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Autore: RandomWriter    21/02/2015    7 recensioni
Si era trasferita con il corpo, ma la sua mente tornava sempre là. Cambiare aria le avrebbe fatto bene, era quello che sentiva ripetere da mesi. E forse avevano ragione. Perchè anche se il dolore a volte tornava, Erin poteva far finta che fosse tutto un sogno, dove lei non esisteva più. Le bastava essere qualcun altro.
"In her shoes" è la storia dai toni rosa e vivaci, che però cela una vena di mistero dietro il passato dei suoi personaggi. Ognuno di essi ha una caratterizzazione compiuta, un suo ruolo ben definito all'interno dell storia che si svilupperà nel corso di numerosi capitoli. Lascio a voi la l'incarico di trovare la pazienza per leggerli. Nel caso decidiate di inoltrarvi in questa attività, non mi rimane che augurarvi: BUONA LETTURA
Genere: Commedia, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Un po' tutti
Note: Missing Moments, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'In her shoes'
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46.
HAPPY VALENTINE’S DAY
 



« è il tuo? »
Il ronzio sommesso di una vibrazione cominciò a diffondersi nello spogliatoio, frammistandosi alle chiacchiere delle due cestiste. Alla domanda di Kim, Erin cominciò a guardarsi attorno poco convinta.
« sicura che non sia il tuo? »
« ce l’ho in mano » obiettò Kim perplessa, dondolando lo smartphone che teneva in mano. La compagna si sentì sciocca per la propria disattenzione e  partì immediatamente alla ricerca del suo cellulare; frugando nella tasca laterale, riuscì a riesumarlo e lesse il nome di Rosalya; sbloccò rapidamente lo schermo e se lo portò all’orecchio:
« ehi Rosa, sei arrivata? » esclamò entusiasta.
« sana e salva » confermò radiosa l’amica « e voi? La partita? »
Erin si voltò sorridendo verso Kim:
« SIAMO IN SEMIFINALEEEEEE!!! » urlò, facendo sobbalzare Kim per lo spavento e stordendo Rosalya. Quest’ultima, che quanto ad esuberanza non era seconda a nessuno, replicò poi con urlo carico di altrettanto entusiasmo, condividendo l’allegria dell’amica.
« state volando verso il podio! » considerò, appena finì di strepitare.
« no » la corresse Erin « stiamo volando verso la Germania »
« come siamo ottimiste Cip! » sogghignò la stilista « è l’amore che ti fa questo effetto? »
« parlando d’amore » sviò la mora, arrossendo lievemente « hai già avvertito Nath del tuo arrivo? »
Le vie di quella città erano il background dei pensieri di Rosalya da ormai parecchie settimane: superando le sue aspettative, San Francisco si stava presentando a lei come una città meravigliosamente caotica, colorata, ricca di vita. Per lei, che non era mai uscita dal New Jersey, quell’atmosfera iniettava un’incontenibile adrenalina ed eccitazione. Ormai ne era sicura: in un futuro, viaggiare doveva essere una parte imprescindibile del suo lavoro; sarebbe diventata una stilista famosa, con sfilate organizzate in ogni angolo del pianeta, che le avrebbero concesso di conoscere realtà nuove ed emozionanti.
L’orgoglio di essersi riuscita a pagare quel viaggio in California con le sue creazioni non era quantificabile, forse era appena al di sotto della felicità che la animava all’idea di rivedere Nathaniel.
« in realtà avrei voluto fargli una sorpresa, ma è impossibile non sapendo dove si trovi in questo momento » borbottò, sveltendo il passo e trascinandosi dietro il trolley. 
« è in un McDonald con mia sorella » la informò Erin, chiudendo la zip del borsone.
Quell’informazione fece sussultare l’amica:
« e tu come lo sai? » palesò Rosalya, visibilmente perplessa.
« mi ha chiamato venti minuti fa Sophia per sapere delle partita e mi ha detto che, dopo aver accompagnato Ambra all’aeroporto, lei e Nath erano seduti al Mc »
Un sorriso trionfante si irradiò subitaneo nel volto della stilista: era appena uscita dall’aeroporto, quindi i due non dovevano essere lontani. Eccitatissima, squittì:
« sei la mia Mata Hari »
Erin aggrottò le sopracciglia e, incrociando lo sguardo di Kim che la invitava ad affrettarsi, mormorò confusa:
« e chi sarebbe? »
« studiati un po’ la storia Cip! Che con questa scusa del torneo, rischi di diventarmi una zoticona ignorante come quell’idiota di un rosso disperso in Germania »
« Castiel può sempre contare su una parola buona da parte tua, eh Rosa? Comunque ti ho detto che non è più rosso »
« troverò altri modi per insultarlo, tranquilla » la liquidò l’amica, strappandole un sorrisetto « secondo me tarda tanto a tornare perché ha preso paura delle mail che gli ho mandato »
« finchè gli intasi la posta scrivendogli che lo pesterai a sangue al suo ritorno, ovvio che non sia poi così entusiasta di rimettere piede in America » convenne la cestista.
