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Autore: RandomWriter    09/02/2015    6 recensioni
Si era trasferita con il corpo, ma la sua mente tornava sempre là. Cambiare aria le avrebbe fatto bene, era quello che sentiva ripetere da mesi. E forse avevano ragione. Perchè anche se il dolore a volte tornava, Erin poteva far finta che fosse tutto un sogno, dove lei non esisteva più. Le bastava essere qualcun altro.
"In her shoes" è la storia dai toni rosa e vivaci, che però cela una vena di mistero dietro il passato dei suoi personaggi. Ognuno di essi ha una caratterizzazione compiuta, un suo ruolo ben definito all'interno dell storia che si svilupperà nel corso di numerosi capitoli. Lascio a voi la l'incarico di trovare la pazienza per leggerli. Nel caso decidiate di inoltrarvi in questa attività, non mi rimane che augurarvi: BUONA LETTURA
Genere: Commedia, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Un po' tutti
Note: Missing Moments, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'In her shoes'
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CAPITOLO 45: VERSO LA SEMIFINALE


Avevano ancora il respiro corto e il sudore che imperlava le loro tempie quando rientrarono nello spogliatoio. I cestisti della Atlantic High School, nonostante l’ottimo punteggio con cui avevano concluso il secondo quarto, sembravano troppo concentrati per concedersi di esultare.
Restare seduti su quelle panche, mentre il loro allenatore illustrava i successivi schemi di gioco, era necessario, ma non per questo facile da sopportare: da Erin, la giocatrice di un metro e sessantasette ai quasi due metri di Steve, tutti i ragazzi non vedevano l’ora di tornare a schiacciare le suole contro il pitturato.  
« state giocando alla grande! » si sgolò Boris; l’arteria che correva a fior di pelle all’altezza del collo, convogliava sangue verso il cervello, sembrava pulsare a ritmo con la sua voce “non c’è paragone con l’altra partita! Persino gli spettatori sono rimasti senza parole!”
I complimenti, per quanto dovuti, non erano una sorpresa per i cestisti, consapevoli del diverso spirito con cui avevano affrontato quell’incontro; la tensione della prima gara era svanita, lasciando il posto ad un’inarrestabile carica. Il coach aveva persino avuto difficoltà a contenere le insistenze di alcuni giocatori come Erin o Trevor che avrebbero voluto prolungare il loro tempo di permanenza sul terreno di gioco.
« KIM! » esclamò euforico Boris, additando la giocatrice « non ti ho mai vista così forte in difesa! Non lasci aperture tanto che percepisco addirittura la frustrazione degli avversari! »
La ragazza sorrise modestamente, ricevendo un colpetto affettuoso da Trevor mentre l’allenatore proseguiva:
« Dajan, continua così, attento però a non affaticarti troppo: certi tuoi spostamenti non sono necessari, concentrati più nel gioco sotto canestro. Gordon, Benjamin e Liam… ottimo lavoro! » e, battendo violentemente i palmi, l’uomo si alzò.
I ragazzi risposero con un urlo liberatorio che incrementò, più di quanto non fosse necessario, la loro determinazione e la voglia di far mangiare la polvere agli avversari.
Avrebbero vinto quella partita, Erin lo sapeva: poche volte in vita sua si era sentita così sicura come in quel momento; ormai era riuscita a trasformare la paura di fallire nella paura di perdere ed aveva realizzato come quest’ultima fosse il miglior sprono per costringerla a lottare. Durante il primo quarto, prima di essere sostituita da Kim, aveva dato prova di quanto la sua agilità potesse rappresentare una minaccia per gli avversari.
Ogni volta che riuscivano a segnare un punto, per lei era un passo in direzione dell’Europa mentre ogni volta che erano gli avversari a fare canestro, rappresentava un passo indietro. Con questa visione della partita, non poteva concedere loro alcuno spiraglio, alcuna possibilità di sopraffarli. Tuttavia Boris aveva voluto sostituirla con Kim, nonostante le sue proteste. A zittire ogni ulteriore replica, era stato uno sguardo orgoglioso che l’allenatore le aveva rivolto, prima di sussurrarle:
« lascia che si diverta un po’ anche Kim ».
 
Una volta iniziato il terzo quarto, Boris ricominciò ad agitarsi dal bordo campo, gesticolando con veemenza indicazioni ai suoi giocatori. I cestisti rimasti in panchina, fomentati principalmente tra Wes e Trevor, berciavano un tifo talmente chiassoso che più volte Boris fu costretto a chiedere di ridimensionarlo, per consentire ai compagni presenti sul campo di cogliere i suoi ordini.
Faraize, pur essendo un professore di ginnastica, non riusciva a lasciarsi contagiare dall’entusiasmo dei suoi ragazzi e si occupava per lo più della preparazione atletica e del riscaldamento dei cestisti che dovevano entrare in gioco. Il pubblico, anche se meno numeroso rispetto alla precedente partita, fremeva eccitato dagli spalti, applaudendo ad ogni azione, sia che fosse da parte della Atlantic che da parte degli avversari.  
« non ho mai visto Kim così determinata » mormorò Wes con fierezza, facendosi sentire da Erin « sembra che abbia giocato a basket tutta la vita ».
La ragazza si muoveva sul campo senza tradire alcun affaticamento: i suoi scatti erano sempre al massimo, non perdeva mai di vista la palla e una volta nelle sue mani, non sbagliava un passaggio.
« Kim ha lo sport nel sangue » commentò Trevor con ammirazione. Era estremamente fiero della sua migliore amica e non perdeva occasione per lasciarlo intendere. Allo scambio di battute, prima che Erin potesse replicare, si sommò anche l’opinione di Steve:
« credo che siamo una delle poche squadre ad aver beneficiato dell’introduzione di ragazze sul campo. Se le giocatrici delle altre squadre sono come quelle che abbiamo affrontato nella prima partita, allora possiamo stare tranquilli: Erin e Kim sono i nostri assi nella manica » e scompigliò i capelli alla mora seduta accanto a lui, che ridacchiò imbarazzata.
Non aveva più bisogno di quel genere di apprezzamenti per capire quanto la sua squadra la adorasse: amava quei ragazzi e faticava a capacitarsi di quanto uno sport come il basket potesse essere appassionante, proprio per lei che fino a pochi mesi prima, prediligeva attività individuali come la danza.
Il coach, pur tenendo lo sguardo puntato sul pitturato, non si era lasciato sfuggire quello scambio di battute: aveva un’aria pensierosa e le braccia incrociate al petto.
« se vinciamo questa partita, dopo devo farvi vedere una cosa… » annunciò d’un tratto, sibillino.
Quella dichiarazione sollevò l’interesse dell’intera panchina e il primo ad esternarla con una domanda, fu Clinton:
« di che si tratta? ». Il ragazzo era intendo a eseguire un esercizio di riscaldamento per poter poi sostituire l’altra ala piccola presente sul campo, Liam.
« ne parleremo una volta che li avrete stracciati » negoziò Boris, facendo segno al giocatore di accomodarsi al banco dei cambi.
Mentre i cestisti lo fissavano perplessi, Kim aveva appena intercettato la palla ed era riuscita a farla volare in direzione del capitano: Dajan, con un agile salto, l’aveva mandata a canestro, segnando altri due punti.
I numeri indicati sul tabellone aumentavano inesorabilmente ed erano a favore della Atlantic HS.
Più accresceva il divario di punteggio, più diminuiva la motivazione degli avversari: nei loro occhi cominciava a leggersi la rassegnazione di chi smette di combattere, perché soverchiato da un esito considerato ineluttabile. Persino il loro capitano, non riusciva a reagire: non aveva la stessa carica di Dajan e finiva per comportarsi alla stregua di tutti gli altri giocatori, creando ancora più confusione nello schema di gioco.
Già alla fine del terzo quarto, la partita era decisa: la squadra del Dolce Amoris avrebbe vinto e, come accadde dopo dieci minuti, quella previsione si rivelò inevitabilmente corretta.
 
