Serie TV > Vikings
Segui la storia  |       
Autore: charliehuter    29/12/2014    0 recensioni
Chiedersi più volte in silenzio: è tutto qui quello che deve essere? E’ così che deve andare o è solo una delle tante direzioni ricevute da un fatuo destino?
Genere: Avventura, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
«For the pagan past I live and one day will die.
Hold the heathen hammer high, never turn away.
Ever true unto your forefathers stalwart stay»
(Týr Hold the heathen hammer high)


Dannazione.
L’odore del sangue e la concentrazione di polvere inebriavano così fastidiosamente il cervello tanto da far perdere i sensi e rendere ogni singola mossa più complicata. Lunghe grida di rabbia e brevi sussulti di dolore dirigevano quello scenario di devastazione già più volte vissuto, ma dall’esito pur sempre incerto. Dapprima il sordo rumore dell’acciaio faceva a cozzi con quello nemico, poi affondava nella carne e spezzava la vita; tagli, graffi, cicatrici di ogni spessore e lunghezza marcavano i corpi di quei combattenti stremati, ma disposti ancora a resistere per lasciare spazio a quello che sarebbe stato il sapore della vittoria.
Navigavo meccanicamente, schivando tanto i colpi quanto gli sguardi di tutti i presenti, in quella che non sembrava affatto ricordare un’estesa pianura di verde in cui, un tempo (o a dire il vero anche solo qualche mese prima), i sottili fili d’erba avrebbero accarezzato lievemente le caviglie scoperte e gli alberi secolari, vicini al limpido e pacato ruscello, avrebbero concesso discreti spazi d’ombra per cercare riparo dal sole, mentre il gregge avrebbe pascolato in una lieta serenità. Ora, invece, nessuna traccia di conforto, nessun segno di beatitudine si poteva scorgere in quella bufera di atrocità, mista ad insania e impercettibile innocenza: strati di sangue rossastro invadevano inesorabilmente gli spazzi; centinaia erano i corpi e le carcasse prive di vita sparpagliate sul campo di battaglia; altrettanto era l’armamentario, tra elmi e scudi di legno, asce, archi e faretre, lance e spade più o meno spezzate, disseminate casualmente; una nenia dal tono taciturno e soffocante riecheggiava nell’aria una sensazione spietata di morte. Né visi a me familiari, né figure a me sconosciute, tanto meno il sinistro paesaggio circostante, parevano voler rivelare la conclusione di quella lotta incessante, di quell’antagonismo divenuto ormai insostenibile. Rosso era il terreno imbrattato di violenza e voglia crudele di primeggiare; rossa era a tratti l’acqua del torrente che sembrava scorrere più rapida per oltrepassare in fretta quello strazio; rosso il cielo che carico di nuvole nascondeva la luce del giorno e appesantiva l’animo; rossa era la volontà con cui cercavo di difendere i pochi compagni rimasti e della stessa tonalità era la violenza con cui mi scagliavo contro i nemici, sferrando bruschi colpi di spada e frantumando la vita di quegli uomini ignoti di cui non mi era noto nessun particolare, se non il fatto che fossero marcati da un sangue ostile e, pertanto, fossero nemici da ridurre in miseri brandelli. Uno, due, tre.. per l’ennesima volta la lama si conficcava rapida nelle viscere di quegli esecrabili individui, oramai vecchie macchine da combattimento. Quattro, cinque, sei.. con un solo colpo il metallo squarciava il petto di quei guerrieri senza più identità certa. Uno dopo l’altro andavano tutti in contro alla fine della loro storia. Sbaragliavo i nemici senza difficoltà, volteggiavo tra i corpi ormai andati e quelli ancora da fare fuori, giravo su me stessa per schivare le lance e le asce degli avversari che mi auto costringevo a non sottovalutare. Tutto propizio, almeno fino a quando il destino non prese la briga di variare la direzione del vento.. Ricordo fermamente, in un modo che ancora mi affligge, di aver passato la spada intrisa di sangue nella mano sinistra e di aver raccolto una lancia da terra per scagliarla qualche metro più avanti: inutilmente. Mossa azzardata, senza possibilità di indietreggiamento, costata una vita. Durante la breve rincorsa, infatti, la caviglia sinistra aveva ceduto improvvisamente sotto il  peso del corpo e in mancanza di equilibrio mi ero ritrovata accasciata, con un ginocchio a terra ed entrambe le mani schiacciate al suolo, le unghie affondate nella terra fredda e le armi poco distanti, libere dalla presa. Fissavo a capo chino, quasi imbarazzata e irritata, quegli strumenti malmessi il cui valore riusciva ad eguagliare quello dei pochi e cari amici che, come spesso sentenziavano i conoscenti più sapienti (un vero e proprio pozzo di saggezza), potevo contare appena sulle dita di una mano. Scrollai quella sensazione di dosso e cercai di