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Autore: RandomWriter    11/01/2015    8 recensioni
Si era trasferita con il corpo, ma la sua mente tornava sempre là. Cambiare aria le avrebbe fatto bene, era quello che sentiva ripetere da mesi. E forse avevano ragione. Perchè anche se il dolore a volte tornava, Erin poteva far finta che fosse tutto un sogno, dove lei non esisteva più. Le bastava essere qualcun altro.
"In her shoes" è la storia dai toni rosa e vivaci, che però cela una vena di mistero dietro il passato dei suoi personaggi. Ognuno di essi ha una caratterizzazione compiuta, un suo ruolo ben definito all'interno dell storia che si svilupperà nel corso di numerosi capitoli. Lascio a voi la l'incarico di trovare la pazienza per leggerli. Nel caso decidiate di inoltrarvi in questa attività, non mi rimane che augurarvi: BUONA LETTURA
Genere: Commedia, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Un po' tutti
Note: Missing Moments, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'In her shoes'
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CAPITOLO 44: RAGAZZE DI IERI,
RAGAZZE DI OGGI
 

Quando si cerca di individuare una persona tra le decine di volti sconosciuti su cui si posa lo sguardo, si finisce inevitabilmente per confondersi, anche se solo per qualche attimo.
Erano venti minuti che il cuore di Sophia la tormentava con sussulti istantanei, che si affievolivano non appena realizzava che l’ennesima ragazza bionda e alta non era Ambra Daniels. A dispetto della memoria fotografica di cui si faceva tanto vanto, la sua sicurezza cominciava a vacillare, instillandole il dubbio di non aver riconosciuto la vera Ambra tra i passeggeri che stavano abbandonando l’aeroporto.
“non è che hai qualche problema di vista, Sophia?”
La rossa si voltò, con la stessa velocità con cui sentì scorrere la gioia nelle vene. Riconobbe all’istante la voce di cui aveva tanto ricercato il volto:
“Ambra!” esclamò, lanciandole le braccia al collo “ma da dove sbuchi?”.
L’amica le sorrideva impacciata, ancora troppo disabituata a quelle manifestazioni d’affetto, ma si abituò volentieri a quella morsa.
“non ho preso le scale mobili… comunque, non ha importanza” la liquidò, sistemandosi meglio la tracolla sulle spalle e attirando a sé la pesante valigia “allora? Pronta a farmi da guida per San Francisco?”
 
“ahi!” piagnucolò Armin ritirando di scatto la mano “smettila con quella bacchetta!”
“no, almeno finchè continuerai a sbagliare” lo zittì Rosalya, tamburellando contro il palmo una piccola asta di legno, che nell’ultima mezz’ora, era diventata l’incubo dell’amico.
“non vogliamo che tu faccia figuracce Armin” cercò di mediare il fratello, i cui tentativi di apparire solidale vennero interpretati dal moro come un pretesto per deriderlo ulteriormente “lo facciamo per il tuo bene”
“pestarmi a sangue sarebbe fare il mio bene?” piagnucolò il ragazzo, massaggiandosi il dorso della mano dolorante. Un piccolo eritema di forma allungata testimoniava il passaggio dell’arma letale brandita da Rosalya, che non esitò a riaffermare il suo ruolo di carnefice.
“non lamentarti!” lo redarguì, direzionandogli una bacchettata sul capo e strappandogli inevitabilmente l’ennesima protesta. Purtroppo per lo studente, anche quella rimase inascoltata dalla sua aguzzina.
“riproviamo” ricominciò quest’ultima, spazientendosi. Inspirò profondamente, dilatando le narici del naso sottile e ipotizzò: “Ambra ti presenta un noto industriale: come ti porgi a lui?”
Gli occhi di Armin la guardavano con sospetto o forse, nel tentativo di leggere in quelli della ragazza, la risposta corretta; pochi secondi prima gli era stata formula la stessa domanda e aveva scoperto che un colloquiale “piacere” non era ciò che la sua insegnante di galateo considerava una formula accettabile.
“lieto di fare la sua conoscenza?” indugiò, incurvandosi sulle spalle, come in un goffo tentativo di proteggersi. Il suo timore affievolì non appena vide Rosalya sorridere soddisfatta ma appena il moro abbassò la guardia, tirando un sospiro di sollievo, lei lo colpì con una piccola frustrata di bacchetta:
“ma Rosa, è giusto!” protestò Alexy, non potendo fare a meno di ridere della malasorte del gemello.
“sì, ma non doveva metterci quell’accezione interrogativa e soprattutto quell’espressione terrorizzata”
“sei tu che mi terrorizzi! Ha ragione Castiel quando ti definisce un Cerbero!” si arrabbiò Armin massaggiandosi il capo dolente. Sentendo nominare quell’appellativo con cui il rosso più frequentemente si riferiva a lei, gli occhi della ragazza divennero due fessure e un sorriso diabolico le allungò le labbra:
“vuoi che ti dia una dimostrazione di quanto possa esserlo realmente?”
L’espressione da pazzo omicida, mimica che solo suo fratello Lysandre riusciva ad emulare con altrettanta credibilità, fece sì che Armin ricacciasse giù un grumo di saliva rimastogli intrappolato in gola.
Il compiacimento di Rosalya divenne evidente e, vittoriosa per l’influenza che esercitava su Armin, proseguì:
“adesso passiamo al come si intrattiene una conversazione”
 
“sì, Natty mi ha detto che vi siete incontrati” la informò Ambra, leccando via la schiuma del cappuccino dal labbro. Le due ragazze si erano accomodate in uno dei locali preferiti di Sophia, con le pareti rivestite da carta da parati color crema e arredato in stile art deco.
“e non ti ha detto altro?” indagò l’amica, quasi con timore.
“no, cioè, mi ha detto che vi siete visti quando è arrivato qui e che vi siete rincontrati due settimane fa circa, in cui avete fatto una partita sulla spiaggia”
Sophia annuì, con un misto di sollievo e soddisfazione, che non sfuggì ad Ambra:
“doveva dirmi qualcos’altro?”
“n-no” le motivò la ragazza, affogando una patatina nel ketchup. Le scivolò dalle dita, guardandola affogare in quella pozza rossa e viscosa. Un po’ come era successo a lei, in quell’Oceano che tanto amava, se il ragazzo non fosse intervenuto. Erano passati giorni da quell’episodio ma Sophia non riusciva a levarselo dalla testa. Dopo che la folla attorno a loro aveva cominciato a scemare, Nathaniel si era alzato e aveva raccomandato a Space di prendersi cura di lei, senza aggiungere altro. In modo alquanto impacciato, lei aveva borbottato un grazie, ma non poteva dirsi certa che lui l’avesse colto. Le aveva rivolto un ultimo sorriso gentile e se ne era andato, mentre Space continuava a martellarla di domande e commenti apprensivi, che lei, involontariamente, quasi ignorava.
“ehi, mi hai sentito?” le chiese Ambra, destandola dai suoi pensieri.
“eh? Ah sì scusa, mi ero un attimo… spenta” mentì, quando invece la sua mente era attiva ma distratta da altre immagini.
“dicevo che domani è il compleanno di mio fratello, così venendo a trovare te ho preso due piccioni con una fava” la aggiornò Ambra, pazientando sul fatto che stava ripetendo per la seconda volta quella frase.
“andrai a trovarlo al campus?”
“sì, vuoi venire con me?”
Quella proposta mise in difficoltà l’amica: Sophia si grattò la guancia, a disagio. Probabilmente era a causa dell’incidente in mare che si sentiva così in imbarazzo all’idea di rivederlo, ma in quanto fratello di Ambra, non poteva concedersi di ignorarlo.
Accettò quindi l’invito e introdusse un nuovo argomento di conversazione, parlando della  persona che in quei giorni Sophia aveva sentito con più assiduità: sua sorella.
 