Aprì leggermente le palpebre, lasciando che un debole fascio di luce comunicasse al suo cervello che un nuovo giorno era iniziato. Stiracchiandosi verso l’alto, con i muscoli del torace che si allungavano nell’assecondarne il movimento, Ambra si godette il suo secondo risveglio a San Francisco.
La notte prima lei e Sophia erano state riaccompagnate a casa da Nathaniel, dopo aver trascorso una serata in allegria. Seppure l’inizio non fosse stato dei migliori, con l’amica che si era chiusa in un inspiegabile mutismo, dopo l’arrivo di Rachel, Sophia si era sciolta un po’ ed era riuscita a recuperare un po’ dello smalto e della vitalità che la contraddistinguevano.
La bionda si voltò verso destra, sorridendo alla vista della posa scomposta della sua compagna di stanza: una gamba era sfuggita all’abbraccio caldo delle coperte e penzolava giù dal letto, mentre le braccia erano piegate ai lati della testa, in una posizione di resa. In una rivista, qualche tempo prima, aveva letto che quel modo di dormire era tipico delle persone altruiste e aperte, in grado di fare facilmente amicizia.
Ambra staccò la schiena dal materasso del divano letto in cui aveva riposato, avvertendone il molleggio contro il sedere. Tentando di fare meno rumore possibile, abbandonò la stanza, recandosi in cucina.
Sin da quando aveva varcato la soglia di quell’appartamento un paio di giorni prima, l’aveva adorato: l’ambiente era composto da due camere da letto, un bagno e una sorta di open space con annessa cucina. Nell’insieme, ogni locale non era molto spazioso, percezione che in Ambra era accentuata dagli enormi saloni a cui era abituata. Eppure, anziché avvertire un senso di claustrofobia, avrebbe scambiato volentieri quell’accogliente rifugio per l’inospitale villa Daniels. Oltre a Sophia, che occupava la camera singola, c’erano altri due inquilini, che però non si trovavano a San Francisco durante il soggiorno di Ambra. Di loro lei sapeva solo che erano fidanzati e che, quando Sophia era fuggita da Allentown, le avevano offerto la possibilità di ospitarla per qualche tempo.
La rossa era rimasta comunque molto vaga sull’argomento, lasciando intuire ad Ambra che tutto ciò che riguardava la sua permanenza in quella città doveva essere avvolto nel mistero.
L’ospite si spostò in cucina, dove lasciò che dell’acqua di rubinetto le riempisse un bicchiere con una deliziosa fantasia di fragole. Tutto in quell’ambiente era piena di personalità, a partire dalle pareti color arancione, tappezzate di cartoline, poster di eventi, foto. Tra queste, la ragazza notò una foto che ritraeva Erin, quando i capelli delle due gemelle erano dello stesso colore. Sophia abbracciava la sorella, sorridendo sguaiata, mentre l’altra aveva una smorfia più contenuta.
La foto risaliva a circa tre anni prima, come potè dedurre dal calendario alle spalle dei sue soggetti; a quei tempi la somiglianza tra le due era impressionante, fatta eccezione per gli occhi: quelli di Erin erano leggermente più scuri. A distanza di così tanto tempo, pur mantenendo la stessa fisionomia, le due ragazze erano diventate molto diverse: Sophia aveva i capelli rossicci, corti, una pelle più abbronzata, uno stile completamente diverso da Erin, che era dotata di un aspetto molto più romantico della sorella.
Si staccò dal murales di foto e tornò vicino alla cucina: la padrona dell’appartamento l’aveva invitata più volte a fare come se fosse a casa sua, ma ciò non era  di certo nelle intenzioni di Ambra; a villa Daniels, avrebbe dovuto aspettare l’arrivo di Molly con una fumante tazza di caffè, rimanendo seduta compostamente nella sala da pranzo. A San Francisco aveva quella libertà che aveva sempre desiderato, la libertà di non vincolare quella degli altri: nessuno avrebbe dovuto servirla, nessuno doveva svolgere mansioni al posto suo.
Una bella caffettiera americana giaceva silenziosa vicino ai fornelli e aspettava solo di essere usata. Sulla teoria era preparatissima, le mancava solo la pratica: aprì una delle ante sopra la sua testa, allungando il collo alla ricerca del caffè:
« alla tua destra » sbadigliò una voce, talmente assonnata da contagiare la volenterosa Ambra.
« beccato » esultò la bionda, individuando una confezione dorata « comunque, buongiorno » le sorrise.
« ‘giorno » biascicò Sophia, appoggiando i gomiti sul ripiano di granito. Teneva ancora gli occhi semichiusi e aveva la bocca impastata dal sonno. Mentre Ambra cercava di dosare la polvere scura, l’amica cominciò a stropicciarsi gli occhi e guardarla con un misto di perplessità e stanchezza:
« ma ti sei già messa in piega i capelli? » indagò, analizzando ogni singolo e impeccabile riccio dorato. L’amica, armeggiando con il macchinario, borbottò concentrata:
« no, mi sono appena alzata anche io »
La rossa non le rispose, ma si voltò verso il piccolo specchio alle sue spalle; quando sulla sua superficie comparve l’immagine della sua chioma leonina che le dominava il capo, Sophia se ne uscì con un’esclamazione di disappunto:
« possibile allora che io debba avere questi capelli mentre tu quelli? » la accusò, fingendosi offesa.
« beh, per quei quattro peli che ho in testa, non ci vuole molto a farli stare a posto » si ridimensionò Ambra, sorridendo comunque lusingata per l’implicito complimento.
« mica sei pelata» obiettò Sophia, sedendosi sul bancone. Il contatto freddo della pietra attraverso la stoffa del pigiama, la fece desistere da quella posizione e tornò a poggiare i piedi per terra. Ambra nel frattempo era riuscita ad avviare la macchina e stava pregando mentalmente per non aver appena innescato una bomba.
« vorrei averne di più. Pensa che fino a qualche mese fa, andavo in giro con le extencion » le confidò, mentre l’amica recuperava due tazze e tirava fuori una padella per le uova.
« secondo me non ne hai bisogno… comunque sia, come mai non le usi più? »
Ambra nel frattempo aveva recuperato le uova dal frigo e, con l’aiuto di Sophia, era pronta a farle cuocere. Misero la padella sul fuoco con un po’ di burro e appena questo cominciò a sfrigolare, la padrona di casa ruppe i gusci. La domanda che aveva rivolto ad Ambra obbligava la bionda a rivivere, come in un flashback, un episodio accaduto mesi prima, quando solo sentire il cognome Travis la mandava sui nervi. Sospirò sovrappensiero, riflettendo su quanti rapporti erano cambiati da allora: aveva rotto la finta amicizia con Charlotte, ne aveva scoperta una più autentica in Lin e aveva maturato un certo affetto e stima verso Erin. Era assurdo quanto l’avesse odiata per quell’umiliante scherzetto; eppure, a distanza di più di quattro mesi da quell’episodio, si trovava a raccontarlo con leggerezza e auto ironia.
« beh » cominciò a narrare « questa storia te la saprebbe dire meglio tua sorella. Però posso raccontarti la mia versione; l’Ottobre scorso, la scuola ha organizzato un’uscita in piscina e quella volta… ».
 
In spogliatoio il chiasso dei cestisti era assordante: nonostante la vittoria fosse scontata, non riuscivano a trattenersi dall’esultare per la grande prestazione atletica di cui erano stati protagonisti; Trevor, i cui tiri da fuori dell’area dei tre punti erano stati micidiali nell’ultimo quarto, era salito in piedi sulla panchina e stava improvvisando una sorta di discorso per il momento in cui avrebbero sollevato la coppa dei vincitori.
« idiota, porti sfiga! » lo redarguì Benjamin, che era particolarmente superstizioso.
« “e adesso, Dajan paga da bere a tutti! » urlava Trevor, incurante degli avvertimenti scaramantici del suo compagno di squadra.
« te lo scordi! » protestò il capitano, le cui finanze erano sempre di modesta entità. Riusciva a raggranellare qualcosa lavorando il sabato e la domenica sera in un locale come cameriere, ma ciò che guadagnava era spesso di sostegno all’economia familiare.
« Castiel una volta ci ha pagato un giro di birre! » protestò Wes, divertendosi a tormentare il povero capitano.
« perché avevamo vinto il torneo regionale » precisò Dajan che, cercando di ignorare ciò che il suo buon senso gli stava suggerendo, infine si arrese:
« se arriviamo alla finale, offro io »
I ragazzi esplosero in cenni di apprezzamento, mentre il capitano cominciava a convertire mentalmente i soldi che avrebbe speso in termini di numero di ore lavorative. Nonostante il rammarico economico, sapeva che tutto sommato non sene sarebbe pentito: quello era il suo ultimo anno come membro della squadra di basket del Dolce Amoris e doveva goderselo fino in fondo.
« comunque raga, Boris ha detto che prima di tornarcene a casa deve farci vedere una cosa » li interruppe Steve, calamitando la curiosità dei compagni, specie di quelli ignari della notizia. Quell’affermazione fece passare immediatamente in secondo piano i loro festeggiamenti e diede il via ad una serie di supposizioni sulle misteriose intenzioni del coach.
 
« cioè? » chiese Kim.
« non ce l’ha detto » le rispose Erin, allungandole una spazzola di legno. La compagna asciugò velocemente i capelli con il piccolo phon da viaggio, beneficiando della loro lunghezza. L’operazione infatti non le costò più di cinque minuti.
Per Kim lo sport era una priorità assoluta e, in quanto tale, le imponeva di sacrificare un po’ di femminile vanità, a vantaggio della praticità: non si truccava mai, teneva un taglio di capelli corto, in modo che asciugarli non le portasse via troppo tempo e prediligeva un look sempre comodo e confortevole. Da quando era iniziato il torneo, aveva notato quanto la sua routine fosse diversa da quella delle altre ragazze, a seguito dell’inevitabile confronto con Erin; la sua compagna di squadra, al termine delle partite, era costretta a dedicare molta più attenzione al suo aspetto, insaponando i lunghi capelli e applicando su di essi dello shampoo per districarne i nodi. Tuttavia era con la loro asciugatura che la mora veniva maggiormente rallentata. Non soddisfatta, dopo aver ottenuto una chioma liscia e luminosa, Erin non riusciva a rinunciare ad una passata di mascara nero sulle sue già lunghe ciglia.
Quel giorno aveva giocato talmente poco che non aveva ritenuto necessario lavarsi i capelli, risparmiando a Kim preziosi minuti di attesa. Del resto, entrambe fremevano all’idea di scoprire quali intenzioni avesse il loro allenatore così, anche se Erin doveva ancora chiudersi la zip del giubbotto e Kim quella del borsone, si precipitarono fuori dallo spogliatoio.
 
Trovarono Boris ad attenderle all’entrata del palazzetto e, stranamente, i maschi non si erano ancora aggregati a lui.
« dove vuoi portarci Bors?” tagliò corto Kim, accomodandosi la spallina della borsa.
« a un’ora e mezza di autobus da qui. Ad Adrian… »
« Adrian? » ripetè Clinton, sbucando da dietro l’angolo del corridoio. Al suo seguito cominciarono a fare la loro comparsa anche tutti gli altri componenti maschili della squadra:
« non è dove giocano gli studenti della  Saint Mary High School? »
A quella domanda, il coach rispose con un sorriso malizioso, mentre le labbra di Erin si arricciarono nella più totale perplessità:
« e chi sono? » esternò.
Ci fu un attimo di silenzio, nell’arco del quale tutti gli sguardi di focalizzarono su Boris: quella sincronia di occhiate scaricava su di lui il compito di rispondere a quel quesito. L’uomo fece segno all’intera squadra di seguirlo verso il pullman che aveva già il motore acceso e intanto dichiarò:
« è una delle squadre da battere per poter andare a Berlino ».
 
Rosalya ricontrollò nuovamente i documenti che aveva con sé: il check-in era stato fatto e la fotocopia della carta di identità era a portata di mano. Con i soldi che aveva guadagnato dalla vendita di cinque vestiti nella boutique di Pam, in aggiunta ai risparmi messi da parte, era finalmente riuscita a realizzare l’obiettivo che si era prefissata un mese prima.
Chiuse con decisione il trolley nero, assicurandosi poi di bloccarne l’apertura impostando una combinazione numerica nota solo a lei.
Ancora sette giorni e lo avrebbe riabbracciato.
Ancora sette giorni e lui la avrebbe riabbracciata.
Se c’era qualcosa di cui aveva un disperato bisogno, era stringere a sé il ragazzo che amava e sentire la sua stretta attorno al proprio corpo. Più volte si era chiesta come Erin riuscisse a sopportare la lontananza di Castiel. Per quanto la riguardava, quella da Nathaniel era sempre più intollerabile.
L’unica risposta sensata che la stilista era riuscita a darsi era che solo chi ha provato la sensazione rassicurante di un caldo abbraccio, ne può sentire la nostalgia. Non riusciva a dimenticare il tenero saluto tra lei e il biondo l’ultima volta che si erano visti, quando si era precipitata a casa sua e si erano dichiarati, sorprendendosi a vicenda della reciprocità di quei sentimenti.
Ancora sette giorni e sarebbe tornata a bearsi di quella felicità.
Solo sette giorni.
 
