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Autore: Gwen Chan    06/02/2015    0 recensioni
Tokyo, 2053.
In un futuro prossimo, dove i progressi tecnologici hanno permesso di raggiungere una semi-immortalità grazie alla possibilità di trapiantare la propria coscienza da un corpo all’altro e dove un potente computer dall'intelligenza umana, se non superiore, controlla una Tokyo semi-distrutta, conservare la propria identità e la propria autonomia diventa una lotta continua.
Nei bassifondi si attende l'arrivo di un Salvatore.
[AU][Partecipa al Cyberpunk contest indetto da ovest]
Genere: Drammatico, Generale, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Cry, Sakuya Kira, Sara Mudo, Setsuna Mudo, un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Le apparecchiature necessarie al processo erano complicate al punto che Setsuna poteva solo affidarsi alle conoscenze di Uriel. Si fidava ciecamente perché, in fondo, se anche gli avessero spiegato il loro funzionamento, non avrebbe compreso. In fondo, il suo animo semplice faticava a concepire un'esistenza di diffidenza continua, in un'ingenuità che sfiorava la stupidità. Una stupidità pericolosa.
"Se sei fortunato potresti trovare una guida ad attenderti" lo avvisò l'uomo, mentre sistemava gli ultimi fili e aghi e Dio solo sapeva cos'altro. Setsuna annuì. Era pervaso da un'ansia quasi fisica che gli faceva formicolare le braccia e sudare i palmi delle mani. Ricordava la smania che da bambino gli provocavano la vista e l'odore del sangue.
"Pronto?"
"Sì" confermò. Chiuse gli occhi e prima che uno strappo violento per quanto virtuale risucchiasse la sua coscienza, mentre la sua identità veniva affidata al caso, dietro le palpebre scorse il volto sorridente di Alexiel. Le labbra di lei mormorarono una parola muta.
Quando Uriel spense i macchinari che tacquero con un debole cigolio, una nuova anima lo guardava da dentro il corpo che aveva davanti. Alexiel.
La donna fletté le dita, poi alzò le braccia a togliersi il casco e gli elettrodi ancora attaccati a ogni suo centimetro di pelle. Era bella. Bella, forte e per nulla stupita.
"Chi sei? Mi ricordo di te?" domandò, posando su di lui i grandi occhi scuri. Il suo interrogativo era quasi un'affermazione. Uriel fece un paio di passi indietro. L'odore umano, prepotente che emanava dalla nuca della ragazza, sotto i ricci spessi, aveva una violenza che riportava alla mente ricordi dolorosi.
Lei non lo avrebbe mai accettato. Non era abbastanza forte o bello. Né aiutava il divario d'età.
Quando lei, adolescente, con fredda altezzosità lo rifiutò, per la rabbia di essere stato ridicolizzato a tale modo distrusse parte del laboratorio in cui lavorava. Con furia spazzò via il frutto di mesi e anni di lavoro.
"Lavoravi con mio padre. Ora ricordo. Uriel, giusto? Ti ringrazio per avere aiutato Setsuna."
Alexiel si alzò con un'elegante e fluido movimento, dirigendosi a passi sicuri attraverso la stanza verso l'uscita.
"Mio padre aveva intuito che il GC avrebbe sviluppato un'intelligenza umana fino a ottenere una coscienza. Sapeva che controllare elettronicamente le operazioni militari era un rischio folle. Allora non solo ha inserito i codici per violare il sistema di sicurezza nei ricordi miei e di Rosiel. No, girando di nascosto per gli ospedali ha impiantato un microchip in numerosi neonati. Tanti anni fa. Setsuna era uno di quei bambini. Ha preparato la strada per la rivolta."
Uriel si sfregò la gola distrutta dall'acido. Aveva usato l'immagine di Sara per creare Doll su richiesta di Zafkiel e sempre per l'amico si era incaricato di vegliare sul ragazzo. Tuttavia neppure lui immaginava quanto il disegno generale potesse essere complesso. Alexiel se ne era andata di nuovo.
"Signor Uriel!"
Si voltò, sorpreso. Di fianco a lui Doll attendeva con pazienza. Un robot. Un robot creato ad arte e molto simile a un essere umano, ma pur sempre una creatura artificiale. Non era vivo. Era inferiore persino a un clone.
"Signore?"
Eppure era un robot tanto gentile e dolce.
"Vieni, Doll. Ho ancora una confezione di tè da preparare."
Doll sorrise con calore.
 
