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Autore: Emerlith    09/01/2015    3 recensioni
[Pansy Parkinson/Asteria Greengrass] [Pansy Parkinson/Draco Malfoy]
"Erano così pieni di mistero i tuoi occhi, così indecifrabili da attirarmi come il fondo di un precipizio e incutermi persino paura. Non credevo di potermene innamorare, riflettevo solo su come gli occhi di Draco, in confronto ai tuoi, apparissero finti."
Genere: Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Astoria Greengrass, Daphne Greengrass, Draco Malfoy, Pansy Parkinson
Note: Lemon, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7
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[…In a crowded room 
The joker is so cruel 
And now I'll never know if all I've been told

 is just a lie so false, 
I thought we would grow old 
Mirrors in the smoke 
Left me here to choke…]
 
(Amica.
Acami.)
 
 
 
Sottili e indiscreti spiragli di luce pomeridiana indugiano sulle mie palpebre socchiuse un attimo di troppo, quell’attimo che basta per farmi capire che tu, ancora una volta, non ci sei.
Eppure il tuo tocco caldo sul mio viso è così vivido, nel contorno sfocato di quelli che sono i miei sogni, che il semplice ed automatico gesto dell’aprire gli occhi diventa la cosa più faticosa e innaturale da fare nell’arco di un’intera giornata.
Aprire gli occhi è un dolore lacerante, di quelli che non lasciano scampo, ma che lascia invece me attonita e incollata con gli occhi vitrei a questo soffitto, ad ogni risveglio. -Come sono fredde, le pareti bianche di questa casa.
Resto a guardarle, fino a quando il pulviscolo sottile –etereo, quasi, non cattura la mia attenzione. Intrappolato nel cono di luce dei raggi, vuole sfuggire alla gravità e non appena provo scioccamente ad afferrarlo vortica più velocemente attorno alle mie dita. Se sgrano gli occhi e lascio che il raggio accarezzi il mio viso –proprio come lascio sempre fare alla tua mano in sogno, potrei giurare di trovarmi nel bel mezzo di milioni di piccole stelle che danzano, una galassia in miniatura che si ostina ancora a turbinare attorno all’assenza della sua stella.
Anche tu l’avresti detestata tutta questa polvere, Asteria.
Ma le pareti bianche, le avresti proprio odiate. Il bianco era l’unico colore in cui non sapessi scioglierti.
 
***
 
-Mi spaventano le pareti bianche.-
In sala comune, a notte fonda, studiavo per gli esami di fine anno e il mio unico cruccio più grande, fino a quel momento, era stato il pensiero del comportamento che avrei dovuto adottare con Draco, troppo insistente nel volere da me sempre il sesso, come se cercasse una via di fuga, un appiglio per nascondere ben altro, -chissà poi cos’altro. Cercavo di accontentarlo quanto più potevo, anche se spesso non ne avevo la voglia, anche se alle volte avevo l’impressione che non fosse esattamente così che sarebbe dovuta andare, ma tutti già sembravano pensare   –è fatta, e deluderli mi sembrava davvero poco carino.
 
Continuo ancora a chiedermi come sia stato possibile, ma fino a quel momento, fino a quando non alzai la testa dal mio libro di Storia, io non conservavo ancora nessun ricordo con te. Non eri in nessun paragrafo di nessun libro. Non eri neppure nel barlume di un mio singolo, innocuo o sfumato ricordo. Neppure eri finita per caso sullo sfondo di una foto di gruppo. Nella mia mente non c’eri e basta; semplicemente, era come se non fossi mai esistita, anche se ti avevo avuta sotto al naso ogni giorno da quando ero poco più che una bambina ed eri la sorella di quella che consideravo essere la mia migliore amica.
 