« ma l’ho fatto per te Erin! Che Cip sei senza il tuo Ciop? »
« Rosa, dacci un taglio, questo discorso rischia di prendere una piega assurda e imbarazzante » borbottò la mora con leggero imbarazzo.
« gli hai detto della semifinale? »
« no, non l’ho proprio sentito »
Rosalya si stoppò, espirò spazientita e roteò gli occhi:
« Cristo santo! Erin! » si arrabbiò infine « sei più cretina di lui! Cosa aspetti a scrivergli? Ah, non mi dire quella stronzata del più mi manca e più sono motivata a vincere » protestò, facendo il verso alla mora.
« allora sto zitta » concluse l’amica, gesticolando verso Kim, facendole capire che l’avrebbe seguita all’esterno dello spogliatoio. La squadra le stava aspettando per festeggiare e, per quanto adorasse chiacchierare con la stilista, doveva cercare di dare un taglio alla loro conversazione:
« comunque Rosa, sei pronta a riabbracciare Nathaniel? »
« non vedo l’ora di vedere la sua faccia quando mi presenterò davanti a lui » gioì, sorridendo a trentadue denti. Il trolley non rappresentava un impiccio lungo i larghi marciapiedi californiani e la stilista si sentiva le ali ai piedi. Aveva visto l’insegna di un McDonald poco distante da dove si trovava lei e sperò che fosse lo stesso locale in cui avrebbe trovato il ragazzo. L’indicazione segnava una distanza di un mezzo miglio che, con il suo passo spedito, avrebbe colmato in una ventina di minuti.
« quando gli mostrerai la vera sorpresa poi… » commentò Erin maliziosa « solo tu puoi avere certe idee » e nella sua mente si figurò un completino intimo talmente sexy da far arrossire persino una pornostar, almeno secondo la visione pudica e naif della mora.
« quando ti troverai un ragazzo Erin, sta pur certa che ringrazierai le mie idee… anzi, più che altro sarà il tuo ragazzo a ringraziare me… se sarà Castiel poi… beh, sarà la volta buona che mi sentirò rivolgere una parola gentile da parte sua »
« ti conviene incamminarti, altrimenti rischi che ti sfuggano » la freddò Erin, arrossendo vistosamente. L’amica parlava con grande scioltezza e mancanza di pudore di argomenti che lei, anche solo accennarli, la mettevano a disagio. Non che non le capitasse di pensarci, ma si sentiva estremamente immatura e impreparata rispetto a Rosalya, motivo per il quale preferiva deviare il discorso. Inoltre già non sarebbe mai riuscita a dire a Castiel cosa provasse per lui, a maggior ragione lasciarsi andare a simili intimità.
« ma come? Mi metti giù il telefono così? Speravo che mi facessi compagnia finché non trovo Nate » finse di offendersi l’amica.
« in realtà sono piuttosto di fretta Rose… Kim mi sta facendo segno di tagliare la conversazione perché siamo già in ritardo. I ragazzi ci staranno aspettando per andare a mangiare »
« dì piuttosto che sei gelosa perché ti tradisco con Nathaniel » commentò melliflua.
« ah, ma io lo so che sono sempre la tua donna » scherzò Erin.
« puoi dirlo forte stella, Nathaniel deve accettare di condividermi con te » continuò l’altra.
Era da qualche settimana che le due avevano cominciato a scherzare sul loro rapporto, anche se in un primo momento l’ingenua Violet aveva pensato di essersi persa qualcosa e le aveva fissate alquanto disorientata.
« Rosa, ti saluto, altrimenti Kim sviene per la fame » ridacchiò Erin guardando le smorfie della compagna di squadra e, dopo qualche saluto al volo, riagganciò.
« quindi Rosalya è arrivata a San Francisco? » indagò Kim, percorrendo i corridoi.
« già » sorrise Erin.
La partita che era valsa loro l’ammissione alla semifinale si era conclusa una mezz’ora fa. I ragazzi avevano fatto talmente tanto chiasso nello spogliatoio, che Boris era stato costretto ad intervenire per sedarli, specie perché aveva ricevuto solleciti in tal senso dai responsabili della struttura che li avevano ospitati. Quel giorno, esattamente nello stesso edificio ma nella seconda palestra, avevano giocato anche i loro futuri avversari: la Saint Mary High School.
