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Autore: Gwen Chan    02/05/2015    0 recensioni
Tokyo, 2053.
In un futuro prossimo, dove i progressi tecnologici hanno permesso di raggiungere una semi-immortalità grazie alla possibilità di trapiantare la propria coscienza da un corpo all’altro e dove un potente computer dall'intelligenza umana, se non superiore, controlla una Tokyo semi-distrutta, conservare la propria identità e la propria autonomia diventa una lotta continua.
Nei bassifondi si attende l'arrivo di un Salvatore.
[AU][Partecipa al Cyberpunk contest indetto da ovest]
Genere: Drammatico, Generale, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Cry, Sakuya Kira, Sara Mudo, Setsuna Mudo, un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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4
Setsuna indietreggiò sorpreso e inorridito, inciampando nei suoi stessi piedi per l'improvvisa rivelazione. Un clone! La persona davanti a lui era un essere artificiale, un guscio vuoto creato a scopo medico in cui spesso veniva impiantata una personalità creata ad arte per testare fin dove ci si poteva spingere senza oltrepassare il confine tra ciò che era lecito e ciò che invece non lo era.
Tre barre nere lievemente inclinate. Il marchio era inconfondibile. Sakuya Kira - nome in codice Lucifer - era un clone.
Setsuna strinse i pugni pervaso dalla rabbia che sempre si accendeva in lui quando si convinceva di essere stato tradito. Non importava la verità, per infiammarlo era sufficiente il pensiero. Aveva almeno sperato che, pur nella ambigua situazione in cui entrambi si trovavano, sei anni di convivenza forzata fossero sufficienti a costruire un minimo rapporto di fiducia. Ricordava i momenti in cui Kira era stato quasi gentile. Gli aveva persino regalato dei libriccini, sicuramente di dubbia moralità, ma utili per un bambino di undici anni a comprendere il corpo femminile in cui era imprigionato.
"Un clone!"
La voce uscì strozzata. Kira continuava a essere impassibile. In silenzio attendeva che il più giovane ritrovasse la calma necessaria per ascoltare. Con le braccia mollemente incrociate sul petto, attendeva. Il ragazzo non ricordava un'unica volta in cui avesse dato in escandescenze.
"Di' qualcosa!" lo incalzò "Chi sei? Che fine ha fatto il Sakuya Kira originale?”
"È tecnicamente morto."

Non sa più quale sia stata la sua precedente identità. Non sa chi era prima che il tribunale lo condannasse a una condanna tanto sperimentale quanto grottesca. La sua coscienza è stata forzatamente trapiantata in un computer dello Stato, uno dei tanti collegati al God Computer, all'epoca ancora a livello di prototipo.
Ogni cosa è nulla e solitudine e sete atavica di vendetta.
Sempre che il passato sia reale e non una fantasia impiantata ad arte nel suo codice.
Allora vaga nel limbo della Rete, prigioniero di una macchina perché, come si sono premuniti di specificare prima di procedere con la sentenza, un eventuale blackout causerebbe il decesso definitivo. In fondo si tratta solo di una condanna a morte posticipata.
A volte deve lavorare come PNG in un videogioco simil-fantasy. Funge da accompagnatore al giocatore di turno. Pochi si presentano.
Solo una bambina si collega sempre alla stessa ora. Predilige un avatar dai capelli scuri e, sebbene lui non possa saperlo con certezza, ipotizza sia molto più giovane. Giorno dopo giorno si immagina il suo aspetto. Si convince che sia uguale all'avatar. Alexiel -che sia questo il suo vero nome?- è un’ottima giocatrice. Ha scelto l'arma più complicata da maneggiare ed è riuscita subito a padroneggiarla. Possiede un modo quasi etereo di combattere. La immagina seduta sul pavimento con il controller in mano, gli occhiali per la realtà virtuale indosso e le agili dita che premono sui pulsanti. Deve avere dita forti. In certi momenti di solitudine, una strana malinconia lo assale. Sono mesi che Alexiel è assente.
Ora che si trova di nuovo perso, si domanda quale destino sia toccato a quella bambina.
Ha promesso a se stesso di ritrovarla. Né può fare molto nella sua prigione. Non ha occhi né mani né gambe, non ha alcun contatto col mondo esterno. Sempre che esista ancora un mondo esterno.
Brama di avere un corpo.
E un corpo gli viene offerto. Che sia inganno o slancio di generosità gli offrono un corpo. Quasi senza preavviso la sua coscienza viene trapiantata, trascinata violentemente in un ulteriore involucro di carne. Che sia quella l'immortalità a lungo bramata dagli uomini? Allo specchio si riflette un ragazzino di sette anni. Anzi il suo clone.
I medici dicono che i tentativi di trapiantare la coscienza del bambino dal corpo originale a quello clonato non hanno avuto l'esito sperato. L'encefalo del piccolo era già avviato alla morte, però il padre, unico sopravvissuto all'incidente stradale, è parso troppo disperato per accettare il decesso del figlio dopo quello della moglie.
Lo inganneranno. Vogliono che inganni quello sconosciuto. È il prezzo da scontare.
Kira nel profondo della sua nuova memoria ascolta una voce, illusoria o meno non ha importanza. Forse è quanto resta di Sakuya, forse è solo la sua immaginazione. Gli fa una richiesta precisa.

