Breathless.
06 - You Can't Say Sorry (pt. 2)
La ragazza bionda stava stringendo con la mano
un enorme ombrello verde mentre con l’altro braccio cercava di stringere a se un
piccolo pechinese color champagne dal ringhio facile. Il piccolo e paffuto
animale aveva riconosciuto il suo padrone corrergli incontro sotto la
pioggerellina; non appena il ragazzo fu sotto l’ombrello allungò le mani a
prendere il cucciolo
«Grazie mille Angie» disse rivolto alla biondina che gli sorrise
«Di nulla signor Ricci» rispose la giovane reggendo l’ombrello con entrambe le
mani.
Mark Ricci prese il cucciolo e lo stropicciò un po’ tenendolo in braccio mentre
quello continuava a dimenarsi. All’improvviso Mark si voltò a guardare il parco
come se avesse sentito un richiamo lontano.
La ragazza notò il suo gesto
«La pioggia fa strani echi alle volte nel parco, è normale»
«Si, forse» ammise il ragazzo poco persuaso. Congedò la ragazza e si mise a
correre con il piccolo cane nel parco che andava via via annebbiandosi sotto il
peso dell’acqua scrosciante; mentre tirava indietro il guinzaglio fu colpito
nuovamente da quella sensazione, come se qualcuno lo stesse chiamando “E’
impossibile” si ripetè mentre riprendendo in braccio il cane si apprestava a
pulire i bisogni che questo aveva appena fatto accanto ad una panchina; “Eppure
qualcuno mi sta chiamando” insistè il ragazzo, dopo aver gettato il sacchettino
sporco si diresse verso l’uscita a passo rapido, convinto che fidarsi della sua
sensazione fosse la cosa migliore.
Percorse la 60esima ovest correndo tra la folla che cominciava ad accalcare il
marciapiede nel primo pomeriggio; si scontrò con un paio di persone e decise che
l’ombrello era un ingombro troppo grande, se ne liberò lasciandolo accanto alla
testa di un barbone che riposava sulle scale dell’ingresso di una banca, quando
finalmente raggiunse l’incrocio con la Columbus, capì che cosa non andava; sotto
la pioggia ormai scrosciante una figura era malamente adagiata sull’asfalto
freddo, un gruppo di persone cercava di muovere il testardo sdraiato senza
riuscirci.
Mark si mosse rapidamente e a meno di mezzo metro di distanza capì chi era
quell’ammasso di abiti bagnati.
Si fece largo tra la folla spintonando con il braccio libero e si inginocchiò
accanto alla ragazza infreddolita
«Mark, è andato via. Se n’è andato» Kate sussurrava continuamente tra un
singhiozzo e l’altro, il ragazzo posò a terra il pechinese ed alzò la testa
della ragazza, la prese tra le mani baciandole la fronte e la strinse a se
mentre occhieggiava ai passanti fermi li accanto
«Qualcuno sarebbe così gentile da chiamare un taxi?» chiese cortesemente Mark
riempiendosi lentamente d’acqua che imperversava sulle loro teste, un uomo sulla
cinquantina annuii e prese un cellulare. Dopo pochi secondi si rivolse a Mark
che era ancora intento a stringere la testa di Kate passandole la mano libera
del guinzaglio tra i capelli fradici
«Tesoro va tutto bene, va tutto bene»
Mark non lo sapeva se sarebbe andato tutto bene, lo sperava, non solo per se
stesso, ma anche per quella ragazzina un po’ pienotta che era sempre stata molto
più che una migliore amica per lui, era il suo bastone, la sua stampella, la sua
salvezza. C’era stato un tempo in cui aveva amato Katherine nel modo in cui un
uomo amava una donna, ma, svanito quel tempo, Mark aveva capito di amare
Katherine come due anime si amano. Mark, ovunque sarebbe stato, sarebbe corso
sempre da Katherine. Per il resto dei suoi giorni le sarebbe rimasto accanto.
Quando il taxi giallo si fermò sul lato della strada Mark attinse da tutte le
sue forze e cercò di sollevare il corpo inerme di Kate, non riuscendoci fu
aiutato dall’uomo che aveva chiamato il taxi; dopo aver messo la ragazza
all’interno, ringraziò l’uomo e salì a sua volta.
