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Autore: benzodiazepunk    28/01/2015    4 recensioni
13 racconti per 13 anni, 13 piccole immagini di momenti di vita quotidiana.
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«Dobbiamo decidere cosa fare del nostro futuro» affermo.
«Come possiamo saperlo? Siamo solo dei bambini» sbotta lui alzando gli occhi al cielo.
«Io voglio diventare famoso» decreto, senza nemmeno ascoltarlo. «E tu diventerai famoso insieme a me»
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«Questo è il nostro sogno. Non è sbagliato inseguire i propri sogni» affermo con un tono sicuro che mi fa quasi sobbalzare perché è quello che usa Bill quando la questione “è così punto e basta”.
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Mi devo operare, e questo già di per sé è una cosa orribile.
Mi devo operare alle corde vocali, e nessuno che non sia un cantante può davvero capire cosa significhi.
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Bill Kaulitz, Tom Kaulitz, Un po' tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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30 Marzo 2008 – Bill
 

Irrequieto, mi alzo di nuovo dal letto per poi risedermici per l’ennesima volta. Mio fratello, seduto su una sedia in una posizione tesa che non gli ho mai visto, mi fissa.
Ho una paura tremenda, credo di non aver mai avuto tanta paura in tutta la mia vita; con la mente ripercorro i momenti in cui mi sono sentito perso, terrorizzato, sconfortato.
Quando papà se n’è andato di casa: ricordo lo smarrimento, ero solo un bambino e non capivo perché qualcuno potesse voler fare una cosa del genere; io e Tom ce ne stavamo in piedi, ritti come due fusi sulla soglia del salotto, stretti l’uno accanto all’altro per sostenerci, per non rischiare di cadere in terra per lo shock. Mamma era furibonda, papà uscì sbattendo la porta e io mi sentivo spaventato per il futuro, avevo davvero paura che non avrei mai più rivisto mio padre.
Quando da bambino sono finito sott’acqua al mare: sentivo le orecchie che mi fischiavano e il bisogno di respirare più forte di qualsiasi altra cosa ma la superficie del mare si allontanava sempre più e sapevo bene che non potevo inspirare acqua; pensavo che sarei affogato, che nessuno si sarebbe accorto della mia assenza in mezzo al delirio delle onde, davvero alte quel giorno. Avevo la mente annebbiata e tutto ciò che riuscii a provare nei pochi secondi che passai sott’acqua era paura e folle speranza che qualcuno mi tirasse fuori.
Quando Tom si è rotto una caviglia saltando giù dal fienile: ci stavamo rincorrendo, io sono saltato giù come avevamo fatto migliaia di volte entrambi ma lui seguendomi ha messo male la caviglia e invece che atterrare agilmente in piedi, piegando un po’ le ginocchia per attutire il colpo come sempre, è piombato in terra e lì è rimasto, immobile. Ho davvero pensato che fosse morto in quegli attimi che mi sono serviti per raggiungerlo di corsa, e fino a oggi ho sempre creduto che fossero stati i momenti di maggior terrore mai vissuti.
Riprendo a spremermi le meningi. Tutte le volte che sono salito su un palco, quando ho dovuto iniziare le mie prime interviste, quando la preside ci ha convocati, me e mio fratello, per poi dirci che non saremmo stati più in classe insieme, troppo casinisti. Quando mamma ha trovato un incidente di ritorno dalla città e ha ritardato di quattro ore il suo rientro senza poterci avvertire, il giorno in cui sono tornato a casa con il mio primo tatuaggio senza averlo detto ai miei, tutte le volte in cui i bulli a scuola mi si avvicinavano.
Ma nulla regge il confronto, per quanto mi sforzi non trovo un solo momento in tutta la mia vita in cui io sia stato più spaventato e atterrito di oggi.
Mi devo operare, e questo già di per sé è una cosa orribile.
Mi devo operare alle corde vocali, e nessuno che non sia un cantante può davvero capire cosa significhi.
Ho sentito David l’altro ieri dire che “la sto prendendo davvero male”, ma sul serio, vorrei vedere lui. Io sono uno che… sono un tipo insopportabile, lo so; parlo tutto il tempo, tutto il giorno, canto in continuazione, non sto zitto un momento: canticchio preparando la colazione, inondo mio fratello di chiacchiere appena mette piede giù dal letto, canto sotto la doccia, racconto cose mentre mi trucco perfino, canto cucinando, parlo mangiando, parlo parlo parlo e non sto zitto mai. Sono sempre stato così e cantare è la mia vita. Canto da quando sono nato o forse anche da prima, chissà che non abbia scocciato Tom anche nella pancia di nostra madre, fatto sta che non potrei fare nient’altro nella mia vita. È automatico: Tom? Suona, parla di ragazze, ascolta rap tedesco, si prende cura del fratello. Bill? Canta. Fine. Non c’è nient’altro da dire riguardo me.
Se l’intervento dovesse andare male la mia vita sarebbe finita ed è per questo che ho paura, una paura folle che non mi permette di stare fermo in un punto per più di dieci secondi di fila e che mi fa tremare da capo a piedi. Se qui con me non ci fosse Tom sarei già ammattito, non scherzo.
Anche lui è preoccupato, ha paura quasi quanto me, perché siamo fratelli: quello che prova uno lo prova anche l’altro ed è proprio per lui che cerco di stare il più calmo possibile, di dimostrarmi più forte di quello che ora sono, di non fargli capire del tutto quanto è grande il mio terrore.
Gli lancio un’occhiata e lui mi sorride, o almeno, tenta di sorridermi. Mi viene quasi da ridere ma il mio scoppio di ilarità viene brutalmente interrotto dalla porta che si apre. Tom si gira di scatto e io faccio un balzo dal letto nemmeno mi avessero fatto l’elettroshock, il cuore inizia a battermi a mille nelle orecchie mentre la testa dell’infermiera fa capolino.
«È ora caro» esordisce. «Indossa quella vestaglia che ti ho lasciato prima. Lui può…» dice poi voltandosi nella direzione di mio fratello, ma la mia espressione deve averle comunicato qualcosa perché finisce la frase con un «Può restare»
A questo punto vorrei davvero potermi mettere a urlare, a maggior ragione perché non posso.
Indosso la vestaglia da sala operatoria sotto gli occhi di Tom, poi mi siedo nuovamente a letto. So che non mancano nemmeno pochi minuti al momento in cui mi porteranno via, sento già i passi per il corridoio e so che sono per me.
«T-Tom» gracchio nella mia voce da cornacchia. Il mio gemello balza verso di me con un’espressione tra lo scioccato e il terrorizzato.
«No Bill non puoi parlare! Non fare lo scemo, stai zitto!» esclama, e io alzo gli occhi al cielo.
Ma non c’è tempo per i battibecchi tra fratelli, le infermiere stanno arrivando. Velocemente prendo la lavagnetta che mi è servita per comunicare qui in ospedale e durante i giorni che ho passato a casa e scrivo: “Tu sarai qui vero?” proprio mentre le due infermiere si infilano nella mia stanza e iniziano a spingere il mio letto verso la porta.

Tom mi guarda, con uno sguardo così sicuro e pieno d’amore che non potrei non credergli nemmeno se lo volessi, e mi sorride.
«Ovvio»
E so che non si sta riferendo solo a quando tornerò dalla sala operatoria, a quando aprirò gli occhi, a quando dovrò lavorare e sudare per riconquistare forse la mia voce di un tempo.
Lui intende sempre.
Per sempre.
Ed è l’unica cosa che volevo sapere.

  
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