"Successe qualche anno prima del disastro. A tredici anni scappai di casa. Ritrovai Alexiel. La riconobbi subito, in fondo era identica al suo avatar" continuò Kira.
Setsuna ascoltava. Bloccato sul posto da una forza sconosciuta, si dibatteva tra il dubbio e la umana necessità di credere. Poteva immaginare come sarebbe finita la storia... aveva visto lui stesso il corpo privo di conoscenza della ragazza.
Come pochi anni prima era venuto a conoscenza di Rosiel, il fratello mentalmente instabile della giovane.
"Quale richiesta ti fece quel bambino?" domandò. Kira non rispose. In silenzio si dileguò nell'oscurità.

"Ril! Ril! Svegliati!"
Sara si precipitò vicino al corpo svenuto di Ril, abbandonata in una posa contorta sull'asfalto bruciato dal sole. Sulla pelle del viso, delle mani e delle gambe comparivano aloni quasi violacei. "Ril!" chiamò di nuovo. Si trovava sull'orlo di una crisi di panico. Pochi secondi prima Ril appariva se non in perfetta salute -nessuno lo era- almeno in condizione normale. Ora un debolissimo filo d'aria saliva dalle labbra coperte di una schiuma biancastra. Sara le asciugò premurosamente con un lembo del proprio vestito. Poi premette due dita sulla giugulare della bambina e ne saggiò il fievole battito. Sempre più flebile. Sapeva che Ril sarebbe morta senza cure immediate, ma se fosse più saggio portarla a braccia o lasciarla sull'asfalto e chiamare aiuto, questo non riusciva a deciderlo.
"Ril, mi dispiace." mormorò, scostando i capelli rosei dalla fronte madida. Di nuovo sondò l'area circostante. Presto qualche guardia sarebbe apparsa per il suo solito giro di ronda e avrebbe posto fine alla loro breve fuga. Se solo Ril si fosse ripresa! Avrebbe potuto abbandonarla. Il pensiero s’insinuò nella sua mente. Qualcuno l'avrebbe trovata e curata. Le avrebbe permesso di guadagnare tempo. Presto le avrebbero catturate... forse separandosi le loro probabilità di salvezza aumentavano. Per Sara non si sarebbe ripresentata un'altra occasione. Se non scappava ora, non avrebbe più rivisto Setsuna. Eppure il proprio corpo ancora esitava, trattenuto dalla coscienza e dal fantasma di Ril che, muto, già l'accusava. Non poteva abbandonare quella piccola serva. Non dopo averla coinvolta nei propri piani. Aveva appena raggiunto il cancello d'uscita. Oltre le pesanti sbarre si profilava parte di Tokyo, si alzavano frammenti di edifici per Sara dolorosamente familiari. Infilò le mani fra le sbarre, afferrò l'aria, sospirò. Jibril non si sarebbe comportata così. Lei non era Jibril, ma ciò non poteva essere una scusa plausibile.
"Perdonami, Setsuna."
Girò su se stessa, abbandonò la presa sul cancello, si diresse verso la sua prigione. Nello stomaco avvertiva una sensazione di deja-vu, quasi avessero inserito un episodio simile nella sua memoria. O era successo in un'altra vita.
Oh, ora ricordava. Si morse le labbra inginocchiandosi vicino a Ril. Le tastò il polso e lacrime silenziose scesero a bagnare i capelli finiti sul viso quando sentì solo il silenzio.
Prese in braccio il corpo senza vita. Era successo di nuovo.

È solo un gioco. Non dovrebbe preoccuparsi di nulla. Dopotutto è sufficiente premere il tasto reset per ricominciare da capo il livello. Ruri potrà rivivere.
Questa volta la chiesa non esploderà.
Eppure non riesce a controllare il tremito delle proprie mani.