Ti guardai in maniera strana probabilmente, perché –anche se me ne accorsi soltanto dopo, qualcosa, in quel preciso momento, catturò ogni granello di attenzione che fino ad allora non avevi mai ricevuto da parte mia e ne scatenò un tornado, riversandotelo addosso nella frazione di pochi secondi –e lasciando me basita sulla sedia, ferma, a fissare il tuo viso pallido.
-Non mi piacciono le pareti bianche.- Ti sentii ripetere, in un sussurro spaventato.
Inarcai le sopracciglia, ma non potei fare a meno di lasciarti libero il campo e lasciarti continuare a parlare.
-Non riesco a dormire. Mi sono improvvisamente resa conto che nel mio dormitorio non è appeso neppure un quadro, e mi chiedo quale essere umano possa permettere che in una scuola persista una tale mostruosità.-
Ci misi un po’ a cercare di capire il senso delle tue parole –e ancora oggi, Asteria, non riesco ad afferrarlo. Mi chiedo se, come tutto quello che dicevi, un senso alla fine lo avesse sul serio o riuscissi tu ad incantarle, le parole, per poi costruire con esse frasi ammalianti a tuo piacimento, e alle volte solo per intrattenere la platea che ti stava di fronte.
 
Ma furono probabilmente proprio quelle parole ad ancorarmi a te, o forse fu la devastazione –inevitabile, immagino, che sentii dentro non appena finisti di pronunciarle e, tremando, ti avvicinasti al fuoco –e a me, con le mani protese in avanti. Per scaldarti, o per provare a sentire qualcosa di vero, autentico, qualcosa che sapesse farti davvero del male?
Mi protesi in avanti anch’io, per tentare di guardarti negli occhi. Ancora non potevo immaginarlo, ma quello fu l’inizio di tutto, di tutto quello che ancora oggi mi appare senza nome, ma che allora mi spinse verso te con totale naturalezza, perché quella notte mi apparivi, nel tuo finto candore, di una innocenza e al tempo stesso di una complessità disarmante.
-Cosa c’è che non va? Vuoi che chiami tua sorella?-
Tu scuotesti la testa, senza però mai volgere lo sguardo a me, senza toccarmi e senza rispondermi. Fissavi le fiamme irretita, come se cercassi di controllarle -come se dal loro calore e dalla loro lenta danza dipendesse il resto della tua vita.
-Io sono un prefetto.- Tentai. -Non voglio farti rapporto, ma se non torni nel dormitorio mi costringi a diventare noiosa e…-
-Tu e mia sorella siete sempre assieme. Sempre, da sempre. Perché fai finta di non conoscermi, Pansy?
La tua domanda mi colpì in pieno petto, probabilmente perché la trovai così vera e diretta che non ebbi la prontezza di spirito per negare quanto poi affermai immediatamente dopo.
-Non lo so, Asteria. Sinceramente, credo di non averci mai riflettuto. Non ho mai fatto caso, a te.-
Restammo in silenzio. Io infastidita, tu persa da qualche parte –e poi dove, chi lo sa.
Finalmente, dopo quello che a me parve un tempo infinito e buttato via inutilmente –e poi dove, chi lo sa,
un sorriso sbucò dai meandri della tua psiche e mi investì, facendo brillare di riflesso, per un attimo, anche me e conducendomi sulle sfumature cremisi dei tuoi capelli castani che si richiudevano in boccoli.
 