La prima e unica volta che la Atlantic li aveva visti all’opera dal vivo, risaliva ad una settimana prima e, dopo quell’occasione, non ce n’erano state altre. In compenso, dopo la rivelazione di Boris, la squadra aveva notato la presenza fissa, a tutte le loro partite, di un collaboratore di quella squadra che filmava tutte le loro azioni. In un paio di occasioni, alcuni dei ragazzi più esuberanti come Trevor e Wes si erano addirittura messi in posa rivolgendosi verso l’obiettivo, al termine di una giocata particolarmente spettacolare. Era una sorta di messaggio che doveva essere recapitato agli avversari, della serie “questo è quello che vi aspetta”.
« guarda chi c’è » sussurrò Kim d’un tratto.
Erin staccò lo sguardo dal pavimento, notando la figura appoggiata contro la parete di quella che presto sarebbe diventata una sua nemica.
Melanie aveva gli occhi socchiusi e l’immancabile paio di cuffiette bianche impegnate a tapparle le orecchie, per isolarla dal mondo, con le note sprigionate dallo smartphone ad essere collegato. Quando le due le passarono davanti, alzò leggermente la palpebra destra, lasciando intravedere uno sguardo felino, attento a tutto ciò che lo circondava.
Kim avanzò, con un’espressione dura, mentre Erin, indecisa sul da farsi, esitò. D’altronde, quella ragazza era riuscita a risollevarle il morale durante la sua prima partita e per questo le doveva molto:
« non si saluta più? »
Era stata Melanie la prima a rompere il ghiaccio. Erin si voltò e la vide aprire gli occhi, staccando svogliatamente la schiena dalla parete. Aveva un sorrisetto amichevole e un’espressione decisamente diversa da quella che le aveva visto sul campo la settimana precedente.
« non ero sicura che ti ricordassi di me » mugolò la mora.
« Erin? andiamo? » la esortò Kim infastidita.
« a-arrivo. Tu va’ pure » la congedò la compagna di squadra. L’ex velocista scrollò le spalle e la lasciò indietro, innervosendosi per l’ulteriore attesa a cui l’avrebbe obbligata assieme al resto dei ragazzi. Il suo stomaco brontolava, aveva giocato due quarti su quattro dando il massimo e aveva un disperato bisogno di cibo.
« e così ti chiami Erin… » commentò affabile Melanie, liberandosi dalle cuffiette « Erin Travis » completò, ricordando il cognome scritto sulla maglia dell’avversaria. Il suo coach aveva fatto rivedere una miriade di volte i video che riprendevano i giocatori della Atlantic, al punto che ormai tutta la Saint Mary sapeva a memoria i cognomi.
« tu invece non hai bisogno di presentazioni. Boris parla di te con orgoglio…Melanie »
Vide la biondina sorridere, chinando il capo. Per un attimo le sembrò che la cestista si fosse persa nei suoi pensieri ma quest’ultima, d’un tratto, proseguì:
« è sempre il solito idealista »
Quell’affermazione la spiazzò, non capendo a cosa si riferisse:
« che intendi? »
La playmaker sospirò, senza abbandonare un’espressione di serena rassegnazione:
« Boris antepone lo spirito di squadra al risultato del tabellone. Vincere o perdere per lui non è qualcosa di legato al punteggio della partita »
« non ti seguo » ammise la mora, osservandola con perplessità. Melanie ripose le cuffie  alla rinfusa dentro il borsone, dopo averle arrotolate attorno al cellulare.
« non importa » asserì. In quelle due parole però Erin riuscì a percepire un’acuta punta di amarezza, che venne confermata dal proseguimento del discorso della sua interlocutrice:
« mi piacerebbe pensarla come lui, ma in questo momento sono contenta di essere in una squadra come la Saint Mary » e, guardando con determinazione l’avversaria, dritta negli occhi, dichiarò « la settimana prossima saremo noi ad accedere alla finale »
Quel cambio repentino di atteggiamento, in un primo momento disorientò la mora. Non si capacitava della rivalità e dell’elettricità che c’era nell’aria ma di certo non ne era intimorita:
« non credo proprio » sibilò, serrando i pugni « siete forti, è vero, ma nemmeno noi siamo da meno ».
Melanie sogghignò, abbassando il capo e scuotendolo leggermente, per poi rialzarlo e fissare la ragazza davanti a lei:
« è vero, è per questo che non vediamo l’ora di affrontarvi. Nonostante la portata nazionale di questo torneo, finora nessuna squadra ci ha dato davvero del filo da torcere. Contiamo su di voi per divertirci un po’ ».
In quel modo di fare così spocchioso e sicuro di sé, Erin non riusciva a rivedere la ragazza che aveva conosciuto quando era in lacrime. Tuttavia, anziché sentirsi infastidita, quell’atteggiamento la solleticava. Le provocazioni che le stava lanciando l’avversaria, erano tutte a proprio vantaggio, dal momento che riusciva a convertirle in determinazione.
