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Autore: _Pulse_    09/02/2015    5 recensioni
[Dal Capitolo 2]
«Come sta?», gli chiese Alex, rompendo quel silenzio che l’avrebbe fatta diventare matta se sommato all’innocente bellezza degli occhi di Merlino.
«Molto meglio. Ora dorme».
«Bene. Come hai detto che si chiama?».
«Artù».
«E tu e lui… vi conoscete da molto?».
«Da sempre».
Alex sollevò di scatto gli occhi e trovò i suoi luminosi, anche se velati di lacrime. Si chiese se fosse il caso di continuare con quell’interrogatorio o se fosse più opportuno aspettare che fosse Merlino a parlarle di lui. Dopotutto l’aveva soccorso – se non salvato – e l’aveva ospitato a casa sua: qualche informazione in più era un suo diritto, se la meritava.
Ma forse l’unica vera ricompensa che desiderava era proprio quella che Merlino le offrì, prendendole inaspettatamente una mano e stringendola forte tra le sue, facendo sì che i loro occhi si incatenassero.
«Ti sei tuffata nel lago per aiutarlo, vero?».
Genere: Fantasy, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Merlino, Nuovo personaggio, Principe Artù
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Nel futuro
Capitoli:
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Buongiorno!
Come al solito, due paroline di ringraziamento per chi ha recensito lo scorso capitolo, chi ha messo questa storia nelle preferite, nelle seguite e nelle ricordate. Mi rendete una donna felice :)

Buona lettura!

 

_Pulse_

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4. Queen of hearts (and her hair straightener)

 

