«For the pagan past I live and one day will die.
Hold the heathen hammer high, never turn away.
Ever true unto your forefathers stalwart stay»
(Týr - Hold the heathen hammer high)
Dannazione.
L’odore del
sangue e la concentrazione di polvere inebriavano così fastidiosamente il
cervello tanto da far perdere i sensi e rendere ogni singola mossa più complicata.
Lunghe grida di rabbia e brevi sussulti di dolore dirigevano quello scenario di
devastazione già più volte vissuto, ma dall’esito pur sempre incerto. Dapprima
il sordo rumore dell’acciaio faceva a cozzi con quello nemico, poi affondava
nella carne e spezzava la vita; tagli, graffi, cicatrici di ogni spessore e
lunghezza marcavano i corpi di quei combattenti stremati, ma disposti ancora a
resistere per lasciare spazio a quello che sarebbe stato il sapore della
vittoria.
Navigavo
meccanicamente, schivando tanto i colpi quanto gli sguardi di tutti i presenti,
in quella che non sembrava affatto ricordare un’estesa pianura di verde in cui,
un tempo (o a dire il vero anche solo qualche mese prima), i sottili fili d’erba
avrebbero accarezzato lievemente le caviglie scoperte e gli alberi secolari,
vicini al limpido e pacato ruscello, avrebbero concesso discreti spazi d’ombra per cercare riparo dal
sole, mentre il gregge avrebbe pascolato in una lieta serenità. Ora, invece,
nessuna traccia di conforto, nessun segno di beatitudine si poteva scorgere in
quella bufera di atrocità, mista ad insania e impercettibile innocenza: strati
di sangue rossastro invadevano inesorabilmente gli spazzi; centinaia erano i
corpi e le carcasse prive di vita sparpagliate sul campo di battaglia;
altrettanto era l’armamentario, tra elmi e scudi di legno, asce, archi e faretre,
lance e spade più o meno spezzate, disseminate casualmente; una nenia dal tono
taciturno e soffocante riecheggiava nell’aria una sensazione spietata di morte.
Né visi a me familiari, né figure a me sconosciute, tanto meno il sinistro paesaggio
circostante, parevano voler rivelare la conclusione di quella lotta incessante,
di quell’antagonismo divenuto ormai insostenibile. Rosso era il terreno
imbrattato di violenza e voglia crudele di primeggiare; rossa era a tratti
l’acqua del torrente che sembrava scorrere più rapida per oltrepassare in
fretta quello strazio; rosso il cielo che carico di nuvole nascondeva la luce
del giorno e appesantiva l’animo; rossa era la volontà con cui cercavo di
difendere i pochi compagni rimasti e della stessa tonalità era la violenza con
cui mi scagliavo contro i nemici, sferrando bruschi colpi di spada e
frantumando la vita di quegli uomini ignoti di cui non mi era noto nessun
particolare, se non il fatto che fossero marcati da un sangue ostile e,
pertanto, fossero nemici da ridurre in miseri brandelli. Uno, due, tre.. per
l’ennesima volta la lama si conficcava rapida nelle viscere di quegli esecrabili
individui, oramai vecchie macchine da combattimento. Quattro, cinque, sei.. con
un solo colpo il metallo squarciava il petto di quei guerrieri senza più identità
certa. Uno dopo l’altro andavano tutti in contro alla fine della loro storia.
Sbaragliavo i nemici senza difficoltà, volteggiavo tra i corpi ormai andati e
quelli ancora da fare fuori, giravo su me stessa per schivare le lance e le
asce degli avversari che mi auto costringevo a non sottovalutare. Tutto
propizio, almeno fino a quando il destino non prese la briga di variare la
direzione del vento.. Ricordo fermamente, in un modo che ancora mi affligge, di
aver passato la spada intrisa di sangue nella mano sinistra e di aver raccolto
una lancia da terra per scagliarla qualche metro più avanti: inutilmente. Mossa
azzardata, senza possibilità di indietreggiamento, costata una vita. Durante la
breve rincorsa, infatti, la caviglia sinistra aveva ceduto improvvisamente sotto
il peso del corpo e in mancanza di
equilibrio mi ero ritrovata accasciata, con un ginocchio a terra ed entrambe le
mani schiacciate al suolo, le unghie affondate nella terra fredda e le armi
poco distanti, libere dalla presa. Fissavo a capo chino, quasi imbarazzata e irritata,
quegli strumenti malmessi il cui valore riusciva ad eguagliare quello dei pochi
e cari amici che, come spesso sentenziavano i conoscenti più sapienti (un vero
e proprio pozzo di saggezza), potevo contare appena sulle dita di una mano.
