Buongiorno!
Come al solito, due paroline di ringraziamento per chi ha
recensito lo scorso capitolo, chi ha messo questa storia nelle
preferite, nelle
seguite e nelle ricordate. Mi rendete una donna felice :)
Buona lettura!
_Pulse_
4.
Queen of hearts (and her hair straightener)
«Mi hanno detto che ieri hai avuto un
imprevisto. Di che
tipo?».
Alex sbatté più volte le palpebre, riemergendo
dai propri
pensieri, e si voltò verso la collega con il carrello della
biancheria pulita
che si era fermata accanto a lei.
Accennò un sorriso, sistemandosi dietro l’orecchio
una
ciocca di capelli che era sfuggita allo chignon. «Se te lo
raccontassi, non ci
crederesti».
La donna scrollò le spalle, ridacchiando, e si
allontanò
senza indagare oltre.
Alex respirò profondamente e tornò a fissare il
distributore
automatico davanti al quale era stata imbambolata per più di
cinque minuti,
senza comprare nulla. Alla fine infilò un paio di monetine
nella fessura e
selezionò il numero corrispondente alle barrette di
cioccolato. Ne aveva un
estremo bisogno.
Quindi si incamminò di nuovo lungo il corridoio e, girato
l’angolo, trovò Merlino nella stessa posizione in
cui l’aveva lasciato – il
labbro inferiore stretto tra i denti, le braccia incrociate sul petto e
i piedi
uniti – davanti al vetro attraverso il quale poteva vedere
l’interno della
stanza in cui il dottor Ellis e un’infermiera stavano
visitando Artù.
«Non hanno ancora finito?», chiese, scartando la
propria
barretta ed offrendola a Merlino, il quale la rifiutò con un
cenno del capo.
«No. L’infermiera mi ha chiesto che cosa gli
è successo».
Alex sobbalzò impercettibilmente, smettendo di masticare
quando avvertì gli occhi del ragazzo bruciarle sul profilo
del viso.
«Le ho detto che è stato aggredito, ma non da chi».
«Ti ho già detto che non ho avuto scelta,
è stata legittima
difesa. Per quanto tempo hai intenzione di…?», si
interruppe, sentendo il
braccio di Merlino avvolgerle delicatamente le spalle. Alzò
gli occhi verso i
suoi e li trovò sorridenti.
«Hai fatto bene. Se l’è
cercata».
Sollevata che non fosse arrabbiato con lei, si sciolse in un
piccolo sorriso. Poi tornò ad osservare il medico che
controllava i riflessi di
Artù illuminandogli le pupille con una torcetta elettrica.
Iniziava a farle pena ora che si trovava seduto su quel
letto d’ospedale, con le spalle curve in avanti, il volto
privo d’espressione,
gli occhi tristi fissi su un punto morto e il naso su cui si era
già disegnato
un grande livido violaceo. Ciononostante non poté fare a
meno di ammettere che
non avrebbe mai pensato che si sarebbe fatto visitare così
tranquillamente. Lo
disse a Merlino, finendo la propria barretta di cioccolato ed
allontanandosi
per buttarne la carta. Il ragazzo le rispose, ma così a
bassa voce che non
riuscì a distinguere le sue parole. Tornando da lui, gli
chiese di ripetere.
«Ho detto che credo abbia capito di non essere il re di
Camelot», sospirò con gli occhi improvvisamente
privi della loro solita luce e
colmi solo di dispiacere.
«Quindi la mia padellata è stata
d’aiuto, dopotutto», provò
a scherzarci su Alex, ma quando si accorse che Merlino non
l’aveva nemmeno
ascoltata si schiarì la gola, imbarazzata, ed
abbassò gli occhi.
Senza riuscire a controllarsi, si ritrovò a pensare ancora
una volta a come li avevano trovati nel parco: abbracciati dietro una
grande
quercia.
Sapeva che non avrebbe dovuto trarre conclusioni affrettate,
ma non poteva proprio evitare di pensare che se non altro quella
sarebbe stata
la spiegazione più logica ai continui rifiuti di Merlino e
al suo non essere
chiaro con lei. Magari il suo era un amore segreto, proprio come quello
che
custodiva lei nel profondo del suo cuore, oppure era spaventato dalla
reazione
che il personale dell’ospedale e lei avrebbero avuto se si
fosse venuto a
sapere; o ancora, più semplicemente, non voleva che fosse di
dominio pubblico e
basta.
Ci avrebbe impiegato un po’ ad accettarlo e a mettersi
l’anima in pace, ma sapeva che la simpatia e
l’affetto che provava per Merlino
non sarebbero mai cambiati, qualsiasi fossero state le sue preferenze
sessuali.