Alexiel da bambina non possedeva un luogo chiamato casa. Casa sua era forse solo il laboratorio di suo padre.
 
Suo padre è molto gentile e affettuoso ma lavora sempre. Profonde occhiaie gli segnano gli occhi quando la sera le accarezza la testa fino a farla addormentare.
Ogni sabato si recano in ospedale a trovare Rosiel che da anni dorme in una vasca di coltura in attesa che di essere pronto al trapianto. Perché Rosiel è nato morto.
Più passa il tempo più suo padre appare preoccupato. Si mormora di quanto gli studi sul GC siano sfuggiti al controllo umano. Perciò un giorno, prima che lei accetti di vivere rinchiusa, Adam la prende da parte e le sussurra una parola molto importante. Alexiel all'epoca ha solo sei anni, ma promette che non la dimenticherà.
 
Una stampa virtuale le era rimasta impressa sebbene dalla memoria si fossero cancellati il tempo e il luogo nei quali ciò successe. Una donna nuda si appoggiava al vetro scuro di una finestra sul nulla. Sull'addome misteriose scritte assumevano un valore sacrale. Da bambina le sostituì con la parola affidatale. Ora Setsuna a sua volta avrebbe dovuto conservarla.
Lei era quella donna, prigioniera in eterno di un castello di vetro e aria. Prigioniera della propria bellezza e della propria forza.
Nei vicoli soffocanti di fumo di quelle aree soprannominate non a caso Gehenna, si mormorava dell'arrivo di un uomo in grado di sconfiggere la macchina. Da un decennio il GC teneva in scacco il Giappone, controllando tutto, dai PC militari al timer del tostapane.
Sarebbe giunto un Salvatore.
Attorno a lei si estendevano solo macerie corrose dagli acidi, frammenti di case crollate e mai ricostruite perché in poche settimane - il tempo che le mutazioni cominciassero a diffondersi - la popolazione rimasta bloccata nella zona aveva disperatamente cercato rifugio sotto terra. Un gruppo di uomini, hacker di strada, ma anche scienziati affermati, costituirono un gruppo di Resistenza le cui cellule dapprima sbandate finirono col gravitare attorno a una ragazza dai misteriosi orecchini. Alexiel, ancora adolescente, l'aveva accolta sotto la sua ala protettrice. Cry sarebbe stata felice di rivederla.
L'ipotesi non si rivelò errata. Cry la riconobbe subito, quando Alexiel percorse gli scalini scivolosi che conducevano al primo livello della metropolitana, guidata da quella memoria che Setsuna le aveva trasmesso attraverso i sensi. Alexiel era tornata. La principessa corse a cingerle i fianchi in una stretta di affetto sincero. I vestiti dell'amica puzzavano di fumo, ma non importava. Alexiel era ormai sulla ventina, la stessa età che avrebbe avuto anche Cry se l'esplosione non avesse bloccato la sua crescita ad un'eterna infanzia.
Eppure non riusciva ad abbandonarsi completamente al sollievo. Alzò gli occhi.
"E Setsuna? È... "
"È vivo. È forte."
Alexiel posò le mani -mani ruvide- sulle spalle ossute dell'amica. "Cry, tu devi aiutare Setsuna. Io ho un compito da portare a termine, lo capisci? Presto dovrò partire" spiegò. Cry sorrise, sebbene le guance olivastre fossero segnate di lacrime.
"Tornerai. Tornerà Setsuna. E saremo felici. Me lo ha detto Setsuna. Ho cominciato a crederci anche io."
 