Per i cestisti non fu semplice trovare dei posti a sedere ravvicinati: lo stadio della città di Adrian era occupato per buona parte, con un afflusso di pubblico decisamente maggiore di quello che aveva assistito alle due partite del Dolce Amoris. Gli occhi di Boris saettavano da un punto all’altro con rapidità, alla ricerca di un punto da cui i suoi ragazzi potessero godere di una buona visione del campo.
« ehi Bors, andiamo là? » propose Steve, indicando uno spiazzo di posti vuoti a parecchi metri da loro:
« e brava la nostra torre! » farfugliò allegramente il coach, riferendosi all’altezza da record del ragazzo.
In modo più o meno confusionario, i ragazzi seguirono come in processione, il loro allenatore che li guidò verso la loro meta. Boris insistette affinchè Erin e Kim si sedessero nei posti davanti, accanto a lui, insieme a Dajan. Il resto della squadra si distribuì nelle altre due file dietro, ricevendo qualche protesta da parte degli spettatori alle loro spalle: una coppia in particolare, fu costretta a spostarsi, appena realizzò l’improvvisa formazione di una muraglia umana dall’altezza media di circa un metro e novantacinque.
Per Erin, in quanto cestista, quella prospettiva del campo era del tutto nuova: sembrava così piccolo e luminoso dal momento che tra gli spalti c’era una parziale oscurità. Tutti i riflettori erano puntati sul pitturato, esaltandone il legno chiaro e le linee di gioco.
« voglio che osserviate come giocano della Saint Mary » esordì Boris, rompendo finalmente il silenzio in cui si era barricato da circa un’ora « sono quelli che avranno la maglia verde ».
« perché vuoi che li guardiamo? » chiese Kim.
« dovete cominciare a studiarli. Dopo la partita di oggi, ho realizzato che avete ottime possibilità di arrivare in semifinale, ma a quel punto è estremamente probabile che i vostri avversari saranno loro »
« intendi la Saint Mary? » lo interruppe Erin.
« esatto. È vero che vi mancano ancora parecchie partite prima della semifinale, ma le squadre che affronterete non sono una minaccia per voi » esplicò l’allenatore. Le sue parole palesavano una certa sicurezza che infuse nei cestisti un grande ottimismo. Tuttavia, l’espressione di Boris divenne sempre più scura:
« saranno loro il vero ostacolo » proseguì, allungando il mento in avanti, quasi ad indicare quei giocatori che non erano ancora scesi sul terreno di gioco « quindi è meglio che cominciate sin da ora a studiarli, del resto… ».
Più passavano i secondi, e più cresceva la curiosità dei ragazzi; la pausa di Boris si stava protrando troppo, poiché rispondeva alla necessità da parte dell’uomo di enfatizzare la propria orazione. Spazientita, Kim fu la prima a sbottare:
« del resto? » lo incalzò adombrata.
« … loro hanno già iniziato a studiarvi » concluse l’uomo, gustandosi l’effetto di quella rivelazione sulle facce dei cestisti. Quella notizia, infatti, lasciò di sasso tutta la squadra, mentre l’allenatore, soddisfatto di quella reazione, proseguì:
« durante la vostra prima partita, ho notato la presenza di un tizio dagli spalti che filmava la partita. Ho pensato che fosse il padre di uno dei giocatori, ma mi è venuto il dubbio che non fosse così quando ho notato che non filmava un giocatore in particolare: a lui interessava la partita in generale e, appena avete cominciato ad imporvi, si è concentrato su di voi. Anche oggi era presente e ha ripreso tutti e quaranta i minuti di gioco. La conferma dei miei sospetti ce l’ho avuta dopo il primo tempo: l’ho visto parlare con l’allenatore della Saint Mary e fargli vedere alcune scene direttamente dalla telecamera »
« si dice videocamera Bors» ridacchiò Clinton «solo i vecchi la chiamano telecamera!»
« shhh » lo zittì Trevor. Aveva un’espressione estremamente seria, come i compagni attorno a lui. Se anche uno spensierato come lui riusciva a carpire la gravità della situazione, allora era chiaro che fosse doveroso da parte tutti, cominciare a preoccuparsene.
« quella squadra può vantare alcuni dei giocatori più forti dell’intero torneo » continuò il coach, lanciando un’occhiataccia a Clinton « il loro capitano, Julius Lanier è considerato una promessa dell’NBA. Pensate che è già stato contattato da diverse squadre professionistiche, come del resto altri due i giocatori della Saint Mary. E’ incredibile come in una sola scuola si siano concentrati dei simili talenti »
« e gli altri due chi sono? » indagò Dajan. Faraize, seduto dietro di lui, lo scrutò con attenzione, cogliendo tutta la tensione del suo studente preferito. Quel torneo gli aveva offerto l’occasione di scoprire un altro lato di quel ragazzo, lato di cui ignorava l’esistenza; quando si trattava del suo sport preferito, Dajan abbandonava l’espressione cordiale e solare e diventava una maschera di serietà e tensione.
« uno è Isiah Reed, guardia tiratrice » illustrò Boris « ha una precisione di tiro pazzesca, tanto che si dice che non abbia mai sbagliato una tripla durante una partita. È il miglior clutch shooter che abbia mai visto da quando alleno le squadre liceali »
« e quand’è che l’avresti visto giocare? » obiettò Wes.
« quando ero io ad allenare la Saint Mary » replicò placidamente l’uomo.
Le mandibole dei cestisti si schiantarono contro il suolo e ci misero tre secondi buoni per metabolizzare quell’informazione:
« t-tu hai allenato i nostri futuri avversari? » balbettò Steve sconvolto.
« embè, pensavate che la preside mi avesse chiesto di allenarvi solo perché sono estremamente affascinante? » si pavoneggiò l’uomo, aprendo le larghe spalle.
« non diciamo stupidate » si infastidì Dajan, con i nervi a fior di pelle.
La stima che traspariva dalle parole del loro allenatore valeva più di ogni dichiarazione: quei ragazzi erano pieni di talento e, con esso, avevano in tasca un biglietto di sola andata per la finale. Rubarglielo, sarebbe stata un’impresa epica.
« comunque li ho allenati fino a due anni fa, poi mi sono licenziato » confessò Boris.
« perché? » si incuriosì Erin.
Il capitano sollevò gli occhi al cielo. Seppure non potesse dirsi disinteressato dal conoscere il perché del licenziamento del coach dalla Saint Mary, non era quello genere di informazioni di cui aveva bisogno in quel momento. Voleva che parlasse loro degli avversari, delle loro caratteristiche e dei loro punti deboli… ammesso che ne avessero qualcuno.
« non mi piaceva quella scuola » replicò vago l’uomo « comunque ora sarà meglio che vi concentriate sul pitturato: la partita avrà inizio a momenti »
« ehi, un attimo! » protestò Erin, anticipando le intenzioni dei suoi compagni di squadra « e il terzo giocatore miracoloso? Hai detto che sono tre no? »
Tutti tornarono a guardare l’allenatore che, incrociando le braccia al petto muscoloso, sospirò leggermente.
« ti dico solo che è oggetto di interesse da parte della WNBA »
Sui volti dei ragazzi si dipinse lo stupore, di cui Erin non riusciva però ad afferrarne la motivazione. Fu solo con l’esclamazione di Wes che capì cosa li avesse tanto sconvolti:
« m-ma…stai parlando di una donna?! »
Boris sorrise astuto e annuì, godendosi nuovamente, nell’arco di pochi minuti, il contraccolpo delle sue parole. Da quando era entrato come coach in quella squadra, quella era la prima volta che i ragazzi lo ascoltavano con tanta attenzione.
All’epoca Erin non sapeva che la WNBA fosse la lega professionistica di pallacanestro femminile del suo paese, ma aveva comunque intuito che rappresentasse un’opportunità unica per un cestista.
« guardate. Stanno uscendo ora le squadre » commentò Boris compiaciuto.
Dodici volti si voltarono anch’essi, fremendo dalla curiosità, verso il pitturato.
Anche se Boris non aveva comunicato loro il numero di maglia del capitano della Saint Mary HS, l’interesse della Atlantic HS si concentrò su un giocatore in particolare.
Era un ragazzo di colore, alto all’incirca un metro e novanta con i capelli rasati cortissimi. Aveva una muscolatura ben sviluppata ed era in testa al gruppo di compagni che lo seguiva.
Nonostante la distanza dal pubblico, si poteva percepire una sorta di aurea di reverenziale timore attorno a lui. Al posto degli occhi, aveva due iridi nere come la notte più profonda e un’espressione minacciosa e combattiva. Non appena la sua figura si era materializzata sul campo, l’atmosfera era come raggelata: Julius Lanier era una macchina da guerra. Una macchina del basket.
Quando i cestisti cominciarono a levarsi le felpe, apparì il loro cognome sulla divisa e i ragazzi del Dolce Amoris, ricevettero l’inutile conferma di aver individuato correttamente il capitano della Saint Mary.
Anche se tra di loro non si parlavano, le loro azioni pensieri erano comuni: il loro interesse infatti si spostò su Reed, la guardia tiratrice. Tra tutti i nomi che passarono sotto i loro occhi però, nessuno corrispondeva a quello nominato da Boris.
« Reed hai detto? » cercò conferma Faraize, unendosi alla silenziosa ricerca visiva dei suoi studenti.
« è quello laggiù » illustro l’allenatore, indicando la panchina.
L’interesse generale shiftò verso il punto segnalato e videro un ragazzo accovacciato davanti ad una persona seduta in panchina. Aveva ancora la felpa addosso, tanto che Lanier gli si avvicinò e Reed, rispondendo con una scrollata di spalle, si mise eretto. Scosse la testa e assecondando il probabile ordine del suo capitano, si preparò alla partita, togliendosi la felpa.
Prima di portarsi a bordo campo, si rivolse per l’ultima volta alla persona seduta in panchina: quest’ultima teneva un cappuccio calato sulla fronte e il mento reclinato verso il basso. Dai lati del viso, si dipartivano due fili bianchi che si congiungevano fino a nascondersi nella tasca destra della felpa.
Dopo le parole di Reed, una mano staccò lentamente gli auricolari e, con un’espressione annoiata, si calò il cappuccio; appena Erin e Kim riuscirono a vedere quei lineamenti, si voltarono l’una verso l’altra.
Avevano già incontrato quella ragazza.
« ed infine, ecco a voi Melanie Green » dichiarò Boris con un certo orgoglio « la giocatrice che è stata contattata dalla WNBA »
Erin stentava a riconoscere nell’espressione quasi assente della giocatrice presente sul campo, quella della persona che l’aveva in qualche modo consolata quando si erano conosciute. La Melanie che aveva chiacchierato con lei era molto più vitale e sorridente rispetto alla figura apatica e minuscola che vedeva ai lati del perimetro di gioco.
La ragazza si spostò al centro del campo, rispettando la posizione che le spettava.
« osservala attentamente Erin » le sussurrò Boris, chinando il busto verso la mora « Melanie ha uno stile di gioco perfetto. I suoi tiri sono di una precisione millimetrica, riesce a segnare sulla lunga distanza e come playmaker è inappuntabile. Ha una visione completa del gioco, non si fa mai rubare la palla »
Erin era troppo sconvolta da quella scoperta per riflettere sulle informazioni che aveva appena ricevuto. Quella ragazza, che le aveva ispirato tanta simpatia al primo incontro, era appena diventata sua nemica.
Come aveva predetto Boris, la Saint Mary aveva una divisa verde, ironia della sorte quel colore ricordava una sorta di tributo ad una delle sue migliori giocatrici. Gli avversari invece avevano una maglia nera e rappresentavano la Roger High School.
La differenza di atteggiamento tra le due squadre era palpabile: mentre i verdi erano tutti estremamente calmi e concentrati, i neri erano molto più tesi e si scambiavano occhiate nervose.
Il fischio acuto dell’arbitro accompagnò il volo della palla in verticale, facendo scattare dieci teste verso l’alto. Tra i due contendenti che erano stati designati dalle rispettive squadre per la conquista della palla, c’era Lanier: la sua elevazione fu di gran lunga superiore a quella dell’avversario e in questo modo la sfera passò direttamente nelle mani della Saint Mary. Era stata Melanie, che portava sulle spalle il numero 8, a intercettarne la traiettoria.
Erin lo notò subito: da quando l’arbitro aveva fischiato, lo sguardo della cestista era mutato drasticamente: era combattivo, determinato a vincere. Con un’agilità indescrivibile, tanto che persino per gli spettatori risultava difficile seguirne i movimenti, riuscì a guadagnare terreno e passare la palla a Reed; la guardia, senza esitazione, lanciò la palla verso il canestro. Il tiro descrisse una parabola incredibilmente alta, la più alta che tutti i giocatori della Atlantic avessero mai visto. Eppure, anche se questo avrebbe dovuto inficiarne la precisione, il canestro venne centrato in pieno segnando la prima tripla.
Gli avversari, che non avevano neanche fatto a tempo a realizzare il cambio di mano, si trovavano ora costretti a subire i primi tre punti di svantaggio.
Quell’umiliazione era bruciante poiché il tabellone segnava che erano trascorsi appena cinque secondi.
« m-ma » balbettò Wes, considerato la miglior guardia tiratrice della Atlantic « non ha praticamente preso la mira! » protestò sconvolto, quasi arrabbiandosi con Boris.
« l’ha presa eccome » sottolineò l’allenatore, che era l’unico del gruppo a non avere un’espressione spiazzata « solo che l’ha fatto in un tempo infinitesimale. Hai visto che meccanica di tiro? La sua è perfetta, da manuale »
Wes ingoiò a fatica un grumo di saliva che gli era rimasto in gola. Si era allenato a lungo per perfezionare la sua precisione nel centrare il canestro ma il livello raggiunto da Reed sembrava sbeffeggiare tutta la sua fatica. Era semplicemente inarrivabile.
Dopo il canestro, gli avversari recuperarono la palla, ma quel possesso non era destinato a durare a lungo: Melanie rubò presto la sfera, sottraendola ad un giocatore maglia nera e, prima che quest’ultimo potesse riappropriarsene, la deviò verso Sharman, l’ala piccola.
I passaggi della cestista erano di una precisione millimetrica; in aggiunta, un po’ come aveva fatto Reed con la sua tripla, Melanie non esitava un secondo in ogni sua azione: sembrava non aver bisogno di guardarsi attorno per capire a chi passare la palla, era come se avesse avuto gli occhi dietro la testa. Sharman palleggiava verso il canestro, incontrando un contrasto avversario serrato. Gli diede man forte il capitano e, con dei rapidi passaggi, i due riuscirono a portarsi sotto canestro, senza alcuna ulteriore difficoltà. L’ala puntò al ferro, mentre Lanier si apprestò a prenderla al rimbalzo. La sfera infatti toccò il metallo così sia il capitano che il pivot avversario saltarono, il primo nel tentativo di mandarla dentro, il secondo per impedirglielo.
A confronto con il fisico più longilineo dell’avversario, la massa muscolare di Julius Lanier era impressionante e le sue lunghe dita arpionarono la palla con una tale presa che a nulla valse l’opposizione contraria. Con una forza impressionante, fu Lanier a segnare per la sua squadra.
Il gioco continuò con quel ritmo serrato, tale che alla Roger High School non fu quasi concesso di toccare palla.
La triade di giocatori nominata da Boris era invincibile.
Gli altri due giocatori della Saint Mary, pur essendo molto bravi, venivano eclissati dal talento di quelli che Boris ben presto battezzò scherzosamente la triade divina.
Essa bastava per schiacciare ed umiliare degli avversari del livello dei Roger.
Mentre tutta la Atlantic era impegnata in commenti, chi di ammirazione, chi di sconcerto, Dajan era l’unico che non fiatava. Teneva lo sguardo fisso sul pitturato e non riusciva a non pensare che se volevano avere qualche speranza di battere quei mostri del basket, l’unica possibilità era far tornare Castiel.
Strinse i pugni, frustrato all’idea di quanto avessero bisogno di lui ma impotente di fronte alla possibilità di pretendere che li raggiungesse. L’ex capitano era stato molto chiaro circa la molteplicità di impegni che lo assillavano e il fatto che fosse sotto contratto con la casa discografica, lo vincolava a rimanere ancora in Germania.
« ce la faremo » gli sussurrò una voce.
L’attenzione di Dajan si spostò a sinistra, incrociando il sorriso incoraggiante di Kim. Diversamente da lui, lei non sembrava affatto preoccupata. Nelle sue pupille anzi, si rifletteva una strana luce:
« non è eccitante sapere che esistono avversari del genere? » esclamò su di giri. Era davvero unica quella ragazza, ed era per questo che gli piaceva così tanto. Anziché deprimersi e angosciarsi per il talento degli avversari, Kim era elettrizzata all’idea di affrontarli.
Con lei accanto, Dajan riusciva a ricordare cosa lo appassionasse tanto di quello sport meraviglioso che inoltre, era diventato il pretesto per non separarsi da lei.
Da quando era iniziato il torneo, gli era capitato in alcune occasioni di farsi assalire dall’ansia, dimenticandosi lo spirito che doveva animare la sua determinazione. Avere quindi accanto una persona come Kim era una garantita iniezione di fiducia. La ragazza riusciva, con una semplice frase, a far svanire tutte le sue preoccupazioni, come se nessun problema fosse così grande da non poter essere superato.
« sono bravini » scherzò lui, sentendo la tensione sciogliersi.
« ammettiamolo: sono dei geni del basket » pattuì Kim « arriveranno sicuramente in semifinale e sarà lì che ci troveranno ad aspettarli » sentenziò con determinazione. Le sue pupille saettavano fiamme alimentate dalla competitività e dalla trepidazione.
Dajan in quel momento le avrebbe stampato un bacio appassionato, se non fosse stato così codardo e circondato da una decina di ragazzi particolarmente chiassosi. Si limitò quindi a sorriderle, mentre Trevor ragionava:
« quindi Boris se vinciamo tutte le partite e loro pure, ci troveremo ad affrontarci in semifinale? »
« esatto, ho controllato i gironi e questo è quello che risulta. Tra l’altro, poiché loro vengono da Trenton, a circa un’ora e mezza da Morristown, probabilmente sceglieranno una struttura a metà strada tra le due città per giocare la semifinale. A quel punto, vi immaginate in che condizioni saranno gli spalti? »
Due intere scuole avrebbero popolato l’arena in cui si sarebbe giocata quella partita.
La smorfia eccitata dell’uomo si trasferì su tutto il resto della squadra: nessuno pensava più alle partite che li distanziavano dalla semifinale. Quella era diventata una tappa scontata e l’idea che tutta la scuola accorresse per fare il tifo li gasava oltre ogni misura.
Erano talmente presi da quell’immagine, che solo il fischio dell’arbitro li destò: il primo quarto era concluso. Appena Clinton puntò lo sguardo sul tabellone, si lasciò sfuggire un’esclamazione poco fine.
39 - 7.
Dalle espressioni pietrificate del resto della squadra, capì di non essere stato l’unico a non aver tenuto sotto controllo il punteggio negli ultimi tre minuti. Erin guardò i giocatori della Roger HS e lesse nei loro volti rassegnazione e sconcerto; nessuno di loro interagiva con i compagni, tenevano tutti il capo chino, chiusi nella loro personale vergogna. Il loro capitano sembrava persino il più disorientato, quasi fosse stato scaraventato a forza su un ambiente con cui non aveva alcuna confidenza.
Erano bastati appena dieci minuti alla Saint Mary per annichilirli.
Rientravano a testa bassa verso la panchina, accolti dagli insulti dei compagni di squadra e del loro allenatore: sicuramente al secondo quarto, buona parte di quella formazione sarebbe stata sostituita.
Il campo venne abbandonato nel più completo silenzio, quasi spettrale.
Nemmeno tra le file della Saint Mary si sollevava qualche esclamazione di gioia, nonostante il dignitoso risultato con cui avevano concluso il quarto. Nel caso di quei cinque giocatori tuttavia, l’atteggiamento era radicalmente diverso rispetto a quello degli avversari: tenevano il mento alto e fiero, assumendo un’espressione determinata e seria, come se la schiacciante umiliazione che avevano appena inflitto agli avversari non fosse una garanzia di vittoria; non potevano permettersi di perdere la concentrazione, né di sottovalutare il nemico, nonostante l’innegabile abisso agonistico tra le due squadre.
Julius Lanier fu il primo a raggiungere la panchina. Sharman si sgranchì il collo, allungandolo all’indietro, mentre Melanie cercò dell’acqua per idratarsi. Il coach dei Roger era un uomo alto, con un probabile passato da cestista alle spalle. Teneva le braccia conserte e batté una mano sulla spalla della sua giocatrice, con un leggero sorriso compiaciuto. C’era qualcosa di estremamente professionale e calibrato all’interno del quella squadra, ed Erin non potè non notare quanto fosse diversa dalla propria; per quanto a volte fossero ingestibili e immaturi, non avrebbe mai rinunciato all’allegria dei suoi compagni di squadra, neanche per giocatori più forti che potessero assicurarle una maggior probabilità di vittoria al torneo.
Ingoiò un groppo di saliva, sentendo crescere l’ansia e al contempo l’eccitazione, dentro di sé.
« sono quelli da battere » ribadì Boris e dopo quella esclamazione, la Atlantic High School, potè tornare a seguire la partita, ammirando e temendo in silenzio i tre mostri del basket che correvano sul pitturato.
 