tirarmi su, ma fu in quel momento che avvenne l’irreparabile: avvertivo nuovamente il freddo del metallo venire a contatto con la pelle, nonostante le mie mani sporche non impugnassero l’asta e la spada che erano ancora distese a terra. Un labile soffio di vento, freddo e pungente, si faceva largo dentro di me e sfiorava la gabbia toracica per poi uscire e andare perduto. Sgranai debolmente gli occhi e spalancai la bocca in un grido soffocato piegandomi su me stessa: gli occhi fievolmente appannati, quasi attoniti e fissi sul petto intravedevano la punta imbrattata di una spada che perforava la schiena, ora tremendamente dolorante e macchiata di uno strato vermiglio mescolato al sudore. Faceva male, per tutti gli dei, se faceva male. Con le forze che non avevo imploravo a me stessa di chiudere gli occhi; turbata, in preda a sussulti di sangue, mi dicevo che se non avessi visto altro avrei superato con più facilità quel momento. Dunque chiusi gli occhi, ma il dolore era così intenso che tutto il corpo pareva freddarsi e perdere il calore che fino a quel momento mi aveva tenuta aggrappata alla vita.
E’ così che deve andare o è solo una delle tante direzioni ricevute da un fatuo destino?
Come se non bastasse il piede nemico si piantò con fermezza sopra la schiena e il tale, rimuovendo il gladio, mi scagliò con ferocia contro il suolo: senza pietà aggiunta, inquietudine o traccia di rispetto, egli aveva avuto la meglio e sogghignava spavaldo per poi urlare il suo orgoglio ai quattro venti mentre i muscoli corrugavano la fronte di quel viso sporco che, assai volentieri, avrei voluto battere più volte contro la terra scura. E invece abbracciavo il terreno rigida come un pezzo di legno mentre avevo i minuti oramai contati: non c’era niente che potessi fare, niente che mi potesse aiutare. Quindi è tutto qui quello che deve essere?
Ero sola come un drakkar in mezzo ad un mare animato dalla tempesta, sebbene fossi circondata da uomini che crollavano riversi a terra facendo la mia stessa fine; altri che si rialzavano dopo la caduta trovando nuovamente la rabbia necessaria per imbrattare ulteriore carne di sangue; altri ancora che si facevano forza e, come guidati da un’incalcolabile disperazione, pensavano sia a salvarsi la pelle, che  a coprire le spalle dei compagni.
There is nothing I can do. No, there is nothing I can do by now.
Un vento leggero, appena percepibile, soffiava da est e mi accarezzava delicatamente il viso, come se cercasse di ripulirmi dal sangue e dal sudiciume che imbrattavano quella mia carnagione troppo bianca, adesso ancora  più pallida del solito. Portava con sé l’odore della guerra e l’inesplicabile capacità di attenuare ogni disposizione d'animo. Ben presto non fui più in grado di percepire i rumori che cadenzavano il conflitto: le grida altrui, quanto mai disperate, rabbiose, spietate, iniziarono gradualmente ad affievolirsi; il suono greve dell’acciaio o il sibilo delle frecce, tanto letale da non concedere distrazioni, quanto restio nel tollerare pretesti o negoziati, pareva essersi estinto; i consueti bisbigli della pianura si erano annullati di colpo, mentre una palese sensazione di morte si stava adagiando su di me. Dischiusi appena gli occhi per vedere ancora un minimo di ciò che, di lì a poco, mi sarei apprestata a lasciare, volente o meno. Le lance erano stanche di uccidere, gli scudi ammaccati e le asce sfinite, grevi più che mai. Eppure a qualche metro di distanza, davanti a me, c’era ancora qualcuno che restava aggrappato alla vita e, a pensarci bene, chissà quanti altri ce n’erano che io non riuscivo a scorgere e che, stremati, feriti e indolenziti, impugnavano le armi per non assaporare ancora il gusto amaro della sconfitta, per niente intenzionati a raggiungere il Valhalla, almeno non in quel giorno dell’anno. Accomunati, più o meno, dallo stesso volto intriso di sangue nemico e dalle cicatrici più varie, sparse sulla pelle tagliata; accomunati dai vestiti lacerati, imbrattati dallo sporco e inzuppati di sudore; accomunati da un’avversità reciproca che pareva non potersi placare: alla fine alcuni cadevano vinti; altri, invece, andavano avanti posticipando la caduta; e terzi, di gran lunga i più fortunati, perdurarono fino alla conclusione della battaglia, abbastanza integri per vedere sorgere il sole il giorno seguente, o addirittura per un numero consistente di altre volte. Tra quei mortali, inclementi dispensatori di strazi, inaspettatamente, una figura catturò il mio sguardo. Rigidamente immobile, con il volto severo e nel medesimo tempo indecifrabile, impugnava con intensità il manico di un’ascia e nella vastità che lo circondava sembrava adocchiare proprio la mia smunta figura, dimentico