«Mi hanno detto che ieri hai avuto un imprevisto. Di che tipo?».
Alex sbatté più volte le palpebre, riemergendo dai propri pensieri, e si voltò verso la collega con il carrello della biancheria pulita che si era fermata accanto a lei.
Accennò un sorriso, sistemandosi dietro l’orecchio una ciocca di capelli che era sfuggita allo chignon. «Se te lo raccontassi, non ci crederesti».
La donna scrollò le spalle, ridacchiando, e si allontanò senza indagare oltre.
Alex respirò profondamente e tornò a fissare il distributore automatico davanti al quale era stata imbambolata per più di cinque minuti, senza comprare nulla. Alla fine infilò un paio di monetine nella fessura e selezionò il numero corrispondente alle barrette di cioccolato. Ne aveva un estremo bisogno.
Quindi si incamminò di nuovo lungo il corridoio e, girato l’angolo, trovò Merlino nella stessa posizione in cui l’aveva lasciato – il labbro inferiore stretto tra i denti, le braccia incrociate sul petto e i piedi uniti – davanti al vetro attraverso il quale poteva vedere l’interno della stanza in cui il dottor Ellis e un’infermiera stavano visitando Artù.
«Non hanno ancora finito?», chiese, scartando la propria barretta ed offrendola a Merlino, il quale la rifiutò con un cenno del capo.
«No. L’infermiera mi ha chiesto che cosa gli è successo».
Alex sobbalzò impercettibilmente, smettendo di masticare quando avvertì gli occhi del ragazzo bruciarle sul profilo del viso.
«Le ho detto che è stato aggredito, ma non da chi».
«Ti ho già detto che non ho avuto scelta, è stata legittima difesa. Per quanto tempo hai intenzione di…?», si interruppe, sentendo il braccio di Merlino avvolgerle delicatamente le spalle. Alzò gli occhi verso i suoi e li trovò sorridenti.
«Hai fatto bene. Se l’è cercata».
Sollevata che non fosse arrabbiato con lei, si sciolse in un piccolo sorriso. Poi tornò ad osservare il medico che controllava i riflessi di Artù illuminandogli le pupille con una torcetta elettrica.
Iniziava a farle pena ora che si trovava seduto su quel letto d’ospedale, con le spalle curve in avanti, il volto privo d’espressione, gli occhi tristi fissi su un punto morto e il naso su cui si era già disegnato un grande livido violaceo. Ciononostante non poté fare a meno di ammettere che non avrebbe mai pensato che si sarebbe fatto visitare così tranquillamente. Lo disse a Merlino, finendo la propria barretta di cioccolato ed allontanandosi per buttarne la carta. Il ragazzo le rispose, ma così a bassa voce che non riuscì a distinguere le sue parole. Tornando da lui, gli chiese di ripetere.
«Ho detto che credo abbia capito di non essere il re di Camelot», sospirò con gli occhi improvvisamente privi della loro solita luce e colmi solo di dispiacere.
«Quindi la mia padellata è stata d’aiuto, dopotutto», provò a scherzarci su Alex, ma quando si accorse che Merlino non l’aveva nemmeno ascoltata si schiarì la gola, imbarazzata, ed abbassò gli occhi.
Senza riuscire a controllarsi, si ritrovò a pensare ancora una volta a come li avevano trovati nel parco: abbracciati dietro una grande quercia.
Sapeva che non avrebbe dovuto trarre conclusioni affrettate, ma non poteva proprio evitare di pensare che se non altro quella sarebbe stata la spiegazione più logica ai continui rifiuti di Merlino e al suo non essere chiaro con lei. Magari il suo era un amore segreto, proprio come quello che custodiva lei nel profondo del suo cuore, oppure era spaventato dalla reazione che il personale dell’ospedale e lei avrebbero avuto se si fosse venuto a sapere; o ancora, più semplicemente, non voleva che fosse di dominio pubblico e basta.
Ci avrebbe impiegato un po’ ad accettarlo e a mettersi l’anima in pace, ma sapeva che la simpatia e l’affetto che provava per Merlino non sarebbero mai cambiati, qualsiasi fossero state le sue preferenze sessuali. E voleva che anche Merlino lo sapesse.
Per questo cercò di raccogliere il coraggio e, con le dita intrecciate sullo stomaco, esordì: «Merlino, noi siamo amici, vero?».
Lui la guardò sorpreso. «Certo che lo siamo. Perché me lo chiedi?».
«Perché voglio essere davvero tua amica. Voglio che tu sappia che puoi sempre contare su di me e che puoi fidarti, ecco».
«Grazie, Alex. Per me è lo stesso».
«Bene», sorrise, nonostante il nervosismo. «Perciò se vuoi dirmi qualcosa… sentiti pure libero di farlo». Alex accennò ad Artù con un lieve movimento del capo, ma Merlino non colse il significato del suo gesto, o forse non lo notò nemmeno, e la superò, piombando subito addosso al medico che aveva terminato di visitare Artù e che era appena uscito dalla stanza.
«Come sta? Si tratta solo di una botta, non è così? Non ha subìto danni permanenti, giusto?», iniziò a subissarlo di domande e avrebbe continuato per chissà quanto se Alex non l’avesse preso per le spalle e tirato indietro, rivolgendo al dottor Ellis un’occhiata di scuse.
«La pressione sanguigna, le pulsazioni e i riflessi sono nella norma, ma sarei più tranquillo se gli facessimo una TAC e lo tenessimo sotto osservazione per questa notte».
«Perché?», chiese la ragazza, corrugando la fronte. «Hai detto che è tutto nella norma…».
«Ciò che mi preoccupa è che non ha reagito a nessun altro tipo di stimolo. Abbiamo provato a fargli delle domande, cose semplici, come il suo nome, quello dei suoi familiari e degli amici, ma non ha aperto bocca. Sembra sotto shock».
«E lo è!», urlò Merlino, con un po’ troppa foga. Sia Alex che il medico lo fissarono, quest’ultimo vagamente indispettito.
«Insomma… è stato aggredito, lo sarebbe chiunque», aggiunse, passandosi una mano sulla nuca. «Sono certo che non c’è bisogno della TAC».
«Forse. Ma è meglio esserne certi, non credi? Non c’è nulla di cui aver paura, come esame è del tutto innocuo», lo rassicurò il dottor Ellis, togliendosi lo stetoscopio dal collo ed iniziando ad avviarsi lungo il corridoio. «La mia collega ti spiegherà tutto, ma in questo caso specifico ci serve la firma di un familiare o di un tutore per procedere».
«Non ha né familiari né un tutore. Io sono l’unica persona che ha al mondo».
Quelle ultime parole le aveva pronunciate con la voce rotta dalla commozione e Alex provò una fitta al cuore, sentendosi così vicina al suo dolore e allo stesso tempo così inutile. Le uniche cose che riuscì a fare furono percorrergli il braccio con una mano fino ad intrecciare forte le dita alle sue e fare un passo avanti, verso il dottor Ellis, per esclamare: «Il paziente torna a casa e me ne prendo io la responsabilità. Lo sorveglierò personalmente e se noterò delle anomalie lo riporterò subito qui».
«Non posso di certo costringervi a farlo rimanere qui», fu la risposta del medico, il quale le rivolse un breve sorriso prima di dare loro le spalle definitivamente.
Alex respirò profondamente e fece per portarsi le mani al viso, quando si rese conto che Merlino non aveva alcuna intenzione di mollare la presa. Si girò per lanciargli un’occhiata interrogativa e lui, nonostante gli occhi lucidi, le sorrise.
«Sei incredibile. Artù ti ha dato della strega, ti ha minacciata con un pugnale e tu… tu continui ad aiutarlo».
Alex si sciolse in un sorriso e dimentica persino dell’imbarazzo confessò: «Non sto aiutando lui, ma te». 
Quindi gli colpì il braccio con un pugno leggero e si allontanò, senza aspettare una sua risposta.