« lo sai Melanie? Mi stai mettendo una voglia di affrontarvi non ti immagini » sancì la mora con un’espressione che, anche se involontariamente, era una copia perfetta di una delle espressioni più caratteristiche dell’ex capitano della sua squadra.
« non dirlo a me. Ancora sette giorni e vedremo chi andrà a Austin per la finale »
« allora temo che voi della Saint Mary dovrete rimandare la gita in Texas: quel posto è nostro »
Le due cestiste si fronteggiavano con un ghigno compiaciuto stampato in faccia. Entrambe sentivano i muscoli fremere di un’eccitazione difficile da nascondere. La competitività tra le due squadre era ormai incrementata dalla stima reciproca: quella partita si preannunciava carica di tensione ed energia.
« Erin vuoi darti una mossa? » protestò una voce maschile poco lontano.
La mora si voltò e vide Wes giungere nella loro direzione. Il ragazzo si irrigidì appena riconobbe nell’interlocutrice della compagna di squadra, Melanie Green, la loro prossima avversaria:
« arrivo Wes » lo tranquillizzò Erin « stavamo solo scambiando due chiacchiere »
« sono venuto anche a cercare Boris. Stiamo aspettando voi due » si lagnò il ragazzo « l’hai visto per caso? »
Erin scosse il capo, raccogliendo il borsone che aveva adagiato sul pavimento.
« ci vediamo la settimana prossima Melanie… vedi di farti trovare in forma » la salutò, con una vigorosa stretta di mano.
« anche tu » commentò l’altra.
Wes assistette a quella implicita dichiarazione di guerra e, volgendo un cenno sbrigativo alla bionda cestista, tornò con Erin dai suoi compagni.
Appena i due furono lontani, Melanie si voltò verso destra, guardando l’angolo all’incrocio tra i due corridoio:
« spero tu sia soddisfatto… Boris »
Pronunciate quelle parole, emerse la figura massiccia e muscolosa dell’allenatore della Atlantic High School, con un sorrisetto divertito sul viso.
« è esattamente quello che volevo » commentò compiaciuto.
« non credo sai che Erin avesse bisogno di essere provocata. È dalla vittoria della prima partita che la vedo molto determinata a vincere » replicò Melanie, raccogliendo il borsone.
Non era convinta che il suo allenatore avrebbe approvato quel comportamento: sosteneva che gli avversari non andavano mai sottovalutati, né tanto meno provocati ma, dopo la sua chiacchierata con Boris, Melanie aveva deciso di assecondare la sua insolita richiesta:
 
« vorrei che le parlassi… » le aveva rivelato Boris.
« di cosa? »
La ragazza aveva appena abbandonato il proprio spogliatoio. Al suo interno c’erano le ragazze della squadra che era stata appena sconfitta dalla Atlantic. Erano particolarmente demoralizzate, sensazione che lei non provava da ormai molto tempo. Con la Saint Mary, specie dopo la partenza di Boris, avevano sempre vinto, non esistevano altri esiti possibili per la sua squadra. Aveva fatto in fretta a cambiarsi per non lasciarsi contagiare dall’afflizione che regnava sovrana nella stanza.
« della semifinale. Voglio che la stuzzichi un po’ dicendole che tanto vincerete voi » aveva formulato Boris.
« non è nella mia natura essere così boriosa » obiettò la cestista, cercando il cellulare.
« no, ma a bleffare sei bravissima » la lusingò l’uomo.
« non capisco il perché di questa richiesta. Chi ci guadagna? E cosa? » tagliò corto Melanie, scrutandolo con interesse.
« beh, per quanto mi riguarda, voglio sincerarmi che Erin arrivi il più carica possibile alla semifinale »
A quella rivelazione, la bionda ridacchiò, obiettando successivamente:
« e allora non sarebbe controproducente da parte mia farle un simile discorso? »
Boris non rispose subito e, inclinando la testa di lato, sorrise:
« sempre la solita Mel: diretta e perspicace. Ovviamente non te l’avrei chiesto se non avessi pensato che anche tu ci avresti guadagnato in questa storia »
« ed esattamente? »
L’uomo sospirò, incrociando le braccia al petto:
« la Saint Mary non è cambiata affatto da quando me ne sono andato »
La ragazza, accartocciata l’irritazione per l’indifferenza alla domanda che gli aveva posto, lo rimbeccò:
« ti sbagli. È ancora più individualista di prima »
« questa cosa potrebbe rivoltarvisi contro. Ho cercato di farvelo capire in tutti i modi »
« non è a me che devi dirlo Boris. Lo sai che una volta ti appoggiavo in questo »
« perché ora non ci credi più? »
Melanie distolse lo sguardo, che diventò ancora più cupo. La Saint Mary High School era la scuola superiore più importante di Trenton che vantava una reputazione ventennale tra le squadre di basket liceali più forti degli Stati Uniti. Tuttavia, era stato in particolar modo negli ultimi cinque anni, complice anche la fama dell’istituto, che in quella struttura si erano venuto a concentrare un gruppo di ragazzi dal talento smisurato per la pallacanestro. Ben presto, aveva cominciato a diffondersi la voce di una squadra fortissima e imbattibile, con un record di vittorie invidiabile.
