché
mentirgli? Perché non dirgli la verità? Shinichi era lì soltanto per aiutarla.
Se era finito in quel travolgente problema era solo per lei. Se Ran ora si
trovava chissà dove, lontano chilometri da lui, persa in un futuro dai contorni
incerti, era colpa sua. E forse era proprio per quello che, alla fine, c'era
cascata di nuovo. Aveva forse inconsapevolmente ricominciato a fare di testa
sua, quel maledetto viziaccio che nemmeno l'essersi rimpicciolita le aveva
fatto perdere. Nella sua mente aveva già cominciato a formarsi l'idea di quello
che avrebbe potuto fare, di quello che avrebbe fatto, di quella sorta di
arrembaggio ai limiti del masochismo che le si era profilato nella testa.
L'idea stava prendendo forma e non c'era più modo alcuno di arrestarla, perché
si era già impadronita della sua volontà. Non vedeva altro rimedio, non vedeva
altra soluzione. Voleva solo mettere il punto finale a quella storia ed era
sempre così, voleva sempre fare tutto da sola. Era l'unico modo che conosceva
per proteggere gli altri, l'unico modo che aveva imparato da sé in quegli anni
passati tra un laboratorio e l'altro, tra cuori di pietra e burette di vetro.
“Non
ero lucida, Shinichi. Lo sai come sono fatta.”
Pensava
di aver risolto tutto con quelle parole, ma il bambino davanti a lei non
sembrava convinto. Continuava a guardarla come se stesse capendo, come se
stesse comprendendo fin troppe cose. Alla fine disse solo, in un sussurro
appena percettibile: “Non lo so. Alle volte non lo so.”
Ai
sgambettò giù dal divano.
“Cosa
intendi dire?”
“Ai,
lo sai che voglio solo aiutarti.”
“Certo
che lo so.”
“E
allora promettimelo.”
“Cosa?”
“Che
non farai di testa tua. L'avevamo detto, te lo ricordi? Insieme. Come quando
siamo scappati correndo dalla scuola, quando abbiamo deciso di imbarcarci in
tutta questa faccenda.”
“Non
so davvero quanto l'abbiamo deciso.”
“Ai.”
“In
fondo, che cosa decidiamo sul serio da noi?”
“Ai,
sei una scienziata. Non provare a fare la filosofa.”
“Le
due cose sono più vicine di quanto sembrino all'occhio di un profano.”
“Mi
stai definendo un profano in fatto di scienza o filosofia?”
Ai sorrise. Shinichi aveva l'incredibile capacità di farla rilassare.
“Mah,
in fondo sai un po' di tutto, e questo non vuol dire forse non sapere nulla?”
L'aveva
colpito nell'orgoglio, e credeva che Shinichi avrebbe reagito in maniera stizzita,
protestando contro quell'attacco privo di ogni argomentazione fondata. Ma lui
era rimasto con i piedi ancorati alla realtà, e non abboccò al tentativo forse
involontario di sviare il discorso da parte della bambina.
“Ai,
me lo devi promettere. Non fare niente di testa tua. Non ce la faresti, così
come non ce la farei io.”
La
bambina rimase turbata. Davanti a lei, gli occhi come due pozze di acqua
chiara, Shinichi si era appena messo in discussione. Sapeva bene quanto quello
doveva essergli costato, quanto quel ragazzo così sicuro di sé, così sbruffone
e certo del suo successo in ogni caso che la vita gli presentava potesse far
fatica ad ammettere una debolezza. Un'insicurezza su quello che le sue
indubbiamente strabilianti facoltà mentali gli avrebbero permesso di
raggiungere. Come poteva mentirgli se la guardava in quel modo, se le parlava
così? Come poteva dire l'ennesima bugia al migliore amico che avesse mai avuto
in vita sua? Degli amici ci si deve fidare, e nient'altro. Rimase in silenzio.
“Ai,
promettimelo!” incalzò di nuovo lui, non perdendo il contatto visivo con gli
occhi di lei nemmeno per un istante. Si era instaurata una strana tensione,
come un sottile filo che legava i lori sguardi e sembrava potesse essere
tagliato solo dalla risposta della ragazzina.
“Io..”
iniziò lei, articolando il suono con voce secca.
Ma
c'era qualcosa più forte di ogni impressione psicologica, ed era la realtà.
Essa si presentò come la porta dell'appartamento che si aprì, poi sbatté con
noncuranza richiudendosi; un rumore di scarpe lasciate indietro alla rinfusa, e
poi dei passi felpati nell'appartamento; infine un uomo distrutto che fece
capolino nella stanza.
