.fiaba.
Vibrando a lungo, poi si cade come un
sospiro di falce,
trapassando lievi strati della
consistenza
ingannevolmente fragile e tradevolmente sottile
di bolle di sapone infranto di sogno
illusorio ed occhi sbarrati.
Con la lentezza paziente e apparentemente
infinita con cui si insinuano
in ogni spazio membra vegetali – e non
si fermano per quanto sforzate, piegate, strappate….
mi districo nelle morbose pieghe di
questi convulsi lacci che mi costruiscono
e avvinghiano in impegnativo, assiduo,
premente abbraccio.
‘State lontani voi, che già n’ho
abbastanza di me?’ chiede ridendo
una graziosa ragazza con cui ho
ingaggiato una danza sperimentale e soave,
trapuntando volteggi leggeri in
pavimento liscio e tralucente.
Attorno sono altri danzanti, è festa e
musica, vociare
e tintinnare di vino e chiocciare di
risa senza peso.
Ma i sorrisi di lei son genuini, quando
non ride,
quando un’espressione come un ago rapido
e pungente
sfugge dalle buone maniere che a memoria
sa,
e, padrona per un balenante momento del
viso,
la fa reagire senza mediazioni a me;
crogiolo il cuore a questi lampi
e mi sento in gola la filigrana che
porta al collo,
come gliel’avessi sottratta in un morso
giocoso,
e ingoiata per sbaglio.
Quando siamo diventati invisibili agli
altri sguardi la invito con me,
la conduco fuori, tra i prati gelidi
della provvida notte,
in cerca di un gufo che vedendoci rida,
prometto serio,
e lei crede di capire ed è così
gioiosamente fiduciosa.
Poi si infrangono i confini curati di
giardini elegantemente modellati
e nel ritaglio che ho fatto con le
unghie
anche lei scorge il bosco senza
sentiero,
la luce della luna senza remore
che compare e riappare
senza promesse ma in sensuali agguati.
Gentile chiedo ‘vieni?’,
ma già il suo viso ha mille risposte
tutte negative.
Niente luccica nel folto del bosco,
niente schiamazza tra i tronchi
immobili, le fronde mormoranti
e gli odori strani, sottili, poco
avvezzi a lei,
ma non si dovrebbe pensare che non sia
viceversa forse.
Piano le lascio la mano, piano mi scosto
e m’allontano.
‘Vieni’ chiamo ancora, più piano e più
speranzoso,
ma non è rimasto più nulla, si vede
bene,
e i miei occhi dardeggianti cambiano
colore
sotto la luna, all’ombra del bosco.
Non ho false promesse per nessuno,
nemmeno per lei,
che quelle vorrebbe per scegliere e non
importa così tanto
che io sia stato come un involontario
incanto.
Chiede lei piuttosto di restare, ancora,
a raccontarle oscure storie e paurose
verità,
che già tante ne ha sentite.
Ma ecco, lei vuole sentire storie e
racconti e favole
e io in quelle devo tornare,
il lupo delle malsane fiabe non può mai
troppo restare.
Che questi palazzi stregati di splendidi
giorni caldi e sicuri
lo avvelenano piano, con strisciante
lentezza gli addormentano il cuore,
gli velano gli occhi, gli spuntano
unghie e denti,
gli insegnano cose che già sa e che non
vuole imparare.
‘Vieni’ chiama per ultima volta, appena
un pulviscolo di speranza
mentre gli si adombrano del tutto gli
occhi prima ingannati
da troppo sfavillanti imbrogli.
Ma la fanciulla di fragile filigrana
è rimasta dispersa sull’ordinato prato,
come figurina di un albero ritagliato.
Il lupo deve andare e non può promettere
di ricordare.
Lei che non si volta, non si muove, come
trapassata
nel taglio improvviso di un sogno non
male,
tentenna al freddo fulminante e al buio
sconosciuto.
Non ci sono eroi, draghi, cavalli o
cavalieri,
al massimo una principessa che si recita
con grazia affettata
e uno spazio vuoto e muto,
dove prima la aspettava speranzoso un
ambiguo lupo.
Cosa l’ha inghiottito?
Ma no, sognava forse, ed ecco ora è
sveglia;
ma no, era una fantasia era, che ora si
è rotta;
ma no, era una scelta era, andata
perduta.
E il sentiero che prima appariva è
scomparso
dietro la punta di coda di un lupo
silenzioso.
Ecco, è il tempo di tornare indietro
nelle luminose stanze,
a danzare con passi già conosciuti, a
sorridere e brillare
come una stella riccamente decorata, e
lasciare i sogni
alla notte rapace che sorride sibillina,
ironica, lì accanto alla porta di casa.
Si torna al caldo della realtà così
esorcizzata, mondata
dalle inquietudini che fanno suonare
male la melodia,
chiude la porta lei sul ghigno della
notte fuori dagli occhi
che feriscono come se ingoiasse una
tenera lingua di ardente brace.
Ma ecco sui pavimenti si scivola e le
finestre spalancate,
che entra il vento e precipitano senza
suono le persone, sono di cartone,
brancolano alla cieca foglie morte e
imputridiscono tutte le cose che son fatte di materia,
che sono cadaveri di uccisi per esser a
forza pigiati nell’ingordigia estetica d’uomo.
Una grande tigre siede sul letto della
terrorizzata fanciulla,
è vuota, solo pelle morbida,
‘che un uomo mi ha ucciso e rubato il manto’ spiega.
‘E tu’, dice ancora, ‘vai a nasconderti
bene,
che tra poco verrò a cercarti per
mangiarti.
Ma siccome davvero non vedevi, ti
ingoierò in un solo singulto.
Sono già morta, ma anche tu!’