Erin fece rimbalzare la palla di gomma contro la parete, recuperandola al volo. La sfera volava instancabile dalla sua mano al muro, ripetendo quel noioso tragitto da ormai dieci minuti. La ragazza era distesa di trasverso sul letto, con le piante dei piedi appoggiati contro la parete.
“avresti dovuto esserci Iris! È stata una partita fantastica…” raccontò, spostando il telefono sull’altro orecchio, a lasciando a terra la pallina. Ariel rincorse l’oggetto, trotterellandole attorno eccitata, finché questo non si mosse più, perdendo ogni fittizia vitalità.
“sapessi noi che voglia avevamo di venire Erin! Ma c’era la scuola e poi giocavate un po’ lontano da Morrisotwn… però, sai cos’ha detto la preside no?”
“l’avrà detto solo spinta dall’euforia del momento” ridimensionò la cestista, guardando la gattina mentre allungava una zampetta verso la pallina.
“no, davvero. Tu non l’hai mai vista alle gare del liceo! Quella donna si trasforma, deve avere una doppia personalità o qualcosa del genere… oppure ha anche lei una gemella segreta” scherzò la rossa, strappando un risolino all’amica. L’indomani dell’incredibile vittoria che la squadra di basket del liceo, la voce della direttrice aveva fatto irruzione nelle aule, diffondendosi tramite gli altoparlanti. Dopo aver comunicato quale fosse stato l’esito della partita, la donna aveva annunciato che, se la squadra del liceo si fosse qualificata per la finale, il giorno della partita tutti le lezioni sarebbero state sospese.
“non so perché non sia venuta alla vostra partita, ma sta pur certa che prima o poi verrà” concluse Iris.
Erin osservò la foto scattata dopo la partita che era diventata il salvaschermo del suo smartphone. Trevor aveva un sorriso sguaiato e il braccio intorno al collo di Liam e l’altro attorno a quello di Dajan. Kim invece aveva un’espressione più composta, ma decisamente la più fiera di tutte. Steve aveva preso in braccio Erin, dopo che la ragazza di era lamentata di essere la più tappa del gruppo. Adorava quei ragazzi e proprio lei che non pensava di essere portata per lo sport di squadra, si era appassionata al basket.
“farà meglio a sbrigarsi, perché ogni partita potrebbe essere l’ultima” commentò cinica.
Iris chiuse il libro di fotografie che stava ammirando e mentre lo riponeva nella libreria, sbottò:
“come mai tutto questo pessimismo? Non eri tu quella che l’altro ieri, dopo la partita, diceva che avreste vinto perché vuoi andare da Castiel?”
“p-per andare a Berlino” la corresse l’amica, arrossendo.
“ehi, mica sono scema! Hai detto proprio Castiel!” ridacchiò la rossa, spostandosi verso la cucina. Trovò il fratellino intento a guardare la TV in salotto ma era talmente calamitato dai cartoni che non la degnò di uno sguardo.
“non mi sembrava di averlo detto” mormorò in preda all’imbarazzo la sua interlocutrice, richiamando l’attenzione della gattina. Ariel zampettò allegramente verso di lei, strofinando il musetto contro la mano che la padrona le aveva allungato. Era passato solo un mese e mezzo da quando Jason, quella sera, si era presentato a casa sua con quel batuffolo di pelo ma era bastato alla bestiola per crescere in fretta. Ad Erin bastava guardarla per ricordarsi di chi fosse il mittente, affogando i suoi pensieri nelle pupille nere della gattina.
“eddai, inutile che fai la finta tonta ora. Sono settimane che io e Rosa sappiamo che ti piace Castiel”
“hai ragione” sospirò Erin “è che è imbarazzante sentirselo dire” confessò, spingendo con un dito la pallina che aveva abbandonato sul pavimento. Ariel immediatamente si affrettò a rincorrerla, mentre Erin sorrideva divertita.
“se ti imbarazzi per questo, non oso immaginare quando tornerà e dovrai dirglielo”
A quelle parole, la mora si mordicchiò il labbro inferiore, tornando poi a sedersi in modo più composto sul letto. Fissò il cassetto della scrivania, quello che nelle ultime settimane era diventato il custode di uno degli oggetti a cui teneva di più in quella stanza. Non resistette alla tentazione di osservare, per l’ennesima volta, la foto di Castiel. Quasi la accarezzava, tale era la delicatezza con cui le sue mani la tenevano davanti alla vista.  
“non ci sarà niente da dirgli Iris. Te l’ho detto di Debrah, no?”
La rossa si strinse nelle spalle. Per giorni lei e Rosalya aveva insistito con l’amica affinché aprisse il suo cuore al ragazzo, ma per un motivo o per l’altro, Erin non dava loro retta; Debrah era la scusa più convincente che la ragazza riusciva ad avanzare durante quelle loro discussioni:
“senti Erin, te l’ho già detto: io questa qui non la conosco.. sì, ok, l’ho presente di persona, ma niente di più. Rosa invece l’ha conosciuta ed è convinta che lui non la ami più! E lei gli uomini li capisce meglio lei di io e te messe insieme”
“me l’ha fatto capire lui mesi fa… quante volte dovrò ripetervelo?” si spazientì Erin, incrinando la voce. Cercò di calmarsi, perché sapeva che Iris non intendeva metterla in difficoltà, ma ripetere sempre le sue giustificazioni cominciava a stancarla “lo so che lo dite per incoraggiarmi, ma devo guardare in faccia la realtà: per lui non sono altro che un’amica, tra l’altro neanche in quel campo mi considera granchè, visto che preferisce di gran lunga Nathaniel”
“però ti ha mandato un messaggio di incoraggiamento prima del torneo” tentò Iris.
“non sono stata l’unica a riceverlo, e poi mi sembra il minimo… o no? Era il capitano della squadra!”
“non ti arrabbiare” ridacchiò l’amica.
Erin sospirò e sorrise:
“hai ragione. Ariel vieni qui”
La gattina si voltò verso la ragazza e saltò sul letto. Iris ripensò a quell’animaletto che lei e i suoi amici avevano conosciuto giorni prima: non era affatto adorabile come sosteneva la sua padrona; la gattina era inavvicinabile e soffiava contro qualsiasi persona che non fosse Erin, zia della ragazza inclusa. La mora non riusciva a spiegarsi il perché di quel bizzarro comportamento, ma si accontentava del fatto che la bestiola fosse ubbidiente e coccolona con lei. In qualche modo, quell’esclusiva la lusingava e la faceva sentire speciale.
“a proposito di amici” esordì Erin, grattando sotto il mento beige dell’animale “come mai ieri tu e Kentin non vi parlavate in autobus?”
 
sessanta” contò mentalmente Kentin, tornando a distendere la schiena contro il pavimento. Il contatto freddo della superficie liscia del suolo fu quasi uno shock per il calore che si irradiava dalla sua pelle.
Fare addominali a ritmo serrato, controllando la respirazione, era uno dei pochi sistemi che aveva escogitato per non torturarsi al pensiero di quanto era accaduto il giorno prima.
Più sforzi faceva per impressionare positivamente Iris, e più otteneva l’effetto opposto.
In palestra quel sabato mattina c’era molta gente e un brusio tale che il moro non si accorse di una coppia di ragazze che, dai loro tapis roulant, lo spiavano ammirate, commentando il suo fisico modellato.
Era davvero convinto che il bonsai fosse così minuscolo solo perché non adeguatamente annaffiato.
Quando Iris si era accorta dell’inondazione a cui era stato sottoposto negli ultimi tre giorni il suo piccolo protetto, aveva perso la pazienza: ci aveva messo molta cura e impegno a farlo crescere ed era bastato l’intervento di Kentin a vanificare tutti i suoi sforzi; Jade non aveva perso occasione per punzecchiarlo e per sottolineare, per l’ennesima volta, quanto fosse inadatto per quel club.
Frustrato e demoralizzato, il moro aveva abbandonato la serra, evento che si verificava almeno due volte a settimana, ed era uscito al freddo a fumare. Era talmente di pessimo umore, che solo una persona poteva tirarlo su, quella tra tutti i suoi nuovi amici che più aveva la pazienza per ascoltarlo e consigliarlo:
 
“ehi Al, vieni fuori a fare un tiro?” aveva digitato velocemente sulla tastiera del telefono.
 
Poco dopo, imberrettato come un eschimese, aveva fatto la sua comparsa Alexy, sorridendo radioso. Sulla punta delle sue dita si intravedevano dei residui di colore a tempera verde e azzurro che si erano seccati:
 