Melanie non aveva risposto alla domanda di Boris, distogliendo lo sguardo, così l’uomo proseguì:
« sai, allontanandomi da voi, ho potuto vedere le cose da un’altra prospettiva. Non siete mai stati voi il problema: era la politica della scuola che vi ha plasmati verso quello che siete ora »
« è per questo che quella volta ti ho implorato di non andartene Boris. Tu eri la mia ultima speranza di cambiare lo spirito della Saint Mary »
Le sopracciglia di Melanie erano lievemente aggrottate e dai suoi occhi, il suo ex allenatore riuscì a leggere tutto il rammarico e l’afflizione che andavano sommati a quell’implicita accusa; l’imputato allora, si premurò nel difendere la sua posizione:
« ci ho provato tante volte Mel, lo sai anche tu… ma ho fallito quindi non aveva senso restare. Io vi parlavo di solidarietà, spirito di squadra, umiltà nell’accettare le sconfitte e voi riuscivate solo a etichettare quei discorsi come mancanza di ambizione da parte mia »
« smettila di mettermi sullo stesso piano degli altri »
« eppure mi era parso di capire che non la pensi più come me » puntualizzò l’uomo.
« questa volta è diverso Boris. Vincere è tutto. Non c’è in ballo la soddisfazione di una vittoria o un titolo prestigioso »
« ah no? »
« per me c’è molto di più. Devo arrivare al traguardo che mi permetterà di andare a Berlino »
Boris la vide sistemarsi la tracolla, ondeggiando leggermente le spalle per assestarne la posizione. Melanie non era mai stata una ragazza ciarliera, se voleva delle informazioni da lei, doveva essere lui a farle le domande giuste:
« tua sorella? » indagò. Dal viso della cestista, capì di aver centrato subito il punto; conosceva Patricia Green, del resto, prima dell’arrivo di Melanie, anche la sorella era una cestista. La prima aveva cinque anni in più e, dato l’incredibile talento per il basket, al termine del liceo, era volata in Europa per giocare a livello professionistico. Sin da quando la allenava, Boris aveva sempre sentito Patricia parlare con affetto della sorellina che, nonostante la giovane età, manifestava già uno spiccato interesse e predisposizione per quello sport.
 
« mi raccomando Boris » gli ripeteva in un paio di occasioni « quando allenerai mia sorella, falle amare questo sport come l’hai fatto amare a me »
 
Solo in quel momento l’uomo ricordò quelle parole che gli pesarono sulla coscienza come se fosse attanagliata da una pressa idraulica. Rassegnando le dimissioni dalla Saint Mary, non aveva deluso solo Melanie, aveva anche infranto la promessa fatta alla sorella.
A distanza di un anno, nella più giovane delle due cestiste, era scomparsa la scintilla di frenesia che le faceva luccicare gli occhi. Era evaporata la gioia con cui seguiva i movimenti di una palla che all’apparenza sembrava troppo grande per le sue mani minute. Durante la partita a cui aveva assistito la settimana precedente, mentre i suoi ragazzi erano sbalorditi dal talento degli avversari, Boris si era chiuso in un’inspiegabile silenzio. Mutismo che, ora che ne aveva davanti la causa, non poteva essere protratto. Doveva fare qualcosa e l’idea gli era venuta proprio quella mattina.
Da quando era arrivato al Dolce Amoris, era stato subito colpito dall’energia dei ragazzi che avrebbe allenato ma soprattutto, dal cambiamento lento ma inesorabile che si era operato in pochi mesi: aveva visto una Kim, scontrosa e asociale, aprirsi e sorridere di più, un Castiel svogliato e anarchico mettersi al lavoro e in generale, una squadra di cestisti diventare una squadra di amici. Aveva ricondotto tutto al giorno in cui Erin Travis aveva scontato la sua punizione ed era rientrata in palestra. Appena l’ormai ex capitano la vedeva entrare, sorrideva inconsciamente, Kim si rilassava, sentendosi più sollevata alla vista di una delle poche ragazze con cui andava più d’accordo, Trevor e Steve diventano più chiassosi ma anche più divertenti.
Forse era solo lui ad essere facilmente suggestionabile e un inguaribile sognatore, ma l’idea che una ragazza comune, con la sua semplicità e spontaneità fosse riuscita a innescare una simile rivoluzione, lo affascinava al punto da voler scommettere su di lei; se Erin aveva davvero la capacità di tirare fuori il meglio dalle persone, allora era lei la sua ultima speranza per riaccendere in Melanie quella passione che andava affievolendosi.