Il joystick passò dalle mani di un’annoiata Sophia a quelle trepidanti di un ragazzino che le arrivava sì e no all’altezza del gomito. Il logo della GameShop era stampato sul retro della maglia nera della giovane dipendente, la cui giornata lavorativa era particolarmente frenetica quel giorno: il numero di clienti era stato maggiore del solito, specie per lei che lavorava part time nel turno del mattino.
« mi dispiace di non poter chiedere altri giorni di permesso » si scusò, tornando al bancone dove c’era Ambra ad aspettarla.
Era quasi ora di pranzo e, nell’arco di venti minuti, anche il turno di Sophia si sarebbe concluso, lasciandole la libertà di trascorrere il pomeriggio con l’amica venuta da Morristown. La bionda scrollò le spalle, rassicurandola. Per una persona indipendente e autonoma come lei, non era un problema cercarsi un modo per ammazzare il tempo, del resto era da anni che era abituata alla solitudine.
« questa mattina che hai fatto? » le chiese la rossa, passando il codice a barre di un articolo attraverso un impercettibile laser rosso.
« sono stata da Nath »
« ah » commentò laconica Sophia, restituendo ad un giovane cliente il suo nuovo acquisto. Scrutò con una certa invidia la confezione di plastica in cui era raffigurato un personaggio dai capelli viola. Era un videogame uscito da poco e uno dei più attesi dell’anno. Purtroppo per la ragazza, i soldi che riusciva a mettere da parte lavorando, servivano per pagare l’affitto e le altre spese, in cui non erano contemplati quel genere di capricci.
« dice che è rimasto molto colpito dal quadro » la informò Ambra.
L’amica la guardò interrogativa finché riuscì a ricordare che, la sera prima, aveva scordato il regalo che aveva realizzato per il biondo, sul sedile posteriore della vettura con cui erano state riaccompagnate a casa.
« mi fa piacere » borbottò distrattamente. Quella risposta, unita al suo sguardo apatico, indispettì Ambra: arricciò le labbra e cominciò a fissare la ragazza con sospetto:
« che ti prende? » si trovò costretta a chiedere l’altra appena se ne accorse.
« me lo vuoi dire tu? Da quando abbiamo incontrato mio fratello, sei strana Raven »
« smettila di chiamarmi con quel nome, Lady Serpeverde » ridacchiò l’amica, innvervosendosi.
« dimmi la verità, ti sta antipatico Nathaniel, non è così? » insistette Ambra, determinata a non sviare dall’argomento. Di fronte a quell’accusa, Sophia rimase interdetta, incapace di replicare.
No, antipatico no. Ma per qualche motivo, da quando l’aveva strappata dalla gelida morsa dell’oceano, la presenza del ragazzo la metteva a disagio.
« non mi offendo sai, vorrei solo capire » la tranquillizzò Ambra, mettendo quanta più dolcezza possibile nella voce. Space emerse dal retro del negozio, portando in mano un voluminoso scatolone: lanciò un’occhiata fugace alla bionda, indeciso sul da farsi. Sophia intercettò la sua difficoltà e s’intromise:
« ehi Space, vieni qui… questa è la famosa Ambra di cui ti ho sempre parlato ».
Era grata all’amico perché, anche se involontariamente, le aveva appena offerto un pretesto per evitare una conversazione che non aveva nessun desiderio di sostenere. Il ragazzo appoggiò lo scatolone per terra e si limitò ad un cenno del capo, così la bionda completò:
« e tu dovresti essere Timothy, per gli amici Space »
Timothy, che non era avvezzo a ricevere attenzioni dalle ragazze, specie del calibro di Ambra Daniels, annuì impacciato, mentre l’amica sollevava gli occhi al cielo:
« santa pazienza Space! Non potresti provare ad essere più cordiale, una volta tanto? Perché devi essere sempre così sociofobico? »
« non ti scaldare Sophia » la sedò Ambra, appoggiandosi al bancone « si vede che il tuo amico è solo un po’ timido »
Al sorriso complice di Ambra, Space arrossì, fornendo all’amica l’occasione per deriderlo:
« ma guarda un po’, sei diventato tutto rosso »
« ma sta’ zitta » gracchiò in preda all’imbarazzo il moro, prima di sparire nuovamente nel retro. L’incontro con il ragazzo, unico amico di Sophia di cui Ambra era venuta a conoscenza, era durato pochi secondi, ma erano bastati per scatenare nel ragazzo un turbine di emozioni. Sophia ridacchiò, tornando a rivolgersi verso l’affascinante amica:
« non dovresti lanciare queste occhiate ai miei amici. Si montano la testa per una come te »
« ma va’ scema, per così poco » minimizzò Ambra, ignara delle occhiate fugaci che, da ormai una decina di minuti, le venivano rivolte da un gruppo di ragazzi vicino alle confezioni della X-box.
« e comunque tu hai già Armin… a proposito, ci sono stati progressi? » domandò Sophia, controllando l’ora. Ancora quindici minuti e il negozio avrebbe chiuso. Era sollevata che il “diversivo Space” avesse sortito l’effetto di distogliere l’attenzione di Ambra dal fratello. La bionda nel frattempo si era staccata dal bancone, incurvando la schiena.
Sophia era stata la prima persona ad essere venuta a conoscenza dell’esistenza, oltre che dell’identità, della cotta segreta della signorina Daniels:
« la settimana prossima, quando torno a casa, andremo insieme alla serata di gala della città »
La rossa emise un fischio di compiacimento e commentò:
« e che aspettavi a dirmelo? » la rimproverò bonariamente « quando di preciso? »
« il quattordici »
« ma il quattordici è San Valentino! » esultò la rossa, con un sorriso smagliante.
« ci andiamo da amici » sottolineò Ambra, sollevando l’indice. Sophia accantonò un articolo che doveva controllare e fissò dritta negli occhi la ragazza:
« che aspetti a dirgli ciò che provi per lui? »
« dovresti conoscermi ormai Raven, io sono una che odia correre rischi… a contrario di te »
« a volte bisogna buttarsi Ambra… mettere cinque secondi di pura follia nelle nostre azioni »
« peccato che non ne bastino altrettanti per riprendersi da una figura di merda » commentò acida la ragazza « vorrei vedere te al mio posto, Sophia: innamorarsi di uno che non ti ricambia »
La ragazza sollevò le spalle:
« io mi butterei »
« ti butti solo quando non hai niente da perdere. All’amicizia con Armin, o come diavolo lui la considera, ci tengo e non voglio rovinarla per una stupida cotta »
« che dura da più tre anni » puntualizzò sagacemente Sophia, con aria di sufficienza. La bionda la fissò con cinismo e, nel tentativo di soppesare una risposta adatta, si accorse di non trovarla.  Preferì allora cambiare discorso, optando per un classico e intramontabile:
« che si mangia oggi? »
 