di tutto il pericolo che poteva gravare su di lui. Avevo come la sensazione di conoscerlo, ma visto il mio stato di deterioramento, mi restava quanto mai difficile determinare la sua identità. Era alto all'incirca due metri, sebbene a osservarlo dal basso sembrasse addirittura più grande, quasi quanto le statue degli dei al tempio di Uppsala; i lunghi capelli, folti e color del grano gli ricadevano sulle spalle e si attaccavano unti ai vestiti sudati, mentre la barba, lunga anch’essa, fermata con qualche stringa e alcuni anelli, tralasciava cadere piccole gocce di sudore; in fronte portava perizia ed in mano vigore, sebbene fosse imbrattato dal sudiciume e dallo sforzo del conflitto. Respirava velocemente, affaticato, ma dava l’idea che si stesse sforzando a non sembrare indebolito, come per preservare la sua virilità. Gli occhi impietriti, senza calore, non parevano voler allentare la presa, ma non suggerivano le sue intenzioni e questo incuteva quasi terrore. Un’esigua parte di me si ostinava a crederci, ma in cuor mio speravo di ricevere un’ulteriore colpo alla schiena, quello decisivo che potesse incidere l’esplicita fine della mia sconfitta. Per questo motivo fissavo l’arma che impugnava ben stretta nella mano gagliarda; tuttavia l’impatto che aspettavo non si verificò mai perché l’ascia scivolò inaspettatamente a terra. Incredula alzai lentamente lo sguardo sfiancato per poter incontrare l’espressione del suo viso e, nel percorrere verso l’alto il corpo di costui, lo vidi incedere nella mia direzione, certa che puntasse verso di me. In un primo momento con passo calmo e ponderato, senza mostrare cenni di squilibrio e con gli occhi fissi, in modo sconcertante, su un punto indefinito della mia scialba configurazione; poi, accelerando, con andatura più rapida, mentre il vento soffiava su di lui, sollevando lievemente i suoi capelli nell’aria e dandomi, solo allora, la possibilità di capire chi fosse. Non era molto lontano da me, infatti, quando dopo aver scosso bruscamente la testa a destra e a sinistra, tre o quattro volte, per allontanare quelle ciocche di capelli che, a causa del sudore, gli restavano tediosamente incollate al viso, io ebbi modo di intravedere il tatuaggio che portava vicino all’orecchio sinistro: una freccia; modesta, palese, tracciata con minuzia affinché si potesse intuire che fosse insinuata nella pelle. Un disegno che per qualcuno poteva esplicitarsi in una congettura più o meno analoga alla realtà, per qualcun altro, invece, poteva rappresentare  al massimo l’immagine lapalissiana di un attrezzo deleterio frequentemente visto e utilizzato; ciononostante, vista l’inutilità del pensiero altrui, per la sottoscritta rievocava solo fiocamente l’esistenza di un antico legame, un’affinità costante espressa in modo simile anche sul mio viso accanto all’orecchio destro, il sussurro di un nome che sovente avevo percepito, più volte avevo nominato: Leif.
Questione di pochi secondi e il colosso che qualche istante prima avevo ipotizzato essere un maldisposto individuo sopraggiunse al mio fianco destro, leggermente titubante e frastornato, quasi quanto me. Nello stato di incertezza e di turbamento in cui rapidamente sembrava scivolare, scavalcò il mio corpo verso il lato sinistro, prima con un piede,  poi con l’altro, e frattanto, inginocchiandosi, si aiutò con le mani a girare in alto la mia mole esile e quanto mai sventurata, in modo che il viso non fosse più a contatto con la terra fredda. Delicatamente, come se avesse timore che mi potessi rompere da un momento all’altro, mi strinse forte a sé, sollevandomi leggermente da terra e adagiando la mia testa contro il suo petto virile. Sentivo il suo cuore battere rapidamente, pulsare in modo così tanto deciso che sembrava quasi vi fossero gli zoccoli di un cavallo al galoppo, irrequieto e adirato dentro a quel torace d’uomo, quanto mai austero e irremovibile. Un battito che accelerava ogni volta che il mio respiro si faceva più gravoso e difficoltoso, che la mia fronte appariva ancor più madida di sudore, che il mio volto si irrigidiva in preda ad una tosse quasi convulsa e che a causa di quel disturbo, sia dalla bocca ormai disidratata, sia dalla ferita che mi straziava il petto, fuoriusciva un considerevole fiotto di sangue. Il suo sguardo si manteneva fisso proprio su quel taglio di spada che gradualmente mi stava svuotando delle ultime energie; inutilmente, il palmo ruvido della sua mano destra ci si soffermava sopra come per creare una specie di tappo, una benda che potesse fermare l’emorragia, ma questione di qualche secondo e la mano si risollevava appena appena per poi ritornarci sopra e prolungare quel gesto tante altre volte consecutive.