E voleva che anche Merlino lo sapesse.
Per questo cercò di raccogliere il coraggio e, con le dita
intrecciate sullo stomaco, esordì: «Merlino, noi
siamo amici, vero?».
Lui la guardò sorpreso. «Certo che lo siamo.
Perché me lo
chiedi?».
«Perché voglio essere davvero
tua amica. Voglio che tu sappia che puoi sempre contare su di me e che
puoi
fidarti, ecco».
«Grazie, Alex. Per me è lo stesso».
«Bene», sorrise, nonostante il nervosismo.
«Perciò se vuoi
dirmi qualcosa… sentiti pure libero di farlo».
Alex accennò ad Artù con un
lieve movimento del capo, ma Merlino non colse il significato del suo
gesto, o forse non lo notò nemmeno, e la superò,
piombando subito addosso al medico che
aveva terminato di visitare Artù e che era appena uscito
dalla stanza.
«Come sta? Si tratta solo di una botta, non è
così? Non ha
subìto danni permanenti, giusto?»,
iniziò a subissarlo di domande e avrebbe
continuato per chissà quanto se Alex non l’avesse
preso per le spalle e tirato
indietro, rivolgendo al dottor Ellis un’occhiata di scuse.
«La pressione sanguigna, le pulsazioni e i riflessi sono
nella norma, ma sarei più tranquillo se gli facessimo una
TAC e lo tenessimo
sotto osservazione per questa notte».
«Perché?», chiese la ragazza, corrugando
la fronte. «Hai
detto che è tutto nella norma…».
«Ciò che mi preoccupa è che non ha
reagito a nessun altro
tipo di stimolo. Abbiamo provato a fargli delle domande, cose semplici,
come il
suo nome, quello dei suoi familiari e degli amici, ma non ha aperto
bocca.
Sembra sotto shock».
«E lo è!», urlò Merlino, con
un po’ troppa foga. Sia Alex
che il medico lo fissarono, quest’ultimo vagamente
indispettito.
«Insomma… è stato aggredito, lo sarebbe
chiunque», aggiunse,
passandosi una mano sulla nuca. «Sono certo che non
c’è bisogno della TAC».
«Forse. Ma è meglio esserne certi, non credi? Non
c’è nulla
di cui aver paura, come esame è del tutto
innocuo», lo rassicurò il dottor
Ellis, togliendosi lo stetoscopio dal collo ed iniziando ad avviarsi
lungo il
corridoio. «La mia collega ti spiegherà tutto, ma
in questo caso specifico ci
serve la firma di un familiare o di un tutore per procedere».
«Non ha né familiari né un tutore. Io
sono l’unica persona
che ha al mondo».
Quelle ultime parole le aveva pronunciate con la voce rotta
dalla commozione e Alex provò una fitta al cuore, sentendosi
così vicina al suo
dolore e allo stesso tempo così inutile. Le uniche cose che
riuscì a fare
furono percorrergli il braccio con una mano fino ad intrecciare forte
le dita
alle sue e fare un passo avanti, verso il dottor Ellis, per esclamare:
«Il
paziente torna a casa e me ne prendo io la responsabilità.
Lo sorveglierò
personalmente e se noterò delle anomalie lo
riporterò subito qui».
«Non posso di certo costringervi a farlo rimanere
qui», fu
la risposta del medico, il quale le rivolse un breve sorriso prima di
dare loro
le spalle definitivamente.
Alex respirò profondamente e fece per portarsi le mani al
viso, quando si rese conto che Merlino non aveva alcuna intenzione di
mollare
la presa. Si girò per lanciargli un’occhiata
interrogativa e lui, nonostante
gli occhi lucidi, le sorrise.
«Sei incredibile. Artù ti ha dato della strega, ti
ha
minacciata con un pugnale e tu… tu continui ad
aiutarlo».
Alex si sciolse in un sorriso e dimentica persino
dell’imbarazzo confessò: «Non sto
aiutando lui, ma te».
Quindi gli colpì il braccio con un pugno leggero e si
allontanò, senza aspettare una sua risposta.
***
«Possiamo andare?», chiese
Alex, sorridente.
Merlino annuì e gettò un’occhiata ad
Artù, al suo fianco.
L’infermiera aprì l’auto con il piccolo
telecomando e si
sedette davanti al volante. Solo allora Artù parve tornare
alla realtà ed
afferrò saldamente il braccio del mago, tenendo gli occhi
sempre fissi su
quella scatola di metallo e vetro dentro la quale si era infilata la
ragazza
che aveva scambiato per una strega.
«Questa devi proprio spiegarmela», disse.
Merlino seguì il suo sguardo e non poté
trattenere una breve
risata. «È un mezzo di trasporto, si chiama
“automobile”. È molto comune,
persino io ne ho una».