Con un gesto stanco, tirasti a te uno di quei pouf sbrindellati e ti ci sedesti sopra, con lo sguardo però ancora inquieto, rivolto al mio. Allora, con calma –tutta la calma che non avevo mai riservato e mai riserverò a null’altro nella mia vita, mi concessi di continuare a guardarti.
Probabilmente ti guardai come si guarda per la prima volta un bel dipinto di cui però non si riesce a carpire il significato recondito. Mi sentii, senza alcuna ragione apparente, improvvisamente piccola e inerme.
-Perché hai paura delle pareti bianche?- Fu l’unica frase ad arrivare in mio soccorso.
Tu di soccorso non ne avevi realmente bisogno, ma ne chiedevi sempre.
-Non ne ho idea, sinceramente, ma ricordo di averne sempre avuta. Preferisco essere circondata da quadri e ritratti. Il bianco in una stanza è come il buio; ti fa girare la testa allo stesso modo.-
Io scrollai le spalle, chiusi il libro e mi lasciai andare ad una risatina nervosa.
-A me la testa la fanno girare soltanto l’altezza e l’alcol.- Sdrammatizzai.
Nel vedere le tue guance prendere colore, provai un gran caldo anch’io.
-Immagino che, se non vuoi tornare di sotto a dormire, fumare una sigaretta sia una delle poche alternative che ci restino.- Ti proposi, se non altro per calmarti e far in modo che ti levassi di torno il più in fretta possibile. Non ero brava a trattare con le persone. Ero scontrosa, spigolosa, poco incline al contatto, di qualunque tipo esso fosse, e a me andava bene così.
Alla mia richiesta, però, tu sorridesti estasiata e di sigarette ne tirasti fuori dalla tua tasca un pacchetto ammaccato, come se avessi previsto il tutto.
-Non dire nulla a Daphne.- Mi chiedesti poi, accendendotene una senza però nessuna remora.
-A casa sono già abbastanza risentiti dal fatto che anch’io non porti una spilla al petto.-
Ammiccai, aprii anche una bottiglia di Burrobirra.
-Non lo dirò a Daphne.- Promisi poi, bevendone il primo sorso.
E non lo feci, Asteria. Non lo feci quella volta e per tutte le volte a seguire.
Con te infransi tutte quelle regole che a me erano sempre andate bene.
 
***
 
-Credo che mia sorella si stia comportando in maniera strana. Tu no?-
Il professor Lumacorno continuava a parlare, ed io non sapevo assolutamente che cosa dovessi rispondere, né a lui né tantomeno a tua sorella, seduta di fianco a me. Tamburellai con le dita sul banco tentando di dissimulare indifferenza –ma Daphne, pur non avendo mai avuto il tuo stesso intuito, mi conosceva da troppo tempo per non arrivare a capire che le stessi nascondendo qualcosa.
-Sei strana anche tu.- Disse infatti subito dopo, appallottolando con stizza un pezzetto di pergamena e chiudendo il mio libro, per far sì che mi decidessi a guardarla in faccia.
-Se sai qualcosa, Pansy, voglio che tu me lo dica. Se incontri mia sorella in giro per il castello di notte, mentre fai la ronda, devi avvertirmi. Non voglio che sprechi il suo tempo dietro a quegli idioti dei nostri compagni di casa, sono tutti…insomma, l’unico buon partito che avrebbe potuto accaparrarsi era Draco, ma come ben sappiamo Draco è roba tua, perciò…-
-Draco ha gli occhi azzurri. Sono scialbi, alle volte sembrano grigi.- Mormorai, assente.
Quelli di Asteria sono scuri.
E comunque Asteria non passa le nottate in giro per Hogwarts. Le passa a parlare con me.
 
Tua sorella mi conosceva bene, ma comunque non abbastanza. O forse ero io, ad essere così indecifrabile. Non so perché non le dissi di te, quando ancora non c’era poi davvero nulla da dire. Avrei potuto raccontare tranquillamente delle nostre chiacchierate in Sala Comune fino all’alba, mentre il resto del mondo pareva essersi scordato della nostra esistenza e sembrava un qualcosa di irreale, fantastico. Avrei potuto raccontare di quanto mi piacesse il suono della tua voce, sempre caldo ma mai troppo, sempre serio ma non triste, sempre vellutato, ma capace di graffiare ricordi, gesti, memorie.
 