"Jibril?"
Sara sobbalzò. Dunque era già arrivato il momento. Strinse i pugni, pronta a combattere. Cosa che fece, per quanto glielo permettesse il peso morto di Ril che ancora reggeva, colpendo lo sconosciuto che si era avvicinato. Iniziò a strillare non appena le sfiorò il braccio.
"Aiuto! Lasciami!"
"Jibril? Sei Jibril? Non ti ricordi di me? Sono Raphael. Andavamo all'università insieme. Ti sei fatta ancora più carina."
Dubbiosa, Sara sbirciò da sotto in su, oltre la frangetta. Si affrettò a spiegare l'equivoco. Per sicurezza scivolò a qualche metro di distanza.
"Aiutami, per favore!"
Raphael fece una smorfia, le dita macchiate di nicotina strette attorno a una sigaretta. "In cambio?" "Come puoi chiedere qualcosa in cambio? Sei un egoista!"
Sara conosceva quell'uomo da pochi secondi e già credeva di detestarlo nel profondo. Attraverso una superficie increspata dall'acqua le scorrevano nella memoria flash improvvisi. Quattro ragazzi seduti a bere un caffè, quattro giovani in camice attorno a una vasca di coltura, le volte in cui Raphael si portava appresso una delle sue amichette.
"Non più egoista di te che hai portato fuori questa creatura senza pensare alle conseguenze. Gli esseri creati artificialmente come lei, destinati a servire, sono stati progettati per non poter sopravvivere a contatto con la pesante aria del mondo esterno." Con gesti esperti Raphael arrotolò la manica dell'uniforme di Ril oltre il gomito e nell'incavo del braccio, dove si intrecciavano le vane, inserì un ago. "Per fortuna avevo la medicina con me. Sei in debito, Jibril."
Ignara del motivo di quel gesto, di nuovo Sara lo corresse, prima di ringraziarlo e controllare il battito cardiaco di Ril, constatando con sollievo che si era stabilizzato. La bambina, tuttavia, non accennava a svegliarsi.
"Noi dobbiamo andarcene!"
Raphael soffiò fuori una nuvola di fumo, in un gesto di profonda noncuranza per la propria salute. Laureato in medicina né le fotografie di polmoni distrutti né gli attacchi di tosse cui era soggetto gli avevano fatto perdere la passione per il tabacco. Tra sé e sé pregustava l'appuntamento con una clone carina ma stupida progettata apposta per servire un uomo.
"Ti porterò fino alle Mura. Di più non posso fare. Lavoro per Laila e non voglio perdere il posto. A proposito se incontriamo Michael lungo la strada, nasconditi!"

Sono passati tanti anni.
Giocano insieme nel cortile centrale su cui si affacciano i loro rispettivi palazzi. Michael non vuole avere tra i piedi una femmina, al contrario di Raphy che è sempre ben felice di poter corteggiare una bella fanciulla. Sono sempre loro quattro. Già, Uriel rimane in disparte, in silenzio, circondato dai suoi adorati animali.
Insieme frequentano la scuola, insieme si laureano, insieme vengono assunti in uno dei laboratori legati al GC.
Uriel è il primo ad andarsene, ancor prima del disastro, dopo aver distrutto mesi di lavoro in un unico e violento attacco d'ira.
Brucia di rabbia per il rifiuto di una ragazza.
E se loro tre si illudono di poter ancora rimanere legati sono sufficienti le decisioni del GC, di una macchina ormai divenuta pensante e autosufficiente a rivelare loro quanto i piani umani siano futili.

Le grida non cessavano. Quei vagoni della metropolitana che potevano ancora essere utilizzati erano trasformati in centri medici di fortuna, sebbene la morte fosse sempre l'unica soluzione possibile.
Il virus - misterioso e letale- si era diffuso pochi giorni prima, a una velocità inquietante, e manifestava i medesimi sintomi della Rete. Tutti conoscevano la droga distribuita da Rosiel, la sua capacità di ampliare le percezioni sensoriali fino alla telepatia e, soprattutto, quanto fosse letale. Inevitabilmente l'organismo la rigettava nel giro di qualche settimana. Spesso la malattia covava sotto la pelle nella sua forma più blanda per esplodere quando ormai lo stadio terminale era stato raggiunto. Un’implosione cerebrale uccideva sul colpo i più fortunati. Alla velocità con cui il virus si diffondeva, con una metodologia di contagi per nulla chiara, gli Evils sarebbero stati presto annientati.
Quando Setsuna, a qualche giorno dal suo ultimo colloquio con Kira, fu scosso da un dolore tanto forte da accecarlo, pensò di essere stato contagiato a sua volta. Infilò le dita fra i ricci delle tempie. Erano unti. Non li lavava da giorni.
La vista gli si offuscò. Un'improvvisa sonnolenza lo colse, mentre il mal di testa mutava d'aspetto, una sensazione di pesantezza che gli impediva di tenere le palpebre sollevate.
Oh, dunque era quella la morte? Quel piacevole scivolare nel sonno?
Non era troppo male, dopotutto.
Prima di scivolare nell'oblio ripensò all'incontro con Uriel, al suo racconto circa gli esperimenti che venivano condotti dallo Stato sotto l'egida del GC. Zafkiel, un capitano di polizia conosciuto in gioventù, trasmetteva informazioni importantissime per ogni movimento di resistenza che si muoveva nei vicoli. Per Setsuna ciò significava solo che il suo corpo giaceva da qualche parte e che presto sarebbe stato oggetto di crudeli esperimenti. Il tempo correva.

