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Autore: aniasolary    31/12/2014    8 recensioni
Natalie Truman, diciannove anni, buone intenzioni e scarsa capacità a far andare le cose come vorrebbe, non ha paura della vita. Tra sogni difficili, l’amore per un ragazzo irraggiungibile, impropri pasticci e situazioni imbarazzanti, il desiderio di diventare grande e sentirsi grande si fa sentire, rendendo il suo nido famigliare sempre più opprimente.
Il mondo è ai suoi piedi.
Al tempo stesso, quel mondo può caderle addosso.
L’unico modo per affrontarlo è cominciare a camminare con le proprie gambe, sperando di non inciampare nelle sue stesse scarpe.
«Un po’ per volta, il dolore se ne andrà. Non dimenticherai niente, ma starai bene. È un po’ come ricominciare a scrivere una melodia, ma senza cancellare le note precedenti. Con l’esempio del vecchio, puoi metter su davvero qualcosa di nuovo e migliore.»
Genere: Commedia, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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*The power of youth is on my mind
Sunsets, small town, I'm out of time
Will you still love me when I shine
From words but not from beauty
My father's love was always strong
My mother's glamour lives on and on
Yet still inside, I felt alone
For reasons unknown to me

But if you send for me, you know I'll come
And if you call for me, you know I'll run
I'll run to you, I'll run to you
I'll run, run, run
I'll come to you, I'll come to you
I'll come, come, come

Lana del rey – Old money

 
La voce di John Lennon si mischia a quella di Paul McCartney ai tempi in cui tutti i membri dei Beatles erano in vita: proviene dalla mia radiosveglia sul comodino.
«Love, love she do,» canticchia papà dopo essere entrato. «Piccolina, non ti svegli? Sento già l’odore della pancetta.»
«Devo proprio?» mugugno.
Dopo qualche minuto passato ad aprire le palpebre con gran fatica, scendo come uno zombie appoggiata a papà con la sua vestaglia a scacchi a coprirgli il pigiama; percepisco il suo sguardo tenero sotto gli occhialini poggiati sulla punta del suo naso.
«’Giorno,» dico, prima di lasciarmi andare ad uno sbadiglio.
«Buongiorno.» La voce della mamma è dolce ma carica di rimprovero. «Sei andata a dormire tardi ieri, vero?»
Sbatto le palpebre. «C’era la carrellata di Doctor Who… le puntate con David Tennant.»
«Davvero?» chiede papà, si siede accanto a me e comincia a leggere il giornale. «Non ne avevo idea, avresti dovuto chiamarmi.»
Addento un po’ di pancetta e mia madre comincia a parlare. «Buford, ti sei addormentato alle nove e mezza ieri sera. E a mezzanotte, quando ho finito di correggere i compiti dei ragazzi, Natalie ancora saltellava per casa.»
«Ma…» cerco di spiegare.
«Ho capito, c’era la tua serie tv preferita,» finisce la mamma. «Ma almeno ieri potevi fare un sacrificio… visto quel che dobbiamo fare oggi, no?»
La porta della cucina si apre con un rumore discreto eppure io mi volto come se avessi sentito il colpo di un cannone.
Attraversa la stanza con indosso un tajer color crema, tacchi alti e beige che sembrano far parte della sua anatomia, i lunghi capelli castani dai riflessi di sole raccolti in una treccia che scende di lato. Gli anni l’hanno cambiata poco.
«L’hai visto davvero il tuo dottore, non è così?» mi chiede, con un sorriso ampio ad attraversarle il volto.
Colta alla sorpresa anche da me stessa, mi alzo dalla sedia e le corro incontro, lo farò sempre. La abbraccio forte, trattenendo il respiro in gola, e riconosco il suo profumo alle rose, l’aroma alla ciliegia del suo lucidalabbra preferito, la morbidezza delle sue mani che mi carezzano il capo.
«Jade,» sussurro, a occhi chiusi.
Come se avessi creduto di non rivederla mai più in questo mondo.
«Sì, sono io.» Ride, – una risata fatta di cristallo e ricordi di schizzi di mare – posa le mani sulle mie spalle e mi guarda negli occhi. I suoi sono di quell’azzurro chiaro che ricorda la pietra di cui porta il nome. «Sicura di stare bene?»
«S-sì… credo.»
Torno a sedermi e Jade beve il caffè in piedi. «Devo finire di firmare dei documenti in tribunale, ma per l’ora di pranzo dovrei aver finito tutto,» dice alla mamma. «Questa causa è stata estenuante.»
«Ma l’hai vinta,» fa la mamma. «Sei il miglior avvocato divorzista della zona.»
«Buon sangue non mente, » dice papà, e le fa l’occhiolino.
Io ho l’impressione che il mio sangue sia un tantino bugiardo, invece.
Dall’entrata della cucina Wanda accompagna un uomo di circa trent’anni dai capelli neri lunghi fino al mento, abbronzato come noi inglesi possiamo solo sognare.
«Buenas dias.» Ha la voce roca, è piacevole sentirla.
«Buenas dias, chico,» dico io.
Conosco lo Spagnolo?!
Jade posa la tazza sul lavandino e si lascia abbracciare da lui.
Marcus, certo. L’ingegnere navale che abbiamo conosciuto in crociera due anni fa.
Finiamo la colazione tutti insieme, Jade mi saluta con un bacio per poi allontanarsi con Marcus, papà li segue per raggiungere il suo studio ed io apro il libro di diritto penale. Solo a guardarlo mi viene mal di testa. Devi essere paziente, Nat, paziente come papà, come Jade. Comincio a sottolineare con il mio immancabile evidenziatore arancione.
«Natalie.» Mia madre apre la porta. «Sto andando a scuola, tu resti a casa?»
«Studio, mamma.»
La mamma mi sorride a quel modo dolce che riserva solo alla fatica. «Non crucciarti, se studi un po’ per volta andrà benissimo.» Si mette a braccia conserte. «Un altro avvocato nella famiglia Truman. Ci pensi?»
«Se ci arrivo, a diventare avvocato.» Sbuffo.
«Oh, ma smettila con questi brutti pensieri.»
Roteo gli occhi. «Me la sto tirando, così succede il contrario. Solo che se continuo così io non mi laureo più e tu fai ritardo a scuola.»
Si avvicina alla mia scrivania, i tacchi che picchiettano sul parquet. «Quanto sei strana.» Mi dà un bacio sulla guancia.
Me lo dice sempre come se fosse un complimento.