Ma forse c’è un tempo preciso in cui si può o non si può raccontare di qualcosa, ed io quella volta, il mio tempo lo lasciai scivolare via lungo la clessidra, con noncuranza. Riposi pergamene e piume nella borsa, alla rinfusa. Poi sbuffai, alzandomi dalla sedia e liberandomi dalla costrizione del banco. Mi sembrava di non riuscire più a respirare, mi sembrava di soffocare almeno una decina di volte al giorno.
Poi, dopo almeno due minuti di silenzio, Daphne sembro risvegliarsi d’improvviso.
 
-Cosa c’entrano adesso gli occhi di Draco? Anche i tuoi sono azzurri.-
-Niente, Daphne. Così, stavo solo riflettendo fra me e me.- Feci per svignarmela, ma lei mi afferrò per il braccio prima che potessi scappare via.
-Pensi di tirar fuori due pensieri criptici e lasciarmi qui così?-
-Non intendevo dire niente di criptico. Solo che pensavo che è curioso che io stia con Draco. Fin da bambina ho sempre pensato che mi sarei innamorata di una persona con gli occhi scuri.-
Come previsto, Daphne non colse. Anzi, scrollò via le briciole della sua merenda dai fogli e si mise la borsa in spalla.
-Pensavo addirittura che fossi incinta, dalla faccia che hai fatto. Sai cosa mi interessa, del colore degli occhi di Draco? E poi cosa c’entra mia sorella con questo?-
Ma tu li hai mai guardati gli occhi di tua sorella, Daphne?
Ovviamente, non le chiesi neppure questo. A quel punto, probabilmente avrebbe potuto intuire qualcosa che non avevo ancora compreso appieno neppure io. A quel tempo, non pensavo che avrei potuto innamorarmi seriamente di te, Asteria. Non appena te ne andavi, all’alba di ogni mattina fredda, con me restavano solo i tuoi occhi. Mi sembrava di sentirli puntati su di me, addosso a me, sempre. Erano così pieni di mistero i tuoi occhi, così indecifrabili da attirarmi come il fondo di un precipizio e incutermi persino paura.
Non credevo di potermene innamorare, riflettevo solo su come gli occhi di Draco, in confronto ai tuoi, apparissero finti.
 
Nonostante questo, non tentavo però di comprendere la natura delle mie elucubrazioni mentali. E pur volendo esclusivamente dar la colpa a te, al tuo inspiegabile ed irrefrenabile bisogno di parlarmi, continuamente e di tutto, ancora oggi io penso che i discorsi più belli e profondi io li abbia affrontati con te, in quella manciata di mesi che i granelli di sabbia hanno voluto concederci. Draco non mi parlava mai. Con lui studiavo, dormivo, ci continuavo a fare del sesso. E non ci parlavamo mai. Non aveva un personale punto di vista, non era innamorato davvero di nulla e neppure, ovviamente, di me. Ero il suo giocattolino, la ragazza perfetta e riservata; un oggetto su cui sfogare i suoi nervi. Probabilmente, Asteria, fu anche colpa mia. Il muro che, per mia natura, ergevo verso qualsiasi altro essere umano, eri riuscita ad abbatterlo completamente solo e soltanto tu –semplicemente guardandomi, ed io te l’avevo lasciato fare. Non è stata la tua bellezza –il fatto che fossi bella, neanche un pazzo lo avrebbe negato. Non è stato il tuo modo di sorridere, né quello in cui ridevi alla gente. Penso sia stato semplicemente il tuo modo di guardare alle cose. Di guardare nelle cose. Di guardare in me, in quello che nemmeno io volevo vedere.
 