Diede l’indirizzo all’autista e cinse con il braccio la sua amica che ancora
sussurrava con occhi aperti e vacui. Mark si chiese se la sua intuizione fosse
corretta.
*
Non sapevo dove mi trovavo, ne se ero ancora
viva, non riuscivo a sentire nulla se non un forte odore di caffè ed un leggero
russare, mi sforzai di aprire gli occhi e tra il pensare il gesto ed il metterlo
in atto passarono svariati secondi, quando finalmente riuscii a mettere a fuoco
l’ambiente, capii che non ero più sulla Columbus Avenue, e che di certo non ero
in un ospedale. Un leggero suono di passi mi fece voltare lentamente verso
destra; sullo stipite della porta, con addosso un enorme cardigan rosso c’era
Mark che mi guardava dolcemente sorridendo appena.
Lentamente si avvicinò al letto e si adagiò accanto a me
«Come ti senti?» mi domandò in un sussurro, spostandomi la frangia di lato, io
scrollai la testa e quando provai a parlare sentii le parole grattarmi la gola
in fiamme, Mark notando il cambiamento d’espressione si sporse sul comodino e mi
allungò un bicchiere di latte, mi tirai su a sedere e ne bevvi un sorso
avidamente, poi risposi
«Affatto bene»
«Kate, vuoi raccontarmi perché ti ho trovata fradicia e piangente sull’asfalto
della Columbus?»
“Che senso ha mentire?” pensai mentre posavo il bicchiere, così annuii e cercai
un punto da dove cominciare.
Le parole scivolarono lente fuori dalle mie labbra come se anche loro, avendo
vita propria, non volessero saperne di uscire; come se persino i miei sentimenti
non volessero lasciarsi scoprire.
Quando trovai la forza di raccontare tutto, mi sentii spossata; Mark mi baciò
sulla fronte e mi disse di riposare, lui sarebbe stato li se ne avessi avuto
bisogno. Sapevo che ci sarebbe stato, per questo mi addormentai.
*
«Si, Pronto?» la voce dall’altra parte del
telefono sembrava provenire dall’oltretomba, Mark, col telefono incastrato tra
la spalla e la testa si sistemò la sciarpa
«Sono Mark, l’assistente di Katherine. Ho bisogno di parlare con te»
Silenzio, dopo un paio di minuti qualcuno rispose
«Sono al Virgin Megastore sulla Broadway»
«D’accordo, dieci minuti e sono da te» Mark riagganciò il telefono e subito lo
riprese componendo rapidamente un altro numero. C’era solo una persona di cui
poteva fidarsi abbastanza per lasciare Mick e Kate nelle sue mani.
«Pronto?» la voce di una donna irruppe nell’apparecchio
«Angie? Sono Mark, per favore vieni subito a casa mia, ci troverai Mick ed una
mia amica, per favore, occupati di loro mentre sono fuori, non ci vorrà molto,
spero» la ragazza rispose che sarebbe arrivata immediatamente, lui chiuse la
porta di casa lentamente, mentre scendeva le scale pensava tra se e se
“Ed ora, vediamo se la meriti davvero”
*
Mark si arrampicò fino al secondo piano del
Megastore mentre si toglieva il cappotto di lana pesante nel quale era avvolto.
Si destreggiò tra gli scaffali pieni di dischi, dvd, e vinili fino a raggiungere
lo spazio della musica folks, la, seduto sul pavimento a rigirarsi cd tra le
mani c’era il ragazzo che stava cercando; quest’ultimo udendo i passi felpati di
Mark sulla moquette color mogano, alzò lo sguardo dai cd che gli stavano
intorno. Il ragazzo notò che sul volto del nuovo venuto c’era un’espressione
dura, di protezione, pensò quest’ultimo rimettendosi in piedi.
Mark si fermò di fronte alla figura di parecchi centimetri più alta di lui e
sorrise, era un sorriso aspro, segnato dalla sofferenza altrui.
Robert, si levò il cappellino passandosi una mano tra i capelli
«Allora» cominciò, ma si fermò non appena la mano di Mark si levò all’altezza
del suo collo
«Non qui, vieni» e così dicendo i due si addentrarono nei meandri del Megastore,
raggiungendo una saletta d’ascolto piuttosto polverosa e di certo poco usata,
Mark spolverò con una mano una delle poltrone nere nella stanza e ci si accomodò
tenendo sulle ginocchia il cappotto, Robert lo imitò continuando a guardarlo in
modo circospetto.