Il rombo del motore dell’auto di mamma raggiunge le mie orecchie mentre passo al paragrafo successivo. Se ci arrivo, a laurearmi: intanto sono già al secondo anno di università. I miei voti sono discreti anche se non eccellenti: memorabile fu l’esame sui diritti delle donne nel mondo, litigai con il professore che mi rimandò indietro e, quando ritornai e a valutarmi fu una professoressa che forse non aveva nemmeno quarant’anni, presi il massimo. Forse per la prima volta nella mia vita gli altri mi hanno guardato con ammirazione ed invidia insieme.
No, non è stata la prima volta.
Era lo stesso sguardo di quando, alla festa di Natale di due anni fa, Arthur Benkinson mi invitò a ballare con lui.
Il campanello suona.
Scendo ad aprire, visto che è giovedì e Wanda è uscita per la sua mattinata libera. Resto interdetta sulla soglia, senza respiro, con lui a guardarmi.
La pioggia cade su Liverpool, gli ha bagnato leggermente i capelli e la giacca ma lui sorride.
«Posso entrare?»
Mi sposto per farlo passare. «Certo.»
Chiude l’ombrello e lo lascia cadere nel contenitore apposito. «Salve!» dice.
«Wanda non c’è.» La mia voce trema. «Nemmeno la mamma e papà. Nessuno.»
Il suo sguardo si accende. «E me lo dici così?»
«Non sapevo come altro dir…»
Mi bacia a quel modo improvviso che pare inevitabile, intenso e vibrante, stringendomi in vita come se fossi ancora una bambina ed io lo ricordo, lo ricordo quando ero davvero bambina e lui mi prendeva in braccio, mi faceva salire sulle sue spalle in acqua e giocavamo a fare le smorfie alle statue di Another place.
Sospira, la sua fronte contro la mia. «Arthur…»
Quando Jade ha chiuso con lui avevo undici anni. Mi chiedevo perché Jade piangesse ogni giorno se era stata lei a lasciarlo e, al tempo stesso, mi chiedevo come non potesse amare più un ragazzo come lui.
«L’amo ancora,» aveva sospirato Jade. «Ma l’amo come amo te, che sei mia sorella.»
«E non va bene?»
«Non può andare bene, Nat…»
L’avrei capito più avanti.
Il mio primo e unico ragazzo, conosciuto in famiglia come Kol il metallaro, mi suscitava reazioni molto diverse dagli abbracci con Jade. Ad una festa di non-compleanno, con tutto il suo fascino da chitarrista che suona al cospetto di Satana, pallido in volto ma con lo sguardo vivido, durante un ballo sulle note di Christina Aguilera avvicinò il viso al mio e sentii la sua lingua che schiaffeggiava la mia nella mia bocca: doveva essere un bacio, credo, anche molto spinto.
Merda, pensai nel tragitto di ritorno, in auto con Pamela accanto a me, quanto è stato appiccicoso: spero almeno di non prendere la mononucleosi.
Arthur era una presenza lontana e costante. Per anni l’ho guardato senza che lui mi riservasse più di un sorriso di circostanza, una bimbetta qualunque alle tante cene noiose che organizzavano i nostri genitori. Quando si traferì a Londra per studiare ad Oxford mi sembrò quasi di aver sognato tutto.
Rividi Arthur qualche anno dopo la sua laurea, alla vigilia di Natale di due anni fa. Picchiava il sole – stranissimo, per essere Natale – e lui uscì dalla sua Mercedes con quell’aria irraggiungibile e elegante sotto cui riuscii a scorgere il suo sorriso. Sembrava un principe. Quel tipo di ragazzo che può spezzarti il cuore con un solo sguardo, e tu glielo lasceresti fare.
Gli corsi incontro, gli saltai addosso e lui, come se non richiedesse alcuno sforzo mi strinse.
Quando mi mise giù e si tolse gli occhiali, incontrai i suoi occhi verdi incerti su un sorriso che era diventato perplesso.
«E tu sei...?» fece.
Non lo vedevo da anni: prima era stato solo un ragazzo, ora era un uomo di venticinque anni.
Non mi vedeva da anni: prima ero stata solo una bambina ed ora, nonostante potessi ancora esserlo, ero una ragazza di diciannove anni compiuti. Una ragazza di diciannove anni compiuti che si era comportata come una bambina di nove, come al solito.
«Natalie!» Risi. Nascosi il risentimento dentro me stessa. «Non ti ricordi di me?» mi venne fuori con un’aprezza che non avevo previsto.
Il suo sorriso si allargò. «Oh… Dio. Certo che mi ricordo di te. Sei…» Mi chiedo ancora come poté riservarmi uno sguardo che mi abbracciò dalla testa ai piedi anche se mi sembrò solo che continuasse a guardarmi negli occhi. «… sei cambiata.»
Sbuffai, ridendo. «Capitan ovvio. Non sono mica un vampiro.»
«Che cosa?»
«Niente, ogni tanto sclero. Resti a pranzo da noi?»
«Sono a Liverpool per le vacanze, è per questo che sono qui ad importunarti.»
«Avevo idea che stessi viaggiando molto… dove sei stato quest’anno?»
«Shanghai.»
«Wow! Che figo!»
Alla sera lo raggiunse la sua fidanzata, una modella danese che guardai a bocca aperta, facendo una delle mie tante figure di cacca. Avevo curato nei dettagli la mia acconciatura – una treccia spessa quanto un indice intorno alla testa – e adoravo il vestito verde chiaro che avevo deciso di indossare. Guardandomi allo specchio mi ero sentita una specie di ninfa dei boschi ma, guardando quella biondona, mi sentii una spazzina seduta accanto alla regina Elisabetta.
I miei racconti sui primi mesi di studio a Giurisprudenza – scelta su cui non sono mai stata davvero tanto convinta, ma se non avessi accontentato la mamma e il papà sarebbe stato un vero disastro – sfiguravano di fronte alle esperienze di Arthur, che si era laureato ad Oxford, aveva girato il mondo, conosceva tante lingue, si era divertito ed aveva ben superato la relazione con Jade. Assistetti alla loro conversazione: una freddezza iniziale seguita poi da un moto di complici risate.
Il tempo fa diventare tutti amici.
La cena di Natale del giorno dopo aveva tutti i presupposti per essere più interessante; eppure, circondata da parenti che chiedevano “E il fidanzatino?”, mi sentivo fumare il naso come il drago della desolazione di Smaug, purtroppo senza la voce sexy del mio Sherlock Holmes preferito.
Il tutto peggiorò quando una voce sconosciuta disse sai, Jade, tua sorella ha proprio la faccia da brava ragazza, di quelle che non bevono… non fumano… escono poco la sera… hanno avuto proprio fortuna, i tuoi genitori.