« lo sai cosa mi dispiace Melanie? Vedere che hai perso lo smalto di una volta » le disse, riassumendo il fulcro centrale delle sue riflessioni.
« ti sbagli. Il coach dice che non sono mai stata così forte »
« non far finta di non capire » le sorrise pazientemente l’uomo « non leggo più il divertimento nei tuoi occhi: da quando il basket non è più una passione ma è diventato un’ossessione per te? »
« da quando non è rimasto più nessuno a ricordarmi che si gioca per divertirsi» commentò amaramente la cestista. Controllò lo schermo del cellulare: erano passati pochi minuti, eppure le sembrava che quella conversazione durasse da ore. Boris sospirò gravemente:
« mi dispiace Mel. Davvero. Capisco che ce l’hai con me per avervi mollato ma non aveva senso restare. Il nuovo allenatore… »
« non è come te » tagliò corto la cestista, sistemandosi le cuffiette all’interno dei condotti uditivi « puoi anche smetterla di colpevolizzarti per quella scelta. A quanto pare si è rivelata la migliore per te: i ragazzi della Atlantic sono una delle squadre più affiatate del torneo; si spalleggiano a vicenda, si sostengono, scherzano… sono la squadra che hai sempre sognato Boris, quindi togliti quell’espressione dispiaciuta, perché è piuttosto ipocrita, non ti pare? »
Boris rimase in silenzio, contemplando con tristezza la figura davanti a lui:
« non mi perdonerai mai eh? »
Melanie scrollò le spalle e si lasciò sfuggire un sorrisetto divertito:
« lo sai che sono permalosa no?... e anche un po’ melodrammatica » aggiunse « come te del resto » specificò con un sorrisino per alleggerire una pesantezza che lei stessa aveva aggravato « comunque sia, l’importante è che tu ora abbia trovato nella Atlantic, quello che hai sempre cercato nella Saint Mary ».
Boris non replicò, così Melanie fece per andarsene:
« aspetta Mel! Non mi hai ancora detto se parlerai ad Erin »
« se è per questo tu non mi hai ancora detto che ci guadagno nel farlo » obiettò l’altra, con un sorriso sardonico.
« parlaci e lo scoprirai da te stessa » concluse Boris sibillino.
 
Dopo aver parlato con Erin, ancora Melanie non era sicura di essere giunta alla risposta che sottintendeva Boris. Lo conosceva troppo bene per pensare che quella fosse una subdola strategia per minare la sua sicurezza in vista della partita, era convinta che quella richiesta fosse dettata dal suo buon cuore.
Dalla conversazione con la ragazza, aveva visto nei suoi occhi una determinazione che era la stessa dei propri, ma la differenza stava nel sorriso sicuro e al contempo divertito che aveva sfoderato da Erin. Quest'ultima pregustava il momento in cui avrebbe calpestato il pitturato, in cui la palla sarebbe scivolata nelle sue mani per quei secondi in cui tutti gli sguardi si sarebbero puntati su di lei e sulla sua squadra. Il fatto che tutto ciò la elettrizzasse non sembrava distrarla o deconcentrarla dal suo obiettivo: avrebbe vinto e l’avrebbe fatto giocando una partita con l’eccitazione che solo quello sport poteva infonderle.
Era più di un anno ormai che Melanie non ricordava quella sensazione: la trepidazione negli spogliatoi per un esito imprevedibile, la curiosità di conoscere i propri avversari, la competitività provata al momento di fronteggiarli. Quello che davvero le era mancato negli ultimi tempi era l’imprevedibilità di una partita.
« perché sorridi? »
Alzò lo sguardo, vedendo il suo compagno di squadra soggiungere nella sua direzione. Isiah la fissava con curiosità, con quell’espressione un po’ infantile che lo rendeva un po’ buffo.
« niente. Stavo solo pensando » replicò Melanie.
« allora sbrigati pulce… sto morendo di fame »
La ragazza lo guardò perplessa, sbattendo le palpebre un paio di volte di seguito:
« mi hai aspettato Isiah? »
Sotto lo sguardo sorpreso della compagna di squadra, che non staccava gli occhi da lui, il cestista arrossì leggermente:
« no, cioè sì… insomma… non pensi che sarebbe una bella cosa andare a pranzo tutti insieme? Come quando c’era Boris »
« ah, quindi ci sono anche gli altri con te? » domandò Melanie, ancora più sorpresa. Un individualista come il loro capitano, era difficile da ricordare seduto attorno ad una tavolata: Julius Lanier si isolava spesso e volentieri al termine di ogni partita e le sue bizzarre e asociali abitudini, avevano finito per influire sul resto della squadra; dopo la partenza di Boris, elemento di coesione tra i ragazzi, nessuno aveva più proposto uscite di gruppo o pranzi in compagnia.
