Capitolo
7
Let
it be
Il viaggio di
ritorno a casa fu silenzioso
più del previsto, se possibile. Nessuno aveva voglia di
parlare, dopo quanto
accaduto nel nostro vecchio appartamento: io mi limitavo a guardare
fuori dal
finestrino, sperando che la fresca aria primaverile attenuasse la mia
terribile
emicrania, mentre Davide e Giacomo se ne stavano seduti ai due capi del
sedile
posteriore, evitando prudentemente anche solo di sfiorarsi. La signora
Dorotea
aveva insistito affinché mi sedessi davanti con lei,
intenzionata così a
tranquillizzarmi, senza però intuire che in quel modo non
aveva fatto altro che
peggiorare la mia apprensione; alle mie spalle, infatti, avvertivo il
respiro
regolare del nipote, un po’ più celere del
normale. Forse resasi conto dell’aria
elettrica che regnava nell’automobile, a un certo punto la
donna aveva acceso
la radio; quando arrivammo a casa, echeggiava in sottofondo una vecchia
canzone
dei Beatles, “Let it be”. Lascia
che sia
… Facile a dirsi, Paul McCartney. Se tua madre
proferiva “parole di
saggezza” in periodi difficili, la mia di certo a breve
avrebbe proferito tutto
fuorché parole sagge.
«Prego».
Non me ne ero
neppure accorta, talmente era
stato rapido: Giacomo mi stava aprendo la portiera dell’auto.
«Grazie»
dissi distrattamente, evitando di
guardarlo negli occhi.
A pochi metri di
distanza mia madre ci stava
aspettando, con un’espressione a metà tra il
furibondo e il preoccupato. La sua
tipica espressione infuriata che, tradotta in linguaggio comprensibile
a noi
comuni mortali, significava “cosa mi hai
combinato?”.
«Melissa!
Vieni qui, fatti vedere da vicino.
Cosa ti sei fatta al braccio?».
Braccio? Abbassai
istintivamente lo sguardo:
un livido abbastanza esteso tingeva l’arto di violaceo. Non
me ne ero neppure
accorta, talmente forte era l’emicrania.
«Oh,
sì, devo esserci caduta sopra quando
sono scivolata dalle scale» mi affrettai a rispondere.
I suoi occhi,
turbati, mi passarono a
setaccio dalla testa ai piedi.
«E sulla
fronte? E’ grave, signora Dorotea?»
chiese, rivolta alla vicina.
«No, non
si preoccupi, è solo un taglietto.
Ringrazi che si è trovata con un’ex infermiera,
quando è successo» rispose la
donna.
«Questo
non può che tranquillizzarmi» disse
la mamma, cercando di suonare il più sincera possibile.
Era ovvio che questo
non la tranquillizzasse
affatto.
«E suo
nipote cos’ha? Sembra sconvolto».
«Grazie,
mamma. Vedo che ti preoccupi di
tutti tranne che di me, qui fuori» esordì Davide,
cercando così di distogliere
la sua attenzione da Giacomo. E parve riuscirci.
« Tesoro
mio, certo che mi preoccupo di te.
Come stai?» rimediò in fretta.
Era proprio il suo
pupillo. E non potevo
negare che la cosa ci avesse aiutati non poco, in quella situazione.
«Bene,
mamma. Sei sempre così attenta al mio
stato di salute …».
La signora Dorotea
abbozzò un sorrisetto,
pensando forse così di rasserenare ulteriormente la vicina.
«Credo che
noi torneremo a casa. Si è fatto
tardi» disse.
«Di
già? Vorrei ringraziarla in qualche modo
… le
preparo un caffè? O forse
preferisce un tè?» propose mia madre.
«Niente,
grazie. L’abbiamo fatto con piacere.
Mi basta sapere che nessuno si
è
fatto male oggi. Poteva andare molto peggio»
dichiarò lei.
«Certo, ha
ragione. Se non ci fosse stata lei
… non so, sarebbe potuto succedere chissà che. La
invito a cena stasera».
«E non
accetto rifiuti» aggiunse rapidamente.
«D’accordo,
se la mette così ... ».
«Certo,
devo pure ringraziarla in qualche
modo» affermò mia madre, cordiale.
Wow, non sarebbe
potuto andare meglio.