Chi dovevo incenerire?
«Ehi, bellissima,»mi chiamò un’altra voce. Mi immobilizzai, me lo trovai davanti con una naturalezza tale che mi mancò il fiato. «Ti va di ballare?»
Lo sguardo degli amici e delle amiche di mia sorella fu impagabile – in particolare delle amiche, che mi avrebbero ucciso con la forza del pensiero. Povere stolte, figuriamoci se Arthur guarderebbe mai una come me, è solo gentile.
Figuriamoci se mi guarderebbe mai come io guardo lui.
La magia terminò insieme allo scemare della voce di John Legend.
Poco dopo saltavo come una gazzella per la casa con ai piedi i tacchi di mia sorella ed imploravo mio padre di versarmi un bicchierino per superare l’eccitazione di quel ballo che non aveva avuto alcun significato, ma che ancora mi faceva tremare di felicità. Riesco sempre a convincere mio padre: le sue doti di avvocato svaniscono sotto l’effetto della voce delle sue figlie. Mi allontanai dal salotto, tutta presa dal mio liquore; non che non avessi mai bevuto, ma volevo farmi notare da un certo amico di Jade che mi vedeva come una suora. A furia di cercarlo mi venne il torcicollo e andai a sbattere contro il muro: il whiskey si rovesciò sul parquet e il bicchiere si frantumò.
Per la musica alta nessuno si accorse di nulla, ma la sola delusione verso me stessa mi fece venire le lacrime agli occhi.
Forse non sarei mai davvero cresciuta e la migliore impressione che potevo fare a un ragazzo più grande era sembrargli di buona morale cattolica.
Mi inginocchiai, nel panico.
«Natalie, stai bene?» Qualcuno mi fece alzare.
Mi aspettai il peggio. «Io… io credo di aver rovinato…»
«Ho chiamato Wanda per pulire, non se ne accorgerà nessuno. Tranquilla, okay?»
Arthur mi stringeva la mano. Mi riservò uno sguardo comprensivo e mi sorpresi di non trovare in lui né pietà né tenerezza. Era un inspiegabile trasporto, e dipendeva da me.
Mentre io cercavo un altro, Arthur guardava me.
Mi rintanai in camera mia con la scusa di non sentirmi bene e non scesi fino all’indomani.
Quella notte sognai di baciarlo per la prima volta nella mia vita. Mi diedi della stupida con una severità che non avevo mai trovato in me stessa e non ebbi il coraggio di raccontarlo a Jade, che conosceva tutti i miei respiri e quelli di chi mi circondava. Temevo con tutto il cuore di non passare certi esami solo perché avevo la testa piena di larve che dovevano solo morire in se stesse. L’anno che non avevo perso per il professore stronzo di matematica al liceo l’avrei perso adesso. Pamela, alle prese con la profumeria di sua zia, era ben disposta ad ascoltare i miei deliri, ma io sapevo che parlarne era solo un modo per alimentare quell’assurdità, come i disegni immaginari che mi ritrovo a buttare giù quando non ho sonno e non posso suonare il pianoforte.
La calma mi invase quando riuscii a superare quei mostri sacri di esami di diritto.
Arthur era partito per il Brasile ed io non avevo pericolo di rivederlo. Passarono dei mesi spensierati in cui ridevo delle mie paure appena passate.
Quando lo rividi, a fine Agosto, un tremore allo stomaco mi fece allarmare. Il solo guardare Arthur da lontano mi annientava il cervello, mi sentivo una nonna demente, una mammoletta senza ossa, un’adolescente alle prese col primo ragazzo bello delle riviste che avesse mai visto. Arthur era bello da mozzare il fiato ed io non riuscivo a tollerarlo. Ricordavo i suoi racconti, i posti che aveva visto; immaginavo le donne che aveva avuto nel suo letto, rammentavo la stretta delle sue mani quando ero presa a maledirmi per la mia sbadataggine ed era ben impresso l’abbraccio repentino dato senza pensare dopo anni di assenza.
Sperai con tutto il cuore che nessuno si accorgesse di me e che quel pomeriggio passato a bere il tè nel nostro salotto, ascoltando le chiacchiere della mamma e della signora Benkinson, passasse in fretta.
Uscii dalla stanza con la scusa di prendere i biscotti al cioccolato.
«Non sono alle mandorle, vero?»
Sussultai.
Arthur era alle mia spalle.
Sfoggiai uno dei miei tanti sorrisi da ebete. «Cioccolato purissimo. Ne vuoi?»
«No, era solo una scusa per seguirti e stare da solo con te.» Si sistemò i polsini della camicia bianca che indossava, il suo profumo a giungermi alle narici anche se a un metro di distanza. Sollevò il viso su di me i suoi occhi verdi brillarono come una scintilla di fuoco, erba e rugiada che bruciano in una calda fiamma. «Sai che non dovremmo. Sei la sorellina di Jade. Io non posso… è dall’ultima volta che ti ho vista che la mia vita è bloccata. Tu non puoi… tu hai diciannove anni…»
Non riuscivo più a respirare. «Di cosa stai parlando? »
Fece un sospiro esasperato. «Mi stai dicendo che ho sognato tutto?»
Tremavo. «Che cosa hai sognato, Arthur?» gli chiesi, lentamente. Non arrivò nessuna risposta. Chiusi gli occhi. «In ogni caso sono maggiorenne,» aggiunsi. «Non sono una bambina! Diciannove anni, diciannove! Non tre!»
«Diciannove…» sussurrò. «Una splendida donna di diciannove anni…» parlò con rassegnazione.
Non so quale forza mi impedì di farmi cadere la scatola dalle mani per la sorpresa, l’ansia, l’assurda gioia. Non riuscii concentrarmi su quel che fece dopo. Il modo in cui si mosse. Se aveva fatto un respiro profondo. Se per caso aveva parlato.
Le sue labbra erano sulle mie, a cercarmi, ed io gli diedi modo di trovarmi.
Dopo furono solo incontri fugaci, alternati alla mia vergogna, all’esaltazione di Pam, alla mia incapacità di aprire bocca con Jade.
Ogni contatto fisico era veloce e rubato al tempo, come se non ci spettasse. Ed io ci credevo, non mi spettava. Come poteva un uomo di ventisei anni trovare anche un poco interessante una ragazzina di appena diciannove che gli muore dietro, quando ha avuto modelle e donne brillanti e bellissime e potrebbe averne ancora altre?