 

***

 

«Possiamo andare?», chiese Alex, sorridente.
Merlino annuì e gettò un’occhiata ad Artù, al suo fianco.
L’infermiera aprì l’auto con il piccolo telecomando e si sedette davanti al volante. Solo allora Artù parve tornare alla realtà ed afferrò saldamente il braccio del mago, tenendo gli occhi sempre fissi su quella scatola di metallo e vetro dentro la quale si era infilata la ragazza che aveva scambiato per una strega.
«Questa devi proprio spiegarmela», disse.
Merlino seguì il suo sguardo e non poté trattenere una breve risata. «È un mezzo di trasporto, si chiama “automobile”. È molto comune, persino io ne ho una».
Artù lo guardò strabuzzando gli occhi. «Tu possiedi una di queste… cose? E sei in grado di condurla?».
«Non è stato facile imparare, lo ammetto, ma sì».
Alex tirò giù il finestrino del lato passeggero e si sporse verso di loro. «Qualcosa non va?», chiese con cipiglio perplesso.
«No», rispose Merlino. «Arriviamo».
Aprì la portiera dei sedili posteriori e con un cenno del capo invitò Artù a salire, poi si infilò al suo fianco e si allungò su di lui per allacciargli la cintura di sicurezza. Quando ebbe finito trovò gli occhi di Alex che lo fissavano attraverso lo specchietto retrovisore.
«Siamo pronti», esclamò.
Alex inserì la prima marcia e partì lentamente, uscendo dal parcheggio dell’ospedale ed immettendosi nella strada praticamente sgombra. Ciononostante Merlino sentì Artù irrigidirsi al suo fianco e guardare tra lo spaventato e l’incredulo fuori dal finestrino.
«Come diavolo fa a muoversi senza cavalli?», chiese, bisognoso di soddisfare la propria curiosità e forse di essere anche rassicurato sulla sicurezza di quel mezzo. Peccato però che non l’avesse fatto a bassa voce. Alex, infatti, roteò gli occhi al cielo e sbuffò miseramente.
«Fantastico, è tornato il re di Camelot. La prossima volta vedrò di colpirlo più forte».
«Non ci sarà alcuna prossima volta», si affrettò a dire Merlino, per poi voltarsi verso Artù. «A questo proposito, credo che dobbiate delle scuse ad Alex».
«Come? Di cosa stai parlando, Merlino?».
«Non vi ricordate? Pensavate che Alex fosse una strega e che mi avesse fatto del male. Le avreste tagliato la gola se lei non fosse riuscita a mettervi al tappeto, colpendovi in testa con una padella».
«Giusto per essere chiari», si intromise Alex, fissandoli entrambi attraverso lo specchietto retrovisore. «Io non ho alcuna intenzione di scusarmi per questo».
Artù corrugò la fronte e per un paio di secondi rimase in silenzio, a bocca aperta, poi si colpì le cosce con le mani, arrendevole.
«Mi dispiace di avervi dato della strega e di aver tentato di uccidervi, Lady Alexandra. Spero possiate perdonarmi».
Alex si strinse nelle spalle, mordendosi un sorriso. «Okay. Ma con questa sono due i boccali di birra che mi devi offrire».
Merlino inarcò un sopracciglio, ma non chiese spiegazioni.
Per tutto il resto del viaggio nell’abitacolo regnò il silenzio e lo stregone ne fu felice, perché sapeva fin troppo bene che una volta solo con Artù avrebbe dovuto rispondere a mille e più domande sulle “stranezze” del mondo del Ventunesimo secolo.
Nessuno parlò nemmeno quando Alex parcheggiò l’auto di fronte a casa sua: una tra le tante piccole villette a schiera a due piani, con un bovindo rettangolare sulla facciata a punta triangolare e un semplice steccato in legno come cancello d’entrata al piccolo giardino, la cui privacy era assicurata da folti cespugli di bellissime rose rosa e gialle e spontanei fiori di lillà.
Solo quando si trovarono tutti in salotto, Alex si voltò per chiedere: «E adesso che si fa?».
Merlino ricambiò il suo sguardo, poi disse ad Artù di andare a prendere ciò che aveva lasciato nella camera da letto. Il re non ne fu entusiasta e Merlino avrebbe giurato che gli avrebbe ricordato, di fronte ad Alex, che come suo servitore quello era un suo compito, ma sorprendentemente serrò le labbra e si avviò su per le scale, lasciandoli soli.
«È ovvio che non può più stare qui», aggiunse Alex, assumendo un’espressione severa. «So di aver detto che l’avrei sorvegliato personalmente, ma ho un lavoro, una vita, e dopo quello che è successo stamattina non mi sentirei proprio tranquilla a…».
«Non te l’avrei mai chiesto, Alex».
La ragazza sollevò gli occhi nei suoi, sorpresa, ed imitò il sorriso che gli aleggiava sulle labbra, molto più tranquilla.
«Hai fatto fin troppo per Artù e non potrò mai ringraziarti abbastanza».
Lei mosse una mano, come a voler scacciare una mosca, e poi se la passò sui capelli raccolti nello chignon. «L’avrebbe fatto chiunque».
«Non ne sono affatto convinto», rispose Merlino, avvicinandosi d’un passo.
Alex alzò gli occhi per immergerli nei suoi e il mago sentì quella usuale fitta allo stomaco, quel desiderio impellente di chinarsi, stringerla tra le braccia e…
Artù si schiarì la gola alle loro spalle, facendoli sobbalzare entrambi. Si scostarono velocemente l’uno dall’altra, imbarazzati, e Merlino stiracchiò un sorriso, chiedendogli: «Avete preso tutto?».
«Non trovo i pantaloni, la maglia di ferro e…».
«Oh, quelli sono in cucina. Li ho lasciati lì, quando vi ho messo i vestiti che state indossando».
Artù parve accorgersi solo in quel momento del suo abbigliamento: una maglietta a maniche corte che gli fasciava il petto muscoloso, una felpa con la zip slacciata e un paio di jeans. Aprì la bocca per chiedergli qualcosa, ma Merlino lo fulminò con lo sguardo e la richiuse, rimandando anche la questione abbigliamento a più tardi.
«Che cosa nascondi dietro la schiena?», gli chiese all’improvviso Alex, attirando la loro attenzione.