Alexiel non era morta. La sua coscienza era viva, lo era sempre stata. In silenzio si ritirò osservando il mondo attraverso gli occhi di Setsuna, felice di avere trovato un ragazzo che davvero aveva le potenzialità per sconfiggere il GC.
Pazientemente, attese che il giovane fosse sufficientemente maturo. La scomparsa di Sara, il trapianto di coscienze, l'alleanza con gli Evils e lo stretto controllo di Kira, tutto faceva parte di un piano ottimamente congegnato. Gli scritti di suo padre si erano rivelati una risorsa preziosa. Occorreva trovare qualcuno dal talento acerbo qual era Setsuna, fare in modo che Alexiel potesse studiarla e metterlo sotto l'ala protettrice di una persona fidata. La donna credette a un ragazzo la cui esistenza era affidata al caso, quando ingerì le pillole per indurre il coma.
Alexiel parlava nella sua testa. Inviava flash e ricordi frammentati, suoni e sentimenti che non bisognava comprendere, solo accettare. Le visite al fratello in ospedale, il suo primo bacio, la stretta amicizia con Cry, a poco a poco trasmetteva tutte le informazioni, riprendeva possesso della propria mente, lo uccideva.
Alexiel aveva approfittato delle ore in cui era stata sveglia per correre da Kira, ridendo con discrezione del suo stupore. Le dita si intrecciarono, le labbra si incontrarono, fecero l'amore in maniera violenta e affamata.
Setsuna batté i pugni contro la porta metallica del laboratorio di Uriel. Il ferro rimbombava.
"Uriel devi aiutarmi! Subito!" lo investì con la sua richiesta.
Dietro alla sagoma imponente di Uriel scorse il vestito di Doll. "Trapianta la mia coscienza in uno dei tuoi robot."
"Non è possibile. Non ho alcun contenitore pronto, ora."
Nessuno? La testa gli doleva per lo sforzo di mantenere intatto il proprio ego scontratosi con quello di Alexiel. Le unghie lasciavano mezzelune sanguinanti nella carne in un gesto inconsulto.
Non poteva morire, non prima di avere trovato e liberato Sara.
"Aiutami!"
Un sospiro, un cenno in direzione di Doll, il fruscio di una chiavetta USB che veniva estratta da una tasca.
"Ci sarebbe l'Hades. Ho il controllo di uno dei terminali che permettono di accedervi, ma è un rischio. Non avrai più nulla che possa contenere la tua coscienza. Non sarà come entrare in una realtà virtuale. Tutta la tua mente, i tuoi ricordi, le tue emozioni saranno scaricate in uno dei tanti luoghi oscuri della Rete. I tuoi dati potrebbero mescolarsi ad altri e perdersi. Dipende solo da te e dalla tua forza mantenere il tuo Io separato dagli altri. Sei disposta a farlo, Alex?"
Setsuna annuì. "Mi chiamo Setsuna, Uriel. Non dimenticarlo. Lo farò. Diventerò parte dell'Hades!"

Le mura si stagliavano minacciose e imponenti ormai dietro le sue spalle. Sara si voltò, un poco curva per lo sforzo di dovere sostenere il peso di Ril. In alto rombava l'elicottero privato di Raphael.
"Grazie!" urlò forte. Il vento le scompigliava i fastidiosi capelli lunghi. In risposta fu investita da una nuova folata che la spinse in avanti.
"Andiamo Ril!"
La ragazzina rafforzò debolmente la presa sulla sua spalla, sbattendo stupita le palpebre. Entrambe le bocche rimanevano protette dalle maschere date loro da Raphael e il respiro appannava la plastica. "Sono stata brava, vero, signorina Sara?" si assicurò con un timido sorriso speranzoso, appena accennato, lo stesso che si trasformò in una smorfia interrogativa davanti alle lacrime di sollievo Sara.



   
 
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