L’ennesimo colpo di tosse, seguito da un lento stordimento, promotore di visioni celesti e confuse, brividi lungo tutta la schiena. Eppure, nonostante la mia sinistra atrofizzazione, a tratti percepivo ancora lo sforzo di Leif per rimandare quanto più a lungo la mia dipartita: con vigore affondava e premeva le dita delle mani sulle mie vesti lacere e, comprimendomi addosso a lui, mi avvolgeva in un benevolo abbraccio, mentre ondeggiava avanti e indietro; cercava di tenermi al caldo e imprecava pesantemente tra i denti perché capiva di non riuscire nell’intento; talvolta la sua mano accarezzava quasi tremante il mio volto e il suo mento si posava appena sulla mia fronte mentre emetteva parole vaghe di preghiere che non ero in grado di intuire. In cuor suo sapeva che un’ulteriore pugnalata avrebbe messo fine al perdurare di quella mia straziante tortura, ma ciò non avrebbe placato anche il tormento che man mano lo avvolgeva. Alla fine, comunque, notata la fugacità del momento trovò la forza di padroneggiare l’angoscia temporanea; così mi fissò un attimo titubante, con la fronte aggrottata mentre la sua testa inseguiva rapida un pensiero, e allontanando ogni esigua perplessità stampò le sue fredde labbra sulle mie. Un bacio impetuoso, inaspettato, il primo. Fu insolito, tendente al fastidioso, perché con quel gesto lo sentii terribilmente vicino e perché negli anni non avevo mai permesso a nessuno di arrivare a tanto. Quando i miei occhi stanchi e annebbiati si incontrarono con i suoi, un miscuglio di grigio e azzurro pallido così insolitamente accorto e silente, ebbene il contatto con la realtà e la percezione di quella cupa situazione di abbandono si presentarono quanto mai tangibili e inesorabili. Un monito, quello, che come pelle d’oca riuscì a far trapelare un limpido stato di solitudine e l’inizio di un inevitabile conto alla rovescia: quella che un tempo era stata solo un’ipotetica chiaroveggenza, ora si era trasformata nel mio quasi totale distacco da terra. Nell’intensità delle sue pupille potevo riconoscere la sagoma invulnerabile delle valchirie che, armate di scudo e di lancia, erano pronte a raccogliere i guerrieri caduti per portarli nel Valhalla. Cavalcavano insieme nell'aria pungente, imperterrite e vigili per svolgere con diligenza il loro dovere. Tra le nove compagne era lì anche quella che doveva essere Hervör: alta, armata di coraggio e di metallo, sedeva imperiosa su un lupo dal mantello nero e lentamente si faceva strada tra il disordine, si avvicinava, tendeva la mano e portava tra gli einherjar. A differenza di molti compagni, mai e poi mai avrei pensato che un giorno mi sarei unita a loro giacché, con il defluire inesorabile degli anni e forse anche con una gran dose di testardaggine, l’idea che per me vi fosse in serbo solo il misero e desolato regno di Hel si era fatta così limpida e veritiera che ancora stentavo a crederci. Ma Hervor era lì, riflessa negli occhi benevoli di Leif, con il braccio sinistro, possente e disteso, la mano che stringeva le mie vesti malridotte. Mi spensi, dunque, come una candela a lungo lasciata accesa; e come se tale cera fosse stata collocata vicino al freddo davanzale di una finestra socchiusa, coll’ insinuarsi della brezza sulla flebile fiamma, lasciai di me solo un effimero ricordo di fumo.
                                              

Where will you run when there's nowhere to hide,
And the people you loved are the people who died.
The town you once loved, you miserably forget,
There's no escape, now you're leaving this earth.


  
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Vikings / Vai alla pagina dell'autore: charliehuter