Di fronte a un frappè alla fragola, nel freddo pungente di fine ottobre, Arthur mi rapiva con la sua voce. Uscivamo insieme e, se avessimo incontrato qualcuno che conoscevamo, avremmo detto che ci eravamo incontrati per caso. Liverpool non è così grande, dopotutto.
E noi fummo fortunati. Non incontrammo nessuno che ci conosceva e, anche se qualcuno ci avesse visti insieme, non ci sfioravamo nemmeno le mani. In quei mesi di chiacchiere in cui entrambi siamo tornati adolescenti, ho conosciuto il vero Arthur: cinico e sprezzante. Capace di deridere e ammirare con lo stesso sorriso, ma a parole diverse. Grato di tutto quello che ha.
Io inciampavo più spesso del limite consentito dal galateo, ridevo quando ero travolta dal nervosismo, mi facevo cogliere a fissarlo spudoratamente e gli raccontavo la mia vita nei dettagli, includendo Pam, la disavventura con Kol, il pianoforte, lo studio noioso, la voglia di vedere il mondo proprio come fa lui.
Era una sera d’ottobre, il freddo pungeva; lo sentivo nelle ossa nonostante fossi in auto. Arthur parcheggiò a pochi isolati da casa mia, in modo che facessi un po’ di strada da sola per non scatenare alcuna domanda. La sua mano mi carezzò la coscia; portavo i jeans e sotto le calze, il freddo che mi tormentava svanì sotto il suo tocco.
«Non so quanto potrò andare avanti in questo modo,» disse, guardando altrove.
Sospirai. «Non so come dirlo a Jade. Non so come potrebbero prenderla i miei genitori… oh mio Dio, hai sette anni più di me ed il fatto che sia maggiorenne a casa mia non conta, nessuno mi lascia mai aiutare Wanda a portare i piatti in tavola perché sono sicuri che li farei cadere come tre Natali fa…»
«Che cosa tre Natali fa?»
«Il tacchino mi scivolò dal vassoio con un pluff! Con il fiocco rosso sopra e le zampe aperte sembrava che stesse facendo lo scatto di un calendario sconcio.»
Arthur rise forte. «Oddio, Natalie…»
«Sono pessima, lo so.»
Arthur scosse la testa e la sua risata andò scemando. «Sei incredibile e… Io ti amo, Natalie. Io ti amo.»
Rimasi congelata sul posto, anche se non sentivo più freddo.
***
Sapevo cosa sarebbe successo quella sera: mi lasciai rapire dopo la festa del mio compleanno, lasciando credere ai miei genitori che stessi andando a continuare il festeggiamento con altri amici. Cominciammo a baciarci sul pianerottolo e una volta in casa non gli permisi di accendere la luce. Non ero mai andata più in là di un bacio ed ero molto più in ritardo delle ragazze nella media. Ne avevo già parlato con lui ma non potevo fare a meno di avere paura. Arthur mi baciò a lungo. Cominciò a spogliarmi lentamente fino a quando non mi ritrovai impaziente. La vergogna di farmi vedere senza niente addosso si assopì quando cominciò ad amarmi a quel modo che io ancora non conoscevo. Fu di una tenerezza che mi commosse. Mi aggrappai alle sue spalle mentre scoprivo quanto una carezza potesse perdere tutta la sua innocenza. Quel che mi scosse il corpo mi sorprese tanto da lasciarmi sfinita, eppure Arthur continuò e  il mio corpo lo cercava prima che lo chiedesse la mente, contro ogni regola che imponeva la scienza.
Dopo fui ancor più stanca, ma vedere Arthur alle prese con qualcosa che aveva appena preso me, attraverso me, mi procurò una gioia che non riuscivo a spiegare.
Fu dopo aver ritrovato il respiro regolare che glielo chiesi, senza pudore.
«Io non ci credo che mi ami,» gli dissi, coprendomi col lenzuolo. «Sono piccola, sbadata, non sono particolarmente intelligente, inesperta sul sesso.»
Arthur rise.
«Perché?» ripetei.
Arthur allungò una mano verso di me. «Perché non tornavo a casa mia da anni e in quegli anni ho visto tutto, ho avuto tutto. Volevo rivedere Jade perché è la prima ragazza che io abbia mai amato davvero. E mentre cercavo lei ho dimenticato che cosa stavo cercando perché mi sei apparsa tu. Non mi ricordavo che ti conoscevo già, che eri la mia Natalie.» Prende a carezzarmi i capelli. «Erano anni che non incontravo qualcuno, uomo o donna, che non avesse secondi fini. La prima è stata Jade e dopo anni sei stata tu: quando ti guardavo, Nat… tu che hai appena compiuto vent’anni e sei tanto più grande di molti della mia stessa età… tutte le volte a venire in cui ti ho guardata e mi hai parlato, mi hai sorriso, hai riso con me non mi sono mai sentito più me stesso che in quei momenti, grazie a te. Grazie a te sono Arthur Benkinson non come dovrebbe essere, ma come davvero è.»
Mi morsi le labbra e voltai la testa, in modo che non vedesse i miei occhi lucidi, perché nessuno mai mi aveva detto una cosa del genere, nessuno mai mi aveva amato.
Ed Arthur l’aveva detto, l’aveva fatto.
Per questo ora, tra le sue braccia, tutto mi torna alla mente e al cuore. Gli tolgo la giacca mentre lui mi fa stendere sotto di lui, sul mio letto, ed io ho già mandato al diavolo il tomone di Giurisprudenza che avrei dovuto cominciare a studiare. Lo bacio e lascio scendere la mia mano ad una carezza che un tempo avrei definito audace.
Ad Arthur si mozza il respiro. «Nat…»
«Mhm?»
«Quand’è che eri… inesperta sul sesso?»
«Un mese fa, all’incirca, prima che attentassi alla mia virtù. Ho imparato bene?» Non smetto.
«Fin… troppo.» Sospira.
Ma a casa mia è sempre così: intenso, maconsumato in fretta come una piccola brace. E la gioia iniziale viene sostituita dalla mia solita, pressante inquietudine.
Arthur, seduto sulla punta del letto, fa per mettersi la camicia e mi lancia uno sguardo preoccupato.
«Non ne hai ancora parlato con Jade, giusto?»
Mi mordo l’interno della guancia. «No.»
«Nemmeno un accenno?» continua lui, e finisce di abbottonarsi la camicia. «Nemmeno, che ne so, Jadie, ho conosciuto un tipo.»
«Io già ti conoscevo…»
«Jadie, ho capito che mi piace un tipo…»
«Uno qualsiasi…» continuo.
«Non spaventarti…»
«… È soltanto…»
«Arthur Benkinson,» finisce lui. Mi viene addosso e comincia a farmi il solletico. «Che sarà mai?»