Lontano, oltre Gehenna, oltre le mura, al confine con la cintura del Briah, in due edifici il rumore delle dita che battevano sulle tastiere o sugli schermi olografici era assordante. Se gli uomini di Zafkiel tentavano disperatamente di proteggere i propri dati, frutto di innumerevoli sacrifici, dagli spider del GC, quelli di Laila cercavano qualsiasi indizio che potesse condurli a Jibril. I quattro grandi arcangeli non dovevano riunirsi. Con il viso celato dal velo, Laila si mordeva le labbra tanto da farle sanguinare.
Il GC le aveva offerto una nuova vita, aveva reso tutti uguali sotto un unico e imparziale dominio, aveva spazzato via il marciume. Se solo... se solo...
"Zafkiel. Tu morirai." sibilò fra i denti. La voce era roca.
Gli eletti si sarebbero salvati e insieme avrebbero creato un mondo unito da una sola Rete, controllato da un'unica mente. Pulito, perfetto e sicuro.
"Continuate!" ordinò prima di ritirarsi nelle proprie stanze. Trovò la porta aperta, sebbene avesse esplicitamente chiarito quanto una simile negligenza non potesse venire accettata. Avrebbe eliminato il clone responsabile.
"Sevi! Sevi!"
Il giovane Metatron, l'unico replicante per il quale avesse mai provato affetto, le cingeva le gambe, fermamente intenzionato a non lasciarla fuggire. Il visetto si contrasse in una smorfia di rimprovero.
"Dove sei stata? Sevi!"
Laila si liberò delicatamente dalla stretta, mentre un brivido le scuoteva le membra. Il contatto fisico le faceva orrore, eppure prese in braccio il bambino così da avere il suo viso all'altezza del proprio. Sfiorò quelle guance pallide e lisce, così diverse dalle proprie, deturpate dalle ustioni.
"Ho dovuto lavorare. Ti hanno dato la medicina?"
"Non la voglio prendere!" protestò Metatron. "Mai!" aggiunse.
Laila lo guardò, improvvisamente spaventata. Quando, però, cercò di rimetterlo a terra, egli aveva già serrato la presa sugli avambracci. Le piccole unghie si conficcavano nella carne.
"Credevi di esserti liberata di me, vero... Laila?" sussurrò Metatron, piegando le labbra in un ghigno grottesco. La vivace scintilla infantile era scomparsa dai suoi occhi. Era stato sufficiente che la luce mutasse lievemente inclinazione perché i lineamenti venissero stravolti fino a quel punto.
"Sandalphon!"
"Credevi che le tue medicine avrebbero soffocato la seconda personalità di Metatron. Ma ai bambini non piace prendere le medicine."
Layla urlò. Urlò più forte del crepitio delle fiamme, più forte delle risa degli uomini che l'avevano violentata.
Urlò quando le mani di Sandalphon si serrarono attorno alla sua gola.
 
A chilometri di distanza, nel palazzo cadente dove Zafkiel aveva stabilito il proprio quartiere generale, l'energia statica faceva crepitare i capelli. Nella stanza accanto, i suoi uomini più fedeli lottavano una battaglia informatica e impari contro il GC. C'erano sfortunati che crollavano sulla tastiera per eccesso di lavoro e disidratazione. Ad altri senza preavviso scoppiava il cervello. Eppure nessuno si ritraeva dal proprio compito.
"Sei pronto, Rasiel?"
"Sì!"
Sebbene fossero passati solo poche settimane da quando il ragazzo era stato salvato, Zafkiel aveva urgenza di scoprire quale forza si celasse in lui. L'empatia verso le macchine, dimostrata nella distruzione di tutte le apparecchiature ospedaliere in un impeto di rabbia e paura, rendeva Rasiel estremamente utile.
Gli strinse le mani, già rovinate a quella giovane età, e gli ripeté che il suo potere era un dono. Ora bisognava testarlo.
Rasiel si sedette di fronte all'unico PC nella camera. Il mento riluceva di riflessi azzurrognoli. Allungò una mano quasi a sfiorare lo schermo. Poteva sentire il flusso dei dati, cogliere le sfumature, scoprire i suoi segreti. Per lui il computer reagiva come un essere vivente, parlava e ascoltava. I circuiti reagivano alla sua ansia, crepitando.
Il fischio della risonanza, dapprima debole, salì fino a un'intensità dolorosa nel momento in cui Rasiel sfiorò l'hardware. Allora il flusso delle informazioni lo investì e gli occhi, spalancati, divennero ciechi. I dati scorrevano in lui a una velocità incontrollabile. La realtà si scomponeva in byte.
"Basta così!" intervenne Zafkiel, allontanandolo a forza dal computer. "Sei stato bravo" si complimentò in seguito. Gli avrebbe domandato più tardi quanto avesse imparato da tale esperienza, consapevole che per il momento il ragazzo necessitava solo di tranquillità e riposo. Quando chiamò qualcuno perché lo portasse a letto, Rasiel si era già addormentato.
“Sei stato coraggioso” si complimentò con il bambino immerso nel mondo dei sogni, uno dei pochi luoghi sicuri ancora esistenti. Per soddisfare un egoismo personale stava spingendo un ragazzino, convalescente da un’esperienza che avrebbe spezzato anche un adulto, a testare quegli stessi poteri per cui era stato rinchiuso. Rasiel, educato e coraggioso, non si era opposto, ma Zafkiel la notte lo udiva piangere.
S’illudeva che potesse sostituire il figlio perduto, giungeva addirittura a convincersi che fosse proprio lui e la crudele omonimia contribuiva solo ad accrescere il dolore.
Suo figlio era stato portato via e nessuno tornava mai indietro.
 