“che hai combinato stavolta Kentin?” esordì allegro il ragazzo “hai demolito la serra?”
“fa meno lo spiritoso, che a buttarmi giù ci penso già io”
Alexy aveva ridacchiato e si era posato contro la parete.
“allora questa sigaretta?” gli chiese. In realtà il ragazzo non era abituato a fumare, ma nelle ultima settimane, pur di compiacere l’amico, era disposto a sacrificare una piccola parte della sua salute.
“eh, mi sono appena accorto che era l’ultima” borbottò Kentin in difficoltà, con il cilindro in bilico sulle labbra. Spesse volte si esprimeva con l’ingenuità puerile di un bambino ed era proprio la sua trasparenza ad aver tanto colpito il ragazzo. Anche a se volte, risultava un po’ irritante per la maggior parte delle persone. Alexy non sapeva se ridere o offendersi per la sbadataggine del moro, finchè non si trovò le dita dell’amico davanti al naso: tenevano salde la sigaretta, da cui si dipartiva un’elegante scia di fumo argentea
“toh, fatti un tiro”
Alexy arrossì, colto alla sprovvista ma Kentin non se ne accorse. Con le dita che gli tremavano un po’, inspirò del fumo e restituì al ragazzo la sua generosa offerta.
“stavo pensando di cambiare club, tu che dici?” gli spiegò il moro, scavando una piccola buca con la punta delle scarpe. Aveva borbottato quella frase con la sigaretta in bilico sulle labbra, masticandosi le parole. Alexy era abituato a quel modo di parlare perché anche Castiel aveva quell’abitudine, che invece Rosalya non sopportava.
“non ti ci vedi proprio in mezzo alle piante?”
“quelle le ho sempre odiate in realtà”
“allora perché sei ancora lì?” indagò Alexy guardando l’erba ghiacciata.
Se in quel momento Kentin non si fosse limitato a prestare attenzione solo al contenuto della domanda, ma anche al tono con cui l’amico l’aveva posta, avrebbe alzato gli occhi verso di lui, accorgendosi della tristezza che li rabbuiava. Quel genere di situazione non era estranea ad Alexy, ci era già passato altre volte in passato, ma temeva che con il moro sarebbe stato più difficile fingere indifferenza sentimentale. Kentin gli piaceva sempre di più, lo trovava un ragazzo intrigante, divertente e imbranato, aggettivi che nel complesso lo affascinavano incredibilmente.
“beh, non ci sono altri club” tentennò il moro, ripetendo una bugia che usava come giustificazione da più di un mese. L’amico si limitò a sospirare, indulgendo sulla chiusura dell’altro, consapevole che non avrebbe di certo ammesso cosa lo trattenesse davvero all’interno della serra del liceo. Il vento soffiava leggero ma gelido, arrossando le guance dei due, ma Kentin non ne era infastidito. Quanto ad Alexy, anche se odiava il freddo, avrebbe trascorso ore e ore in quelle condizioni, pur di chiacchierare con l’amico; erano circondati dal silenzio e dalla tranquillità, con il fumo del tabacco che si frammistava ai loro respiri, condensati in una nube di vapore.
“mi sento così sfigato” esalò Kentin all’improvviso, quando il perdurare del suo mutismo cominciava a mettere l’altro ascoltatore a disagio.
“è come se fossi rimasto il solito ragazzino impedito da compatire” si sfogò, schiacciando la sigaretta contro il suolo erboso e abbandonandola lì, gesto che Alexy non approvò.
“in che senso?”
Kentin si grattò il capo: da un lato si pentiva di essersi sbilanciato con un simile commento, dall’altro però sentiva il bisogno di confidare a qualcuno tutti i pensieri che gli arrovellavano la mente. Alle medie era troppo imbranato e considerato una nullità per essere avvicinato dai compagni, così si era rassegnato al ruolo di secchione emarginato. Da quando era entrato all’accademia, molte cose erano lentamente cambiate in lui ma non aveva mai avuto un vero amico con cui aprirsi e confidarsi: i suoi compagni erano troppo occupati a fare i duri, riflesso dei militari tutto d’un pezzo che volevano diventare, per concedersi di mostrare qualche forma di sensibilità. Per evitare di apparire debole, Kentin aveva finito con il tenersi tutto dentro, temendo che esternando le sue insicurezze e riflessioni, sarebbe apparso una mammoletta. Con Alexy era diverso: per qualche motivo che non riusciva a spiegarsi, il ragazzo gli aveva ispirato fiducia sin dal primo giorno di liceo, sentiva che poteva aprirsi a lui, senza il timore di essere giudicato. Anche Erin sarebbe stata una valida confidente, se non fosse stata così amica di Iris.
“alle medie ero un tappo occhialuto e sfigato. Hai presente il classico secchione che pensa solo a studiare, goffo e negato per lo sport? Le ragazze poi manco mi calcolavano, a meno che si trattasse di passare loro le soluzioni delle verifiche”
Alexy si trovò impreparato a quell’uscita e, indeciso su cosa dire, mormorò:
“è un po’…”
“patetico” concluse amaramente Kentin, chiedendosi se fosse il caso di ridere di  se stesso o affliggersi al ricordo di quella parte della sua adolescenza “mio padre poi, un ufficiale dell’esercito, non sopportava di avere un figlio rammollito e senza spina dorsale, così decise di farmi entrare all’accademia militare. Le mie proteste non furono certo convincenti anche se mi terrorizzava l’idea di andare là: uno come me l’avrebbero sbranato, visto che ero anche basso e mingherlino”
“quindi tuo padre pensava che così saresti diventato più… uomo?” sdrammatizzò sarcastico Alexy. Ripensò al proprio di genitore e ai goffi tentativi che aveva attuato, durante la sua infanzia, di appassionare lui e il fratello ad attività maschili: li aveva portati a pesca, a vedere partite di baseball e a caccia ma il risultato era stato alquanto deludente per il signor Evans: Armin, che già da bambino affermava la sua passione per i videogiochi, borbottava infastidito tutto il tempo, lamentandosi di una presunta “allergia alla natura” mentre Alexy aveva un’espressione annoiata. Non ci volle molto che la famiglia si accorgesse che i gusti del gemello più sensibile erano incompatibili con quelli del padre, tanto quanto le aspettative che nutriva l’uomo verso di lui. Mentre per Evelyn, la madre di Alexy, prendere atto dell’orientamento sessuale del figlio fu qualcosa di naturale, per il marito fu più difficile ma non per questo non lo amava; Alexy sapeva benissimo che a frenare il padre era la consapevolezza delle difficoltà che il figlio avrebbe incontrato nella vita per l’ottusità e la stupidità di alcune persone che, probabilmente, avrebbero incrociato la sua strada.
Kentin però non poteva immaginare il turbine di pensieri che vorticavano nella mente di Alexy, così continuò il proprio discorso, precisando gravemente:
“tu non sai cosa significhi essere ogni giorno al centro di prese in giro. Alle medie ero trattato come se non avessi sentimenti, come se, il fatto di essere sempre disponibile e gentile fosse una debolezza che autorizzava gli altri a farsi beffe di me”
Alexy sorrise smaliziato. Contrariamente a quanto pensava il suo amico, lui lo sapeva perfettamente cosa significasse essere ferito dal comportamento altrui, anche se per ragioni diverse da quelle con cui si era rapportato Kentin. Tuttavia non approfittò di quell’occasione per parlargli un po’ di sé: quel giorno lui era stato scelto come confidente e intendeva portare a termine il ruolo che gli era stato assegnato.
“l’importante è che quella fase si sia conclusa no? Adesso sei una persona diversa quindi non c’è ragione per cui tu debba farti angosciare pensando al passato, perché non si ripresenterà”
Il moro non rispose subito, ma poi si lasciò sfuggire un sorriso timido, lanciandogli un cenno d’intesa. Alexy allungò lo sguardo verso il mozzicone che ancora giaceva ai piedi del ragazzo il quale, come se gli avesse letto nel pensiero, si chinò a raccoglierlo per poi gettarlo nel cestino poco lontano da loro.  
 
Il suono computerizzato e scoppiettante di un videogioco destò Kentin dai suoi pensieri. Si voltò verso l’amico di cui aveva scordato l’esistenza:
“Armin!” lo rimproverò.
Il moro cercò di nascondere il cellulare dentro la tasca della tuta, ma il suo tentativo servì solo a rafforzare i sospetti di Kentin; anziché fare addominali a ritmo serrato, era beatamente disteso contro il pavimento e solo i muscoli delle sue dita, negli ultimi minuti, si erano attivamente impegnati in una qualche forma di attività fisica:
“gli addominali non ti verranno mica standotene disteso a giocare”
“ehi, non darti tante arie da personal trainer” borbottò il ragazzo, osservando con una punta di invidia le braccia toniche dell’ex studente dell’accademia. Appena Kentin aveva cominciato a fare lo stesso esercizio che avrebbe dovuto fare lui, si era scoraggiato: il tempo di sollevare il busto, inspirare, distenderlo, espirare e tornare su, il compagno aveva già realizzato cinque piegamenti. Amareggiato per la sua scarsa performance, Armin aveva preferito ripiegare sull’attività in cui era infallibile e si era intrattenuto con essa fintanto che l’amico era distratto:
“sei stato tu a chiedermi di darti una mano con gli allenamenti” si difese Kentin.
“in realtà è stata Rosalya ad obbligarmi a venire qui” precisò il ragazzo, rabbrividendo al pensiero della mattinata infernale che aveva trascorso con la ragazza.
“e tu ti fai comandare così?” lo schernì l’altro, alzandosi per recuperare un sorso d’acqua. Le due ragazze che da quando l’avevano adocchiato, non avevano smesso di staccargli gli occhi di dosso, assaporarono l’immagine di Kentin mentre allungava il collo verso l’alto, sorseggiando la bevanda fresca.
“ci sono due cose di cui un uomo deve aver paura” replicò Armin con gravità, portandosi anch’egli in pozione eretta, mentre l’amico lo ascoltava con attenzione “la prima” continuò, alzando l’indice “è la morte”
“e la seconda?” lo incalzò l’altro, divertito.
“Rosalya White”
Kentin scuotè il capo ridendo e, non lasciandosi abbindolare dalle distrazioni del moro, lo esortò a spostarsi su uno degli attrezzi per potenziare i bicipiti.
 
L’indomani, Erin si presentò davanti al liceo alle otto in punto. Il pullman prenotato da Boris era già pronto e lei non vedeva l’ora di salirci. Avrebbero giocato la seconda partita a Detroit, a più di otto ore da Morristown. Gli organizzatori dell’evento avevano optato per un metodo di selezione delle partite che era stato alquanto discusso tra i partecipanti, dal momento che non si era operato il classico sorteggio. Per questioni di budget e praticabilità, avevano cercato di accorpare le scuole più vicine, almeno nelle prime eliminatorie. Le dieci squadre che avevano superato la prima manche venivano da ogni angolo del paese, ma soprattutto dagli stati orientali.
Avrebbero dormito una notte fuori, in modo da essere freschi per la partita dell’indomani. Si vociferava che la preside sarebbe stata presente, ma dalla diretta interessata non era giunta alcuna voce di conferma. Boris sosteneva che, per quanto la donna fremesse dal desiderio di essere parte del pubblico, i suoi doveri di direttrice dovevano essere anteposti e non riusciva a delegare al vicepreside le responsabilità che le spettavano, anche se si trattava di un giorno solo.
“dobbiamo arrivare in finale ragazzi, solo così riusciremo a stanare quella donna dal suo ufficio” aveva scherzato l’allenatore.
Per quanto Erin fosse curiosa di vederla nei panni della tifosa sfegata, quel pretesto per vincere, impallidiva a confronto di quello che animava la sua determinazione. Aveva deciso di non scrivere a Castiel, al limitegli avrebbe risposto, qualora si fosse degnato di farsi vivo. La sua decisione non era motivata dall’amarezza per il perpetuarsi del silenzio del ragazzo, ma dalla convinzione che la crescente nostalgia avrebbe fomentato la sua voglia di vincere. Più di una volta aveva esitato sulla tastiera del pc, torturandosi dalla tentazione di scrivergli una mail piccina, ma poi aveva preso la meglio la sua forza di volontà.
“più ti mancherà” ripeteva a se stessa “e più ti impegnerai nelle partite”
 