Artù lo guardò strabuzzando gli occhi.
«Tu possiedi una di
queste… cose? E sei in
grado di
condurla?».
«Non è stato facile imparare, lo ammetto, ma
sì».
Alex tirò giù il finestrino del lato passeggero e
si sporse
verso di loro. «Qualcosa non va?», chiese con
cipiglio perplesso.
«No», rispose Merlino.
«Arriviamo».
Aprì la portiera dei sedili posteriori e con un cenno del
capo invitò Artù a salire, poi si
infilò al suo fianco e si allungò su di lui
per allacciargli la cintura di sicurezza. Quando ebbe finito
trovò gli occhi di
Alex che lo fissavano attraverso lo specchietto retrovisore.
«Siamo pronti», esclamò.
Alex inserì la prima marcia e partì lentamente,
uscendo dal
parcheggio dell’ospedale ed immettendosi nella strada
praticamente sgombra.
Ciononostante Merlino sentì Artù irrigidirsi al
suo fianco e guardare tra lo spaventato
e l’incredulo fuori dal finestrino.
«Come diavolo fa a muoversi senza cavalli?»,
chiese,
bisognoso di soddisfare la propria curiosità e forse di
essere anche
rassicurato sulla sicurezza di quel mezzo. Peccato però che
non l’avesse fatto
a bassa voce. Alex, infatti, roteò gli occhi al cielo e
sbuffò miseramente.
«Fantastico, è tornato il re
di Camelot. La prossima volta vedrò di colpirlo
più forte».
«Non ci sarà alcuna prossima volta», si
affrettò a dire
Merlino, per poi voltarsi verso Artù. «A questo
proposito, credo che dobbiate
delle scuse ad Alex».
«Come? Di cosa stai parlando, Merlino?».
«Non vi ricordate? Pensavate che Alex fosse una strega e che
mi avesse fatto del male. Le avreste tagliato la gola se lei non fosse
riuscita
a mettervi al tappeto, colpendovi in testa con una padella».
«Giusto per essere chiari», si intromise Alex,
fissandoli
entrambi attraverso lo specchietto retrovisore. «Io non ho
alcuna intenzione di
scusarmi per questo».
Artù corrugò la fronte e per un paio di secondi
rimase in
silenzio, a bocca aperta, poi si colpì le cosce con le mani,
arrendevole.
«Mi dispiace di avervi dato della strega e di aver tentato
di uccidervi, Lady Alexandra. Spero possiate perdonarmi».
Alex si strinse nelle spalle, mordendosi un sorriso. «Okay.
Ma con questa sono due i boccali di birra che mi devi
offrire».
Merlino inarcò un sopracciglio, ma non chiese spiegazioni.
Per tutto il resto del viaggio nell’abitacolo
regnò il
silenzio e lo stregone ne fu felice, perché sapeva fin
troppo bene che una
volta solo con Artù avrebbe dovuto rispondere a mille e
più domande sulle
“stranezze” del mondo del Ventunesimo secolo.
Nessuno parlò nemmeno quando Alex parcheggiò
l’auto di
fronte a casa sua: una tra le tante piccole villette a schiera a due
piani, con
un bovindo rettangolare sulla facciata a punta triangolare e un
semplice
steccato in legno come cancello d’entrata al piccolo
giardino, la cui privacy
era assicurata da folti cespugli di bellissime rose rosa e gialle e
spontanei
fiori di lillà.
Solo quando si trovarono tutti in salotto, Alex si voltò per
chiedere: «E adesso che si fa?».
Merlino ricambiò il suo sguardo, poi disse ad
Artù di andare
a prendere ciò che aveva lasciato nella camera da letto. Il
re non ne fu
entusiasta e Merlino avrebbe giurato che gli avrebbe ricordato, di
fronte ad
Alex, che come suo servitore quello era un suo
compito, ma sorprendentemente serrò le labbra e si
avviò su per le scale,
lasciandoli soli.
«È ovvio che non può più
stare qui», aggiunse Alex,
assumendo un’espressione severa. «So di aver detto
che l’avrei sorvegliato
personalmente, ma ho un lavoro, una vita, e dopo quello che
è successo
stamattina non mi sentirei proprio tranquilla a…».
«Non te l’avrei mai chiesto, Alex».
La ragazza sollevò gli occhi nei suoi, sorpresa, ed
imitò il
sorriso che gli aleggiava sulle labbra, molto più tranquilla.
«Hai fatto fin troppo per Artù e non
potrò mai ringraziarti
abbastanza».
Lei mosse una mano, come a voler scacciare una mosca, e poi se la
passò sui capelli raccolti nello chignon.