 
Il calendario segnava il quattordici febbraio.
Nathaniel uscì dal bagno, asciugandosi i biondi capelli svogliatamente. Detestava usare il phon, preferiva non occuparsi della sua capigliatura, approfittando anche del fatto che non richiedesse particolari cure da parte sua. Si sedette sul letto, curvando la schiena in avanti per leggere i messaggi.
Rilesse con un sorriso sulle labbra la chat che da poco aveva concluso con Rosalya: era strano, ma entrambi continuavano a far finta che, la conversazione che era avvenuta prima della sua partenza non fosse avvenuta. Parlavano di tutto, ma mai di quell’episodio, comportandosi da amici come avevano sempre fatto. Sapeva che era molto presa da dei nuovi vestiti che la zia di Erin le aveva commissionato e quel nuovo progetto le aveva infuso una tale carica, che a volte, nell’allegria che metteva nei suoi messaggi, quasi non la riconosceva. Da quando si era lasciata con Leigh, Rosalya era cambiata; quella vena di malinconia e chiusura che l’avevano colpito di lei, si era attenuata. Il fatto che ora fosse una ragazza più solare e socievole, l’aveva portata ad aprirsi anche con altre ragazze, cosa mai accaduta da quando la conosceva.
A patire da quella considerazione, Nathaniel realizzò che il cambiamento nella giovane stilista si era realizzato molto prima, quando Erin era entrata nelle loro vite. Era stato proprio lui a far conoscere le due ragazze, adottando il pretesto di fornire alla mora un costume per la piscina. In fondo, avrebbe anche potuto chiedere a Molly di procurarglielo, ma quella ragazza venuta da Allentown gli aveva ispirato talmente tanta fiducia sin da subito, che aveva visto in lei l’ultima speranza per tentare di far aprire Rosalya all’universo femminile.
L’esito del suo piano aveva superato positivamente le sue più rosee aspettative: le due ragazze, nell’arco di poche settimane erano diventate inseparabili, tanto che più volte Rosalya gli aveva confidato di sentire per Erin una sorta di affetto fraterno. Con quella ragazza, Rosalya era sbocciata: l’asprezza e la scontrosità del suo carattere, seppur ancora presenti, erano state smussate, portando alla luce un’inattesa dolcezza in lei. Complice di quel miglioramento, anche la grande iniezione di fiducia che aveva ricevuto da Pamela Travis, titolare di quella che stava diventando una rinomata boutique di Morristown, anche se aperta da appena un mese e mezzo. I vestiti di Rosalya facevano un figurone in vetrina e Pam non esitava a raccontare alle clienti, della giovane età della talentuosa stilista. Alcune inizialmente snobbavano i capi, quando venivano a conoscenza che era stata una liceale a realizzarli, ma alla fine erano costrette a cedere al fascino dei vestiti che, una volta indossati, facevano un figurone su chiunque.
« un giorno questi capi costeranno un occhio della testa » attestava con decisione Pam, in quanto prima sostenitrice della grande carriera che avrebbe perseguito Rosalya.
Anche Nathaniel ne era convinto: la ragazza era sul treno diretto verso il suo obiettivo, il sogno che coltivava da anni e per il quale aveva lottato e si era impegnata.
In quel periodo gli veniva spontaneo riflettere su quanto il destino dei suoi amici fosse diverso dal suo: oltre alla stilista, c’era un’altra persona che si stava godendo i frutti del proprio lavoro e talento. Mentre ritornava in bagno per riporre l’asciugamano, l’occhio gli cadde sulla copertina di Rolling Stones, che in qualche modo sembrò vincolarlo a soffermare i suoi pensieri proprio su quell’amico lontano.
Negli ultimi giorni i suoi contatti con Castiel erano diventati molto sporadici, a causa dei crescenti impegni del compositore. Beccarlo in chat era diventata un’impresa, esacerbando nel biondo la consapevolezza di essere lasciato indietro. Ad ogni conversazione con l’amico, il rosso aveva sempre avventure buffe e goliardiche da raccontare, nuove conoscenze su cui aggiornarlo mentre lui, Nathaniel, proponeva il solito piattume.
Appena arrivato in California, più un mese fa, tutto ciò che lo circondava, rappresentava una novità e si deliziava nel riportare a Castiel la descrizione del campus, delle lezioni e della vita del college. Tuttavia, la monotonia era subentrata ben presto: il giro di amici era più o meno costante, le feste tutte uguali e, più passavano le settimane, più nel ragazzo si affermava la consapevolezza che niente fosse cambiato. Per giunta, nell’arco di un mese e mezzo, sarebbe tornato a Morristown dove suo padre si aspettava di sentire che i progetti del suo primogenito erano conseguire una laurea in economia, in modo da amministrare in futuro il patrimonio familiare.
Non c’erano altre opzioni.
Qualche giorno prima, parlando con Rosalya, era venuto a sapere che Erin puntava a iscriversi all’università di Standford, al dipartimento di genetica umana, mentre Iris, che non faceva mistero della sua scarsa propensione per i libri, puntava a mettere da parte dei soldi per aprire una propria serra.
Lysandre sognava di diventare scrittore, mentre Violet, in quanto la più giovane del gruppo, sosteneva di non avere ancora le idee chiare anche se il suo indiscutibile talento artistico, sembrava suggerirle quale fosse la strada per perseguire. I gemelli invece erano stati una fonte di sorpresa: Armin, nonostante l’approssimarsi delle scadenze per le iscrizioni ai college non aveva ancora deciso, mentre Alexy era quello con le idee più chiare di tutti e che avevano lasciato senza parole gli amici: voleva diventare pediatra.
Con il senno di poi, tutti convennero che il suo carattere solare e allegro, unito alla sua adorazione per i bambini, lo avrebbero reso un ottimo medico.
A prescindere da quali fossero i progetti dei suoi amici, tutti qualcosa che a lui, Nathaniel, era sempre stata negata: la libertà.
Sin dai primi anni di liceo, quando era in mezzo a loro, aveva la percezione di quanto la sua vita fosse prevedibile e insignificante; guardava Lysandre scarabocchiare distrattamente frasi segrete sul suo taccuino, immaginandoselo un giorno a recitare nei teatri. Quanto a Leigh e Rosalya, all’epoca era convinto che avrebbero debuttato come coppia di stilisti e se non altro, al cinquanta per cento, aveva azzeccato quella previsione. Alexy e Armin potevano essere ciò che voleva, se solo avessero capito ciò che volevano essere. Ed infine c’era Castiel, la più grande certezza e al contempo, la più grande fonte di apprensione per Nathaniel. Il talento dell’amico per la musica, per ciò che riusciva a comporre con le sue note, era invidiabile e, con i giusti agganci, al rosso poteva solo presentarsi un tappetto dello stesso colore dei suoi capelli. A dispetto di ciò, il caratteraccio da mastino che talvolta l’amico non riusciva a trattenere, poteva mandare in fumo qualsiasi possibilità di successo.
Era anche per questo che il biondo si era lasciato abbindolare dalle parole di Debrah: l’anno prima aveva tenuto all’oscuro Castiel dal suo contratto con il discografico solo per prendere tempo e capire se c’erano speranze di introdurre anche l’amico in quel mondo che forse il rosso agognava più di lui.
Castiel era sempre stato uno che si faceva castelli in aria facilmente e, a dispetto dei suoi atteggiamenti, anche un gran sognatore. Nathaniel non poteva rischiare di illuderlo, facendogli intendere che esistessero delle possibilità anche per lui.
Doveva essere il primo ad esplorare quel mondo sconosciuto e valutare il modo per far sì che anche il compositore si unisse a lui in quel viaggio. Su questo punto di vista, Debrah non aveva poi tutti i torti, ma la sincerità era il pilastro su cui lui e Castiel avevano costruito la loro amicizia, quindi anche a costo di regalargli una falsa speranza, avrebbe dovuto avvertirlo il giorno stesso in cui il discografico della JEX lo aveva contattato la prima volta.
Debrah però era stata davvero abile a cancellare nel biondo ogni remora: si era giocata una seconda carta per accertarsi che non ne parlasse con il suo ragazzo. Secondo lei, se il rosso avesse saputo che quella sera al pub il discografico aveva notato solo Nathaniel, la sua autostima ne sarebbe uscita distrutta.
« quanto ancora vuoi che Castiel si senta inferiore a te? » gli aveva recriminato con rabbia la ragazza. Quella frase era stata una doccia fredda. Non era solo una sua impressione che l’amico si considerasse un gradino sotto di lui, era qualcosa visibile agli occhi di tutti.
Nathaniel chiuse gli occhi, sospirando profondamente: per quanto potesse rimpiangere la piega che aveva fatto prendere agli eventi, per quanto quella situazione avesse fatto soffrire entrambi, quel capitolo della loro amicizia era chiuso definitivamente e Debrah solo un detestabile ricordo.
Quell’anno però non si era chiuso solo quel capitolo: era andato in frantumi anche il suo fragile sogno di diventare musicista. Eppure, per quanto quell’idea un tempo lo solleticasse e gli facesse percorrere dei brividi in tutto il corpo, ormai non gli importava più.
Sua sorella sosteneva che fosse colpa dell’annichilimento del suo spirito, dovuto alla scoperta che fosse stato il loro padre il responsabile del naufragio del suo progetto. Era stato un colpo talmente duro per Nathaniel che la sola idea di cercarsi un altro interesse, diverso dalla musica, gli faceva accapponare la pelle: Gustave Daniels gli avrebbe fatto perdere la passione anche per quello.
I suoi tentativi di ribellarsi all’egoismo paterno erano serviti solo per riaffermare quanto lui fosse impotente di fronte alla volontà della sua famiglia. Si sentiva come un carcerato che continua a cambiare cella: per quanto spostamenti faccia, ciò non toglie che la sua esistenza sia all’interno di una prigione.
Eppure Ambra, la cui sorte non era molto più rosea della sua, nell’ultimo periodo sembrava felice. In lei, specie da parte della loro madre, si era cercato di inculcare l’idea di quanto fosse insignificante a meno che non fosse accompagnata da un marito facoltoso. Ingrid, sin da quando la figlia era una ragazzina, si era sforzata di cercarle il miglior partito in circolazione, istigandola a socializzare, ponendo l’accento unicamente sulle sue qualità fisiche, a discapito di quelle intellettuali. Nonostante gli ottimi voti, nessuno in famiglia aveva mai lodato l’intelligenza di Ambra, ritenendola una dote inutile per una ragazza nella sua posizione.
« penserà a tutto tuo marito » la rassicurava la madre, che evidentemente si riferiva all’unica realtà che conosceva. La propria.
Sin da bambina, crescendo in un ambiente così ostile alla sua personalità, Ambra era stata in collera con il mondo, finché qualcosa in lei si era spezzato: era come se avesse abbattuto un muro, dimostrandole che in quel mondo tanto avverso, c’era un angolo di felicità anche per lei.
Mentre suo fratello si era chiuso e disperato, nell’impossibilità di evadere dalla prigione, lei aveva trovato uno spiraglio di luce, al quale affacciarsi verso la libertà.
 