Sophia tamburellò la matita sul foglio di carta, sospirando frustrata.
Era stata una pessima idea pensare ad un disegno come regalo di compleanno per Nathaniel, ma se ne era resa conto troppo tardi. Quel pomeriggio i negozi erano tutti chiusi, a causa di un’ordinanza comunale e non c’era possibilità per fare marcia indietro. Durante la colazione, Ambra l’aveva rassicurata, dicendole che poteva presentarsi a mani vuote, del resto l’aveva avvertita all’ultimo, ma Sophia non se la sentiva di assecondare quell’esortazione.
“cosa piace a tuo fratello?” indagò, reclinando la testa, verso il divano su cui l’amica era intenta a leggere un libro:
“i gatti”
“gli disegno un gatto?” chiese la rossa, insicura.
Ambra le sorrise, confermandole che qualsiasi proposta era valida. L’amica controllò l’ora e calcolò che aveva esattamente quattro ore prima di uscire. Corse a prendere il set di acquarelli che aveva ricevuto dopo l’operazione e, chiudendosi nel più completo isolamento artistico, lasciò che le setole del pennello scivolassero leggiadre sul foglio, aspettando che fosse il suo inconscio a suggerirle il tema da rappresentare.
 
“secondo me quel disegno è bellissimo” si complimentava Ambra, mentre attraversavano la via ciottolosa del campus.
“a me sembra solo confuso”
“affatto. Si capisce perfettamente che è un mare in tempesta, con la spuma bianca e i riflessi quasi argentei… a proposito, quelli li hai fatti a tempera?”
“a olio. Mi serviva un bianco più intenso da quello lasciato dal fondo del foglio”
Mentre era all’opera, la sua mente si era svuotata e aveva pensato unicamente agli eventi che, negli ultimi mesi, la tormentavano, impedendole di concentrarsi su qualcosa di diverso. Sentiva che non poteva restare in California ancora a lungo e che prima o poi avrebbe dovuto accettare l’idea che la sua ricerca si concludesse con un insuccesso.
“tu non conosci nessuno di quelli che ci saranno stasera?” indagò, per non lasciarsi rabbuiare dalle sue stesse riflessioni.
“Natty mi ha detto che la sua ex, Rachel, verrà a trovarlo. Sono rimasti in ottimi rapporti e poi lei frequenta l’università a San Jose, quindi ha approfittato del fatto che lui fosse in zona per rivederlo”
“è da tanto che si sono lasciati?”
“eh un bel po’, lei è stata la sua prima ragazza. Mi piaceva molto, si vedeva che era più grande di lui di due anni… una tipa in gamba”
“e come mai si sono lasciati?”
“ah, questo non lo so… te l’ho sempre detto che io e lui non ci parlavamo granché. È negli ultimi tempi che stiamo cercando di recuperare il nostro rapporto”
Mentre attraversavano indisturbate il giardino, molti studenti fissavano con un certo interesse Ambra, ma la ragazza sembrò non curarsene. Fino a pochi mesi prima quel genere di attenzioni l’avrebbero lusingata e inorgoglita, ma non era più quella persona.
 
Arrivarono davanti alla caffetteria del campus che era ora di cena, e si guardarono attorno, cercando di individuare l’unica faccia che potesse essere loro familiare.
Sophia lo vide per prima, in mezzo a un gruppo di studenti con cui stava chiacchierando. In quel mentre, anche Nathaniel si accorse delle due e, dopo aver detto qualcosa agli amici, li invitò a seguirlo.
“è da molto che aspettate?” parlò per primo il biondo.
“siamo appena arrivate” lo tranquillizzò la sorella.
Nathaniel spostò lo sguardo su Sophia che si limitò ad un cenno di silenzioso assenso, lasciandolo alquanto disorientato per la sua remissività. Accanto ad Ambra, la rossa sembrava quasi un agnellino, mansueta e docile, tanto che a stento riconosceva la ragazza che si era divertita a punzecchiarlo ogni volta che l’aveva visto.
“vi presento un po’ di gente” esordì, nominando uno ad uno i suoi amici. La sorella rimase alquanto sorpresa dal folto gruppo di persone davanti a sé: anche se suo fratello era una persona socievole, non si era mai circondato di amici da quelli che avevano rappresentato il suo gruppo storico del liceo. Vederlo andare così d’accordo ed essere così a suo agio anche tra quei ragazzi sconosciuti, le fece immensamente piacere cercò di dimostrarsi altrettanto affabile, o per lo meno quanto le consentisse il suo carattere. Sophia invece era assorta nei suoi pensieri e fingeva di ascoltare le conversazioni in cui, per sua fortuna, nessuno chiedeva il suo diretto intervento.
Nathaniel aveva un sorriso carismatico, per nulla lezioso o affettato. Aveva un cappotto invernale della Slam, color marron scuro che metteva ancora più in risalto i capelli biondo grano. Non si era stupita quando l’amica le aveva riferito che la sua prima ragazza fosse più grande di lui: sia nell’aspetto che nel comportamento, il ragazzo aveva qualcosa che lo faceva apparire molto più maturo della sua età.
“comunque, tanti auguri” disse Ambra d’un tratto, ricordando a Sophia che non gli aveva ancora rivolto la frase di rito. Infatti il neo diciannovenne si voltò istintivamente verso la rossa che, spaesata da quella situazione, rimase indecisa sul come approcciarsi. Per non metterla a disagio, il ragazzo distolse lo sguardo ma a quel punto, Sophia cercò di rimediare allungandogli goffamente la mano:
“eh già, auguri”
Nathaniel si limitò a sorriderle, annuendo leggermente mentre un suo amico, Tunner, attirò l’attenzione con una battuta. Dopo dieci minuti passati a chiacchierare, il gruppo si spostò nel locale in cui intendevano passare la serata: erano previste circa una quindicina di persone in tutto, cifra che aumentò la piacevole perplessità della sorella: in quei quarantacinque giorni di lontananza da villa Daniels, Nathaniel era rinato.
 
Ambra e Sophia salirono in macchina con il festeggiato e con il ragazzo che aveva la stanza accanto alla sua, Phil. Mentre i due chiacchieravano per conto loro, la bionda sussurrò all’amica:
“Sophia, tutto ok?”
La ragazza sollevò lo sguardo, fissando Ambra come se le avesse appena posto una domanda insensata.
“s-sì” mentì “è che quanto vedo tante facce nuove in un colpo solo sono sempre un po’ disorientata”
L’amica annuì comprensiva e tornò a rivolgere la sua attenzione all’affermazione che aveva avanzato il fratello in quel momento:
“quindi Rachel ci raggiunge direttamente al locale?” domandò, per intromettersi nella conversazione.
“già, dice che ha grosse novità da raccontarmi”
La sorella assimilò quel dato, analizzandolo con la scrupolosità di un elaboratore informatico e considerò:
“non è che è incinta?”
Nathaniel ridacchiò, colto alla sprovvista da quell’ipotesi:
“non sarebbe da lei. Rach ha sempre avuto grandi obiettivi nella vita e un figlio a ventun anni non rientra di certo tra quelli”
“potrebbe essersi trattato di un… incidente” ragionò Ambra.
“si vede che non la conosci quanto io”
Nel pronunciare quella frase, il fratello si era voltato verso le due ragazze, lanciando alla bionda un’occhiata carica di intesa e di quel fascino che si confaceva più ad un modello che ad uno studente quasi ventenne.
Il quel sorriso sghembo, nel luccichio dei suoi occhi, Sophia lesse quanta complicità c’era stata, e forse c’era ancora, tra il biondo e la sua ex… e quella consapevolezza, le fece provare una sensazione strana, che non riusciva a definire.
“Sophia, non ti conviene dare subito a Nathaniel il suo regalo? Così poi può lasciarlo in macchina” ragionò Ambra. La rossa tentennò poiché si sentiva ancora troppo stranita per fargli vedere il suo operato. Borbottò una scusa sul fatto che gliel’avrebbe mostrato al termine della serata, prima di essere riaccompagnata a casa e, nonostante le proteste di Ambra, Nathaniel rispetto la sua decisione.
 