Il re si irrigidì, dondolandosi nervosamente sui talloni. «Ecco, io…».
«Artù?», lo esortò a sputare il rospo lo stregone, aggrottando la fronte.
«Temo di dovervi delle altre scuse, Lady Alexandra», mormorò, mostrando loro ciò che aveva tenuto dietro la schiena.
Alex sgranò gli occhi, iniziando a respirare affannosamente, e lo raggiunse a piccoli passi. Prese tra le mani la sua piastra per capelli, irreparabilmente spezzata in due, e la fissò incredula fino a quando la rabbia non le fece alzare gli occhi su Artù, il quale dovette richiamare a sé tutto il proprio coraggio per non arretrare.
«Artù… Perché?», chiese sinteticamente Merlino, sconvolto.
«Pensavo fosse una specie di arma magica! Mi dispiace!».
Alex sbuffò forte dal naso, come avrebbe fatto un toro inferocito, e gli rivolse un’occhiata astiosa. «Avrei dovuto lasciarti annegare, ecco cosa!».
Artù parve punto nel vivo e serrando forte la mascella esclamò: «Sarei riuscito a cavarmela benissimo anche da solo! Anzi, non siete stata voi a salvarmi, dato che senza di me non sareste riuscita a tornare indietro!».
Alex strinse i denti, con i pezzi della piastra per capelli ancora in mano, e Merlino temette che sarebbe potuta diventare una vera strega proprio in quel momento, se non fosse intervenuto lui.
Fece per mettersi tra i due, ma la ragazza gli puntò contro l’ormai inutilizzabile piastra per capelli – anche se come arma contundente non sarebbe stata affatto innocua – e lo costrinse a fermarsi sul posto.
«È vero, senza il tuo aiuto probabilmente non sarei riuscita a tornare a riva, ma già che siamo qui lascia che ti dica una cosa». Assottigliò gli occhi, avvicinando il viso ad un soffio dal suo, e gli puntò un dito sul petto. «Il vero re di Camelot non si sarebbe mai fatto stendere da una ragazza e dalla sua padella».
Merlino si passò una mano sulla faccia, preparandosi a fare da scudo umano a uno dei due nel caso la situazione fosse diventata tanto critica.
Nonostante la rabbia cocente che doveva provare in quel momento, Artù non rispose a quella terribile provocazione e si voltò, impassibile, verso il suo servitore.
«Andiamo via, Merlino», disse in tono piatto, ma comunque ben lungi da accettare rimostranze.
Gli passò accanto, diretto verso la porta, e gli mollò tra le braccia il mantello e l’armatura, con così poca delicatezza che per un attimo Merlino pensò che gli sarebbe caduto tutto quanto. Quindi uscì sbattendosi la porta alle spalle.
Il mago sospirò e cercò gli occhi di Alex per scusarsi al posto di Artù, ma la ragazza gli indicò la porta con un cenno del capo, dicendo: «Dovresti andargli dietro, per evitare che si cacci in qualche altro guaio».
Merlino annuì mestamente e si girò, quando Alex lo chiamò di nuovo. La guardò con un luccichio di speranza negli occhi, ma gli ricordò soltanto di prendere anche lo zaino, lasciato lì nell’ingresso.
«Sì, grazie. Ehm…».
«Che c’è, Merlino?».
«Non posso andare in giro con tutta questa roba tra le braccia, pesa un accidenti».
Alex parve comprendere e sparì in cucina, da dove tornò con un grande sacchetto di carta, con la firma di un negozio d’abbigliamento femminile stampata sopra. Lo aiutò ad infilarci dentro tutti i vestiti e l’armatura di Artù, poi gli aprì la porta di casa.
Merlino le passò accanto a testa china e una volta sotto il piccolo porticato disse: «Mi dispiace Alex, sul serio».
«Era una vecchia piastra per capelli, ne avrei comprata una nuova a breve».
«Te la ripagherò comunque. Ma non mi riferivo solo alla piastra. Di solito Artù non si comporta così, lui… sono stati due giorni difficili».
«Non devi darmi spiegazioni. E non ce l’ho con te, né con lui… Sono stati due giorni difficili anche per me e sono scoppiata».
Merlino imitò il suo lieve sorriso e si strinse il collo tra le spalle. «Allora non è che potresti darci un passaggio fino a casa?».
Il sorriso di Alex crebbe in larghezza come in malignità. «Sai, ad essere sincera quella piastra ce l’avevo da un mese soltanto e sono incazzata nera con Artù. Perciò no, non vi darò un passaggio fino a casa. Ci vediamo, Merlino». Detto questo gli sbatté la porta in faccia, lasciandolo stordito sul vialetto di pietre grezze.
«Magnifico», mormorò, iniziando a percorrerlo per raggiungere il cancello in legno, socchiuso.
Trovò Artù appoggiato al cofano dell’auto grigia di Alex. Osservava quella via tranquilla, con le case tutte in fila l’una all’altra, i giardini curati, i vialetti con le auto parcheggiate sotto il sole e un campo di pallido fieno a renderla una via senza sbocchi.   
«Sei sempre stato pessimo a sceglierti gli amici», esclamò, senza nemmeno guardarlo.
Merlino gli rivolse un’occhiata eloquente. «Sì, me ne sono accorto molto tempo fa».
Artù colse la frecciatina ma non rispose: non era dell’umore per accettarle e riderci su. Si alzò dall’auto e si stirò le spalle, spingendosi i gomiti verso la gola con le mani.
«Allora, dov’è il tuo carro di metallo?», gli chiese, impaziente.
«A riparare», rispose semplicemente Merlino. «Grazie a voi ci siamo assicurati una bella camminata».
Artù sbuffò, passandosi una mano tra i capelli biondi, e lo seguì lungo il marciapiede. Si era scusato troppe volte quel giorno, il suo orgoglio non era disposto a tollerarne delle altre, perciò esclamò: «Meglio così, un po’ di moto ti farà bene».
«A voi, forse, che siete rimasto fermo sul fondo del lago per più di millequattrocento anni».
Merlino si rese conto troppo tardi di essere stato indelicato, ma viste le circostanze decise di ignorare la delicatezza: la prossima volta ci avrebbe pensato su due volte prima di rompere la piastra per capelli di Alex.