-Guardami, Pansy.-
-Io non salirò mai sulla tua maledetta scopa. Lo sai che soffro di vertigini. Io la detesto l’altezza. Non mi puoi rapire dal letto e portare con te su quell’affare, fossi anche più brava a volare di Potter.-
Ridevi.
-Sono bravissima a volare, ti prometto che non cadrai. Ti prometto che ti porterò in un posto stupendo. Avanti, fidati di me.-
Scuotevo la testa con orrore, fermamente. Nessuno era mai più riuscito a farmi montare su una scopa, ci aveva rinunciato persino madama Bumb dopo le prime, disastrose lezioni.
-Ho persino un esonero scritto da qualche parte, che spiega il mio problema con il volo…-
Ma tu non ascoltavi. Era questo, un altro lato di te che tanto aveva potere su me: tu non davi retta mai a nessuno, fosse stato anche Lord Voldemort in persona a chiederti qualcosa, avresti fatto comunque di testa tua.
Mi avevi preso la mano e l’avevi rigirata fra le tue, solleticandone leggermente il palmo con le tue dita, uno sguardo da cucciolo offeso che mi aveva però intenerita –troppo, fin troppo.
-Pioverà.- Avevo obiettato debolmente.
-Ci sono le stelle. E poi hai sempre detto che ti piace, la pioggia.-
Avevo alzato gli occhi al cielo, imprecato a mezza voce.
-Mi sentirò male.-
Avevi persino riso, ti eri messa a saltellare contenta, mi avevi trascinata verso la tua scopa che in un baleno si era ritrovata all’altezza della mia vita. Poi, delicatamente, avevi spostato il mio viso verso il tuo, con l’indice, e dopo, con entrambe le mani, mi avevi  sollevato il mento e accarezzato le guance arrossate dal freddo.
-Ti prometto che non ti sentirai male.-
-No, perché morirò e non avrò neppure il tempo di accorgermene.-
Rimanesti in silenzio, mi fissasti con fin troppa serietà, fino a farmi tremare –anche se poi avrei dato la colpa al freddo.
-Se non vuoi salire, non fa niente.- Mi dicesti poi.
E quanto, quanto mi fece arrabbiare, Asteria. Repressi l’impulso di prenderti a schiaffi.
-Eh, no. Troppo facile. Adesso ci salgo. E se mi sento male e muoio, vedrai di prenderti le tue responsabilità.-
Sorridesti sotto i baffi, mettendoti in sella e prendendo le mie braccia per far sì che circondassero la tua vita.
-Magari dovresti chiudere gli occhi, sai. La prima volta potrebbe aiutare.-
Non chiusi gli occhi. Preferii affondare il viso nella tua cesta di boccoli, sulla tua schiena. E lo tenni così per tutto il tempo del volo. O almeno, è ciò che ora mi piace ricordare. Non ricordo di ciò che provai nel momento del decollo, ma ricordo la tua risata e il modo infantile in cui ti facevi beffe di me, che me ne restavo zitta e tremante pregando solo che tutto finisse presto –ma non abbastanza perché almeno, così, in bilico su una scopa, avevo un pretesto ottimo per poter restare attaccata a te e ispirare il tuo profumo senza che tu potessi rendertene conto. O forse te n’eri già perfettamente accorta, e tutto quello che volevi era solo tenermi sulla corda, per vedere quanto fossi in grado di restare in equilibrio mentre ti lasciavo entrare nella mia vita con l’intensità paragonabile a quella di un uragano.
 