«L’avrebbe fatto chiunque».
«Non ne sono affatto convinto», rispose Merlino,
avvicinandosi d’un passo.
Alex alzò gli occhi per immergerli nei suoi e il mago
sentì
quella usuale fitta allo stomaco, quel desiderio impellente di
chinarsi,
stringerla tra le braccia e…
Artù si schiarì la gola alle loro spalle,
facendoli
sobbalzare entrambi. Si scostarono velocemente l’uno
dall’altra, imbarazzati, e
Merlino stiracchiò un sorriso, chiedendogli:
«Avete preso tutto?».
«Non trovo i pantaloni, la maglia di ferro
e…».
«Oh, quelli sono in cucina. Li ho lasciati lì,
quando vi ho
messo i vestiti che state indossando».
Artù parve accorgersi solo in quel momento del suo
abbigliamento: una maglietta a maniche corte che gli fasciava il petto
muscoloso, una felpa con la zip slacciata e un paio di jeans.
Aprì la bocca per
chiedergli qualcosa, ma Merlino lo fulminò con lo sguardo e
la richiuse,
rimandando anche la questione abbigliamento a più tardi.
«Che cosa nascondi dietro la schiena?», gli chiese
all’improvviso Alex, attirando la loro attenzione.
Il re si irrigidì, dondolandosi nervosamente sui talloni.
«Ecco,
io…».
«Artù?», lo esortò a sputare
il rospo lo stregone,
aggrottando la fronte.
«Temo di dovervi delle altre scuse, Lady
Alexandra»,
mormorò, mostrando loro ciò che aveva tenuto
dietro la schiena.
Alex sgranò gli occhi, iniziando a respirare affannosamente,
e lo raggiunse a piccoli passi. Prese tra le mani la sua piastra per
capelli,
irreparabilmente spezzata in due, e la fissò incredula fino
a quando la rabbia
non le fece alzare gli occhi su Artù, il quale dovette
richiamare a sé tutto il
proprio coraggio per non arretrare.
«Artù… Perché?»,
chiese sinteticamente Merlino, sconvolto.
«Pensavo fosse una specie di arma magica! Mi
dispiace!».
Alex sbuffò forte dal naso, come avrebbe fatto un toro
inferocito, e gli rivolse un’occhiata astiosa.
«Avrei dovuto lasciarti
annegare, ecco cosa!».
Artù parve punto nel vivo e serrando forte la mascella
esclamò: «Sarei riuscito a cavarmela benissimo
anche da solo! Anzi, non siete
stata voi a salvarmi, dato che senza di me non sareste riuscita a
tornare
indietro!».
Alex strinse i denti, con i pezzi della piastra per capelli
ancora in mano, e Merlino temette che sarebbe potuta diventare una vera
strega
proprio in quel momento, se non fosse intervenuto lui.
Fece per mettersi tra i due, ma la ragazza gli puntò contro
l’ormai inutilizzabile piastra per capelli – anche
se come arma contundente non
sarebbe stata affatto innocua – e lo costrinse a fermarsi sul
posto.
«È vero, senza il tuo aiuto probabilmente non
sarei riuscita
a tornare a riva, ma già che siamo qui lascia che ti dica
una cosa».
Assottigliò gli occhi, avvicinando il viso ad un soffio dal
suo, e gli puntò un
dito sul petto. «Il vero
re di
Camelot non si sarebbe mai fatto stendere da una ragazza e dalla sua
padella».
Merlino si passò una mano sulla faccia, preparandosi a fare
da scudo umano a uno dei due nel caso la situazione fosse diventata
tanto
critica.
Nonostante la rabbia cocente che doveva provare in quel
momento, Artù non rispose a quella terribile provocazione e
si voltò,
impassibile, verso il suo servitore.
«Andiamo via, Merlino», disse in tono piatto, ma
comunque
ben lungi da accettare rimostranze.
Gli passò accanto, diretto verso la porta, e gli
mollò tra
le braccia il mantello e l’armatura, con così poca
delicatezza che per un
attimo Merlino pensò che gli sarebbe caduto tutto quanto.
Quindi uscì
sbattendosi la porta alle spalle.
Il mago sospirò e cercò gli occhi di Alex per
scusarsi al
posto di Artù, ma la ragazza gli indicò la porta
con un cenno del capo,
dicendo: «Dovresti andargli dietro, per evitare che si cacci
in qualche altro
guaio».
Merlino annuì mestamente e si girò, quando Alex
lo chiamò di
nuovo. La guardò con un luccichio di speranza negli occhi,
ma gli ricordò
soltanto di prendere anche lo zaino, lasciato lì
nell’ingresso.
«Sì, grazie. Ehm…».