 

***

 

La collega a cui Alex aveva dato il cambio le aveva assicurato che i bambini erano già tutti a letto, quindi rimase a bocca aperta quando, durante la “ronda” – come la chiamavano gli infermieri notturni – scoprì che alcuni dei loro piccoli pazienti, tutti riuniti nella camerata più grande, erano più che svegli.
«Dovreste essere a letto», esclamò a bassa voce, guardando severamente i più grandi del gruppo e chiudendosi la porta alle spalle.
«Stiamo aspettando Merlino. Ieri non c’era, quindi…».
Alex sospirò e si avvicinò al primo dei lettini per infilare le braccia di Steve, un bambino di sei anni appena e con una grave forma tumorale ai polmoni, sotto le coperte.
«E che cosa vi fa pensare che questa sera invece verrà?», chiese, odiando ancora di più Artù per ciò che la stava costringendo a fare: dire a quei poveri bambini che non ci sarebbero state favole della buonanotte nemmeno quella sera.
«Perché ci avrebbe avvisato, almeno», ribatté con convinzione Mark, tredici anni, uno degli ultimi arrivati, a cui era stato diagnosticato il linfoma di Hodgkin e aveva da poco iniziato la chemioterapia.
Alex continuò a rimboccare coperte, pensando a come avrebbe potuto rispondere a questo. Non era affatto da Merlino comportarsi in quel modo, lui che si era sempre fatto in quattro per poter stare almeno un po’ ogni sera con i bambini, ma da quando era comparso Artù era come se non ci fosse nulla di più importante, come se tutto il resto fosse addirittura scomparso.
Non era obbligata a difenderlo, probabilmente non se lo meritava, ma fu più forte di lei.
«E va bene», esclamò, guardando i bambini che la stavano fissando trepidanti. Avrebbe comunque spezzato loro il cuore, ma almeno Merlino sarebbe stato salvo.
«La verità è che ieri mattina Merlino mi ha detto che in questi giorni non sarebbe riuscito a passare perché sarebbe arrivato un suo amico da molto lontano. Mi ha chiesto di avvisarvi, perché lui non avrebbe fatto in tempo, ma… mi sono dimenticata. Mi dispiace, bambini… Non so dove ho la testa!».
I piccoli pazienti si guardarono in silenzio l’un l’altro, giù di morale, fino a quando Mark non esclamò, sorridendo sghembo: «Non è che sei innamorata, Alex?».
Sobbalzò e proprio non riuscì a non arrossire; lo fece tanto vistosamente che Mark ridacchiò, gettando un’occhiata complice ad Abigail, sua coetanea ma molto più abituata alla vita in ospedale, dato che da più di due anni, cioè da quando le era stata diagnosticata una forma acuta di leucemia linfoblastica, alternava visite frequenti a lunghi periodi di ricovero.
«Ehi, voi due, smettetela! Piccoli impiccioni che non siete altro!», li rimproverò, trattenendosi dal battere i piedi per terra.
«E va bene, va bene», disse Mark, alzando le mani in segno di resa. «Per questa volta siamo disposti a perdonarti…».
«Grazie mille, non sarei proprio riuscita a dormire sonni tranquilli sapendo che eravate arrabbiati con me», rispose con una vena di sarcasmo.
«Ma ad una condizione!».
Alex assottigliò gli occhi e si posò le mani sui fianchi. Quella sera erano proprio dei piccoli diavoli!
«Sentiamo questa condizione».
«Io e Abby abbiamo promesso una favola ai più piccoli e, costi quel che costi, avranno una favola».
«Oh, vi prego, lo sapete che non sono brava ad inventare le favole».
«Non dovrai inventarle: Merlino lascia sempre qui il suo libro».
«Non sono brava nemmeno a leggerle, sapete?».
«Una promessa è una promessa, Alex».
«Non l’ho fatta io, quindi…».
«Se ti rifiuterai, dirò a tutti di chi sei innamorata».
Alex sentì la mandibola cederle, mentre quel terribile scenario prendeva vita nella sua testa. Quando tornò alla realtà, Mark la guardava con gli occhi svegli sicuri della vittoria.
«Non puoi saperlo sul serio», rispose cercando di dimostrare anche un solo briciolo di sicurezza, che non aveva.
«Vuoi mettermi alla prova?».
Alex ci pensò su e no, non ne aveva alcuna intenzione. Ci avrebbe pensato in un altro momento a come potersi liberare di quel ricatto – se davvero si trattava di un ricatto e non di un semplice bluff. Ora doveva pensare ad accontentare quei bambini, ai quali, per quanto a volte potessero dimostrarsi diabolici, voleva davvero un mondo di bene.