-Guarda che siamo a terra.-
Riaprii gli occhi, stropicciandoli come un bambino che si sveglia dopo un sonno lungo e ristoratore. Scesi dalla scopa, tremante, e constatai che eravamo sopra ad un ponte. Un fiume in piena sotto i nostri piedi, il castello di Hogwarts che si ergeva in lontananza, le montagne e il cielo stellato a far da connubio a quella che era decisamente un’inquadratura perfetta.
-Ma dove… come?-
-Non ci si arriva a piedi. Ecco perché così pochi sono a conoscenza dell’esistenza di questo posto.
Ti poggiasti alla balaustra traballante del ponticello. Le ciocche ribelli dei tuoi capelli –più scuri, alla sola luce della luna piena, danzavano in perfetta sincronia sullo scrosciare dell’acqua impietosa sotto di noi. Mi misi anche io a fissarla, per non restare impalata a guardare te.
Non era davvero difficile pensare di essere le sole creature rimaste al mondo, in un posto così –ma poi mi sarei chiesta se non mi risultasse difficile pensarlo semplicemente perché c’eri tu insieme a me.
-Hai visto che sei sopravvissuta?-
Morsi il labbro inferiore, ma non alzai gli occhi ai tuoi. Mi sarei tradita con troppa facilità.
-Le soluzioni erano solo due. Superare la paura insuperabile o morirci assieme.-
Rialzai la testa dal riflesso argenteo dell’acqua. Il profumo dell’erba bagnata, mischiato a quello di tabacco della sigaretta che avevi riacceso, cullava in me un qualcosa di indefinito e di indefinibile.
Alzasti le sopracciglia, quel tanto che bastava per farmi capire che, di nuovo, anche se non ti stavo parlando, mi stavi leggendo dentro. Sorridesti, ma tra le volute di fumo sembravi di nuovo così triste, così inafferrabile, lontana da sempre e per sempre. Sembravi un ritratto di te stessa, ma da bambina. Indifesa. Fragile.
Avrei voluto abbracciarti talmente forte da romperti un paio di costole, scuoterti, chiederti dosa diavolo ci fosse a non voler proprio andare, perché cercassi solo la mia compagnia, in una scuola così grande.
Ma più forte era il desiderio di farlo, più grande la paura che mi inchiodava a quelle assi di legno.
Gemevano al vento, come migliaia di fantasmi in perenne ricerca di riparo, rifugio, tregua.
-Stai piangendo. Perché?- Mi domandasti, un momento dopo.
Guardai te. Poi il cielo tutto impolverato di stelle, la neve sulla cima delle montagne.
-Sto costruendo un ricordo.- Ti risposi dopo qualche istante.
Ti vidi scuotere la testa riccioluta, sorridere con lo sguardo rivolto a terra.
-Mi sento onorata.-
Scoppiai a ridere, asciugandomi le guance con le dita intorpidite.
-Non ce la fai proprio tu, a startene zitta.-
Scuotesti ancora la testa, avvicinandoti a me con le mani intascate sul fondo del mantello.
Baciarti, anche se per pochi secondi, non fu facile, ma fu dannatamente bello, e nessun altro aggettivo, per quanto voglia sforzarmi, riuscirebbe a contenere un bacio così morbido e breve –impaurito. I tuoi riccioli disordinati si impigliarono fra le mie dita come per dire –ed ora non provare a lasciarmi, mai più.
Ma io avevo dei capelli troppo lisci, occhi troppo chiari. Forse per le tue mani si rivelava più difficile, trovare un appiglio.
 
***
 
Non ricordo bene neppure cosa successe dopo, Asteria. Ricordo solo che la tua presenza divenne costante, e ricordo che, non appena mi rendevo conto della tua assenza, immediatamente cercavo di porvi rimedio. Iniziammo a vederci durante gli intervalli tra le lezioni, in biblioteca con il pretesto di studiare, nel parco per passeggiare. Iniziammo a vederci sempre, e mai, neppure una volta, per caso. E neppure una volta, arrivammo a baciarci di nuovo.
Daphne e i ragazzi presero di buon grado la tua ufficiale entrata in quello che fino ad allora, era sempre e solo stato il nostro gruppo. Quello che sembrò proprio non accettarla fu Draco, e non dovetti aspettare troppo per capirne le ragioni. Draco sembrava sempre così indifferente a tutto ciò che gli stava attorno –la verità era che, semplicemente, non mostrava nulla di ciò che sentiva e provava. Palesava soltanto il proprio disgusto, e forse fu per quello che non riuscì a stare al gioco con me per tanto tempo.
 