«Che c’è, Merlino?».
«Non posso andare in giro con tutta questa roba tra le
braccia, pesa un accidenti».
Alex parve comprendere e sparì in cucina, da dove
tornò con un
grande sacchetto di carta, con la firma di un negozio
d’abbigliamento femminile
stampata sopra. Lo aiutò ad infilarci dentro tutti i vestiti
e l’armatura di
Artù, poi gli aprì la porta di casa.
Merlino le passò accanto a testa china e una volta sotto il
piccolo porticato disse: «Mi dispiace Alex, sul
serio».
«Era una vecchia piastra per capelli, ne avrei comprata una
nuova a breve».
«Te la ripagherò comunque. Ma non mi riferivo solo
alla
piastra. Di solito Artù non si comporta così,
lui… sono stati due giorni
difficili».
«Non devi darmi spiegazioni. E non ce l’ho con te,
né con
lui… Sono stati due giorni difficili anche per me e sono
scoppiata».
Merlino imitò il suo lieve sorriso e si strinse il collo tra
le spalle. «Allora non è che potresti darci un
passaggio fino a casa?».
Il sorriso di Alex crebbe in larghezza come in malignità.
«Sai,
ad essere sincera quella piastra ce l’avevo da un mese
soltanto e sono
incazzata nera con Artù. Perciò no, non vi
darò un passaggio fino a casa. Ci
vediamo, Merlino». Detto questo gli sbatté la
porta in faccia, lasciandolo
stordito sul vialetto di pietre grezze.
«Magnifico», mormorò, iniziando a
percorrerlo per
raggiungere il cancello in legno, socchiuso.
Trovò Artù appoggiato al cofano
dell’auto grigia di Alex. Osservava
quella via tranquilla, con le case tutte in fila l’una
all’altra, i giardini
curati, i vialetti con le auto parcheggiate sotto il sole e un campo di
pallido
fieno a renderla una via senza sbocchi.
«Sei sempre stato pessimo a sceglierti gli amici»,
esclamò,
senza nemmeno guardarlo.
Merlino gli rivolse un’occhiata eloquente.
«Sì, me ne sono
accorto molto tempo fa».
Artù colse la frecciatina ma non rispose: non era
dell’umore
per accettarle e riderci su. Si alzò dall’auto e
si stirò le spalle, spingendosi
i gomiti verso la gola con le mani.
«Allora, dov’è il tuo carro di
metallo?», gli chiese,
impaziente.
«A riparare», rispose semplicemente Merlino.
«Grazie a voi
ci siamo assicurati una bella camminata».
Artù sbuffò, passandosi una mano tra i capelli
biondi, e lo
seguì lungo il marciapiede. Si era scusato troppe volte quel
giorno, il suo
orgoglio non era disposto a tollerarne delle altre, perciò
esclamò: «Meglio così,
un po’ di moto ti farà bene».
«A voi, forse, che siete rimasto fermo sul fondo del lago
per più di millequattrocento anni».
Merlino si rese conto troppo tardi di essere stato indelicato,
ma viste le circostanze decise di ignorare la delicatezza: la prossima
volta ci
avrebbe pensato su due volte prima di rompere la piastra per capelli di
Alex.
***
La collega a cui Alex aveva dato il cambio le aveva
assicurato che i bambini erano già tutti a letto, quindi
rimase a bocca aperta
quando, durante la “ronda” – come la
chiamavano gli infermieri notturni –
scoprì che alcuni dei loro piccoli pazienti, tutti riuniti
nella camerata più
grande, erano più che svegli.
«Dovreste essere a letto», esclamò a
bassa voce, guardando
severamente i più grandi del gruppo e chiudendosi la porta
alle spalle.
«Stiamo aspettando Merlino. Ieri non c’era,
quindi…».
Alex sospirò e si avvicinò al primo dei lettini
per infilare
le braccia di Steve, un bambino di sei anni appena e con una grave
forma
tumorale ai polmoni, sotto le coperte.
«E che cosa vi fa pensare che questa sera invece
verrà?»,
chiese, odiando ancora di più Artù per
ciò che la stava costringendo a fare:
dire a quei poveri bambini che non ci sarebbero state favole della
buonanotte
nemmeno quella sera.
«Perché ci avrebbe avvisato, almeno»,
ribatté con
convinzione Mark, tredici anni, uno degli ultimi arrivati, a cui era
stato
diagnosticato il linfoma di Hodgkin e aveva da poco iniziato la
chemioterapia.
Alex continuò a rimboccare coperte, pensando a come avrebbe
potuto rispondere a questo. Non era affatto da Merlino comportarsi in
quel
modo, lui che si era sempre fatto in quattro per poter stare almeno un
po’ ogni
sera con i bambini, ma da quando era comparso Artù era come
se non ci fosse
nulla di più importante, come se tutto il resto fosse
addirittura scomparso.