Scrollai quella sensazione di dosso e cercai di tirarmi su, ma fu in quel
momento che avvenne l’irreparabile: avvertivo nuovamente il freddo del metallo venire
a contatto con la pelle, nonostante le mie mani sporche non impugnassero l’asta
e la spada che erano ancora distese a terra. Un labile soffio di vento, freddo
e pungente, si faceva largo dentro di me e sfiorava la gabbia toracica per poi
uscire e andare perduto. Sgranai debolmente gli occhi e spalancai la bocca in
un grido soffocato piegandomi su me stessa: gli occhi fievolmente appannati, quasi
attoniti e fissi sul petto intravedevano la punta imbrattata di una spada che perforava
la schiena, ora tremendamente dolorante e macchiata di uno strato vermiglio
mescolato al sudore. Faceva male, per tutti gli dei, se faceva male. Con le
forze che non avevo imploravo a me stessa di chiudere gli occhi; turbata, in
preda a sussulti di sangue, mi dicevo che se non avessi visto altro avrei
superato con più facilità quel momento. Dunque chiusi gli occhi, ma il dolore era
così intenso che tutto il corpo pareva freddarsi e perdere il calore che fino a
quel momento mi aveva tenuta aggrappata alla vita.
E’ così che deve andare o è solo una delle tante direzioni
ricevute da un fatuo destino?
Come se non bastasse il piede nemico
si piantò con fermezza sopra la schiena e il tale, rimuovendo il gladio, mi
scagliò con ferocia contro il suolo: senza pietà aggiunta, inquietudine o
traccia di rispetto, egli aveva avuto la meglio e sogghignava spavaldo per poi urlare
il suo orgoglio ai quattro venti mentre i muscoli corrugavano la fronte di quel
viso sporco che, assai volentieri, avrei voluto battere più volte contro la
terra scura. E invece abbracciavo il terreno rigida come un pezzo di legno
mentre avevo i minuti oramai contati: non c’era niente che potessi fare, niente
che mi potesse aiutare. Quindi è tutto
qui quello che deve essere?
Ero sola come un drakkar in mezzo
ad un mare animato dalla tempesta, sebbene fossi circondata da uomini che
crollavano riversi a terra facendo la mia stessa fine; altri che si rialzavano
dopo la caduta trovando nuovamente la rabbia necessaria per imbrattare ulteriore
carne di sangue; altri ancora che si facevano forza e, come guidati da
un’incalcolabile disperazione, pensavano sia a salvarsi la pelle, che a coprire le spalle dei compagni.
There is nothing I can do. No, there is
nothing I can do by now.
Un vento leggero, appena percepibile, soffiava da
est e mi accarezzava delicatamente il viso, come se cercasse di ripulirmi dal
sangue e dal sudiciume che imbrattavano quella mia carnagione troppo bianca,
adesso ancora più pallida del solito.
Portava con sé l’odore della guerra e l’inesplicabile capacità di attenuare
ogni disposizione d'animo. Ben presto non fui più in grado di percepire i rumori
che cadenzavano il conflitto: le grida altrui, quanto mai disperate, rabbiose,
spietate, iniziarono gradualmente ad affievolirsi; il suono greve dell’acciaio
o il sibilo delle frecce, tanto letale da non concedere distrazioni, quanto
restio nel tollerare pretesti o negoziati, pareva essersi estinto; i consueti
bisbigli della pianura si erano annullati di colpo, mentre una palese
sensazione di morte si stava adagiando su di me. Dischiusi appena gli occhi per vedere ancora
un minimo di ciò che, di lì a poco, mi sarei apprestata a lasciare, volente o
meno. Le lance erano stanche di uccidere, gli scudi ammaccati e le asce
sfinite, grevi più che mai. Eppure a qualche metro di distanza, davanti a me,
c’era ancora qualcuno che restava aggrappato alla vita e, a pensarci bene, chissà
quanti altri ce n’erano che io non riuscivo a scorgere e che, stremati, feriti
e indolenziti, impugnavano le armi per non assaporare ancora il gusto amaro
della sconfitta, per niente intenzionati a raggiungere il Valhalla, almeno non
in quel giorno dell’anno. Accomunati, più o meno, dallo stesso volto intriso di
sangue nemico e dalle cicatrici più varie, sparse sulla pelle tagliata; accomunati
dai vestiti lacerati, imbrattati dallo sporco e inzuppati di sudore; accomunati
da un’avversità reciproca che pareva non potersi placare: alla fine alcuni cadevano
vinti; altri, invece, andavano avanti posticipando la caduta; e terzi, di gran
lunga i più fortunati, perdurarono fino alla conclusione della battaglia, abbastanza
integri per vedere sorgere il sole il giorno seguente, o addirittura per un
numero consistente di altre volte. Tra quei mortali, inclementi dispensatori di
strazi, inaspettatamente, una figura catturò il
mio sguardo. Rigidamente immobile, con il volto severo e nel medesimo tempo
indecifrabile, impugnava con intensità il manico di un’ascia e nella vastità
che lo circondava sembrava adocchiare proprio la mia smunta figura, dimentico