Mi prese con insolita calma, quella sera. Disse di voler fare l’amore con me in maniera diversa, in maniera più romantica. Usò queste esatte parole, ed io me ne restai immobile, nuda sul pavimento del bagno, fra gli asciugamani di cotone sparpagliati. Chiusi gli occhi, come ero abituata a fare da sempre, ma Draco mi chiese di non farlo, me lo chiese più volte. Non volevo –da tempo, ormai, prolungare il contatto fra i nostri corpi più dello stretto necessario e così, ancora una volta, tentai di accontentarlo. Mi resi conto solo in seguito che, però, indipendentemente dalle sue richieste, avrei tenuto comunque gli occhi sgranati per il solo modo in cui mi baciava – mi baciava tutta, dappertutto, come non aveva mai osato fare, neppure una volta.
 
Iniziò a sussurrarmi parole all’orecchio, a biascicare qualcosa di veramente incomprensibile, mentre apriva lentamente le mie gambe e mi dava piacere soltanto con il tocco delle sue dita. Arrossii, e di molto, probabilmente. Fissai il soffitto bianco, per tentare di non sprofondare nel nulla e fu allora che e mi accorsi di quanto, disperatamente, fra le mie gambe, invece di un uomo, volessi te –e di come, inspiegabilmente, Draco lo avesse capito ancor prima di me. Il riverbero dei tuoi occhi, quella che ricordavo la morbidezza dei tuoi capelli, e quella che sapevo essere la delicatezza delle tue mani, esplosero nel mio cervello assieme all’intensità del mio orgasmo in maniera talmente violenta da farmi urlare; immediatamente, un ghigno si dipinse sulla faccia di Draco, che con un gesto secco tolse via la sua mano e mi penetrò tenendomi indietro la testa, in modo che potessi avere la bocca a pochi centimetri dalla sua, e sentire tutto il suo respiro affannato, animalesco.
Mi fai male, avrei voluto dirgli dopo un minuto –e urlarlo dopo due.
Credevo di non aver mai provato un dolore simile prima di allora, ma dirglielo, ammetterlo, avrebbe significato un’ammissione di colpa, avrebbe firmato la mia condanna all’inferno –e l’inferno l’avevo già visitato. Pur tenendo le labbra serrate fino a farle sanguinare, non riuscii comunque ad impedire alle mie lacrime di scendere, e ad ogni goccia caduta senza rumore sui candidi asciugamani, non potei impedire di raccontare silenziosamente di te.
La soddisfazione di Draco nel sentirmi singhiozzare, e nel vedermi gemere di dolore e vergogna, riversa a terra, fu l’unica cosa che probabilmente lo trattenne dal picchiarmi quando poi, dopo aver finito, mi confessò ridendo di aver trovato una tua fotografia nel cassetto della mia scrivania. Era una fotografia che avevo rubato da uno dei tuoi libri, durante uno di quei pomeriggi in biblioteca, assolati e pieni di te.
-Cosa credevi, che fossi un idiota, Pansy? Sei solo una stupida puttana. E per tua informazione, ho intenzione di chiedere la mano alla tua Asteria quanto prima, una volta finita la scuola. Non avrai di certo pensato che avrei potuto sposare te. Non è vero, tesoro?-
 
Corsi via dal bagno dei prefetti con solo te in mente, e appena due stracci indosso. Non so quante persone urtai, né saprò mai se, dopo quella notte, tua sorella abbia finalmente capito la natura dei miei veri sentimenti per te. Ti trovai in Sala Comune, come sempre. Ma non era ancora passata la mezzanotte, e per questo non eri sola. Mi guardasti, completamente stravolta. C’era del sangue sul mio accappatoio, forse persino tra i miei capelli. Ti alzasti, mi venisti incontro cautamente, quasi avessi paura di rompermi con il solo rumore dei tuoi passi ed io capii in quell’istante che mai, neppure per un attimo, avrei potuto davvero averti. E che, contro ogni logica, il discorso era semplice. Ero innamorata di te.
 