Eravamo passati, nel giro di poche ore, dal “dovrei stargli
alla larga” al
“ceniamo insieme”. Potevo sempre fingermi malata;
dopotutto, era stata proprio
la nonna di Giacomo a consigliarmi caldamente di stargli alla larga: di certo non
si sarebbe offesa.
Mentre le due nuove
vicine colloquiavano
piacevolmente, quasi litigando sul ristorante designato, Davide e
Giacomo
avevano già portato tutte le valige dall’auto in
giardino, evitando con
attenzione anche solo di guardarsi in faccia.
«D’accordo,
signora Di Giorgio, ci vediamo
per le venti a casa sua. Guida suo marito o devo venire con la mia
auto?»
chiese Dorotea.
«Fortunatamente
abbiamo un’automobile
capiente, non c’è bisogno che porti la sua.
Allora, a più tardi» salutò mia
madre.
Armata delle mie due
valige, mi precipitai
rapidamente su per le scale, nella mia nuova camera. Non avevo voglia
di subire
un interrogatorio, non ero ancora pronta. Posi i bauli in un angolino
della
stanza e mi sdraiai sul letto: in quel momento, volevo solo dormire. I
colori
del soffitto si facevano sempre più sfumati, sempre
più lontani, mentre mi
addormentavo. In breve tempo, le palpebre mi si chiusero letteralmente
da sole,
talmente forte era la mia emicrania, restituendomi l’ombra
dei ghirigori sopra
la mia testa, in particolare di un occhio dentro un triangolo. Che
fantasia
doveva avere il proprietario. Probabilmente era uno di quei tipi
fissati con la
cultura celtica o religiosa, che ne so.
«Mely!
Svegliati, sono quasi le otto!».
Le urla di mia madre
mi risvegliarono
bruscamente. L’emicrania era passata, per fortuna, ma non
avevo comunque
nessuna intenzione di uscire quella sera; tantomeno con quella
compagnia.
«Mamma,
non mi sento molto bene. Preferisco
rimanere a casa, così inizio a sistemare la
stanza» le strillai in risposta.
«Ha
ragione Ely, è meglio che stia a casa,
stasera».
A parlare era stato
mio padre. Entro pochi
secondi me lo ritrovai nella mia stanza. Era visibilmente angosciato.
«Come ti
senti, tesoro?» mi chiese, accarezzandomi
delicatamente una guancia e indugiando con lo sguardo sulla ferita in
fronte. Mi si era
staccato il cerotto,
notai; era tipico di me muovermi molto mentre dormivo. Mio fratello,
dopo anni
di condivisione della stessa camera, mi aveva ribattezzata
“Taz Tazmania”.
«Bene,
papà, non preoccuparti. Mi fa solo un
po’ male la testa» mentii.
«Vuoi che
rimanga a casa con te?».
«E
lasciare la mamma in balia della guida di
Dorotea? Ti assicuro che sarebbe più al sicuro se guidassi
io, credimi. Non
accetterò più un suo passaggio» dissi,
sogghignando.
«Se guida
peggio di te, deve essere proprio
una pazza assassina»
esclamò lui,
prendendomi in giro.
«Dai, sei
proprio ingiusto. Non sono così
male!» mi irritai.
Lui
scoppiò a ridere di gusto e uscì dalla
stanza, salutandomi con la mano.
Amava scherzare, mio
padre, soprattutto con
me. Non faceva che punzecchiarmi bonariamente.
«Vuoi che
resti io con te?».
Era Davide.
«No, non
preoccuparti, Dado. Vai con loro.
Dorotea potrebbe faticare a reggere la storia che abbiamo raccontato.
Dopotutto, ha ottantuno anni. E non puoi lasciare mamma e
papà soli con quel
ragazzo» dissi.
Mi spaventava non
poco l’idea di lasciare la
mia famiglia sola in compagnia di Giacomo e di sua nonna, ma di certo
sarebbe
stato meglio per loro che io non andassi. “Da
allora ad oggi ha avuto altre otto transizioni, tutte in tua
presenza” … meglio
che fossi assente, allora.
Sentii la porta di
casa sbattere e il
cancello chiudersi: i miei erano usciti.
Decisi, prima di
mettermi a sistemare la roba
in stanza, di scendere in cucina a mangiare qualcosa: ero digiuna dalla
sera
precedente e, passata la reazione da stress con tutta
l’attivazione della
cascata ipotalamo-ipofisi-surrene, sentivo che la mia glicemia iniziava
ad
abbassarsi.