« se proprio vogliamo rimanere in ambito di metafore… » gli spiegò Ambra « mettiamola così: non ci sono molti modi per scappare da un carcere Natty, ma sicuramente tra questi il più efficace è avere un aggancio all’esterno… e io ho trovato qualcuno per cui valeva davvero la pena uscire e che mi ha aiutato a farlo »
« stai parlando di Sophia o Armin? »
Ambra sorrise enigmatica e si limitò a sorseggiare il thè che aveva ordinato, mentre un leggero rossore le imporporava le guance. Quella mattina, tra i due fratelli era avvenuta la conversazione più lunga e sincera della loro vita, che li aveva portati a confidarsi l’uno all’altra, scoprendo quasi con commozione, un affetto che non pensavano di provare.
 
Il ragazzo si era reso conto, a dispetto dell’opinione materna, di quanto Ambra fosse intelligente e sensibile; notava tutto, non si lasciava sfuggire nulla. Se in passato non fossero stati così occupati a ignorarsi reciprocamente, sarebbe stato più facile per entrambi crescere in quella casa così priva di amore.
All’improvviso, venne destato dai suoi pensieri: il suo cellulare suonò puntuale, secondo la sveglia che il ragazzo aveva impostato; era arrivato il momento di prepararsi, il volo della sorella sarebbe partito prima di pranzo ed erano già le dieci.
 