Non riesco più a sorridere. «Solo il suo ex ragazzo.»
«Nove anni fa. Quando tu eri molto più bassa ed io collezionavo film horror.»
«Non guardi più gli horror?»
«Certo che li guardo, il film che abbiamo visto l’altra sera era horror.»
«… Non ho avuto il tempo di capirlo.»
«Vero.» Ancora solletico, mi lascio abbracciare, poggio la testa sulla sua spalla.
«Ho paura di deluderla,» sussurro.
«È una paura insensata, Jade è tua sorella e non potrebbe mai smettere di amarti.»
Chiudo gli occhi.
«Jade è mia sorella e non potrebbe mai smettere di amarmi,» ripeto. Comincio a vestirmi lentamente.
«Stasera ci vediamo direttamente lì, allora.»
«Sì, parto con la mamma,» gli dico. «Ci saranno anche Jade e Marcus.»
«Passerò di lì per caso.» Mi fa l’occhiolino ed io roteo gli occhi perché mi ritrovo puntualmente ad arrossire. Mi alzo la cerniera della giacca della tuta.
«Ora devi studiare?» mi chiede.
«Non mi va più,» mugugno. «Quasi quasi comincio la stagione con Amelia Pond…»
«Cosa?»
«È un personaggio di Doctor Who
«Ah, quel telefilm che ti piace?»
«Sì! Ti va di vederlo con me?»
«Be’, ho la mattinata libera…»
«Arthur, io ti amo!» Corro ad abbracciarlo.
«Il ti amo di fronte a una dichiarazione d’amore no, di fronte a una mattinata di episodi di un telefilm sì: solo tu.»
«Solo io,» confermo.
***
Arthur è dovuto andare via per la solita, fastidiosa precauzione di non farsi trovare qui nel caso di un imprevisto. Indosso il vestito che la mamma mi ha comprato per l’occasione: beige, dritto fino al ginocchio con un piccolo fiocco in vita, il ritratto della sobrietà. Non l’avrei mai scelto, se mi fosse stata offerta una scelta. Mi chiedo se ho mai avuto la possibilità di scegliere davvero nella mia vita. Non ho scelto nemmeno di amare Arthur: è successo e basta, una tempesta da cui mi è stato impossibile fuggire come un temporale improvviso in una strada senza balconi, e così la pioggia mi è caduta addosso ed è riuscita a perforarmi il cuore.
Ma c’è qualcosa che ho scelto, di questo sono sicura.
Il pianoforte.
Sfioro i tasti senza suonarli, un piccolo gesto scaramantico che non so dove mi porterà. Non ho mai dimostrato un particolare talento: la mia forza di volontà deve essere sostenuta dall’esercizio e, da quando c’è in ballo l’università, non fa altro che diminuire. Per fare tutto quello che amo fare devo rubare il tempo alle cose che devo fare.
Andiamo a Londra in macchina, guida papà. La mamma mette nello stereo il suo cd preferito di Elthon John. Ho la mente vuota per tutto il viaggio, come se la mia ansia mi impedisse di pensare anche alle cose più stupide.
Dopo un’ora e mezza ci troviamo con la macchina di Marcus. Jade scende, porta un cappotto nero che non riesce a coprire il vestito rosa ed elegante che indossa. Ha le sopracciglia aggrottate, una ruga a incresparle la fronte lattea. Quando mi avvicino a lei, quella che sembrava smorfia si trasforma nel più sincero dei sorrisi.
«Vi porto via Natalie per un po’,» esclama, e mi si mette a braccetto. Mi è difficile starle al passo, visto che sui tacchi continuo ad essere in difficoltà nonostante i miei vari esercizi. «Scusami, Natie.» Jade mi riserva uno sguardo colpevole mentre entriamo in metropolitana.
Mi siedo accanto a lei. «Jadie, che c’è?»
«Devo passare da un orfanotrofio. Per un caso che mi è stato assegnato, è in periferia… a qualche isolato c’è un bar, quindi tu puoi fermarti lì. Non mi andava di dirlo a Marcus.» Sospira. «Pensa che, essendo così presa dal mio lavoro, mi stanchi troppo.»
Mi metto a braccia conserte. «Non è che ha paura che tu ti innamori di un altro del tuo ambiente?»
Jade scoppia a ridere, lo fa in quel modo sorpreso e tenero che contrasta con le forme di donna che si sono insinuate in lei dalla prima adolescenza. «No, Natie. Sì, Marcus è geloso, ma lo è perché anch’io lo sono di lui. Ci fidiamo l’uno dell’altra… non avrei potuto desiderare qualcosa di migliore, per me.»
Distolgo lo sguardo. Jade parla d’amore in maniera così naturale che mi è impossibile continuare a far finta di niente senza sentirmi soffocare. Io e lei siamo sempre state circondate da questo: l’amore di mamma e papà, l’amore dei nostri amici – per me Pamela, in particolare, escludendo le varie oche che mi prendevano in giro alle superiori – l’amore di un fidanzato dopo anni di incontri bizzarri e attese. L’amore che Jade mi ha riservato senza remore da quando sono venuta al mondo.
Non voglio più mentirti, Jadie, stringo gli occhi.
Ma come faccio a dirti la verità?
«Ho visto delle foto di quest’orfanotrofio, » continua Jade. «Non mi era mai capitato di averne a che fare, le donne che mi si sono rivolte sono tutte benestanti ma questo caso… mi sono sentita male, Nat. Non abbiamo avuto tutto, noi?» Si passa una mano tra i lunghi capelli lisci e castano scuro come i miei. «Lo studio di papà, il suo successo, il mio di conseguenza…»
«Non hai avuto successo per papà,» le dico, turbata. «Hai avuto successo perché sei brava di tuo.»
«E allora le vacanze, il pianoforte, una famiglia unita…» Scuote la testa. «Siamo fortunate, Natalie. Più di tante altre persone. Ogni cosa… è andata al suo posto.»
Non mi sono mai sentita fortunata. Mi sono sentita felice, a volte, ma la maggior parte delle volte la sensazione che mi ha attraversata non era altro che inadeguatezza.
Eppure io e Jade abbiamo lo stesso destino. Le vacanze, lo studio, il lavoro che fa e che io farò. Ma qualcosa nel mio cervello si accende e, quando mi rendo conto di cosa si tratta, va in corto circuito riempiendomi di disagio.
Le scelte di Jade coincidono, per sua gioia, con quelle della mia famiglia.
La metro si ferma e noi usciamo.
Ma non le mie.