Non era obbligata a difenderlo, probabilmente non se lo
meritava, ma fu più forte di lei.
«E va bene», esclamò, guardando i
bambini che la stavano
fissando trepidanti. Avrebbe comunque spezzato loro il cuore, ma almeno
Merlino
sarebbe stato salvo.
«La verità è che ieri mattina Merlino
mi ha detto che in
questi giorni non sarebbe riuscito a passare perché sarebbe
arrivato un suo
amico da molto lontano. Mi ha chiesto di avvisarvi, perché
lui non avrebbe
fatto in tempo, ma… mi sono dimenticata. Mi dispiace,
bambini… Non so dove ho
la testa!».
I piccoli pazienti si guardarono in silenzio l’un
l’altro,
giù di morale, fino a quando Mark non esclamò,
sorridendo sghembo: «Non è che
sei innamorata, Alex?».
Sobbalzò e proprio non riuscì a non arrossire; lo
fece tanto
vistosamente che Mark ridacchiò, gettando
un’occhiata complice ad Abigail, sua
coetanea ma molto più abituata alla vita in ospedale, dato
che da più di due
anni, cioè da quando le era stata diagnosticata una forma
acuta di leucemia
linfoblastica, alternava visite frequenti a lunghi periodi di ricovero.
«Ehi, voi due, smettetela! Piccoli impiccioni che non siete
altro!», li rimproverò, trattenendosi dal battere
i piedi per terra.
«E va bene, va bene», disse Mark, alzando le mani
in segno
di resa. «Per questa volta siamo disposti a
perdonarti…».
«Grazie mille, non sarei proprio riuscita a dormire sonni
tranquilli sapendo che eravate arrabbiati con me», rispose
con una vena di
sarcasmo.
«Ma ad una condizione!».
Alex assottigliò gli occhi e si posò le mani sui
fianchi.
Quella sera erano proprio dei piccoli diavoli!
«Sentiamo questa condizione».
«Io e Abby abbiamo promesso una favola ai più
piccoli e,
costi quel che costi, avranno una favola».
«Oh, vi prego, lo sapete che non sono brava ad inventare le
favole».
«Non dovrai inventarle: Merlino lascia sempre qui il suo
libro».
«Non sono brava nemmeno a leggerle, sapete?».
«Una promessa è una promessa, Alex».
«Non l’ho fatta io, quindi…».
«Se ti rifiuterai, dirò a tutti di chi sei
innamorata».
Alex sentì la mandibola cederle, mentre quel terribile
scenario prendeva vita nella sua testa. Quando tornò alla
realtà, Mark la
guardava con gli occhi svegli sicuri della vittoria.
«Non puoi saperlo sul serio», rispose cercando di
dimostrare
anche un solo briciolo di sicurezza, che non aveva.
«Vuoi mettermi alla prova?».
Alex ci pensò su e no, non ne aveva alcuna intenzione. Ci
avrebbe pensato in un altro momento a come potersi liberare di quel
ricatto –
se davvero si trattava di un ricatto e non di un semplice bluff. Ora
doveva
pensare ad accontentare quei bambini, ai quali, per quanto a volte
potessero
dimostrarsi diabolici, voleva davvero un mondo di bene.
«Vado e torno», esclamò alla fine,
sorridendo quando i volti
dei bambini tornarono a splendere di gioia. «Ma voi fate
silenzio: se qualcun
altro vi dovesse trovare svegli mi licenziano».
Mark si portò l’indice davanti alla bocca,
invitando tutti
quanti a non aprire più bocca, e le fece
l’occhiolino.
Alex si guardò intorno e quando fu sicura che il corridoio
fosse deserto corse verso gli spogliatoi degli infermieri, dove Merlino
con il
passare del tempo si era guadagnato un armadietto tutto per
sé.
Aprì la porta quel tanto che bastava per sbirciare
all’interno, poi entrò e cercò la
targhetta con su scritto il nome del
cantastorie dell’ospedale, trovandola quasi subito.
L’armadietto non era chiuso
a chiave, perciò le bastò tirare l’anta
di metallo grigio chiaro per accedere
ad un pezzetto di Merlino. Veramente dentro non c’era nulla
di significativo:
un paio di cambi di vestiti, un pettine, un piccolo set
d’emergenza per lavarsi
i denti e un paio di libri, tra cui quello per cui si trovava
lì. Lo afferrò e
fece per chiudere l’armadietto, quando non riuscì
a resistere ed afferrò uno
dei fazzoletti che ogni tanto il moro portava legati intorno al collo.