La
tensione si ruppe in quell'istante, crollando in mille pezzi e salvando la loro
amicizia dalla bugia che l'avrebbe compromessa. Yusaku Kudo sembrava portare
addosso il fardello di una giornata troppo pesante, e nemmeno il trucco che
Yukiko aveva perfettamente ricreato bastava a nascondere le occhiaie scure e le
pupille tremanti, come sul punto di lasciarsi andare del tutto. Si strappò di
dosso la barba che lo infastidiva e sotto la quale cominciava a crescere la
sua, e poi lanciò un'occhiata distratta e assente alla stanza. I due bambini lo
fissavano sconvolti.
“Papà,
cosa è successo?”
“Dov'è
Yukiko?” chiese quello, di rimando. “Avrei bisogno di lei.”
Yukiko
era l'unica in quel momento che avrebbe potuto aiutarlo. L'unica che era in
grado davvero di prenderlo per mano, di risollevarlo dalle sue crisi per la
mancata ispirazione, dai suoi momenti di buio assoluto, da tutte quelle volte
in cui era sul punto di dire semplicemente basta. Yukiko era la sua seconda
madre, la sua unica sorella, l'unica donna che avrebbe davvero potuto
immaginare al suo fianco: era semplicemente quello che la mentalità comune definiva
l'amore della propria vita, anche se di comune il loro amore non aveva
davvero nulla.
Sentì
qualcosa aggrapparsi alla sua gamba, e abbassando lo sguardo vide Shinichi che
gli chiedeva con occhi preoccupati che cosa mai fosse accaduto. Si inginocchiò
e poggiò le mani sulle spalle del figlio, come a fargli sentire il peso di
quanto portava dentro, quel qualcosa che nemmeno lui sapeva definire davvero.
“Yukiko
non è ancora tornata?”
“Papà,
ma..”
Shinichi
lo guardava allibito. Aveva appena chiesto tutt'altro al padre, ma era come se
lui non lo sentisse. Che cos'era successo? Cosa aveva provocato quegli occhi
spenti e quello che a tutti gli effetti appariva come un cuore indolenzito?
“Per
favore, dille di venire in camera quando torna. Ho bisogno di parlarle.”
Detto
questo si alzò, e si diresse a passi lenti verso la porta della sua nuova
stanza. Ai lo seguiva con lo sguardo, muovendo appena il capo.
“Papà,
che cosa è successo?”
Yusaku
fermò le dita sulla maniglia, e aggiunse, senza voltarsi per guardarlo:
“Scusami, Shinichi. Ho voglia di stare un po' da solo.”
Il
figlio non rispose, si limitò a sforzarsi di capire. Sapeva di non avere altra
scelta. Ma proprio quando credeva che non ci fosse altro da dire, Yusaku girò
appena il capo, e gli disse con voce leggera e roca: “Sai, alle volte ti
invidio. Per quanto mi sforzi, ci sarà sempre una parte di me che non
funzionerà seguendo quello che le dice il cervello.”
Non
aggiunse altro e richiuse la porta dietro di sé. Shinichi era rimasto
imbambolato. Ma che cosa stava succedendo, che cosa era preso a tutti? E perché
lui doveva essere additato come quello i cui sentimenti non avevano mai la
meglio? Solo perché non si lasciava andare, questo non significava
automaticamente che non avesse un cuore che gli martellava nel petto.
“Shinichi
io..”
Ai
era rimasta lì, in piedi, e lo fissava con un'espressione in parte dispiaciuta,
in parte compassionevole e in parte semplicemente abbattuta. Era una strana
espressione sul volto di Ai, ma in quel momento Shinichi non se ne accorse.
“Non
dirmelo” sbottò, “Non dirmi che sai che anche io soffro. Non dirmelo.”
Preso
dalla stizza, scalciò la gamba del tavolo, facendolo tremare. La sua forza di
bambino non era sufficiente nemmeno a far muovere un dannato pezzo di legno ed
era una sensazione di orribile impotenza quella che alle volte si impossessava
di lui, e che non lasciava mai trapelare. Che cosa ci faceva lui lì, lontano
più di quanto avrebbe mai voluto dalla ragazza che avrebbe dovuto proteggere? Perché
proteggere un persona doveva significare starle lontano, perché doveva
significare non poterle parlare, non poterla salutare, non poterla sfiorare,
non potere nemmeno consolarsi nel suono della sua voce dall'altro capo di un
telefono?
“Dannazione”
disse alla fine, prima di rintanarsi su quella sedia nell'angolo, con i suoi
pensieri e il tramonto che si stagliava all'orizzonte oltre i vetri graffiati
della finestra che dava sul mondo.