« Nath sta arrivando » asserì Ambra, riponendo l’i-phone nella borsa. Sophia annuì, recependo distrattamente quell’informazione.
I sette giorni in cui l’amica era stata sua ospite, erano volati, senza che riuscissero a fare metà delle cose che la ragazza aveva preventivato e per questo, se ne rammaricava parecchio. Era stato un po’ strano all’inizio adattarsi alla presenza di una persona con la quale era così amica solo dietro uno schermo. Frequentare Ambra, la mitica Lady Slytherin in carne e ossa, era stata un’esperienza quasi surreale come del resto lo era stato per la bionda che era abituata a interagire con Sophia solo per mezzo della tecnologia.
« non fare quella faccia da carlino abbandonato » scherzò Ambra « quando tornerai dai tuoi, potremo vederci molto più spesso »
« già » convenne l’altra pensierosa.
L’amica non digerì quell’espressione. Era la sua ultima occasione per affrontare un argomento che l’altra, per un motivo o per l’altro, era sempre riuscita ad evitare. Ambra le mise una mano sulla spalla e guardandola dritta negli occhi, tentò con decisione:
« ascolta Sophia, è l’ultima volta che te lo chiedo, poi giuro che non insisterò più : sei sicura che non vuoi parlarmi del perché ti ostini a restare qui? »
Ambra vide gli occhi della rossa ingrandirsi in un’espressione spiazzata, per poi distogliersi dai suoi che la scrutavano con intensità. La sua interlocutrice sembrava sfuggente e, diversamente dal solito, particolarmente riservata:
« sto cercando una persona, e non me ne andrò finché non l’avrò trovata » borbottò infine, con un filo di voce.
« una persona » ripetè Ambra.
« sì »
La bionda metabolizzò quell’informazione in silenzio, poi obiettò:
« non puoi pagare un detective? »
La risposta non le arrivò istantanea. La rossa tergiversava, soppesando le parole migliori con cui esprimersi, come se temesse di rivelare troppo.
Dopo cinque estenuanti secondi di silenzio, la ragazza spiegò:
« a mala pena riesco a tirare fuori i soldi per l’affitto e il resto… »
« se è per questo, ti aiuto io »
Sophia scosse la testa  con decisione, appena udì quella generosa offerta:
« non se ne parla… è una cosa che devo fare io in prima persona, non deve occuparsene nessun altro…e poi… »
« e poi? » incalzò Ambra.
«… ho fatto una promessa »
« che genere di promessa? »
« di quelle che non vanno mai infrante » concluse l’amica con un’espressione criptica.
Ambra sospirò delusa. Da un lato avrebbe voluto insistere, strappare a Sophia quella verità che stava nascondendo a tutti i costi, ma dall’altro, si imponeva di rispettare la sua privacy e la volontà che non venisse violata:
« nient’altro? Mi dici solo questo? » riepilogò amareggiata.
« è abbastanza » precisò Sophia e, assicurandosi che l’amica la fissasse dritta negli occhi, le strappò una promessa:
« tu però non parlarne con mia sorella, ti prego. Lei non sa niente di questa storia »
Non aveva mai visto Sophia con un’espressione tanto greve e scura. Tutto il mistero che avvolgeva quella questione, per quanto angosciasse e incuriosisse Ambra, andava dimenticato, in nome dell’amicizia che le legava.
« d’accordo » convenne infine la bionda, sospirando rassegnata « spero almeno che tu sappia quanto ad Erin pesi questa situazione »
« lo so » tagliò corto Sophia « ho solo bisogno di altro tempo »
Ambra annuì, anche se quella conversazione l’aveva lasciata ancora più confusa; stava per aggiungere dell’altro quando vide giungere nella sua direzione una figura che gesticolava. Si sorprese nel vedere che si trattava di suo fratello, dal momento che non era da lui essere così espansivo ed esagerato nei movimenti.
Nathaniel arrivò sorridendo affabile, con le mani affondate nel caldo giubbotto di marca.
I due fratelli Daniels si abbracciarono frettolosamente, un po’ per l’imbarazzo provato per un gesto a cui non erano avvezzi.
« un altro po’ e ti avrei rivisto a Morristown » finse di rimproverarlo la sorella.
« questo aeroporto è un labirinto! » si difese il biondo.
A quella frase, Sophia non riuscì a trattenere un’istintiva esclamazione:
« ti sei perso di nuovo? »
Nathaniel si grattò la guancia in difficoltà e borbottò una negazione poco convinta, lasciando intuire alle due ragazze che la rossa avesse centrato il motivo del suo ritardo.
« assicurati che non combini guai » commentò Ambra guardando prima il fratello poi l’amica, tanto che i due ragazzi non capirono a chi fosse rivolta quella richiesta. La ragazza aveva provato un’immediata sensazione di sollievo nel vedere che la rossa aveva interagito con il fratello e sperò che dopo la sua partenza, il loro rapporto migliorasse.
Ambra e Sophia si abbracciarono per l’ultima volta, sentendo in quella morsa una fitta di nostalgia. La prima si augurava che il ritorno della seconda ad Allentown non si facesse attendere ancora a lungo e, del resto, la rossa si trovava a sperare la stessa cosa.
Ambra si presentò al check-in, salutando per l’ultima volta, con un sorriso radioso, i due che la videro sparire tra la folla.
« Ambra è molto cambiata » mormorò il biondo, dirigendosi verso le scale mobili.
« no, non è vero » lo contraddisse prontamente Sophia, che, lo precedeva lungo la scala. Non si era nemmeno voltata a guardarlo, ma si sentiva gli occhi di lui addosso.
« che ne sai? » si indispettì l’altro, risentito per essere stato così scontrosamente contestato « la conosco da molto più tempo di te »
« in cosa sarebbe cambiata quindi? » replicò asciutta la rossa, senza scomporsi.
Non si era neanche resa conto che l’imbarazzo che aveva provato in presenza del ragazzo una settimana prima, durante il suo compleanno, era svanito inspiegabilmente. Era bastato vederlo in aeroporto, con quell’espressione disorientata ma sincera e affabile, per recuperare quella sorta di strana complicità che si era creata tra di loro. Era tornata a parlare normalmente con lui, puntualizzando e contestando ogni sua osservazione, come aveva fatto prima dell’incidente in mare.
« è molto più gentile e sensibile » argomentò Nathaniel.
Sophia inarcò le sopracciglia verso l’alto e, con aria di sufficienza, asserì:
« è sempre stata così… come diceva Lynch, le persone non cambiano: si rivelano »
In tutta risposta, Nathaniel ridacchiò, ostentando una finta ammirazione:
« che filosofa che sei, non l’avrei mai sospettato »
« che fai sfotti? » replicò Sophia, voltandosi di scatto verso di lui. Non si accorse però che il nastro mobile delle scale era arrivato al capolinea e per un attimo rischiò di perdere l’equilibrio. Si trovò a saltellare sul pavimento, per sua fortuna immobile, mentre Nathaniel la sorpassava, con un sorriso divertito:
« lo sai, per certi versi mi ricordi qualcuno… » commentò.
« Erin? » replicò sarcastica la gemella, notando il risolino sulle labbra del ragazzo.
Il biondo la fissò per un attimo con intensità, facendola trasalire e rispose sibillino:
« no, tua sorella mai. Non so perché, ma non riesco a guardare te e vedere lei »
Dopo aver ascoltato quelle parole, l’espressione accigliata di Sophia svanì all’istante.
Nathaniel vide le labbra della ragazza assottigliarsi, fino a scomparire in una smorfia amara; il suo sguardo si era appiattito, venendo sostituito da un’espressione amara:
« già… e io non posso farci niente »
Sbattè le palpebre più volte, come se quel ritmo lo aiutasse a mettere meglio a fuoco la situazione: in quel momento la riconosceva a stento; la Sophia che aveva appena mosso la bocca era molto diversa da quella con cui era abituato a interagire. I suoi occhi si erano intrisi di malinconia ma non permettevano a nessuno di leggere al loro interno, l’animo dilaniato della loro padrona. Aveva uno sguardo schivo, rivolto verso il basso e non accennava a volerlo rialzare.
Continuarono ad avanzare in silenzio, finché raggiunsero l’esterno dell’aeroporto, nel mezzo di un via vai di persone:
« non era un’offesa la mia » si giustificò Nathaniel, messo in crescente difficoltà dal perdurare di quel mutismo « dico solo che non vi assomigliate affatto, caratterialmente parlando… e non so perché, ma questo fa passare in secondo piano anche la somiglianza fisica »
La ragazza non replicò, tanto che al biondo venne il dubbio che l’avesse completamente ignorato. Si decise a fare un secondo tentativo, quando udì la sua voce cristallina, abbassata al livello di un sussurro:
« lo so… eppure a volte vorrei essere lei »
Quel commento lo zittì definitivamente.
Per quanto si sforzasse, non riusciva a capire come replicare, ogni frase gli sembrava sbagliata e inoltre, era parecchio spaesato da quel lato così introspettivo e malinconico che mai avrebbe attribuito ad una ragazza solare come Sophia.
Fu così che tra di loro piombò nuovamente il silenzio che veniva però colmato dal frastuono che li circondava.
Seguendo il percorso del marciapiede, uscirono dalla struttura recintata, trovandosi per le strade della città. Mentre il biondo si affannava alla ricerca di un argomento di conversazione con cui spezzare quella tensione, dallo stomaco della ragazza si sprigionò una sorta di muggito lamentoso, più simile ad un rutto soffocato; Nathaniel scoppiò a ridere, quasi sollevato e indagò divertito:
« fame? »
« cosa te lo fa credere? » borbottò imbarazzata Sophia, portandosi le braccia sull’addome, quasi a voler silenziare le sue chiassose membra. Anche se cercava di non darlo a vedere, si intuiva che le stava tornando il buon umore, così il ragazzo ne approfittò:
« dai vieni, conosco un posto qui vicino dove si mangia da favola »
« sei qui da un mese e mezzo e pensi di farmi da guida? » si risentì la rossa. In tutta risposta, Nathaniel alzò gli occhi al cielo:
« ma quanto sei polemica! Possibile che non ti vada mai bene niente di quello che dico? »
« sei tu che sei troppo permaloso. Con Ambra non ho di questi problemi »
Continuarono a punzecchiarsi per strada, discutendo animatamente, al punto che quanto era avvenuto pochi minuti prima sembrava essere stato dimenticato da entrambi. Completamente dimenticato.
Dopo aver camminato per un bel po’, con il vento freddo che sferzava le loro guance, Nathaniel cominciò a guardarsi attorno, visibilmente spaesato. Fu costretto a fermarsi, grattandosi il mento; anche Sophia si bloccò e lo osservò in silenzio, finché la sua ironia, che cercava disperatamente di trattenere, non riuscì a trovare una via di fuga:
« fammi indovinare Dora, ti sei disorientata un’altra volta? Che cacchio di esploratrice sei? »
« ma riesci a stare zitta un minuto? » si spazientì Nathaniel. La ragazza roteò gli occhi all’indietro e patteggiò:
« senti, dimmi il nome di questo posto e ti ci porto io »
Sophia aveva le braccia incrociate al petto e lo scrutava con un’espressione che era un misto tra il beffardo e lo spazientito. Il biondo si vide così costretto ad ammettere il fallimento della sua buona volontà e sventolò bandiera bianca:
« è il Maison Pub »
« IL MAISON PUB?! » ripetè Sophia, esterrefatta. Aveva alzato la voce al punto da far voltare alcuni passanti, che sussultarono sorpresi.
« ma dista quindici chilometri! Con cavolo che è vicino! »
« ah sì, così tanti? » replicò con un’espressione poco sveglia il ragazzo.
La rossa stentava a capacitarsi di quanto Nathaniel fosse incapace di capire in che angolo di mondo si trovasse e, cercando di trattenere l’irritazione e l’incredulità, pattuì:
« senti, facciamo una cosa molto più saggia: dietro l’angolo c’è un Mc Donald: mangiamo lì… sempre che sua maestà non prediliga del cibo più raffinato” lo sfottè, mentre gli occhi dorati del biondo diventavano due fessure.
« con Ambra non sei così acida, vero? » domandò Nathaniel, rassegnandosi a seguire la rossa.
« non è necessario, perché tua sorella non è schizzinosa come te »
« non mi sembra di esserlo » obiettò l’altro risentito.
« non mi sembra di esserlo » gli fece il verso Sophia, i cui morsi della fame cominciavano a renderla intrattabile.
« ti hanno mai detto che sei piuttosto antipatica? »
« sì, ma di solito me lo dicono persone della cui opinione non me ne sbatte un tubo » lo zittì.
Nathaniel strinse i pugni: era sempre stato un ragazzo pacifico e, proprio per questo, mai in vita sua aveva avuto l’istinto di picchiare una donna… ma con la sorella di Erin, quella certezza stava vacillando pericolosamente.
 