È felice quando posa le orecchie sul ventre gonfio di Anael e, sotto la pelle, il battito di un minuscolo cuore risponde alle sue attenzioni. Una vita sta crescendo, coccolata e protetta dalle brutture del mondo.
Gioisce se Anael intreccia le gambe con le sue sotto le coperte e gli alita sul collo. Il respiro caldo di lei gli fa il solletico prima di scivolare nel sonno.
In quei momenti non esistono né bombe né mutazioni. Solo loro due e il loro bambino. Il loro bambino inaspettato, insperato considerando che il livello di sterilità in entrambi i sessi cresceva vertiginosamente.
"Ti porterò via da qui. Troverò un modo per uscire dal Paese. Nostro figlio crescerà in un posto migliore" assicura alla giovane moglie, ogni mattina prima di recarsi al lavoro.
"La farò fuggire" ripete contando il denaro che nei mesi sta accumulando. Suo figlio nascerà lontano da lì.
"Andremo via insieme" promette a se stesso durante l'ultimo giorno di lavoro.
Durante i primi mesi teme un aborto spontaneo, ma verso gli ultimi ormai la sua speranza si è trasformata in certezza. Suo figlio nascerà.
 
Setsuna camminava insieme alla guida trovata nell'Hades. Anzi, era stato quello sconosciuto a trovare lui. Non che l'accoglienza fosse stata particolarmente calorosa, tra fredde frecciatine e un'indifferenza che era quasi preferibile al resto.
"Secchan! Stai scomparendo!" lo canzonava a intervalli regolari, indicando dove i dati personali cominciavano a fondersi con l'ambiente circostante. Almeno lo avvertiva.
"Perché con te non succede?"
"Io sono diverso!"
Troncava puntualmente il discorso con la medesima frase.
Né Setsuna possedeva concentrazione sufficiente a sostenere un interrogatorio mantenendo contemporaneamente la propria individualità.
L’unico metodo che aveva per conservare una forma definita, per continuare ad essere “Setsuna Mudo” era affidarsi alle proprie memorie. Per sei anni aveva lottato in un corpo estraneo, affrontando l’adolescenza e le sue complicazioni in un ambiente per nulla adeguato, ma in quel momento i giorni trascorsi con Kira, prima, e con gli Evils poi, in confronto, parevano estremamente felici.
Curioso come, per vivere, dovesse cercare un passato che a lungo aveva desiderato dimenticare.
 
Ha da poco compiuto un anno e la mamma, sempre nervosa, per una volta sorride. Presto arriverà un fratellino o una sorellina. Lo dice carezzandosi la pancia già tonda.
Ha tre anni e prende per mano Sara. Insieme imparano a camminare. A volte cadono, ma Setsuna è sempre pronto, pur con i suoi modi rudi di bambino, a consolare la sorella prima che scoppi in un pianto dirotto. Eppure, quando per la prima volta riescono ad attraversare da soli le lande del salotto, trova solo rimproveri ad attendere il suo sforzo.
Non si fidano di lui.
Ha quattro anni, sua madre urla, si sente il rumore delle stoviglie infrante e lui sotto le coperte si tappa le orecchie. Sara dorme già nel proprio lettino. Setsuna ha quattro anni quando suo padre li abbandona.
Ha cinque anni e la nausea gli impedisce di ragionare. Macchie di sangue sconosciuto gli sporcano il grembiulino. Non ricorda nulla, solo di aver litigato con un compagno, all’asilo. Nemmeno sa quale sia stato il motivo. Gli gira la testa. Ipotizza che la maestra stia telefonando a casa, spera di non aver causato nessun danno irreparabile, ma l'esplosione giunge a interrompere ogni azione.
L'esplosione spazza via i rimasugli della sua infanzia. Sgretola ogni edificio per chilometri attorno a sé, inquina l'aria e deforma i corpi. Nelle case impazziscono gli elettrodomestici, si spaccano i computer; le orecchie dei ragazzi si fondono con gli auricolari, i pace-maker cessano di battere, i respiratori si spengono.
S’interrompe la vita di un'intera città.
   
 
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