Quando
Yukiko bussò dolcemente alla porta non ottenne risposta. Abbassò appena la
maniglia e, constatando che la serratura non era bloccata, spinse piano, sbirciando
nella camera buia. La donna si era attardata in un bar di Haido, sorseggiando
in solitudine un drink e guardando al di là delle ampie vetrate tra le vie e le
macchine incolonnate nel traffico della città. Non era passato nessuno che le
ricordasse nemmeno vagamente uno degli uomini dell'Organizzazione, e aveva
finito per perdersi tra i suoi pensieri mentre il vin brûlé scendeva caldo a
regalare tepore al suo spirito.
“Yusaku?”
lo chiamò, in un bisbiglio. Su Tokyo era ormai scesa la sera, e nella stanza
regnava la penombra più assoluta. Solo il leggero riflesso biancastro della
luna nascente filtrava appena dalle tende leggermente scostate.
Sentì
un mormorio di risposta, di cui però non afferrò le parole. Non appena i suoi
occhi si furono abituati al buio, iniziò a distinguere la sagoma del marito,
sdraiato supino sul grande letto matrimoniale, il volto teso nella
contemplazione dei propri sentimenti oltre il nero del soffitto. Le labbra
della donna si incresparono in un melanconico sorriso, mentre sentiva una morsa
stringerle il cuore. Sapeva bene che Yusaku si stava logorando nel ricordo di
qualcuno che non sarebbe più tornato, sgretolandosi in un'incertezza che non
faceva altro che martoriarlo da dentro. Si sdraiò accanto a lui,
accovacciandosi e appoggiando alla spalla dell'uomo i suoi capelli soffici.
Intrecciò le dita alle sue, e Yusaku sentì chiaro il profumo di lei invadergli
le membra.
“Ti
stavo aspettando” le disse. Il suo non era un tono di rimprovero, o niente di
simile. Aveva solo bisogno di sentire la voce di lei.
“Lo
so.”
Parlavano
in un sussurro.
“Shinichi
te l'ha detto?”
“Lo
sapevo già da prima. So sempre quando hai bisogno di me.”
Alzò
il volto e gli sfiorò la guancia con un bacio. Yusaku sfilò la sua mano dalla
presa, e avvolse il braccio attorno alla vita di lei, massaggiandole appena il
fianco con le dita. Lei sorrise, sensibile al solletico per ogni minimo tocco.
“Perché
ci hai messo tanto?”
“Il
vin brûlé mi aveva dato alla testa, e me ne stavo lì, persa tra i miei
pensieri. Ma poi ho capito che dovevo tornare da te, ed eccomi qui.”
“A
cosa pensavi?”
“Oh,
a niente di importante.”
“Non
dire così.”
“Dico
così perché è vero.”
Un
attimo di silenzio. Immersi nel buio di quella stanza, i loro corpi a contatto
e le loro anime che parlavano. Non c'era nient'altro che loro, e di loro era
pieno ogni più piccolo atomo dell'aria che li circondava.
“Sei
la donna migliore che conosca. Sei intelligente, sei bella, sei forte, sei
solare e in fondo sai ogni cosa prima che io possa ancora capirla: non puoi non
pensare a qualcosa di importante.”
“Beh,
l'importanza è data dalla priorità. E ora la mia priorità sei tu. Quello che
pensavo io non è importante: se non per quel che riguarda i momenti in cui ho
pensato a te e solo a te. E adesso dimmi, cosa c'è?”
Gli
accarezzava piano il petto scoperto dalla camicia sbottonata. Conosceva ogni
millimetro di quel corpo, ogni angolo segreto di quel viso. Anche al buio era
come averlo lì, chiaro davanti al lei.
“Oggi
ero lì, guardavo l'acqua di quel fiume e pensavo ad Arthur, a cosa è capitato
in così pochi giorni.”
“E?
Cos'è successo poi?” continuava lei, incalzandolo dolcemente e disegnando dei
piccoli cerchi sulla pelle di lui, sfiorandolo appena con le unghie colorate.
Quei cerchi appena tratteggiati, che tentavano di cicatrizzare le ferite che
lottavano per emergere.
“Ad
un certo punto ho visto qualcosa, qualcosa che si muoveva nell'acqua, come una
macchia scura. E' rimasta incagliata per qualche secondo sulla riva, e lì ho
capito di cosa si trattava: era una scarpa. La sua scarpa.”
Lei
non disse nulla. Sapeva che il marito voleva ancora parlare, e il suo compito
era lasciarlo fare.