Il locale era pieno di gente, e appena cominciarono ad arrivare anche il resto degli amici per festeggiare, il frastuono aumentò. Di sottofondo veniva diffusa una musica rock dalle cadenze metal, che rendevano ancora più chiassoso l’ambiente. Alcune della ragazze del gruppo presero in simpatia Ambra, monopolizzando la sua compagnia. La ragazza cercava di inserire Sophia nelle conversazioni ma l’amica non le rendeva facile l’impresa: si limitava a rispondere con poche parole alle domande che le venivano rivolte e non si intratteneva con nessuno.
Dopo mezz’ora dal loro arrivo, tutti si voltarono incuriositi verso l’entrata del locale.
Quelle reazioni sincrone furono un pretesto per destare l’attenzione della rossa che vide Nathaniel farsi strada tra i suoi amici.
Davanti alla porta, intenta a sistemarsi l’acconciatura, sostava una ragazza bellissima, dai lunghi capelli castano ramato, raccolti alla spalla da un elegante chignon spettinato. Due fori neri al posto degli occhi calamitavano l’attenzione su di essi, complice anche la maestria con cui erano state truccate le palpebre.
“Rach!” la salutò Nathaniel, anche se chiunque aveva già capito di chi si trattasse. Il biondo l’aveva accolta sorridendo, divaricando le braccia in cui Rachel non aveva esitato a tuffarsi, stringendolo con affetto:
“tanti auguri Nate, ti trovo bene” gli sussurrò, sciogliendosi dalla stretta.
Il ragazzo fece spallucce e scambiò qualche battuta con la ragazza che non vedeva da quasi due anni. Dopo la rottura, erano passati tre mesi senza sentirsi, finchè entrambi non avevano trovato un’altra persona al loro fianco; per Nathaniel si era trattato di Melody anche se la storia era durata appena trenta giorni.
Dimentico della presenza del resto dei suoi amici, il ragazzo continuò a tempestarla di domande e lei non fu da meno, finché non intervenne la sorella, seguita da il resto della ciurma:
“Ambra!” si sorprese Rachel. Quando stava con il fratello della ragazza, interagiva poco con quest’ultima, ma non le stava antipatica, nonostante la brutta reputazione che aveva al liceo.
“come stai?” le chiese la bionda, intuendo la celata perplessità della nuova arrivata.
Rachel si limitò ad un sorriso stanco, che solo la sua interlocutrice riuscì a cogliere: sul volto di Ambra si disegnò una piccola voragine e, per quasi tutta la sera, fissò sospettosa la ragazza davanti a lei.
 
La serata trascorse in allegria: gli amici di Nathaniel erano socievoli e alla mano, così per Ambra e Rachel non fu difficile integrarsi; quest’ultima si abituò presto alla nuova personalità della ragazza, tanto che fu una delle persone con cui chiacchierò di più.
Dal canto suo Sophia, non riusciva a scacciare una sorta di apatia che l’avrebbe resa irriconoscibile persino a sua sorella Erin. Masticava appena qualche parola, nelle conversazioni si faceva da parte, al punto che spesso e non volentieri, qualcuno finiva per mettersi davanti a lei, dimenticandosi della sua esistenza.
Ambra non sapeva più come comportarsi, così decise di prenderla da parte, utilizzando il pretesto di uscire a fumare. La sua idea sembrò funzionare, poiché l’aria invernale risvegliò la rossa dal suo torpore, mentre l’amica si accendeva una sigaretta:
“se non ti va di stare qui possiamo anche andare a casa, sai? Non voglio che ti annoi, sono venuta in California per stare con te”  le disse, guardandola preoccupata.
Sophia le sorrise con gratitudine, commossa dalla gentilezza dell’amica, qualità di cui si guardava bene dal dare eccessivo sfoggio.
“no, no” la freddò, accendendosi anch’essa una Marlboro “sono solo un po’ frastornata. Forse stare un po’ qui al freddo mi farà stare meglio. Tu torna pure dentro, io vi raggiungo tra un po’”
Ambra invece si intrattenne all’esterno con l’amica ma, appena il tabacco venne esaurito, Sophia la esortò nuovamente a lasciarla in solitudine, riuscendo a convincerla.
 