Si portò
il morbido tessuto rosso al naso e respirò avidamente il suo
profumo,
appoggiandosi agli altri armadietti con gli occhi chiusi.
Un rumore le fece scattare la testa di lato all’improvviso.
Iniziò a boccheggiare, scioccata e colta in flagrante nel
bel mezzo di qualcosa
che non avrebbe mai dovuto fare.
«Keith», squittì, dandosi subito della
stupida.
«Alexandra», la salutò il dottor Ellis,
sorridendole come se
non si sentisse affatto a disagio nel mostrarsi a lei con solo un
asciugamano
avvolto intorno alla vita. Ma, Alex avrebbe dovuto ricordarselo, lui
non si sentiva
mai a disagio nel mostrare il proprio corpo perfetto e dai muscoli
scolpiti, di
fronte al quale persino il David di Michelangelo sarebbe impallidito.
«Che ci fai nello spogliatoio degli infermieri con,
uhm… è
la sciarpa di Merlino, quella?».
Alex si accorse di essersela portata al petto e sorrise
imbarazzata, gettandola di nuovo dentro l’armadietto.
«Sì, era caduta».
«Mi sembrava che ci stessi facendo altro, ma
sorvolerò».
«Ottima idea. E tu che ci fai ancora qui a
quest’ora?».
«C’è stata un’emergenza al
pronto soccorso e mi sono
trattenuto. Un uomo stava tagliando la legna nel giardino dietro casa
quando
l’accetta gli è scappata di mano e…
beh, puoi immaginare».
«Dev’essere stato proprio un bello
spettacolo», commentò,
stirando un sorriso nervoso.
«Così bello da togliermi
l’appetito».
Alex aspettò qualche secondo e poi si avviò
silenziosamente
verso la porta, sperando che Keith la lasciasse andare senza dire
altro. Le sue
preghiere però, come sempre, non vennero ascoltate.
«Come sta il tuo amico?», le chiese, prendendo un
altro
asciugamano dalla panchina per passarselo sui capelli corti e sulle
spalle.
«Quale amico?».
«Quello che ho visitato stamattina».
«Io e lui non siamo affatto amici», disse con una
certa
irritazione, ripensando alla fine che quell’imbecille aveva
fatto fare alla sua
piastra nuova.
«Scusami, non volevo ficcare il naso, ma ho
pensato…».
«Hai pensato male», tagliò corto, per
poi dirigersi in modo
più spedito verso la porta. «Ci vediamo,
Keith».
«Alexandra?».
L’infermiera sospirò pazientemente, socchiudendo
gli occhi,
ed infilò nuovamente la testa all’interno dello
spogliatoio.
«Non ci eravamo più parlati,
dopo…».
«Vero».
«Sei ancora arrabbiata con me?».
Alex ci pensò un po’ su, poi scosse il capo,
facendo
sbocciare un sorriso sul volto del dottor Ellis.
«Ci vediamo allora».
«Ciao», lo salutò Alex, sentendosi
all’improvviso più
intrappolata di prima, quando non riusciva ad uscire dallo spogliatoio
e il
corpo di Keith era lì in bella vista di fronte ai suoi occhi.
Cercò di scacciare via quell’immagine dalla testa
e respirò
profondamente, stringendosi al petto il libro di favole di Merlino.
«Cominciavamo a pensare che il fantasma
dell’ospedale ti
avesse rapito», esclamò Mark.
«Non c’è nessun fantasma
dell’ospedale», rispose bruscamente Alex,
afferrando una sedia e sistemandola
tra il secondo e il terzo letto della camerata, in mezzo a tutti i
bambini. «E
ora facciamola finita. Quale favola volete che vi legga?».
«Quella del grifone!».
«No, quella del goblin è più
divertente!».
«L’unicorno, l’unicorno!».
Mark si alzò in piedi dalla propria sedia a rotelle e fece
segno di fare silenzio. Quando tutti gli occhi furono puntati su di
lui, disse
con voce pacata: «Facciamo a votazione. Alzi la mano chi
vuole la storia del
grifone».
Una piccola manina, quella di Steve, si alzò.
Alex, in attesa che finissero le votazioni, iniziò a
sfogliare alcune pagine del libro, scoprendo che quello non era un
libro di
favole qualunque: era completamente scritto a mano, con una grafia
bella e
dall’aspetto antico, e le parole erano accompagnate da tanti
bellissimi
disegni, colorati oppure semplicemente in bianco e nero, ma
così
particolareggiati e realistici da toglierle il respiro.
Non fu solo una metafora – il respiro le mancò
veramente –
quando i suoi occhi si posarono su quello che doveva essere un ritratto
di re
Artù nel giorno della sua incoronazione.