« no, veramente ci siamo solo io e te… spero non ti dispiccia » mormorò Isiah, in difficoltà.
Tra tutti i suoi compagni di squadra, Isiah era quello con cui aveva un legame particolare. L’aveva sempre affascinata il dualismo nella sua personalità: sul campo, la guardia palesava una sicurezza e una serietà che svanivano non appena usciva dal perimetro di gioco. Fuori dal pitturato, Isiah Reed era rilassato, per certi versi impacciato ma tremendamente dolce, mentre sotto canestro, aveva un carisma e un fascino che quando si erano conosciuti sul campo, finivano spesso per distogliere la concentrazione della playmaker.
« no anzi, mi fa piacere » ammise lei, in imbarazzo per la premura che le era stata riservata « solo che mi hai sorpreso: pranziamo ciascuno per conto nostro di solito…»
« sì, ma sai… oggi ho incrociato Boris nei corridoi. Abbiamo chiacchierato un po’ e… boh, non so come spiegarlo, ma mi è venuta una voglia pazzesca di ricordare i vecchi tempi »
« erano bei tempi » puntualizzò Melanie con un sospiro amaro, superando la porta automatica.
« già, è per questo che cercavo qualcuno con cui ricordarli. Oggi che l’ho rivisto, parlandoci assieme, mi sono trovato a riconsiderare cosa siamo diventati dopo di lui… e tu sei l’unica in squadra che può capire cosa intendo »
Melanie avvertiva un’insperata gioia diffondersi nel corpo. Isiah la pensava come lei, il suo animo non era stato annichilito dalla spietata logica competitiva che era stata loro imposta dal loro istituto. Nelle file della Saint Mary, c’era ancora qualcuno che credeva nel piacere di giocare una partita, anteporre il divertimento alla vittoria.
Forse non era ancora tutto perduto. Forse, se ci avesse creduto lei per prima, i giocatori della Saint Mary poteva tornare ad essere ciò che erano in passato: una vera squadra.
 
Dopo aver individuato un tavolo libero vicino alle vetrate, Sophia e Nathaniel si erano accomodati in silenzio, quest’ultimo senza fare alcun commento sulla scena di cui era appena stato protagonista. La ragazza però non intendeva lasciar cadere l’argomento, sfruttando l’occasione per recuperare qualche punto agli occhi del biondo. Era consapevole di essere stata piuttosto scontrosa con lui ma, per motivi a lei stessa inspiegabili, era qualcosa di più forte di lei:
« bella risposta » borbottò, con la bocca piena di patatine.
« me l’hanno servita su un piatto d’argento » minimizzò Nathaniel, aggiungendo del ketchup extra al suo hamburger  « per fortuna che hanno ordinato tutta roba che mi piace » valutò, sbirciando il contenuto del proprio vassoio.
Sophia lo fissava in silenzio, mentre era intento a far gocciolare con sapiente meticolosità il liquido rossastro sulle patatine. Da almeno mezz’ora, aveva un tarlo del dubbio che non le dava tregua e aspettava solo l’occasione migliore per liberarsene. Ora che erano seduti tranquilli e isolati dal resto della clientela, era libera di esternare la sua perplessità:
« ti sei offeso prima? »
« prima quando? Quando mi hai detto che non ho senso dell’orientamento? O quando mi hai definito uno schizzinoso? » replicò asciutto il ragazzo, elencando le critiche che gli erano state mosse mentre si erano allontanati dall’aeroporto.
« quando ho detto che Castiel è più interessante di te » specificò Sophia, ignorando la piega sarcastica della risposta che aveva ricevuto. Il sorriso beffardo di Nathaniel si raggelò e il ragazzo tornò a fissare lo sguardo sul cibo:
« non vedo perché dovrei, dal momento che la penso come te »
Non la guardava nemmeno in faccia ma non c’era autocommiserazione nelle sue parole, solo una rassegnata accettazione di una realtà che non poteva essere cambiata. Sophia aggrottò la fronte e, messa in difficoltà dalla conversazione che lei stessa aveva avviato, difese la sua posizione:
« io non conosco Castiel quindi non posso pensare una cosa del genere. La mia era solo una battuta! »
Nathaniel scrollò le spalle e, mandando giù un boccone del suo panino, biascicò:
« se lo conoscessi, capiresti che è così: l’ho sempre ammirato per questo »
« così come? » insistette la rossa. Il ragazzo sospirò, lasciandosi sfuggire un sorriso d’affetto:
« Castiel è un tipo un po’ strano: all’apparenza sembra una persona immatura, superficiale e indisponente, ma è l’esatto opposto. Il suo problema è che ha un talento unico nel celare i suoi pregi e esasperare dei difetti che non ha. Sembra uno che non fa amicizia facilmente, invece è sempre schietto e onesto e questo è un aspetto che molte persone apprezzano. Magari può dire qualcosa di spiacevole e antipatico ma sarà sempre la verità mentre io… beh, non sono mai riuscito ad essere come lui; ogni cosa che dico, ogni gesto che faccio è misurato per non offendere nessuno, perché la gente non pensi male di me »
« e che c’è di sbagliato in questo? »
La battuta con cui se ne era uscita Sophia non era quella prevista dal copione che aveva letto il biondo. Era convinto che Sophia l’avrebbe insultato, accusandolo di essere una lagna, oppure, pur riconoscendo l’improbabilità della cosa, avrebbe cercato di consolarlo.