La ragazza si allontanò di qualche passo dall’entrata del locale, trovando una panchina dove sedersi. Lo schiamazzo delle voci era lontano e arrivava ovattato alle sue orecchie.
Non era solo quella sera, in generale era da parecchi giorni che si sentiva nervosa ed a tratti assente: all’inizio aveva pensato fosse per una sorta di sindrome pre mestruale ma il perdurarsi di quella situazione anche dopo il ciclo le aveva fatto scartare quell’ipotesi; non riusciva a non pensare al motivo che la tratteneva in California, che sembrava non venire mai meno, eppure non poteva restare lì per sempre. Aveva un lavoro per mantenersi, ma i soldi bastavano appena e quella situazione di stallo le pesava sempre di più. Inoltre, da quando aveva avuto quell’incidente con Nathaniel, si sentiva strana, irascibile e non capiva perché. A quel punto voleva conoscere meglio il fratello della sua cara amica e capire cosa sua sorella Erin ci avesse visto in lui al punto da sceglierlo come suo primo ragazzo. Nathaniel sembrava aveva una sorte di luce all’esterno che accecava gli altri, in modo che non si accorgessero dell’oscurità dentro di lui. Sophia conosceva la situazione della famiglia Daniels, Ambra gliene aveva parlato a lungo in passato ma, diversamente dalla sorella, il biondo sembrava voler fingere che non gli avesse lasciato cicatrici.
“disturbo?”
Sophia alzò lo sguardo e vide l’unica ragazza che, dopo Ambra, aveva compiuto numerosi tentativi per farla inserire nel giro.
“prego” mormorò, scostandosi leggermente per fare spazio a Rachel.
“grazie” squittì l’altra, sedendosi composta. Sophia notò subito il contrasto tra di loro, sciogliendo prontamente le gambe che aveva incrociato sopra la panchina. La grazia non era mai stata la sua qualità più distintiva ed era una delle tante caratteristiche che la differenziavano da Erin.
La mora nel frattempo sollevò il mento verso le stelle, che risplendevano nel manto nero della notte di un cielo senza nuvole:
“le stelle questa sera sono meravigliose”
“già” convenne Sophia.
“quindi mi pare di aver capito che vivi qui” incalzò Rachel, cercando di avviare per l’ennesima volta una conversazione.
“sì, ma sono di Allentown”
“ah, ma allora vivi vicino a Morristown, dove vivevo fino a due anni fa”
“eri al liceo con Nathaniel?”
“già, è lì che ci siamo conosciuti” la informò Rachel, lasciando che un sorriso nostalgico enfatizzasse la vivacità dei suoi occhi. Ripensava sempre con affetto al suo periodo da liceale, alla meravigliosa classe che aveva, alle lezioni di scienze di Miss Joplin, ma soprattutto, alla sua storia con Nathaniel.
“è stato amore a prima vista?”
Rachel si sorprese per quell’interesse ma, del resto, era l’incipit dello scambio di battute più lungo che fosse riuscita ad ottenere da quella ragazza, così decise di assecondare la sua curiosità. In fondo, l’aver rivisto Nathaniel di persona, le aveva fatto tornare a galla dei teneri ricordi e sentiva il bisogno di condividerli con qualcuno:
“direi di no, è stata una cosa molto graduale. Lui a quei tempi era un ragazzo di terza superiore, mentre io ero in quinta. Ero la segretaria delegata del liceo e per questo avevo avuto a che fare con lui in un paio di occasioni”
“come mai?” si incuriosì Sophia.
“per via di un suo amico, che si cacciava sempre nei guai”
“Castiel?”
“lo conosci?” si stupì Rachel.
“solo di nome” ammise la ragazza, ripensando alle confidenze che le aveva fatto la sorella. Mentre Erin si era aperta con lei e l’aveva aggiornata su tantissime cose che le erano accadute dopo la loro separazione, la gemella non era stata altrettanto loquace.
“comunque sì, lui. Castiel si cacciava continuamente nei guai e in quanto segretaria e rappresentante degli studenti, in certe circostanze dovevo fare da intermediaria tra lui e la preside. Ma a lui non gliene importava niente delle note o delle sospensioni; in alcuni casi, si faceva sbattere volentieri fuori dall’aula per andare a fumare in qualche angolo del cortile. Nathaniel allora veniva da me e, con l’abilità di un avvocato, mi tirava fuori un sacco di attenuanti, che alla fine mi ritrovavo a giustificare Castiel davanti alla preside. Non ho mai capito come facessero andare così d’accordo quei due, avrebbero dovuto essere come il diavolo e l’acqua santa”
“mi chiedo come facesse a convincerti, visto la debolezza della causa che perorava”
“tu non hai idea di quanto sia furbo quel ragazzo: ha quel viso da angioletto, ma una mente molto attenta a intelligente e sa portarti dove vuole lui; Castiel invece, sembra arcigno e indisponente, ma in fondo, molto in fondo” puntualizzò Rachel ridacchiando “ha un cuore d’oro. Quando dico che erano come il diavolo e l’acqua santa, non sono certa di chi sia chi”
Quelle parole sorpresero Sophia, che si chiese quanto potesse essersi sbagliata sul conto del biondo. Quanto a Castiel, anche sua sorella le aveva raccontato che il ragazzo aveva dei momenti di generosità, dei flash in cui affiorava, quasi con timidezza, una natura più premurosa e gentile. La rossa aveva finto di non notare come lo sguardo della gemella si addolciva ogni volta che parlava dell’amico, poiché sapeva di non avere nessun diritto per intromettersi nella sua vita, almeno finché lei non le avrebbe concesso di farlo nella propria.
“Nate è sempre stato così. Credo che sia per questo che lui e Castiel andassero così d’accordo, perché l’uno non aveva misteri per l’altro. Sono praticamente cresciuti insieme. È qualcosa che solo dei fratelli con un rapporto molto stretto possono capire… e per me che sono figlia unica, resteranno sempre un mistero”
Rachel parlava con grande affetto del suo ex, al punto che in Sophia cominciò ad annidarsi un sospetto. Scacciò l’idea, ma fu la ragazza a leggerle nel pensiero, rispondendo alla domanda non esternata:
“oggi che l’ho rivisto, ho provato una sorta di nodo allo stomaco. A volte mi chiedo se lasciarlo sia stata la scelta giusta”
“sei stata tu a lasciarlo?”
Rachel alzò le spalle, come se la sua scelta fosse stata una conseguenza ineluttabile di una situazione su cui non aveva alcun potere.
“c’era un’altra ragazza…” esalò infine, rassegnatasi ad ammettere una verità che l’aveva fatta soffrire. Sophia aggrottò le sopracciglia, mentre la mora proseguì:
“me ne resi conto quando ormai ero persa per lui e stavamo insieme da cinque mesi. Tuttavia, sono sicura di non essere mai stata un ripiego per lui, un tentativo di dimenticarla. Penso che fosse davvero convinto di esserle solo amico, infatti sono stata io ad accorgermi per prima che come guardava Rosalya, non guardava nessun’altra… nemmeno me”
Il nome di una delle migliori amiche della sorella, fecero trasalire Sophia. Aveva sentito più volte Erin nominare la sua cara amica Rosalya e non poteva essere un caso, data la particolarità del nome. Le era stata descritta come una ragazza bellissima, a detta della gemella, la più bella che avesse mai conosciuto. Rosalya incarnava ogni ideale di grazia e femminilità, oltre ad essere dotata di un carattere molto forte e volitivo.
“dopo di me, Nathaniel ha avuto un’altra storia, ma è finita per lo stesso motivo che ci aveva portati alla rottura, solo che a quel punto è stato lui a troncare il rapporto: Nathaniel ha sempre amato Rosalya e amerà sempre e solo lei” concluse amaramente Rachel.
Sophia deglutì a disagio, non sapendo come replicare a quell’affermazione.
La mora teneva le labbra serrate e non dava segni di voler aggiungere altro. Dopo aver saputo della presenza del biondo a pochi chilometri da lei, non aveva resistito alla voglia di rivederlo, di riabbracciare quel ragazzo di cui si era innamorata così tanto. Voleva guardarlo negli occhi e, in modo quasi masochista, scoprire se riuscivano a suscitare ancora qualcosa in lei; non aveva previsto però che incontrare Nathaniel l’avrebbe tanto destabilizzata. Lui era cambiato e, finalmente, seduta su quella panchina, lontana da lui, Rachel capì in cosa fosse diverso: non percepiva più quel muro invisibile, quella patina impercettibile di distacco e freddezza ereditata dalla sua famiglia. Nathaniel aveva abbandonato ogni difesa, aveva imparato ad aprirsi anche ad altri ragazzi, rinunciando al ruolo di ragazzo impeccabile e posato; sorrideva spontaneo e riusciva a ribattere in modo che un tempo solo con Castiel riusciva a fare. Il vero Nathaniel a cui tanto il rosso era legato, non era più una sua esclusiva, ma era finalmente uscito anche a tutto il resto del mondo. Non era più il primogenito dell’industria informatica Daniels della costa orientale, era semplicemente uno studente dell’ultimo anno di liceo, spensierato e allegro.
“almeno, per quello che mi ha detto, lui e Rosalya si sono finalmente dichiarati” sospirò infine Rachel.
“quindi stanno insieme?”
“no” puntualizzò l’altra “in effetti è strano, ma è successo pochi minuti prima che lui venisse qui e non gli sembrava il caso di ufficializzare la cosa in fretta e furia; ne parleranno con calma quando tornerà a Morristown; inoltre Rosalya usciva da poco da una storia durata più di un anno e aveva qualche scrupolo verso il suo ex”
Le pause silenziose di Rachel cominciavano a protrarsi sempre più, accrescendosi di pari passo all’amarezza e al rimpianto. La sua interlocutrice non sapeva come comportarsi, come e se consolarla: non era mai stata brava in quel genere di situazioni; era Erin quella che riusciva, con la sua dolcezza, a lenire le ferite altrui, sussurrando le parole più adatte. Lei invece, se non poteva usare il sarcasmo o l’ironia come arma, era incapace di tirare sul il morale agli altri. Mentre rimuginava tra sé e sé, l’altra ragazza si alzò, sgranchendosi le gambe:
“sarà meglio che me ne torni a casa. Più resto qui, e peggio sto. Rivederlo mi fa più male che bene. Non era così che immaginavo il mio futuro”
“ma sei ancora giovane!” tentò Sophia “sono sicura che troverai altri ragazzi e poi hai tutta una vita davanti per realizzare i tuoi sogni. Concentrati su di essi”
La mora abbassò il capo e la guardò di sottecchi, sorridendo rassegnata, come se avesse accanto a sé una bambina troppo ingenua per capire:
“sono incinta”
Le labbra di Sophia si dischiusero per lo stupore.
Quando Ambra aveva avanzato quell’ipotesi, Nathaniel aveva liquidato la questione sostenendo che non sarebbe stato da Rachel: un bambino alla sua età avrebbe compromesso tutti i suoi progetti per il futuro, o per lo meno, ne avrebbe ritardato la realizzazione e ciò era imperdonabile per la ragazza.
“però ho deciso che non glielo dirò. Ero arrivata qui convinta che sarei riuscita a guardarlo in faccia, dimostrare a me stessa che appartiene al passato e che è diventato solo una persona che ricordo con affetto. Invece non riesco a non pensare che, se non fosse stato per Rosalya, io e lui staremo ancora insieme. Con lui non mi sarebbe mai successo…questo” sospirò, indicando un ventre ancora piatto “invece mi sono messa con un perdigiorno… uno che, giorno dopo giorno, disprezzo sempre più perché è così diverso da lui”
La rossa era sempre più disorientata. Aveva la gola secca e mille pensieri in testa.
“non dirgli nulla” esclamò Rachel, guardandola con intensità “non voglio la sua pietà. Voglio che continui a pensare a me come ad una ragazza coscienziosa e rigorosa” concluse infine.
Dall’altra parte le arrivò solo un tacito cenno d’assenso; non era con quello scopo che si era avvicinata a Sophia, la sua iniziale intenzione era quella di provare a farla sentire meno sola e isolata. Invece aveva finito per sfogare tutta l’amarezza che, davanti a Nathaniel, aveva cercato di celare.
Prima di andarsene, le sorrise debolmente:
“grazie, mi ha fatto bene parlare con te”
“quindi, che progetti hai per il bambino?” la trattenne Sophia.
“lo crescerò da sola, non butterò via una vita per un mio errore. Non è che io sia contro l’aborto o l’adozione, ma non fanno per me. Questo bambino è una mia responsabilità e, anche se sarà difficile, farò del mio meglio perché cresca bene. Suo padre del resto non vuole saperne di lui e, chi lo sa, come dici tu, magari un giorno troverò anche io la persona giusta… perché a quanto pare non è destino che sia Nathaniel”
Rachel si voltò, lasciando intendere a Sophia che intendeva congedarsi definitivamente. Prima di lasciarala andare però, la ragazza la chiamò:
“Rachel…” e indugiò, aspettando che l’altra tornasse a fissarla “sono sicura che sarai un’ottima mamma”
La mora incurvò le spalle e le restituì l’ultimo sorriso, che, almeno così piacque pensare a Sophia, mostrava per la prima volta, un po’ di speranza per il futuro.
 
La squadra arrivò all’alloggio all’ora di cena; i ragazzi protestavano per la fame, dopo tutte le ore trascorse in corriera. Vennero fatti accomodare attorno ad un’enorme tavolata, preparata appositamente per loro nella sala da pranzo dell’ostello. C’erano anche altri clienti presenti, ai quali era già stata servita la cena e i ragazzi fissavano i piatti altrui con la bava alla bocca.
Appena si trovarono davanti al naso un’abbondante porzione di patate e tacchino, cominciarono a sbranarla, lasciando alquanto interdette le uniche due ragazze del gruppo:
fuello non lo manfi?” biascicò Dajan a bocca piena, indicando il contenuto del piatto di Kim, che non si svuotava alla stessa velocità del suo. La ragazza era rimasta troppo sconvolta dai modi del ragazzo, normalmente misurati e educati, per ricordarsi che doveva nutrirsi. Si chiese se quella domanda le fosse stata rivolta per interesse personale o per cogliere l’occasione per scroccare una seconda porzione di tacchino.
“Dajan, mangi come un maiale!” lo rimproverò Boris, dando una violenta pacca sulla spalla al ragazzo, che aveva appena ingoiato vistosamente un pezzo di carne.
“è il tacchino più buono che abbia mai assaggiato” si giustificò il capitano e notando che a parte Erin e Kim, anche il resto della squadra aveva praticamente leccato il proprio piatto. L’ex velocista in particolare, continuava a fissarlo esterrefatta, tanto che a quel punto anche il distratto playmaker se ne accorse. Quello sguardo trasparente, puntato su di lui lo mise a disagio ma non sapeva come far sì che lei lo distogliesse.
Più volte si era ripetuto che quella situazione non poteva durare, che doveva dirle cioè che provava per lei, ne andava anche della sua performance agonistica dal momento che sempre più spesso pensare a lei lo deconcentrava durante gli allenamenti. La notte, quando era disteso sul letto in attesa di addormentarsi, era sempre Kim l’ultimo pensiero della giornata, come se fosse un buon augurio per un riposo sereno. Fantasticava su cosa avrebbe rappresentato addormentarsi con lei accanto e, quando i suoi pensieri non erano così casti, si spingeva a chiedersi come sarebbe stato avere un rapporto più intimo con la ragazza, loro due sotto le lenzuola.
“allora sei fortunato amico” gli bisbigliò Trevor “con gli uccelli Kim se la cava alla grande”
Dajan equivocò il senso di quella frase, distratto dalla piega che avevano preso le sue riflessioni: si voltò di scatto verso Trevor e, in preda all’imbarazzo più totale, lo apostrofò:
“MA CHE CAZZO DICI IDIOTA! Ti sembra il caso di dire simili oscenità?”
Trevor sbattè le palpebre visibilmente perplesso, mentre tutto il resto dei presenti, che non aveva udito la presunta provocazione dell’ala grande, fissava curiosa il loro capitano.
“non mi sembra una cosa oscena” ribattè Trevor, sempre più confuso e scrutando il rossore che, nonostante la carnagione scura, aveva imporporato il viso del playmaker “che cazzo hai capito?”
Dajan allora lo fissò incerto, notando che non c’era alcuna malizia nello sguardo dell’amico. Gettò fugacemente lo sguardo sui residui della sua cena, ricordando quale fosse l’argomento della conversazione e, avvampando ancora di più, realizzò che si trattava di tutt’altro genere di uccelli.  
Anche l’amico intuì il doppio senso che era scaturito dalla sua osservazione, e sorridendo beota, lo punzecchiò sottovoce:
Dajanino porcellino!”
Il pugno che ricevette di lato gli strappò un lamento di dolore, mentre tutti gli altri continuavano a non capire cosa si fossero detti i due per scatenare una simile reazione da parte di uno dei membri più misurati della squadra.
 