Mi portasti via da quegli sguardi indiscreti, ma troppo tardi. Il giorno dopo saremmo state comunque sulla bocca di tutti –anche se nessuno, per decenza, mi avrebbe poi chiesto nulla. Invece di scendere lungo uno dei tanti tunnel sotterranei, mi portasti fuori, sulla scopa, alla luce tenue dell’alba. Restammo sedute sulla torre di astronomia, con le gambe penzoloni. Litigammo, furiosamente. Ma ora, per quanto mi sembri sconcertante, di quel litigio non ricordo neppure una parola. Ricordo solo che il mio cuore, quell’inutile ammasso di fasci muscolari, pulsava così dolorosamente che, se non avessi fatto qualcosa, mi sarebbe esploso nel petto. Perciò, te lo dissi. Per disperazione e perché sapevo che comunque, ti avevo già persa. Anzi, non ti avevo mai avuta.
-Io ho una gran voglia di baciarti.-
Tu smettesti di parlare. Il mondo intero smise di fare rumore, quasi volesse scusarsi.
Volgesti lo sguardo –quegli occhi così belli, così dannatamente belli, verso il cielo vaniglia di quell’alba fredda e bugiarda, carica di nuove promesse già infrante.
Quando mi chiedesti il perché volessi farlo, io ero già volata da un’altra parte.
Guardavo la tua scopa da corsa, le foglie secche cadere dagli alberi sotto di noi. Sentivo il freddo penetrare fin nelle mie ossa, i miei muscoli tendersi per trattenere un dolore ancestrale, sconosciuto e insopportabile.
-Io non so dirtelo, il perché.- Riuscii a sussurrarti, con gli occhi pieni di lacrime.
Tu rimanesti in silenzio, a guardarmi. Avevi le labbra spaccate, ma belle di quella bellezza che hanno le cose smarrite, e lasciate all’incuria del tempo, alla polvere.
 
***

Aprire gli occhi è un dolore lacerante, di quelli che non lasciano scampo, ma che lascia invece me attonita e incollata con gli occhi vitrei a questo soffitto, ad ogni risveglio. -Come sono fredde, le pareti bianche di questa chiesa.  
Anche il tuo abito in pizzo e volute è bianco, anzi, a guardarlo bene, ha esattamente la stessa sfumatura del soffitto –che sia un avvertimento?
Se c’è qualcuno che ha da dire qualcosa, parli ora o taccia per sempre.
 
Non è facile tacere per sempre, Asteria. Guardo l’enorme bouquet pieno di rose rosse che stringi fra le mani, al petto, e riesco solo a pensare a quanto siano così poco adatte delle rose, per te. A quanto sia poco adatta quella crocchia nell’acconciatura, tu che dicevi sempre di voler scappare libera per il mondo. Guardo la nuova sfumatura bionda sui tuoi capelli, il sorriso ampio e gentile –finto, che dipingi sul viso. Hai le labbra ancora sottili, ancora spaccate, perché non hai perso ancora il vizio di mordertele, dopo tutti questi anni.
Se c’è qualcuno che ha da dire qualcosa, parli ora o taccia per sempre.
 
Ci sono io, ci sono io a voler dire qualcosa.
Ho una gran voglia di baciarti.
Almeno mi senti, mi vedi?
Io sono qui, proprio qui, non mi sono mai mossa da qui.
Sto ancora facendo l’amore con te, ogni notte. Probabilmente non ho mai smesso di immaginare il tuo corpo, nudo, sopra il mio. Non ho mai smesso di immaginare il tocco delle tue dita. Sottili, tanto sottili. Non ho mai smesso di chiedermi come sono i tuoi occhi la mattina appena sveglia, perché ti ho vista solo al buio, in segreto, ho potuto toccarti, parlarti, vederti –viverti soltanto di notte, nei contorni sfocati di un sogno. E ho assaggiato le tue labbra e la tua bocca solo una volta, soltanto una –e perdonami, ma non mi è bastata.
Perciò, sì, ci sono io a dover dire qualcosa.
Ho ancora una gran voglia di baciarti.
 
Non è facile tacere per sempre, Asteria.
 
  
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