«Vado e torno», esclamò alla fine, sorridendo quando i volti dei bambini tornarono a splendere di gioia. «Ma voi fate silenzio: se qualcun altro vi dovesse trovare svegli mi licenziano».
Mark si portò l’indice davanti alla bocca, invitando tutti quanti a non aprire più bocca, e le fece l’occhiolino.
Alex si guardò intorno e quando fu sicura che il corridoio fosse deserto corse verso gli spogliatoi degli infermieri, dove Merlino con il passare del tempo si era guadagnato un armadietto tutto per sé.
Aprì la porta quel tanto che bastava per sbirciare all’interno, poi entrò e cercò la targhetta con su scritto il nome del cantastorie dell’ospedale, trovandola quasi subito. L’armadietto non era chiuso a chiave, perciò le bastò tirare l’anta di metallo grigio chiaro per accedere ad un pezzetto di Merlino. Veramente dentro non c’era nulla di significativo: un paio di cambi di vestiti, un pettine, un piccolo set d’emergenza per lavarsi i denti e un paio di libri, tra cui quello per cui si trovava lì. Lo afferrò e fece per chiudere l’armadietto, quando non riuscì a resistere ed afferrò uno dei fazzoletti che ogni tanto il moro portava legati intorno al collo. Si portò il morbido tessuto rosso al naso e respirò avidamente il suo profumo, appoggiandosi agli altri armadietti con gli occhi chiusi.
Un rumore le fece scattare la testa di lato all’improvviso. Iniziò a boccheggiare, scioccata e colta in flagrante nel bel mezzo di qualcosa che non avrebbe mai dovuto fare.
«Keith», squittì, dandosi subito della stupida.
«Alexandra», la salutò il dottor Ellis, sorridendole come se non si sentisse affatto a disagio nel mostrarsi a lei con solo un asciugamano avvolto intorno alla vita. Ma, Alex avrebbe dovuto ricordarselo, lui non si sentiva mai a disagio nel mostrare il proprio corpo perfetto e dai muscoli scolpiti, di fronte al quale persino il David di Michelangelo sarebbe impallidito.
«Che ci fai nello spogliatoio degli infermieri con, uhm… è la sciarpa di Merlino, quella?».
Alex si accorse di essersela portata al petto e sorrise imbarazzata, gettandola di nuovo dentro l’armadietto. «Sì, era caduta».
«Mi sembrava che ci stessi facendo altro, ma sorvolerò».
«Ottima idea. E tu che ci fai ancora qui a quest’ora?».
«C’è stata un’emergenza al pronto soccorso e mi sono trattenuto. Un uomo stava tagliando la legna nel giardino dietro casa quando l’accetta gli è scappata di mano e… beh, puoi immaginare».
«Dev’essere stato proprio un bello spettacolo», commentò, stirando un sorriso nervoso.
«Così bello da togliermi l’appetito».
Alex aspettò qualche secondo e poi si avviò silenziosamente verso la porta, sperando che Keith la lasciasse andare senza dire altro. Le sue preghiere però, come sempre, non vennero ascoltate.
«Come sta il tuo amico?», le chiese, prendendo un altro asciugamano dalla panchina per passarselo sui capelli corti e sulle spalle.
«Quale amico?».
«Quello che ho visitato stamattina».
«Io e lui non siamo affatto amici», disse con una certa irritazione, ripensando alla fine che quell’imbecille aveva fatto fare alla sua piastra nuova.
«Scusami, non volevo ficcare il naso, ma ho pensato…».
«Hai pensato male», tagliò corto, per poi dirigersi in modo più spedito verso la porta. «Ci vediamo, Keith».
«Alexandra?».
L’infermiera sospirò pazientemente, socchiudendo gli occhi, ed infilò nuovamente la testa all’interno dello spogliatoio.
«Non ci eravamo più parlati, dopo…».
«Vero».
«Sei ancora arrabbiata con me?».
Alex ci pensò un po’ su, poi scosse il capo, facendo sbocciare un sorriso sul volto del dottor Ellis.
«Ci vediamo allora».
«Ciao», lo salutò Alex, sentendosi all’improvviso più intrappolata di prima, quando non riusciva ad uscire dallo spogliatoio e il corpo di Keith era lì in bella vista di fronte ai suoi occhi.
Cercò di scacciare via quell’immagine dalla testa e respirò profondamente, stringendosi al petto il libro di favole di Merlino.