Entrarono nel locale, il cui arredamento non era molto diverso da quelli a cui era abituato; nonostante la posizione strategica in cui era stato costruito l’edificio, non c’erano molti clienti. I due si misero in coda davanti alle casse senza fiatare; il biondo non riusciva a motivare l’aggressività della ragazza nei suoi confronti che per contro, pensava unicamente al cibo che avrebbe sbranato entro pochi minuti. Preferiva restarsene in silenzio, dal momento che il digiuno l’aveva messa di pessimo umore e riconosceva di essersi comportata maluccio con il biondo:
« io mi metto in fila per di qua » le disse, spostandosi davanti alla cassa adiacente « così facciamo prima »
Lei sorrise sarcastica, pensando che cercasse di tenere le distanze dai suoi modi da mastino ma non fiatò. Gli aveva già fornito fin troppi pretesti per trovarla insopportabile. Tornò quindi a fissare gli invitanti piatti esposti in alto, lasciandosi tentare dalle ultime novità, pur essendo consapevole che quelle immagini non corrispondevano alla realtà.
Dopo poco, Nathaniel avvertì dietro di lui l’arrivo di una coppia con un rumoroso e irritante chihuahua: il cagnolino abbaiava selvaggiamente, sgolandosi in un verso isterico e inutile, che metteva a dura prova i nervi del biondo. Spiò Sophia con la coda dell’occhio e la vide ridere sotto i baffi, burlandosi della malasorte che gli era toccata. Dai discorsi dei due, capì che l’uno era un avvocato, mentre l’altra era la sua compagna, acida quanto la bestiaccia che teneva in mano. Erano vestiti in modo molto elegante rispetto allo standard della clientela che frequentava abitualmente il fast food, constatazione che li faceva apparire decisamente fuori luogo.
Dopo un paio di minuti, quando mancava poco al suo turno, Nathaniel vide entrare un senzatetto. Aveva un pesante berretto di lana calzato male sul capo, come se una mano invisibile fosse in procinto di levarglielo. La pelle, nonostante il pieno inverno, era bruciata dal sole e solcata da profonde rughe. Gli abiti erano scoloriti e punteggiati di macchie di natura sconosciuta. Calcolando la coda di persone, l’uomo aveva fatto una smorfia in cui si era intravista una dentatura rovinata e per metà inesistente.
Nonostante il suo profondo disagio, si mise in coda dietro la coppia di snob e attese il suo turno. La donna gli lanciò un’occhiata truce e schifata, arricciando il naso per l’odore acre che emanava il nuovo cliente, mentre l’uomo si limitò ad allontanarsi di più da quest’ultimo, arrivando quasi ad urtare Nathaniel.
Il barbone teneva in mano una manciata di buoni sgualciti con stampe sbiadite di promozioni della catena di fast food in cui era entrato.
Sophia era l’unica che lo guardava con tenerezza, chiedendosi se fossero realmente validi o se il tentativo dell’uomo si sarebbe concluso come un insuccesso. Valutò se fosse il caso di pagargli il pranzo ma si sentiva in difficoltà sul come approcciarsi a quella persona sfortunata.
La coda davanti a Nathaniel si era svuota più velocemente rispetto a quella di Sophia, così il ragazzo, mentre dettava l’ordine alla cassiera, sorrise vittorioso verso la rossa, decretando il suo trionfo in una non dichiarata gara a chi avrebbe ricevuto il pasto per primo. La sua soddisfazione però non era destinata a durare a lungo: la commessa fu costretta a farlo aspettare a lato del bancone, nell’attesa che fosse pronto il suo Crispy Mac Bacon. Questa volta toccò alla ragazza arridere alla vittoria, ma fu altrettanto sfortunata da dover aspettare qualche minuto in disparte, nell’attesa che il suo panino venisse preparato:
« siamo pari » commentò Nathaniel con un sorriso pacificatore.
« non esiste! Il pareggio è quasi peggiore della sconfitta » decretò la ragazza, prendendo seriamente quell’infantile sfida. Il biondo ridacchiò, scuotendo il capo:
« ti ricordi quando prima ti ho detto che, per certi versi mi ricordi qualcuno? »
La rossa annuì interrogativa:
« hai alcuni comportamenti che sono tipici di un mio amico »
« sarà mica Castiel? »
Quella risposta prese in contropiede il ragazzo, che ammutolì, mentre Sophia si giustificava:
« ultimamente ‘sto Castiel lo sento nominare da chiunque: da Erin, da Rachel… »
« Rachel ti ha parlato di lui? » soppesò Nathaniel.
« sì, mi ha detto qualcosina. Se mi assomiglia, deve essere proprio un tipo interessante… altro che te » scherzò la rossa, pregustandosi la reazione del ragazzo.
Nathaniel però non si offese, né tanto meno sdrammatizzò su quel commento. Assimilò quella battuta senza fiatare e, dopo aver fissato inespressivo Sophia, distolse lo sguardo, concentrandolo sul listino dei prezzi.
Quel comportamento la spiazzò, rendendola incapace di replicare. Sin da quando si erano conosciuti, si era divertita a stuzzicarlo, ma non aveva mai avuto l’impressione di esagerare; evidentemente aveva superato il limite.
Oppure, aveva appena toccato un tasto delicato.
Mentre tra i due era sceso un silenzio gelido, il barbone si era allungato a chiedere alla donna davanti di lui se i coupon che teneva in mano fossero validi. Il chihuahua riprese ad abbaiare furiosamente, mentre la sua padrona, disgustata dal fetore emanato, abbaiò a sua volta, trattenendo il respiro:  
« e che ne so? »
« non potrebbe leggere? Io non ci vedo da vicino » si spiegò l’uomo, mortificato e abbassando il capo per la vergogna.
« chiedilo alla commessa quando sarà il tuo turno » tagliò corto la donna, nel tentativo di far cadere subitaneamente quel dialogo. Il senzatetto non osò insistere, chiedendosi se gli strani segni che la sua vista miope vedeva sfuocati, racchiudessero la possibilità di nutrirsi di un caldo panino, seppur misero per la fame che aveva.
« faccia vedere »
A parlargli era stata una voce ferma eppure molto gentile. L’uomo alzò il viso, incrociando lo sguardo del ragazzo che stava aspettando da un paio di minuti l’arrivo del suo menù. Nathaniel gli sorrise cordiale, tendendogli una mano, ad incoraggiarlo a consegnargli i buoni che teneva in mano.
Il clochard glieli allungò timidamente e il biondo, dopo una minuziosa occhiata, fu costretto ad annunciargli:
« mi dispiace ma questi buoni non sono validi »
Non puntualizzò che erano scaduti ben due anni prima, solo per non umiliare ulteriormente quell’uomo, più di quanto già non facessero le occhiate sprezzanti degli altri clienti del fast food.
« li avrà rimediati nella spazzatura » bisbigliò la donna verso il compagno avvocato, senza però avere il riguardo di farlo il più piano possibile. Sophia la fulminò con rabbia, diversamente da Nathaniel che finse di non sentire quel commento; la delusione del senzatetto era palpabile, poiché preceduta dall’illusione di potersi permettere un pasto decente. Accartocciò i buoni nella tasca del cappotto troppo largo, appartenuto a chissà quale persona prima di lui e raccattò la roba che si era portato appresso:
« aspetti! » lo bloccò Nathaniel, trattenendolo per un braccio. Quel contatto sorprese l’uomo, normalmente tenuto a distanza dalla gente, come se fosse affetto da una patologia contagiosa:
« ho sbagliato ad ordinare… se vuole le do il mio pranzo » gli propose, mentre la commessa arrivava con un vassoio pieno di roba. A quella vista, gli occhi del senzatetto cominciarono a luccicare per la felicità. Il suo volto era l’espressione più totale della gratitudine, della cui vista, il suo salvatore si deliziò per poco: si girò verso Sophia, che lo fissava allibita:
« contenta ora? Niente più pareggio. Ho perso » osservò con tranquillità.
La ragazza non era affatto d’accordo. Nathaniel non aveva perso un bel niente. Aveva appena conquistato la sua più totale stima. Per quanto si divertisse a tormentarlo, a sottolineare i suoi difetti, la verità era che quel biondino era pieno di qualità di cui lei preferiva negarne l’esistenza.
Mentre lui invitata la giovane commessa a riporre il tutto in una borsa da asporto, Sophia ne contemplava ammirata il sorriso gentile che quasi distoglieva l’attenzione da quello sguardo fiero e intelligente, così simile a quello della sorella.
Il senzatetto se ne andò, continuando a ripetere i suoi ringraziamenti al ragazzo, quasi fossero un mantra e chinandosi, in segno di massima prosternazione.  
Quando la sua figura lasciò il fast food, l’avvocato, per nulla impressionato positivamente da quella scena, replicò stizzito:
« tsk! Non dovrebbero neanche consentire a certi soggetti di entrare nei locali, quando è evidente che non hanno contanti per pagare… meritano di restare per strada. Non ce ne sarebbero così tanti in giro se la gente non si intenerisse a far loro l’elemosina” accusò, lanciando una frecciatina diretta verso il ragazzo accanto a lui « un uomo con un po’ di dignità non dovrebbe mai elemosinare dagli altri »
Sophia sentì il sangue andarle al cervello e inspirò profondamente; Nathaniel poteva anche tenersi la sua diplomazia, sarebbe stata lei a ribattere a tono alle affermazioni spregevoli dello sconosciuto. Il biondo però era molto più interessato alla lotta che si stava svolgendo tra la commessa e la carta di credito che l’avvocato le aveva allungato dopo che lei aveva riempito i vassoi con quanto aveva ordinato. Era già la terza volta che ripeteva lo stesso gesto, ma ogni tentativo risultava fallimentare. Sconfitta, la ragazza squittì timidamente:
« mi dispiace signori, ma la vostra carta viene respinta »
Quell’affermazione sorprese tutti, in primis l’intestatario della tessera:
« non è possibile! » sentenziò perentorio l’uomo « riprovi » le ordinò bruscamente.
« ho già provato quattro volte, ma risulta bloccata »
Nathaniel sogghignò, mentre la donna chiedeva stupidamente:
« e che facciamo? »
La commessa si sentiva un po’ in difficoltà a suggerire la risposta più ovvia, ossia il pagamento in contanti, così attese che fosse l’uomo a tirare fuori il portafogli. Quest’ultimo però non era munito di contanti.
Come aveva previsto Nathaniel, quell’uomo aveva utilizzato la carta proprio per ovviare a quella mancanza, altrimenti non si sarebbe spiegato il senso di pagare con un bancomat un conto così irrisorio rispetto al tenore di vita a cui era probabilmente abituato. Accidentalmente, l’occhio dell’avvocato cadde proprio sul biondo vicino a lui, che non aspettava altro che quel genere di interazione visiva per replicare:
« le offrirei volentieri io dei soldi, ma so che è contro le elemosine per cui… »
Sophia scoppiò a ridere e con lei, anche il resto dei clienti che non si erano persi un secondo della sedia. L’uomo divenne livido di rabbia, mentre la compagna, la cui massa cerebrale era paragonabile a quella del cane che teneva in braccio, cominciò a insultare il locale, seguendo imbufalita l’uomo.
La commessa rimase spiazzata, guardando confusa il vassoio ricolmo davanti a lei, finchè Nathaniel le propose:
« può dare a me quello che hanno ordinato loro » le sorrise, facendola sciogliere per quanto fossero caldi e angelici quegli occhi d’ambra. Il ragazzo buttò lo sguardo su Sophia che, solo in quel momento, vide arrivare il panino che aveva ordinato tre minuti prima.
« si direbbe che ho vinto io » la sfottè con un sorrisino ironico.
La ragazza però rispose a quella piccola provocazione. Afferrò il proprio vassoio e, scuotendo la testa divertita, seguì il biondo alla ricerca del tavolo.
 
 






NOTE DELL’AUTRICE:
 
Salve a tutti ^^
Eh *sospira*… ahimè, pubblicando oggi questo capitolo, di fatto ho battuto il mio record personale di intervallo di tempo tra un aggiornamento e il successivo. Ecco allora che realizzo che è passato quasi un mese dall’ultimo capitolo e per i miei standard è davvero tantissimo >. Tantè che, come alcune di voi hanno notato, avevo inizialmente preventivato di pubblicare dieci giorni fa ma ho dovuto rimandare per mancanza di tempo ç_ç.
Altra cosa: ad alcune lettrici avevo anticipato un capitolo di oltre trenta pagine… il problema è che non ho fatto in tempo a correggerlo -.-‘’. Quindi, per non rimandare ulteriormente la pubblicazione, e per non buttare fuori un capitolo infinito, ecco che ho deciso di spezzarlo in due.
Questo significa che la seconda parte è già stata parzialmente scritta, quindi sicuramente ci metterò meno di un mese per caricarla ^^. Inoltre, è in quella parte che ho concentrato la giornata di San Valentino… quindi, scusatemi, ma vi farò aspettare un altro po’ per leggere qualche scenetta romanticosa :3
Finita questa lunga parentesi, passiamo al capitolo in sé  (mi faccio la recensione da sola XD XD): dunque, la descrizione delle partite è stata molto marginale negli ultimi capitoli e la cosa è voluta: preferisco tenere le scene più dettagliate per le partite importanti come lo è stata la prima e lo sarà/saranno un’altra/le altre in futuro...
In questo capitolo ho voluto mettere un piccolo scorcio del rapporto Ambra-Sophia, visto che rappresenta uno dei rapporti di amicizia più importanti della storia. La descrizione dell’appartamento di Sophia, anche se molto approssimativa, ricalca un po’ il mio ideale di appartamento (sicuramente per quanto riguarda le pareti arancioni!).
Passiamo ai giocatori della Saint Mary: volevo trasmettere una certa tensione e competitività con questa squadra, così ho pensato a questa missione speculativa, capeggiata da Boris che porta i suoi cestisti a vedere una partita degli avversari. Spero che quella parte vi sia piaciuta, poiché la sfida Atlantic HS – Saint Mary HS, sarà una partita dove cercherò di metterci ancora più impegno della prima nel raccontarla ;). È quindi venuto fuori, come molte di voi sospettavano, chi fosse la ragazza misteriosa^^. A questo punto devo spiegare un po’ di riferimenti che solo la diretta interessata può aver colto in pieno: non dico nulla di nuovo se sostengo che per scrivere la parte del torneo, ho prima chiesto un sacco di consigli ad una vera esperta in materia, Manu_Green8. Come ringraziamento, ho pensato quindi di dedicarle proprio il personaggio di una cestista; all’inizio mi sono scervellata a trovare una variante in inglese del nome ma proprio quando mi stavo rassegnarmi che non esistesse, mi è venutoa un’idea: Melanie è il nome della protagonista femminile della sua storia (eh sì, Manu è anche un’autrice ^^), così ecco spiegato l’origine del nome della giocatrice. Il perché del cognome lo lascio indovinare a voi XD. Il numero di maglia e il colore delle divise ovviamente è non casuale, ma per evitare di invadere la privacy altrui, credo che così possa bastare ;).
 Ed infine, quanto al rapporto Sophia-Nathaniel…. Beh, vorrei dire molte cose, ma questo angolo dell’autore si è già allungato troppo -.-‘’. Visto che nel prossimo capitolo questo binomio vedrà l’introduzione di un terzo elemento (Rosalya), rimanderò le mie considerazioni alla prossima occasione ;)
Grazie per la lettura :D
Alla prossima!!

 
  
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