«Solo un quarto d’ora, Natie.» Jade mi sorride si allontana, a suo agio sui tacchi alti.
Io lotto ogni giorno contro la mia inclinazione naturale a scelte diverse, sbagliate, per non deludere nessuno.
Cammino per un po’, piano e senza meta: senza fretta forse riesco ad avere un po’ di grazia. Mi fermo a guardare i portoni dei vari condomini con la strana curiosità di leggere i vari nomi. A casa mia il nostro cognome nemmeno è scritto, tutti sanno che è la villa dell’avvocato Truman.
Mi trovo davanti un palazzo grigio con il portone tutto imbrattato, ci sono disegni di murales e scritte sconce che farebbero svenire la mamma. «Porca di quella puttana di tua zia,» leggo, incredula. «Ma a chi verrebbe mai in mente un insulto del genere?»
Se avessi potuto scegliere forse l’avrei fatto. Avrei scelto che cosa fare della mia vita: che cosa amo di più fare? Il pianoforte mi rilassa, mi fa sentire in pace eppure non sarei abbastanza per dare concerti tutta la vita. La notte, quando non ho sonno, non mi va di studiare e non posso suonare il pianoforte, prendo un foglio dal cassetto della scrivania, la mia matita, vecchi colori e…
«Vuenuta per l’affuitto?» Il portone si apre all’improvviso ed io sussulto indietro. Sulla soglia appare un uomo biondo con viso arrossato, magro, con il sorriso simpatico che dà tutta l’aria di essere brillo.
«Ehm… no, scusi, stavo solo… passando per caso.»
«Cuaso eh? Io non credo al cuaso. Io credo che quello che dueve accadere, alla fine, accuade.» Mi porge la mano. «Zot, di San Pietrobuergo.»
M viene fuori un sorriso tirato. «Natalie, di Liverpool.»
«Londra è buella, ragazza di Liverpool. Se cerchi un appartamento, io ci suono. Non è ancuora passato nessuno a vuederlo.»
«Vedrà che prima o poi qualcuno arriva.»
«Lo spuero.»
«Buona serata, signor Zot.»
Lo sconosciuto russo si chiude il portone alle spalle ed io perdo un po’ di tempo a leggere i nomi sul citofono: persone semplici, che non vengono riconosciute per strada. Sono conosciuta, a Liverpool, come la figlia più piccola dell’avvocato Buford Truman.
Verrò mai ricordata per quel che sono io?
Faccio per voltarmi ma mi blocco, poco prima di andare a sbattere contro il ragazzo che mi blocca la strada. Il suo profilo è lineare, dai tratti decisi; nonostante lo veda da una sola parte del viso mi accorgo che è concentrato. Sta leggendo l’annuncio dell’appartamento in affitto e, nonostante si tratti di una cifra esigua, il ragazzo scuote la testa, sembra demoralizzato.
E si volta a guardami.
«Ti interessa l’appartamento?» mi chiede, la voce è bassa e forte, scorre fluida, ha un accento che non riesco a definire. Il piercing al sopracciglio destro fa luce sugli occhi. Da lontano sembrano neri ma, quando mi avvicino di più, riconosco che sono azzurro scuro, mi ricordano qualcosa che riesce a gonfiarmi il cuore di emozione.
«N-no… io dovrei passare.»
Il suo volto è attraversato da un ghigno. «Non è che è tanto stretto, questo marciapiede.»
Sbuffo e sospiro allo stesso istante, posando una mano sul davanti del mio Montgomery. «Sbruffone,» mugugno, distogliendo lo sguardo.
Seguo le indicazioni che mi ha dato Jade per raggiungere il bar, mangerò qualcosa lì. Appena entro guardo l’orologio, sono le sette: mancano due ore. Una signora con gli occhiali e orecchini dorati che sembrano pesanti mi passa davanti, dando ordini alle cameriere. La sala è piena e mi guardo intorno, presa dall’ansia. I suoni mi arrivano ovattati e mi tremano le mani.
Mi passa accanto il ragazzo con gli occhi azzurro scuro che ho appena incontrato e si siede all’unico tavolo vuoto. Mi lancia uno sguardo strafottente.
«C’è un solo tavolo libero. Puoi anche sederti con me, non mi offendo,» mi dice. La sua voce riesce a devastarmi con una dolcezza sconosciuta, credo di stare impazzendo.
Mi siedo al tavolo quasi senza rendermene conto. Arriva la cameriera, una signora sui quarant’anni con i capelli castano scuro e corti, un sorriso amabile che riesce a tranquillizzarmi come se fossimo amiche.
«Cosa vi porto, ragazzi?»
Alle gambe della  donna si aggrappa un bambino di circa tre anni. «Fa’ il bravo, Ben,» gli dice.
«Patatine,» dice il ragazzo di fronte a me.
Non ho la forza di pensare. «Lo stesso per me. »
La donna si allontana. Voglio morire. Voglio scappare. Voglio tornare a Liverpool. Sono così agitata che potrei saltare dalla sedia.
«Tu… suoni il pianoforte?» mi chiede il ragazzo di fronte a me.
Volto la testa a guardarlo, colta dalla sorpresa. «Perché me lo chiedi?»
«Stavi picchiettando i polpastrelli sul tavolo, eri così precisa che sembrava suonassi su una tastiera immaginaria.» Fissa i suoi occhi nei miei e mi sento ancora più nervosa. «Dio, non guardarmi così. Emani davvero tanta ansia solo a guardarti.»
Lo fulmino con lo sguardo. «Sei uno sconosciuto, perché dovrei accettare che mi parli in questo modo?»
«Esibizione pubblica, vero?» chiede, con un sorriso che sembra conoscere ogni cosa. «È normale sentirsi così, io la prima l’ho fatta a sei anni.»
«Sì,» confermo. «Esibizione pubblica, concorso a cui mi ha iscritto mia madre l’anno scorso e a cui non più voglia di partecipare. E tu, invece, sei un pianista?»
«Diciamo che me la cavo,» risponde con un sorrisino.
«Io sono una dilettante. E vado all’università, sono impegnata, io…»
«Tu? »
«Io amo suonare solo per me stessa, non per gli altri,» ammetto. «Non è per vantarmi con gli sconosciuti, è per stare bene. Essere felice senza dare conto a nessuno, per il tempo di una melodia. Non posso avere nemmeno questo?»
«Certo che puoi averlo,» mi dice, e ogni nota di derisione è scomparsa. «È un tuo piacere, puoi comportarti di conseguenza senza farti obbligare dalla tua famiglia. La tua famiglia non è te. Tu sei tu,» continua, quasi con foga, la voce leggermente roca.