«Vorrai sapere di certo che alle tre e mezza di oggi, ho trovato Kate
raggomitolata davanti allo Starbucks della Columbus sotto la pioggia a piangere»
la voce di Mark era un sibilo, ma non perché lui volesse intimorire o
colpevolizzare il ragazzo che gli sedeva di fronte, voleva solamente che lui
capisse in quale situazione aveva deciso di cacciarsi, Robert lo fissò incredulo
«Vuoi dire dopo che abbiamo che discusso è rimasta li?» chiese ingenuamente,
Mark annuii
«Esattamente, sai cosa stava sussurrando ininterrottamente? “Cosa succederebbe
se non riuscissi a sostenere questo dolore?” e mi chiamava, sussurrava “Mark, se
n’è andato”; ovviamente parlava di te, Robert»
In quel momento, Robert Pattinson, l’uomo più acclamato del momento per aver
interpretato il vampiro romantico Edward Cullen, non riusciva a sostenere lo
sguardo di un ragazzo smilzo e ben vestito, si torse le mani convulsamente e
balbettò qualcosa che Mark non capì
«Robert – il tono del ragazzo era ora comprensivo e pieno d’affetto, non per
lui, ma per la persona per cui stava parlando – lei, lei non è come le altre
ragazze, e non lo dico perché è una mia amica. Lo dico perché io l’ho vista non
solo crescere, ma l’ho vista andare in pezzi per i più svariati motivi, ma mai,
mai, per un uomo. Ogni relazione di Kate è finita perché volevano tenerla in
trappola. Kate è la libertà. Se la intrappoli è finita. E se le fai del male, è
finita. Lei, non ammetterà mai che ti vuole, che forse ti vuole più di ogni
altra cosa al mondo. Non può. Lei non vuole costringere se stessa e soprattutto
te a dover fare una scelta, magari non domani, ma chi lo sa, tra due mesi
potrebbero volerti sul set di qualche film in Alaska e lei non ti seguirebbe mai
e ne soffrirebbe e mai, nemmeno a costo di morire, ti chiederebbe di rinunciare
a quello che tu ami per lei»
«Ma lo farei! Sarei pronto a lasciare tutto quanto per stare con lei! Tu non hai
idea, ma quei pochi momenti che abbiamo diviso, sono, sono come cicatrici
pulsanti addosso a me, non riesco a smettere di pensarci, non voglio smettere.
Io so che è lei! So che è lei, capisci?» Robert si prese la testa tra le mani ed
appoggiò i gomiti sulle ginocchia, Mark sospirando gli battè una pacca sulle
spalle
«Lo capisco. Vedi, Kate è una che nel lavoro non ha paura di sbattere la faccia
contro un muro e spezzarsi il naso, ma nella vita privata, lei è come, ecco, è
come un origami esposto all’acqua, va in pezzi, dapprima non ti sembra, ma non
appena lo sfiori questo si disintegra tra e dita. Kate non ha bisogno di una
persona che le dica che l’ama e che poi il giorno dopo parte per l’antartico.
Kate non ha bisogno di parole, ha bisogno di un sorriso la mattina, di una mano
sulla testa la sera. Ha bisogno di sapere che la persona a cui si sta dando, e
credimi, Kate darà tutta se stessa a quella persona, è la persona che si sveglia
con lei e che se ne prende cura» Mark sorrise in direzione del ragazzo.
«Che cosa devo fare?» Robert chiese con occhi tristi eppure pieni di
convinzione. Mark sorrise ampiamente e si alzò dalla poltrona.
«Sia chiaro, io non ti ho detto nulla. Ti darò una dritta di dove saremo domani
mattina. Tu fa quello che vuoi, ma sappi: se ci sarai, ci sarai per il resto
della tua vita» e ridacchiando si diresse verso l’uscita della saletta.
Note dell'autrice: Mi verrebbe da mettermi ad urlare "Everybody read! Like this is the last fic you will ever read" giusto per citare i PMore; ma comunque eccoci arrivati al capitolo svolta, uno dei capitoli che più mi son divertita a scrivere, mi immaginavo Mark mentre parlava con Robert e mentre raccoglieva la povera Kate dalla strada; spero vi piaccia e GRAZIE! delle recensioni, è bello sapere che vi sta piacendo questa tormentosa fanfic!.