“in gita a ottobre con chi eri in stanza?” chiese Erin, infilandosi il pigiama bianco con una buffa fantasia a macchie nere. Quella notte avrebbe condiviso la stanza con Kim, che in quel momento aveva appena rinunciato a guardare video da YouTube. Infastidita dalla scarsità del segnale wi-fi, la mora aveva chiuso il tablet e si era rifugiata sotto le coperte:
“in teoria con Kelly, ma poi ha dormito dal suo ragazzo che sta in 5^ C”
“ah, quindi hai passato tutta la gita in camera da sola?”
Kim scrollò le spalle, mentre Erin spegneva la luce della stanza e accendeva quella del comodino.
“se non l’hai notato, non sono una che ha bisogno di tanta compagnia”
Erin ridacchiò e ammise:
“questo l’ho capito sin dal primo giorno di liceo. A proposito… posso essere sincera? Ho pensato che fossi una stronza colossale”
Kim anziché offendersi, scoppiò a ridere di gusto; ricordava perfettamente la prima volta che si erano parlate:
“diciamo che l’inizio dell’anno non è stato dei migliori. Mi hai semplicemente conosciuta nel momento sbagliato”
“è vero, avevi l’interrogazione di scienze” considerò Erin, affidandosi alla sua incredibile memoria.
“non è per quello” le spiegò Kim, sorridendo paziente.
“allora perché?”
La ragazza non replicò. Avrebbe dovuto confessarle di Dajan, del fatto che, dopo essersi innamorata di lui la primavera precedente, erano tornati a scuola e lui si era dimenticato come di lei. Era rimasta molto ferita da quell’atteggiamento, ma era troppo orgogliosa per ammetterlo. Questo l’aveva resa ancora più scorbutica e restia a farsi nuovi amici, così quando la mora aveva tentato un dialogo, si era trovata di fronte un muro ostile. Probabilmente Erin le sarebbe andata a genio molto prima, se non fosse stata per la sua iniziale convinzione che Dajan fosse interessato alla nuova arrivata. Eppure era proprio grazie a quella ragazza che lei e il ragazzo erano tornati a parlarsi. Era stata Erin, quel pomeriggio, mentre lei era intenta a sfuggire all’ennesimo agguato della sua rivale sulla pista di atletica, a trascinarla in palestra, presentandola a tutti come nuovo membro della squadra. Una volta messo da parte il titolo di velocista, per indossare la divisa da basket, Kim aveva capito che Dajan non era interessato ad Erin e di certo lei non lo era a lui. Da lì il suo rapporto con la ragazza era migliorato e, anche se non potevano considerarsi vere e proprie amiche poiché non si vedevano al di fuori della scuola, la stimava molto e si era affezionata a lei. Anche Trevor una volta aveva ammesso quanto fosse piacevolmente sorpreso da Erin e dalla sua capacità di rapportarsi alle persone: secondo lui, era stato grazie a quella ragazza minuta se anche uno con la scorza dura come Castiel si era ammorbidito negli ultimi tempi.
“sogni d’oro Erin” le disse con una dolcezza che faceva trasparire tutta la tenerezza che riusciva a suscitare in lei. La compagna stava ancora aspettando la risposta alla domanda che le aveva formulato, ma capì che non era il caso di insistere; inoltre, quell’augurio così gentile, pronunciato da una come Kim, le sciolse il cuore, facendola sorridere di felicità:
“buona notte Kim”
 
Il piede destro cercò a tentoni una delle due pantofole, che doveva per forza essere a pochi centimetri dal letto, dove era stata lasciata la notte prima. Appena avvertì il tocco morbido della stoffa, si rifugiò all’interno, mentre tutto il resto del corpo si rassegnava ad alzarsi. Kim si stiracchiò verso l’alto, sbadigliando sonoramente. La poca luce che filtrava nella stanza, illuminava la sua compagna di squadra, ancora beatamente addormentata.
Cercando di non fare rumore, la mora si liberò a malincuore dal pigiama e si vestì per fare colazione. Erano da poco passate le sette ed era sicura che il resto della squadra fosse ancora sotto le coperte.
Scese le scale, incapace di trattenere l’ennesimo sbadiglio. Aveva dormito poco quella notte, un po’ per l’ansia pre partita, un po’ perché riposava a fatica su un materasso che non fosse il proprio. Erin invece aveva ronfato di gusto, dormendo come una bambina e parlottando ogni tanto nel sonno. Kim sogghignò tra sé e sé, ripensando a quando, ad un certo punto, la ragazza aveva cominciato a borbottare insulti rivolti al suo migliore amico:
“con i soldi che guadagni potresti prendere l’aereo e venire ad una partita… sei proprio tirchio Castiel… e idiota, ma questo lo sapevo da un pezzo”
Fortunatamente, il monologo di Erin era durato appena qualche battuta, ma aveva divertito Kim, rendendo ancora più complicata la fase di addormentamento.
Arrivò nella sala da pranzo dell’ostello, in cui la colazione era servita a buffet. Non si curò degli altri clienti, dirigendosi direttamente verso la sua fonte di cibo: agguantò per prima una brioche spolverata di sottile zucchero filato e la ripose nel proprio vassoio. Passò poi a versarsi un abbondante porzione di latte che annerì con il caffè. Sorpassò le uova poiché a casa era abituata a fare una colazione all’italiana, dal momento che era la sua cucina preferita, perfetta per una sportiva come lei. Si procurò delle fette biscottate e un bicchiere di succo all’ACE; si era svegliata con una fame pazzesca e non vedeva l’ora di sbranarsi in santa pace quel ben di Dio.
Appena si voltò a cercare un tavolo libero, notò un braccio che gesticolava: non si era accorta che in quella sala, un suo compagno di squadra l’aveva battuta sul tempo e si trattava del capitano. Dajan diede sfoggio del suo intramontabile sorriso bianchissimo, che neanche il caffè riusciva a spegnere. La ragazza non potè fare a meno di lasciarsi contagiare da quella solarità e rinunciò al proposito di mangiare da sola.
“devi avere un sonno allucinante se non mi hai visto quando sei entrata”
“in effetti ho dormito poco” ammise la ragazza, notando che il vassoio del cestista era ancora più abbondante del suo; di certo aveva un metabolismo ultra rapido se poteva permettersi di ingurgitare abitualmente tutte quelle calorie senza assimilare un filo di grasso.
“chiacchiere tra donne?” indagò divertito.
“non sono il tipo” replicò lei, mandando giù un sorso di succo.
“in effetti è vero”
Kim era diversa dalle altre ragazze che conosceva, e proprio per questo gli piaceva così tanto. Lei era sempre disinteressata agli argomenti tipicamente femminili, non aveva quella curiosità un po’ invadente che caratterizzava la maggior parte delle ragazze che lui conosceva. Come lui, era in fissa lo sport, anche se in passato avevano scoperto di avere concezioni molto diverse: Kim si definiva un corridore solitario, mentre Dajan amava il gioco di squadra; per questo non aveva osato sperare che la ragazza si unisse a loro per il torneo. Per fortuna ci aveva pensato Erin e, per l’ennesima volta, in cuor suo il capitano ringraziò l’elemento più imbranato ma adorabile della squadra.
“in compenso, Erin ha parlato da sola nel sonno. Ha insultato Castiel per tre minuti buoni”
Dajan scoppiò a ridere, facendo voltare alcuni degli ospiti presenti in sala:
“avresti dovuto registrarla, così poi la mandavamo a Castiel”
“pensi che non riuscirà davvero a venire a nessuna partita? So che prima di giugno non è previsto che torni in America, ma una piccola pausa se la potrà pur prendere no?”
Dajan sospirò amareggiato. Da quando Castiel era entrato nella squadra di basket, quello sport era diventato ancora più avvincente. Era il compagno di squadra ideale, tra di loro in particolare c’era una sintonia pazzesca, anche se fuori dal pitturato avevano altre amicizie. L’uno riusciva a coordinarsi sulla base delle azioni dell’altro, anticipandone le mosse. Nella prima partita aveva sentito incredibilmente l’assenza del numero 11, infatti avevano raggiunto la vittoria per un soffio. Dopo la cena di meritati festeggiamenti, Boris l’indomani della partita, li aveva riuniti tutti per discuterne insieme. Erano concordi nell’asserire che non avevano affrontato una squadra fortissima, e il fatto di essere stati così vicini alla sconfitta testimoniava che anche il loro gioco aveva presentato delle grosse falle.
“l’attacco è stato molto al di sotto dello standard” li aveva rimproverati Boris, visto che la ramanzina ad Erin era già stata fatta tra il secondo e il terzo quarto. Era inevitabile che la parte offensiva fosse sottotono: dovevano riuscire a sopperire alla mancanza dell’elemento più aggressivo che avevano a disposizione.
“non credo che Castiel verrà mai ad una partita. L’ho sentito per mail, perché voleva sapere l’esito ma poi abbiamo parlato di altro e di tutto il lavoro che deve sbrigare. È buffo ma è la prima volta che ci sentiamo per qualcosa che non riguardi il basket. In passato, quando ci scrivevamo era sempre come compagni di squadra, tanto che io non so praticamente niente di lui e lui di me… probabilmente ciò che sappiamo l’uno dell’altro lo dobbiamo a Trevor”
“Trevor è peggio di una casalinga disperata” bofonchiò Kim, la cui risata vaporizzò dello zucchero filato davanti a sé. La brioche era buonissima e la gustò con delizia, mentre Dajan ridacchiava:
“ti sei sporcata” la informò.
“dove?”
“a sinistra”
Kim si portò la mano sinistra sulla guancia, cominciando a strofinarsi la pelle.
“alla mia sinistra” chiarì il ragazzo, sorridendo paziente.
La mora cambiò allora braccio e passò frettolosamente le dita sulla guancia.
“è andato via?” indagò, ma in quell’ultimo tentativo si era infarinata ancora di più. Sulla sua carnagione scura, la polvere bianca dello zucchero filato risaltava ancora di più.
“magari la prossima volta che cerchi di pulirti il viso, assicurati prima che le dita siano pulite” la canzonò il cestista, con uno dei suoi immancabili sorrisi. Kim ridacchiò, cercando di immaginare quanto potesse essere buffa e non si accorse di come la stava guardando la persona seduta davanti a lei.
“è andato via?” riprovò.
Una leggera strisciolina aveva resistito all’attacco, lasciando una leggera traccia sullo zigomo. Allora Dajan allungò istintivamente un braccio e, delicatamente, rimosse quel residuo sfregandolo via con il pollice. Sentì il contatto con quella pelle liscia e morbida, esitando mezzo secondo prima di staccarsi da essa. Lei lo stava guardando dritto negli occhi, attonita per quel gesto così audace e che aveva portato a quella sorta di carezza.
Ritrasse immediatamente la mano, avvampando per l’imbarazzo, mentre lei borbottava un ringraziamento masticato.
“t-ti alzi sempre presto?” farfugliò il ragazzo, per cercare di ovviare alla situazione.
“beh sì, non mi piace dormire fino a tardi”
“neanche a me”
“ah”
E tra i due cestiti ripiombò il silenzio più totale. Kim gesticolava sotto il tavolo con l’orlo delle maniche, mentre Dajan si grattava la guancia. Quando realizzarono entrambi che avevano una colazione da ultimare, si fiondarono sul cibo, usandolo come pretesto per non dover aggiungere altro.
 