Due particolari attirarono la sua
attenzione: uno meno evidente, ossia lo stemma col drago dorato cucito
sul
mantello rosso vivo e lungo fino ai piedi; il secondo, il suo viso
serio e
concentrato, fiero di portare quella splendida corona d’oro e
allo stesso tempo
un po’ spaventato, consapevole che da quel giorno in poi
avrebbe avuto un regno
e la vita di tutti i suoi abitanti tra le mani.
Lo stemma sarebbe potuto essere benissimo il vero simbolo
araldico della casata della famiglia Pendragon, ma quel
volto… Perché mai
Merlino avrebbe dovuto disegnare re Artù con le stesse
identiche sembianze di
Artù l’imbecille che le aveva rotto la piastra?
«Alex? Alex, sei tra noi?».
La ragazza scosse il capo, trovando il viso di Mark ad un
soffio dal proprio, e sbuffò allontanandolo spingendo due
dita sulla sua
fronte.
«Avete deciso?», chiese annoiata.
«Da un pezzo! Ma tu eri troppo impegnata ad immaginarti con
il tuo innamorato…».
«Ti ho già detto di piantarla. Alla terza,
farò in modo che
il fantasma dell’ospedale diventi realtà e che ti
tormenti tutte le notti».
Mark prese quella minaccia come la barzelletta più
divertente che avesse mai sentito e scoppiò a ridere,
tornando alla propria
sedia a rotelle. Alex aspettò che finisse, prima di chiedere
ad Abigail, la
voce della saggezza e dell’intelligenza: «Quale
storia, quindi?».
«Quella dell’unicorno è andata per la
maggiore. Nell’indice
è intitolata “Il
labirinto di Gedref”».
«Molte grazie, Abby».
Cercò la pagina corrispondente ed iniziò a
leggere,
trovandosi ben presto tanto coinvolta quanto i bambini.
Quando la storia finì, i bambini più piccoli si
erano già
addormentati nei loro lettini, ma non solo loro: lo stesso Mark,
appoggiato al
materasso con le braccia incrociate e una guancia su di esse, ronfava
da un
pezzo.
Alex incrociò gli occhi scuri di Abigail, l’unica
rimasta
sveglia, e le sorrise, stropicciandosi gli occhi.
«È proprio ora di andare a dormire, adesso. Lo
svegli tu Mark?».
Abigail annuì e gli posò una mano sulla spalla
per scuoterlo
leggermente. Il ragazzino aprì gli occhi e si
guardò intorno, spaesato. Non
appena realizzò cosa doveva essere accaduto si
precipitò a difendere il proprio
orgoglio, esclamando a bassa voce: «Non ero stanco,
è Alex che non è capace a
raccontare».
«Sicuro», rispose l’infermiera,
ridacchiando.
I due ragazzini uscirono dalla camerata mentre Alex finiva
di rimboccare le coperte dei bambini; poi, non appena ebbe spento tutte
le luci
sui comodini, li raggiunse.
«Filate nelle vostre camere, teppistelli. E senza farvi
beccare, mi raccomando».
«Non mi hanno mai beccato e mai ci riusciranno»,
disse Mark,
strizzandole l’occhio.
Alex lo guardò andare via con le mani sui fianchi e poi
posò
gli occhi su Abigail, ancora ferma al suo fianco.
«Vuoi che ti accompagni?», le chiese Alex.
«No, volevo solo dirti una cosa».
«Ti ascolto».
Abigail le fece segno di chinarsi e Alex
l’accontentò,
porgendole l’orecchio.
«Mark crede che tu sia innamorata del dottor Ellis».
Alex trattenne a stento una risata, più che sollevata. Fece
per alzarsi e dirle che allora non aveva più nulla da
temere, ma la ragazzina
la prese un polso, trattenendola.
«Io però lo so di chi sei innamorata
veramente», le sussurrò
ancora, dolcemente, posando l’altra mano sulla copertina
consumata del libro
che l’infermiera teneva stretto al petto.
«Custodirò gelosamente questo
segreto, te lo prometto».
Alex cercò i suoi occhi e le sorrise, accarezzandole i corti
capelli castani. Quindi le posò un bacio sulla fronte,
mormorando: «Grazie,
Abby».
Abigail ricambiò il sorriso e spinse in avanti le ruote
della carrozzina, guardandosi indietro una sola volta per augurarle la
buonanotte e dirle: «Penso che lui ricambi i tuoi
sentimenti».
Alex non rispose, colta all’improvviso da quelle parole, e
strinse ancora un po’ di più il libro di favole
tra le braccia, chiedendosi se
sarebbe mai riuscita a scoprire almeno una parte, anche una
piccolissima, dei
segreti di Merlino.