di tutto il pericolo che poteva gravare su di lui. Avevo come la sensazione di
conoscerlo, ma visto il mio stato di deterioramento, mi restava quanto mai
difficile determinare la sua identità. Era alto all'incirca due metri, sebbene a osservarlo dal basso
sembrasse addirittura più grande, quasi quanto le statue degli dei al tempio di
Uppsala; i lunghi capelli, folti e color del grano gli ricadevano sulle spalle
e si attaccavano unti ai vestiti sudati, mentre la barba, lunga anch’essa,
fermata con qualche stringa e alcuni anelli, tralasciava cadere piccole gocce
di sudore; in fronte portava perizia ed in mano vigore, sebbene fosse
imbrattato dal sudiciume e dallo sforzo del conflitto. Respirava velocemente,
affaticato, ma dava l’idea che si stesse sforzando a non sembrare indebolito, come
per preservare la sua virilità. Gli occhi impietriti, senza calore, non
parevano voler allentare la presa, ma non suggerivano le sue intenzioni e
questo incuteva quasi terrore. Un’esigua parte di me si ostinava a crederci, ma
in cuor mio speravo di ricevere un’ulteriore colpo alla schiena, quello
decisivo che potesse incidere l’esplicita fine della mia sconfitta. Per questo
motivo fissavo l’arma che impugnava ben stretta nella mano gagliarda; tuttavia l’impatto
che aspettavo non si verificò mai perché l’ascia scivolò inaspettatamente a
terra. Incredula alzai lentamente lo sguardo sfiancato per poter incontrare l’espressione
del suo viso e, nel percorrere verso l’alto il corpo di costui, lo vidi
incedere nella mia direzione, certa che puntasse verso di me. In un primo
momento con passo calmo e ponderato, senza mostrare cenni di squilibrio e con
gli occhi fissi, in modo sconcertante, su un punto indefinito della mia scialba
configurazione; poi, accelerando, con andatura più rapida, mentre il vento
soffiava su di lui, sollevando lievemente i suoi capelli nell’aria e dandomi,
solo allora, la possibilità di capire chi fosse. Non era molto lontano da me,
infatti, quando dopo aver scosso bruscamente la testa a destra e a sinistra, tre
o quattro volte, per allontanare quelle ciocche di capelli che, a causa del
sudore, gli restavano tediosamente incollate al viso, io ebbi modo di
intravedere il tatuaggio che portava vicino all’orecchio sinistro: una freccia;
modesta, palese, tracciata con minuzia affinché si potesse intuire che fosse insinuata
nella pelle. Un disegno che per qualcuno poteva esplicitarsi in una congettura
più o meno analoga alla realtà, per qualcun altro, invece, poteva rappresentare
al massimo l’immagine lapalissiana di un
attrezzo deleterio frequentemente visto e utilizzato; ciononostante, vista
l’inutilità del pensiero altrui, per la sottoscritta rievocava solo fiocamente
l’esistenza di un antico legame, un’affinità costante espressa in modo simile
anche sul mio viso accanto all’orecchio destro, il sussurro di un nome che
sovente avevo percepito, più volte avevo nominato: Leif.
Questione di pochi secondi e il
colosso che qualche istante prima avevo ipotizzato essere un maldisposto
individuo sopraggiunse al mio fianco destro, leggermente titubante e frastornato,
quasi quanto me. Nello stato di incertezza e di turbamento in cui rapidamente
sembrava scivolare, scavalcò il mio corpo verso il lato sinistro, prima con un
piede, poi con l’altro, e frattanto,
inginocchiandosi, si aiutò con le mani a girare in alto la mia mole esile e
quanto mai sventurata, in modo che il viso non fosse più a contatto con la
terra fredda. Delicatamente, come se avesse timore che mi potessi rompere da un
momento all’altro, mi strinse forte a sé, sollevandomi leggermente da terra e
adagiando la mia testa contro il suo petto virile. Sentivo il suo cuore battere
rapidamente, pulsare in modo così tanto deciso che sembrava quasi vi fossero
gli zoccoli di un cavallo al galoppo, irrequieto e adirato dentro a quel torace
d’uomo, quanto mai austero e irremovibile. Un battito che accelerava ogni volta
che il mio respiro si faceva più gravoso e difficoltoso, che la mia fronte
appariva ancor più madida di sudore, che il mio volto si irrigidiva in preda ad
una tosse quasi convulsa e che a causa di quel disturbo, sia dalla bocca ormai
disidratata, sia dalla ferita che mi straziava il petto, fuoriusciva un considerevole
fiotto di sangue. Il suo sguardo si manteneva fisso proprio su quel taglio di
spada che gradualmente mi stava svuotando delle ultime energie; inutilmente, il
palmo ruvido della sua mano destra ci si soffermava sopra come per creare una
specie di tappo, una benda che potesse fermare l’emorragia, ma questione di
qualche secondo e la mano si risollevava appena appena per poi ritornarci sopra
e prolungare quel gesto tante altre volte consecutive.