«Natalie,» sussurro, quasi senza accorgermene. «Mi chiamo Natalie.»
«Natalie,» ripete. «Tu sei Natalie.»
È tutto così assurdo. La cameriera porta i nostri piatti eppure non riesco a far a meno di fissare questo ragazzo di fronte a me, come se ci fosse qualcosa in sospeso, come se già lo conoscessi, come se potessi prevedere i suoi gesti. Come se non mi bastasse altro che conoscere il suo nome e nient’altro.
Non conterebbe altro.
«E tu…?» comincio.
«Natie!» La voce di mia sorella mi interrompe. «Ho appena finito, andiamo? Puoi mangiarle fuori le patatine. Sai che c’è anche Arthur? È appena arrivato, pensava di trovarti con me.» Jade mi guarda trafelata: il trucco non è più così preciso come mezz’ora fa, deve aver pianto. Deve aver pianto pensando alla sua fortuna di fronte all’infanzia rubata di quei bambini dell’orfanotrofio. Eppure, guardandola, un moto di emozione che non riesco a definire mi pulsa dentro, qualcosa simile al rimorso, al rimpianto. È una sensazione di perdita, come se Jade stesse per scomparire per sempre dalla mia vista.
«Vengo subito.» Mi alzo e prendo la porzione di patatine, mi allontano senza guardare indietro, senza posare lo sguardo sul ragazzo-pianista che è riuscito ad innervosirmi e a tranquillizzarmi al tempo stesso.
Come se già lo conoscessi.
***
Arthur mi accoglie con un casto abbraccio.
Dalla platea Pamela, biondissima e deliziosa, mi lancia un bacio di incoraggiamento. Si sono esibiti quattro ragazzi prima di me, tutti molto bravi, ed il panico continua a salirmi.
«Spacca i culi, Natalie!» grida Pamela.
Tutti si girano verso di lei.
Non è quel che si dovrebbe dire, a un concerto di musica classica. Faccio un sospiro. È solo un concorso, mi correggo, e riconosco Arthur seduto accanto alla mamma, Jade ora più serena accanto a Marcus, e papà.
Mi siedo e comincio a suonare. Le note della Primavera di Vivaldi vengono fuori bene, come se i miei polpastrelli non aspettassero altro che suonare questo pezzo. Immagino il ragazzo che ho appena incontrato, a cui non posso dare un nome suonare per me, suonare accanto a me. Se suona da quando aveva sei anni deve essere davvero bravo. Ma il nervosismo è nemico della perfezione e sbaglio due note. Contate. Spero solo che non si sia notato molto, perché suonare mi è piaciuto. Tutti applaudono e, tra i vari battiti di mani, distinguo la voce di Pamela. «Ha spaccato! Ha spaccato!»
Ma non proprio.
Non riesco a raggiungere il podio, però arrivo sesta su venti persone. È comunque un bel risultato, anche se suono da quando avevo otto anni. Scendo dal palco con in mano il mio attestato, finalmente tranquilla. Il risultato è discreto anche se non eccellente; la mamma non si potrà vantare in giro ma non dovrà nemmeno vergognarsi, è già qualcosa.
«Non male.»
Seguo la voce: appartiene al ragazzo-pianista, col piercing al sopracciglio destro e il sorriso che a volte pare strafottente, a volte solo puro come quello di un fanciullo.
Ed ora riconosco che cosa mi ricordano i suoi occhi.
«Quando devi suonare la nota la, fa andare il pollice sotto il palmo, è più semplice,» mi spiega. «La prossima volta non sbaglierai.»
Another place.
Ha gli occhi come il mare di another place.
La voce mi trema. Dove ti ho già conosciuto? Perché ti ho già conosciuto, vero? «Grazie…»
«Natalie!» mi chiama Marcus. «Molto brava, chica.»
Sorrido brevemente a Marcus e poi volto il capo a cercare il ragazzo che mi stava parlando: è scomparso ed io sento un vuoto dentro.
Qualcosa che non è mai accaduto in questa vita.
***
Non dovrei festeggiare, in realtà, ma stasera è il compleanno di un amico di Jade che dà una festa in piscina e siamo stati tutti automaticamente invitati. Quando non andai alla festa di sua sorella sembrava che gli avessi fatto un torto enorme, ha detto lei. Come se quella sera sarebbe successo qualcosa di irripetibile che avrebbe cambiato la vita a tutti.
Io mi sento strana, inquieta: Jade è quel tipo di persona che annoierebbe in un libro perché è equilibrata e volenterosa; piace, forse, solo  quando è coinvolta a un destino avverso. Ma la vita non è un romanzo, tanto meno  una commedia romantica di quelle che mi piacciono tanto.
Jade è una brava persona. Una persona da ammirare.
Ed io vorrei tanto essere come lei.
Arthur mi lancia qualche sguardo da lontano. Lo ignoro persa nel mio ruolo di ragazzina per mantenere la buona facciata che io, per una volta, ho scelto. Perché Jade è tanto migliore di me, eppure mi vuole bene lo stesso. Mi vuole bene nonostante la mia voglia di stravaganza, la mia fissazione per i capelli tinti – arancioni, Jade! È così che li voglio! Con quel colore mi sento più me stessa, più Natalie –, i capricci che a volte faccio chiedendo vestiti strani.
Jade, invece, è come se avesse sempre saputo e sapesse sempre tutto ed oggi, per la prima volta, l’ho vista fragile. Credevo che rivedendo Marcus si fosse acquietata eppure ora, in un angolo della stanza, lontana della piscina, se ne sta con un cocktail in mano a guardare il vuoto. La sensazione che ho provato al bar, guardandola, mi è ancora chiara.
Non posso ignorarla.
Non posso ignorare la mia Jadie.
«Ehi.» Le poso una mano sulla spalla e lei sussulta. «Che cosa ti succede?»
Jade assottiglia gli occhi; sembra quasi che stia per rimproverarmi, come quando da piccola ruppi una bomboniera della nonna Felicity. Ma quando le lacrime scintillano in quella parte che le palpebre non coprono, mi si spezza il cuore.
«Jadie…» la chiamo, stringendola forte.
«Mi dispiace, Natie
«Di che cosa? Perché?»
«Di deluderti,» dice, staccandosi da me, poi posa il cocktail su un tavolino vicino, non lo berrà.
«Deludermi?» chiedo, senza crederci davvero. «Tu non potresti mai deludermi.»
«Io ho sempre cercato di fare del mio meglio,» comincia a dire, sussurrando.