“E'
morto, Yukiko, lo so. E' lì, da qualche parte e io.. io mi sento così in colpa
a lasciarlo lì, senza poter far niente. E lo so che è assurdo, ma alle volte ho
paura che senta freddo, che si senta solo, che abbia paura: anche se so che
ormai non può provare niente di tutto questo.”
La
voce incrinata ruppe la frase e Yukiko mormorò: “Ssshh, va tutto bene. Ci sono
qui io.”
Nascose
il viso nell'incavo del collo di lui, lasciando le sue labbra lo cullassero di
baci, come se fosse stato il suo bambino, il suo piccolo amore.
“Non
c'è niente di cui preoccuparsi, niente.”
“Perché
non sono stato in grado di capirlo? Perché? Io credevo di comprendere, di
delineare le persone fin dalla prima occhiata, di saper scrivere di loro.. e
invece non so niente, Yukiko. Non so niente.”
Si
alzò improvvisamente a sedere, prendendosi il volto tra le mani. La donna seguì
i suoi movimenti e lo abbracciò, continuando a sussurrargli: “Ehi, va tutto bene.
Ci sono qui io. L'importante è questo, che nessuno possa dividerci. Siamo noi
due, abbiamo Shinichi e ora anche Ai, che sto ormai incominciando a considerare
un po' come una seconda figlia. Ci siamo noi, ci sono i tuoi amici, le persone
che ti amano: non potrà accaderti nulla.”
“E'
proprio per questo, proprio per questo che non riesco a chiudere occhio. Non ho
capito che Arthur aveva bisogno di tutto quello che io ho e che ho sempre dato
per scontato, non ho capito che lui non desiderava altro che un po' d'affetto,
una spalla su cui piangere, un amico con cui parlare. Io non mi sono accorto di
nulla: avrei potuto salvare due vite.”
Yukiko
gli scostò dalla fronte i capelli che gli cadevano disordinati sulla fronte. I
loro occhi, ormai totalmente abituati alla penombra, potevano fissare in
tranquillità i loro sguardi.
“Non
tutto si può fare, Yusaku. Non tutto è possibile, non tutte le vite si possono
salvare e non tutta la sofferenza è cancellabile dal cuore altrui.”
“E
nemmeno dal proprio.”
“Forse
no, ma si può fare qualcosa per lenirla. Non intrappolarti in quello che è
stato, vivi in quello che c'è adesso. Tuo figlio ha bisogno di te, ora più che
mai. Devi esserci, e io sarò con te in ogni momento.”
Il
voltò di Yusaku crollò sulla fronte di lei.
“Arthur
ha posto fine ad ogni tormenti. Non puoi addossarti ora i suoi.”
Yukiko
avvicinò le labbra, facendogli sentire il calore di chi lo amava più di ogni
altro. Quando si staccarono, l'uomo disse in un sussurro: “..Che cosa avrà
provato? Che cosa c'è oltre la morte?”
“Niente
di cui tu debba preoccuparti adesso, Yusaku. Perché io ti amo, e questo conta
più di ogni altra cosa. Compreso il fatto che prima o poi torneremo polvere di
stelle: non mi spaventa, perché so che anche lì, anche quando sarò un granello
ancora più piccolo nell'Universo, io sarò con te.”
L'uomo
la strinse ancora di più a sé.
“Anche
io ti amo. E se sono con te non voglio e non posso avere paura.”
Erano
una cosa sola, indissolubilmente uniti per sempre. Lei gli accarezzò la barba
che stava crescendo e le raschiava appena la pelle: “E ora andiamo. A quanto
pare Ai ci ha preparato qualcosa di buono, e tu hai bisogno di mangiare. E
poi,” aggiunse, dandogli un altro bacio, “stanotte penso io a te.”
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E a più di un
anno di distanza dal primo capitolo, ecco finalmente il decimo. Mi scuso
davvero per i miei ritmi estremamente lenti, purtroppo faccio una gran fatica a
trovare del tempo libero per scrivere e spesso l’ispirazione decide di
prendersi delle vacanze, oppure di lanciarmi idee per altre storie invece di
farmi concentrare solo su questa. Comunque già dal prossimo capitolo il
racconto prenderà la piega che lo porterà poi alla fine, che ho già ben in
mente e che spero non vi deluderà! :) Ringrazio tutti coloro che hanno la
storia tra le preferite, ricordate, o seguite (grazie davvero <3), e
ovviamente anche chi si è fermato a recensire. Un bacione grandissimo e, nella
speranza che il capitolo vi sia piaciuto, vi auguro buon Natale, buone vacanze,
e felice anno nuovo! :)
Un bacione,
Flami