L’ennesimo colpo di tosse,
seguito da un lento stordimento, promotore di visioni celesti e confuse,
brividi lungo tutta la schiena. Eppure, nonostante la mia sinistra
atrofizzazione, a tratti percepivo ancora lo sforzo di Leif per rimandare quanto
più a lungo la mia dipartita: con vigore affondava e premeva le dita delle
mani sulle mie vesti lacere e, comprimendomi addosso a lui, mi avvolgeva in un
benevolo abbraccio, mentre ondeggiava avanti e indietro; cercava di tenermi al
caldo e imprecava pesantemente tra i denti perché capiva di non riuscire
nell’intento; talvolta la sua mano accarezzava quasi tremante il mio volto e il
suo mento si posava appena sulla mia fronte mentre emetteva parole vaghe di
preghiere che non ero in grado di intuire. In cuor suo sapeva che un’ulteriore
pugnalata avrebbe messo fine al perdurare di quella mia straziante tortura, ma
ciò non avrebbe placato anche il tormento che man mano lo avvolgeva. Alla fine, comunque, notata la fugacità del momento trovò la forza
di padroneggiare l’angoscia temporanea; così mi fissò un attimo titubante, con
la fronte aggrottata mentre la sua testa inseguiva rapida un pensiero, e allontanando
ogni esigua perplessità stampò le sue fredde labbra sulle mie. Un bacio impetuoso,
inaspettato, il primo. Fu insolito, tendente al fastidioso, perché con quel
gesto lo sentii terribilmente vicino e perché negli anni non avevo mai
permesso a nessuno di arrivare a tanto. Quando i miei occhi stanchi e
annebbiati si incontrarono con i suoi, un miscuglio di grigio e azzurro pallido
così insolitamente accorto e silente, ebbene il contatto con la realtà e la
percezione di quella cupa situazione di abbandono si presentarono quanto mai
tangibili e inesorabili. Un monito, quello, che come pelle d’oca riuscì a far
trapelare un limpido stato di solitudine e l’inizio di un inevitabile conto
alla rovescia: quella che un tempo era stata solo un’ipotetica chiaroveggenza,
ora si era trasformata nel mio quasi
totale distacco da terra. Nell’intensità delle sue pupille potevo riconoscere la sagoma
invulnerabile delle valchirie che, armate di scudo e di lancia, erano pronte a
raccogliere i guerrieri caduti per portarli nel Valhalla. Cavalcavano insieme
nell'aria pungente, imperterrite e vigili per svolgere con diligenza il loro
dovere. Tra le nove compagne era lì anche quella che doveva essere Hervör: alta, armata di coraggio e di metallo,
sedeva imperiosa su un lupo dal mantello nero e lentamente si faceva strada tra
il disordine, si avvicinava, tendeva la mano e portava tra gli einherjar. A differenza
di molti compagni, mai e poi mai avrei pensato che un giorno mi sarei unita a
loro giacché, con il defluire inesorabile degli anni e forse anche con una gran dose
di testardaggine, l’idea che per me vi fosse in serbo solo il misero e desolato
regno di Hel si era fatta così limpida e veritiera che ancora stentavo a crederci.
Ma Hervor era lì, riflessa negli occhi benevoli di Leif, con il braccio sinistro,
possente e disteso, la mano che stringeva le mie vesti malridotte. Mi spensi, dunque, come una candela a lungo
lasciata accesa; e come se tale cera fosse stata collocata vicino al freddo davanzale
di una finestra socchiusa, coll’ insinuarsi della brezza sulla flebile fiamma, lasciai
di me solo un effimero ricordo di fumo.
Where will you run when there's nowhere to hide,
And the people you loved are the people who died.
The town you once loved, you miserably forget,
There's no escape, now you're leaving this earth.