Asse
ipotalamo-ipofisi-surrene … era
evidente che stavo male e che studiassi troppo.
Giunta in cucina,
rimasi meravigliata dal
modo in cui mia madre, in un solo giorno, era riuscita a
personalizzarla,
rendendola accogliente quasi quanto la precedente. Ricordai di aver
preso nella
mia vecchia stanza una foto di papà da giovane, e salii a
prenderla nello
zainetto per riporla in un angolo, dietro la foto del matrimonio dei
miei.
Aprii il frigo
aspettandomi di trovarlo
semivuoto, ma non fu così: inaspettatamente, la mamma aveva
trovato persino il
tempo di fare la spesa. Era davvero una donna piena di
qualità, mi dissi. Mi
preparai un sandwich e lo divorai rapidamente, talmente ero affamata.
Terminata
la “cena”, tornai in camera mia e mi misi a leggere
un libro, al caldo sotto due
piumoni. Avrei sistemato l’indomani, ero troppo stanca anche
solo per muovermi.
Continuavo ad avere la stranissima e fastidiosa impressione di essere
osservata. Scesi dal letto e mi affacciai alla finestra, ritrovandomi
inaspettatamente
di fronte Giacomo: se ne stava seduto sul suo balcone a leggere anche
lui un
libro. Mi nascosi rapidamente dietro le tende, sperando che non mi
avesse
vista; Dio solo sapeva cosa sarebbe potuto succedere, ed ero sola in
casa.
«Guarda
che ti ho vista» esordì lui.
Ecco, proprio come
temevo. Non avrei mai
potuto fare l’agente segreto.
«Oh, scusa
… non pensavo mi avessi vista»
dissi, imbarazzata. «Come stai?».
Come
stai? Forse quel sandwich
mi aveva dato alla testa.
Lui sembrò più sorpreso di me da quella domanda.
«Io
… bene. Bene, per essere uno che poche
ore fa ha tentato Dio solo sa cosa» rispose.
«Come va
la testa?».
«Sicuramente
meglio della tua ferita. Però
puoi dire a tuo fratello che ha un’insospettabile forza, per
essere un
tredicenne».
«Gli
farà piacere» dissi, abbozzando un
sorriso.
«Cosa stai
leggendo?» mi interessai.
«”I
dolori del giovane Werther”».
«Non credo
però che ai vicini interessino le
nostre conversazioni» aggiunse, ridacchiando.
«Giusto,
stiamo strillando … lettura
interessante. Ti piacciono le storie sui suicidi
d’amore?».
Che domanda stupida.
«Direi
quelle sugli amori impossibili»
rispose, scrutandomi
intensamente. «”Ah questo
vuoto! Questo tremendo vuoto che
sento qui nel petto!... Spesso penso, se potessi stringerla, una sola
volta
stringerla al cuore, questo vuoto verrebbe colmato”.
Se questo non è amore
…».
Quella sua citazione
un po’ mi spiazzò.
Tentai di mantenere la voce ferma.
«Non
dovresti essere ad una cena?» chiesi.
«Potrei
farti la stessa domanda» disse lui.
«Hai
ragione. Non ci sono andata perché
temevo ci andassi tu» esclamai io, sincera.
«Ed io per
lo stesso motivo. Perché pensavo
che tu ci saresti andata».
Seguirono alcuni
secondi di spiacevole
silenzio.
«Penso che
dovresti andare a dormire, domani
hai la scuola» disse a un tratto Giacomo.
«Giusto,
tu non vai più a scuola. Allora …
buona lettura, Giacomo».
Il solo pronunciare
il suo nome sembrò quasi
agitarlo.
«Buonanotte,
Melissa».
L’indomani mattina, al risveglio, ritrovai sul davanzale un
foglietto di carta.
Chiedendomi come fosse arrivato lì, lo aprii.
C’era scritta una frase:
“And when the broken harted people
living in the world agree,
there will be an answer, let it be ….
For though they may be parted,
there is still a chance that they will see
…
There will be an answer, let it be”.*
*
“E quando le
persone dal cuore spezzato che vivono nel mondo
si dicono d'accordo,
allora
ci
potrà essere una risposta, lascia che sia …
Benché
essi
siano separati,
ci
sarà
sempre una possibilità che loro vedranno …
Ci
sarà una
risposta, lascia che sia”.