Dopo cinque minuti scesero Trevor e Liam e si unirono all’impacciata coppia.
“ti sbagli, la Brown non ha una squadra di basket” sosteneva l’ala piccola “mi sono informato anche io”
“tu alla Brown? Guarda che non è facile entrarci”
“ha parlato Einstein” malignò Liam.
“parlate di college e università di prima mattina?” sbuffò Kim.
“noi di quinta dobbiamo sbrigarci a inoltrare le domande di iscrizione” si giustificò Liam, accomodandosi al tavolo e guardando Dajan, in quanto compagno di classe.
“non fai colazione?” indagò quest’ultimo. Solo dopo essersi seduto, il ragazzo si accorse che era previsto un buffet:
“e che cazzo, devo pure alzarmi?” si voltò verso Trevor che, diversamente da lui, si era diretto subito verso i tavoli imbanditi “eh Trev, prendi qualcosa anche per me” urlò.
Una coppia di anziani squadrò malissimo il rumoroso cestista, irritati dalla sua maleducazione. In quella sala, ogni cliente parlava sottovoce e con rispetto verso gli altri, mentre i due giovani che erano appena giunti si era distinti per il loro chiasso. Del resto anche la cena del giorno prima, era stata caratterizzata dal fracasso della squadra di basket al completo.
“tu Dajan, hai già mandato la domanda per il college del Kentucky?” indagò.
“sì” confermò il ragazzo “ speriamo solo di vincere quella benedetta borsa di studio”
“ma spedisci solo quella domanda?”
“ne valuterò anche altre di opzioni. Per ora quella è quella che mi ispira di più”
Dajan aveva passato in rassegna diverse università del paese alla ricerca di quella in cui fosse tenuta in grande considerazione la preparazione atletica degli studenti. Il college del Kentucky vantava un’ottima squadra di basket e, condizione imprescindibile al momento della scelta del ragazzo, anche una squadra di atletica. Il campus era attrezzato in modo che, accanto alla preparazione intellettuale degli studenti, fosse data loro la possibilità di tenersi allenati e partecipare a competizioni nazionali a nome dell’ateneo.
Con enorme sollievo, anche Kim sembrava interessata a quella proposta e i due avevano stabilito che si sarebbero impegnati per farsi ammettere in quel college. Ormai per Dajan non c’erano alternative migliori, di quella di giocare per i Kentucky Wildcats e poter vedere Kim tutti i giorni. Avrebbe dovuto aspettare un anno prima di vedere anche lei aggirarsi per il campus, ma era sempre più convinto che sia lui che lei ce l’avrebbero fatta: sarebbero stati ammessi.
 
Uno ad uno, anche il resto della squadra scese a fare colazione. Gli altri clienti, dopo aver consumato una veloce colazione, abbandonavano la sala, così alla fine, quando anche Boris si unì ai suoi ragazzi, li trovò intenti a unire cinque tavoli, senza chiedere il permesso ai gestori dell’ostello.
Il coach li squadrò uno a uno e sbottò:
“ed Erin dov’è?”
Appena realizzò che la ragazza stava ancora poltrendo beatamente sotto le lenzuola, si arrabbiò con Kim perché non l’aveva ancora svegliata. La ragazza scattò in piedi per assolvere ai suoi doveri come compagna di squadra, ma Trevor e Wes insistettero per accompagnarla. Non vollero dirle cosa avessero in mente, ma la pregarono di non intralciarli nel loro diabolico scherzetto.
Quando infatti i tre furono davanti alla porta della stanza, camuffando la propria voce, Wes urlò:
“SIGNORINAAA!!!” esordì, con una voce stridula “MI HANNO DETTO DI AVVERTIRLA CHE LA SQUADRA È GIÀ SUL PULLMAN PRONTA A PARTIRE E LA STA ASPETTANDO!”
Erin strabuzzò gli occhi e si alzò di scatto dal letto, spalancando la porta sconvolta:
“COME SAREBB-“ e appena vide Trevor e Wes piegarsi in due dal ridere, inveì contro di loro “CHE SCHERZO DEL CAZZO! IMBECILLI!... mi avete fatto venire un infarto!”
Kim scrollò le spalle, rassegnata all’immaturità dei ragazzi che se non altro, portavano un po’ di allegria nella squadra. La povera Erin li fissava furente, con il viso arrossato dalla rabbia mista al terrore che aveva provato, mentre Wes rincarnò la dose:
“carino il pigiama”
La ragazza spostò lo sguardo sulla parte superiore del pigiama che aveva delle macchie simile a quelle di una mucca. Per evitare di insultarli ulteriormente, serrò la porta e si affrettò a prepararsi.
Avevano una partita a cui pensare da lì a un paio d’ore ma se non altro, quel risveglio un po’ insolito, le aveva iniettato una tale carica che non vedeva l’ora di sfogarla sul pitturato.
 
 



 
 
NOTE DELL’AUTRICE
 
Sono tornata ^^.
Cominciavo a perdere le speranze, ma alla fine sono riuscita a non prolungare ulteriormente l’attesa per il nuovo capitolo. Purtroppo più si avvicinano gli esami e meno tempo ho, per cui scusatemi se in futuro ci metterò anche più di tre settimane prima di pubblicare un nuovo capitolo :(.
Perdonatemi anche se non faccio più i riassunti di inizio capitolo ma la verità è che sono troppo pigra per rimettermi a dare una scorsa al capitolo precedente e riassumerlo… mi appello alla vostra memoria ^^ (ma se proprio erano una cosa utile, fatemelo sapere che farò uno sforzo e dalla prossima volta proverò tornare a farli u.u).
 
Ok, dopo aver esordito prostrandomi ai vostri piedi, posso passare ad altro: spero che il rientro a scuola/università/lavoro non sia stato traumatico e che abbiate passato in serenità le vacanze :D.
 
Passando al capitolo, beh è stato caratterizzato da una pluralità di personaggi e spero che la cosa sia stata gradita visto che nel prossimo sarà pure così. Vedete, il fatto è che, ora come ora, solo con Castiel riesco a scrivere pagine e pagine incentrandole su un unico personaggio (infatti temo che mi odierete un sacco nel prossimo che sarà ambientato il giorno di San Valentino e lui non ci sarà *si nasconde sotto il tavolo per evitare sassate e insulti*).
 
Bene, concludo invitandovi a farmi qualsiasi osservazione, puntualizzazione su scene o modo di scrivere che non vi abbia convinto. Ne farò tesoro (งಠ_ಠ)ง!!!
Alla prossima!!

 
 
 
 
  
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