 
«Cominciavamo a pensare che il fantasma dell’ospedale ti avesse rapito», esclamò Mark.
«Non c’è nessun fantasma dell’ospedale», rispose bruscamente Alex, afferrando una sedia e sistemandola tra il secondo e il terzo letto della camerata, in mezzo a tutti i bambini. «E ora facciamola finita. Quale favola volete che vi legga?».
«Quella del grifone!».
«No, quella del goblin è più divertente!».
«L’unicorno, l’unicorno!».
Mark si alzò in piedi dalla propria sedia a rotelle e fece segno di fare silenzio. Quando tutti gli occhi furono puntati su di lui, disse con voce pacata: «Facciamo a votazione. Alzi la mano chi vuole la storia del grifone».
Una piccola manina, quella di Steve, si alzò.
Alex, in attesa che finissero le votazioni, iniziò a sfogliare alcune pagine del libro, scoprendo che quello non era un libro di favole qualunque: era completamente scritto a mano, con una grafia bella e dall’aspetto antico, e le parole erano accompagnate da tanti bellissimi disegni, colorati oppure semplicemente in bianco e nero, ma così particolareggiati e realistici da toglierle il respiro.
Non fu solo una metafora – il respiro le mancò veramente – quando i suoi occhi si posarono su quello che doveva essere un ritratto di re Artù nel giorno della sua incoronazione. 
Due particolari attirarono la sua attenzione: uno meno evidente, ossia lo stemma col drago dorato cucito sul mantello rosso vivo e lungo fino ai piedi; il secondo, il suo viso serio e concentrato, fiero di portare quella splendida corona d’oro e allo stesso tempo un po’ spaventato, consapevole che da quel giorno in poi avrebbe avuto un regno e la vita di tutti i suoi abitanti tra le mani.
Lo stemma sarebbe potuto essere benissimo il vero simbolo araldico della casata della famiglia Pendragon, ma quel volto… Perché mai Merlino avrebbe dovuto disegnare re Artù con le stesse identiche sembianze di Artù l’imbecille che le aveva rotto la piastra?
«Alex? Alex, sei tra noi?».
La ragazza scosse il capo, trovando il viso di Mark ad un soffio dal proprio, e sbuffò allontanandolo spingendo due dita sulla sua fronte.
«Avete deciso?», chiese annoiata.
«Da un pezzo! Ma tu eri troppo impegnata ad immaginarti con il tuo innamorato…».
«Ti ho già detto di piantarla. Alla terza, farò in modo che il fantasma dell’ospedale diventi realtà e che ti tormenti tutte le notti».
Mark prese quella minaccia come la barzelletta più divertente che avesse mai sentito e scoppiò a ridere, tornando alla propria sedia a rotelle. Alex aspettò che finisse, prima di chiedere ad Abigail, la voce della saggezza e dell’intelligenza: «Quale storia, quindi?».
«Quella dell’unicorno è andata per la maggiore. Nell’indice è intitolata “Il labirinto di Gedref”».
«Molte grazie, Abby».
Cercò la pagina corrispondente ed iniziò a leggere, trovandosi ben presto tanto coinvolta quanto i bambini.