«E lo fai.» Le prendo entrambe le mani. «Lo fai. Sei buona e gentile. Una bellissima persona e mia sorella.» Mi tornano in mente le parole di Arthur, mi si imprimono addosso come una gentile carezza di vento. «Ed io non potrei mai smettere di amarti.»
Mi accarezza i capelli, continua ad abbracciarmi. Contro il mio orecchio sussurra, a voce spezzata, ho fatto un casino.
Le prendo la mano. Torno bambina, cerco la stretta di mia sorella maggiore, mi appresto ancora una volta a fare quel che sono: una sorella, un’amica.
Ci sediamo sugli scalini della porta d’uscita.
«L’ho scoperto due settimane fa. Non ne ero sicura ma… non te ne ho parlato perché mi vergognavo. Mi vergogno.» Sospira.
«Sta’ tranquilla.»
«Sono incinta,» dice nel tempo di un respiro. «Sì, anche se sto con Marcus da cinque mesi appena. Sì, anche se ho detto per anni che non avrei avuto figli prima dei trentacinque. Ma è la prima cosa che fa paura. Che farà svenire la mamma e infuriare papà. Deluderli tutti. Deludere te, che sei la prima che ascolta i miei monologhi sull’improtanza di usare i contraccettivi.»
La fisso. Non riesco ancora a credere a quel che mi ha detto. E l’unica cosa che mi viene fuori in questo momento non è nient’altro che una risata.
«Ridi, Nat?» mi chiede lei, ma tra le lacrime sorride.
«Sì, perché sei fantastica.» Le do un bacio sulla guancia. «E non mi deluderesti mai per una cosa del genere. Mi dovresti deludere solo perché hai vissuto, solo perché stai vivendo?» le chiedo. «È questo quello che voglio per te. Che tu sia felice. E per esserlo, tu devi vivere… Allora vivi, Jadie
Jade ricomincia a piangere, ma non credo che sia per il bambino, per Marcus, per quello che diranno la mamma e il papà.
«Natalie,» singhiozza.  Ride.  Tira su col naso. «Mi è colato tutto il trucco… Forse… forse è meglio che vada in hotel con Marcus e poi magari appena arriviamo… glielo dico.»
Annuisco.
«So che posso fidarmi di te. Se tu non ci fossi, niente avrebbe senso.» Fissa i suoi occhi, azzurro mare sotto il sole d’estate, nei miei. «Tu sei la ragione di tutto.»
Mi si riempiono gli occhi di lacrime. Penso al mio segreto, ad Arthur, alla mattina dopo il mio compleanno in cui ho evitato tutti per non permettere che leggessero nei miei occhi che avevo fatto l’amore per la prima volta.
«Poi mi racconterai di quel ragazzo,» continua.
«Come?» le chiedo, e mi torna alla mente il pianista che ho conosciuto oggi, di cui non so nemmeno il nome, e il cuore mi batte forte.
«Pensi davvero che non abbia capito cosa ti sta passando per la testa? Quello che deve succedere, alla fine, succede.»
Faccio un respiro profondo.
Esigo, da me stessa, coraggio. Lascio che salga in superficie.
«Io dovrei dirti…»
«Nat!» mi chiama Pamela, dalla piscina. «Com’è possibile che tu non abbia ancora fatto un tuffo?»
«Vai,» mi sprona Jade. «Parliamo dopo, okay? »
Si volta senza aspettare una risposta: è quel che succede quando è serena, quando sa che va tutto bene.
Eppure mi invade una sensazione di gelo terrificante, miliardi di aghi di ferro che mi penetrano il cuore, mozzandomi il respiro senza uccidermi. Jade comincia ad allontanarsi. Non andare, vorrei dirle. Non andare via.
Come se la stessi perdendo.
Come se sapessi che questo momento – Jade che si avvicina a Marcus, lui che la guarda con le stelle negli occhi, loro che si avvicinano all’uscita abbracciati – fosse la fine di qualcosa.
«Natalie?» mi chiama ancora Pamela. Scemenze, mi ritrovo a pensare. La tua testa fa strani scherzi, ragazza di Liverpool.
Mi liscio il vestito sobrio che indosso, lo tolgo da sotto. Tremo completamente mentre mi chino a slacciare il cinturino dei tacchi.
Salgo sul trampolino e mi tuffo, abbracciandomi le ginocchia con gli occhi chiusi. Il fresco dell’acqua mi avvolge, mi accarezza, mi porta pace. Mi appesantisce la testa, mi trapassa. Apro la bocca senza volerlo, l’acqua mi entra dentro.
Jade, chiamo, ma non può sentirmi.
È lontana.
È andata via.
Apro gli occhi e l’acqua si prosciuga. Un bruciore intenso mi porta a chiudere di nuovo le palpebre e, quando torno a guardare, non riconosco la piscina della festa.
Non riconosco Londra.
Non riconosco Liverpool.
Sono a Shanghai.
Una lacrima mi taglia la guancia in due, mentre prendo coscienza di essermi svegliata nella vita vera, quella in cui sono scappata, sono inciampata, ho battuto la testa, sono tornata indietro.
Quella vita in cui mi sono innamorata del ragazzo dagli occhi di Another Place.
*
*
*
*
*
Quante volte ci chiediamo "E se le cose fossero andate diversamente?", ed io allora ve l'ho mostrato attraverso un sogno che, pur essendo tale, può far capire tante cose del modo di essere di Natalie. Se vi chiedete se questo è stato un espediente per temporeggiare non posso negarlo, ma prima di tutto volevo che vedeste quest'universo alternativo in cui anche qui certe cose sono state inevitabili e quello che deve succedere, alla fine, succede. Questo è il mio regalo per voi per uno splendido anno nuovo. Che vi accompagni sempre il coraggio e la voglia di vivere, in tutte le vostre scelte, e non abbandonate mai i vostri sogni.
Ed io vi ringrazio per quest'anno, perché ci siete stati, con me e con La volpe di Liverpool, e mi avete regalato delle gioie enormi e insostituibili.
Al prossimo capitolo,
Ania <3
 
*Il potere dei giovani è nella mia mente
Tramonti, piccola città, io sono fuori dal tempo
Mi amerai ancora quando brillerò
Per le parole ma non per la bellezza
L'amore di mio padre era sempre forte
Il glamour di mia madre vive ancora e
Eppure ancora dentro, mi sentivo sola
Per ragioni a me sconosciute

Ma se mi inviti, tu sai che io verrò
E se mi chiami, sai che correrò
Corro da te, io corro da te
Corro, corro, corro,
Verrò da te , verrò da te
Verrò, verrò, verrò
 

 
   
 
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