 
Quando la storia finì, i bambini più piccoli si erano già addormentati nei loro lettini, ma non solo loro: lo stesso Mark, appoggiato al materasso con le braccia incrociate e una guancia su di esse, ronfava da un pezzo.
Alex incrociò gli occhi scuri di Abigail, l’unica rimasta sveglia, e le sorrise, stropicciandosi gli occhi.
«È proprio ora di andare a dormire, adesso. Lo svegli tu Mark?».
Abigail annuì e gli posò una mano sulla spalla per scuoterlo leggermente. Il ragazzino aprì gli occhi e si guardò intorno, spaesato. Non appena realizzò cosa doveva essere accaduto si precipitò a difendere il proprio orgoglio, esclamando a bassa voce: «Non ero stanco, è Alex che non è capace a raccontare».
«Sicuro», rispose l’infermiera, ridacchiando.
I due ragazzini uscirono dalla camerata mentre Alex finiva di rimboccare le coperte dei bambini; poi, non appena ebbe spento tutte le luci sui comodini, li raggiunse.
«Filate nelle vostre camere, teppistelli. E senza farvi beccare, mi raccomando».
«Non mi hanno mai beccato e mai ci riusciranno», disse Mark, strizzandole l’occhio.
Alex lo guardò andare via con le mani sui fianchi e poi posò gli occhi su Abigail, ancora ferma al suo fianco.
«Vuoi che ti accompagni?», le chiese Alex.
«No, volevo solo dirti una cosa».
«Ti ascolto».
Abigail le fece segno di chinarsi e Alex l’accontentò, porgendole l’orecchio.
«Mark crede che tu sia innamorata del dottor Ellis».
Alex trattenne a stento una risata, più che sollevata. Fece per alzarsi e dirle che allora non aveva più nulla da temere, ma la ragazzina la prese un polso, trattenendola.
«Io però lo so di chi sei innamorata veramente», le sussurrò ancora, dolcemente, posando l’altra mano sulla copertina consumata del libro che l’infermiera teneva stretto al petto. «Custodirò gelosamente questo segreto, te lo prometto».
Alex cercò i suoi occhi e le sorrise, accarezzandole i corti capelli castani. Quindi le posò un bacio sulla fronte, mormorando: «Grazie, Abby».
Abigail ricambiò il sorriso e spinse in avanti le ruote della carrozzina, guardandosi indietro una sola volta per augurarle la buonanotte e dirle: «Penso che lui ricambi i tuoi sentimenti».
Alex non rispose, colta all’improvviso da quelle parole, e strinse ancora un po’ di più il libro di favole tra le braccia, chiedendosi se sarebbe mai riuscita a scoprire almeno una parte, anche una piccolissima, dei segreti di Merlino.

   
 
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