« beh… » incespicò « sa di finto, non credi? »
« e cosa ci sarebbe di così vero nei nostri rapporti con gli altri scusa? Non si può essere sempre onesti al cento per cento. Non si può sempre dire ciò che si pensa, scommetto che a volte anche Castiel avrà detto qualche bugia »
« sì, sì, ma non è questo il punto » affermò risoluto il biondo, agitando velocemente la mano, come per scacciare un pensiero forviante «è un discorso molto più sottile. Lui è… spontaneo capisci? Ha carisma e mette un’energia pazzesca in tutto ciò che lo appassiona… e poi è così… libero »
Con quell’ultima dichiarazione, Sophia non riuscì a esternare alcun commento.
Non conosceva personalmente il rosso, tuttavia era al corrente della situazione in casa Daniels. Per la prima volta realizzò un’altra conseguenza del rapporto fraterno tra la sua Ambra e Nathaniel, conseguenza che aveva sempre ignorato di valutare: anche lui, come l’amica, soffriva per la propria situazione familiare. Era cresciuto in un ambiente soffocante, modellato da finto interesse e totale assenza di amore. Solo nella figura affettuosa e premurosa di una vecchia governante i fratelli Daniels erano riusciti a rimediare un po’ di quell’amore che, in ogni caso, non bastava a compensare la freddezza dei genitori.
Sophia ricordò solo allora della devastante delusione che aveva investito il ragazzo l’anno precedente, quando il padre aveva stroncato la sua carriera. Eppure, quando Ambra le aveva raccontato quei fatti, lei era scattata dalla rabbia: era profondamente indignata per quel comportamento e aveva sentito una solidarietà sincera per quel ragazzo sconosciuto, fratello della sua amica.
Lo stesso ragazzo che, nelle ultime sei settimane, non aveva perso l’occasione per punzecchiare e insultare. Evidentemente doveva avere qualche conflitto con il concetto di coerenza.
« invece io… » proseguiva Nathaniel « è come se avessi vissuto finora con il freno a mano tirato, cercando di premere l’acceleratore a tavoletta nel tentativo di raggiungere Castiel »
« diciamo che mentre lui andava via in moto, tu pedalavi su una cyclette » mormorò d’un tratto Sophia con serietà.
Il biondo rimase interdetto, atteggiamento che con la rossa cominciava a diventare piuttosto frequente. All’inizio pensò che volesse deriderlo, ma di fronte alla sua espressione solenne, stabilì che quella non fosse una battuta. Proprio per questo, incurante di offendere la sua bizzarra metafora, scoppiò a ridere fragorosamente. In quella conversazione, greve e malinconica, la ragazza era riuscita a spezzare la tensione con un’immagine che era contemporaneamente fuori luogo ma anche molto azzeccata: da un lato, la sua sembrava una battuta che stonava con l’atmosfera generale, ma dall’altro, era un’espressione indovinata circa la situazione tra lui e Castiel.
Sophia lo guardava senza capire, mentre Nathaniel continuava a ridere come non gli accadeva da tempo. La ragazza notò addirittura uno scintillio delle lacrime agli angoli degli occhi ma continuava a non capire il motivo di tutta quella ilarità.
« non voleva essere una battuta » mugolò piccata, risentendosi del fatto di non essere presa sul serio.
« scusami » le sorrise lui, strofinandosi via sbrigativamente quel paio di lacrime di cui voleva negare la comparsa « è che l’hai detta con una tale serietà… »
« era una metafora! »
« mi fa fatto ridere l’immagine di me seduto sulla cyclette… e poi Castiel ha sempre sognato di comprarsi una moto, quindi anche senza conoscerlo, ci hai pure preso »
« e quindi devo dedurre che tu passi i pomeriggi a rassodare il culo sulla cyclette » scherzò Sophia.
« non si può mai fare un discorso serio con te eh? » ribadì Nathaniel, smaltendo le ultime risa. Agitò energicamente il bicchiere di carta con il logo della sua bevanda preferita: aveva già esaurito la Coca-Cola e quella conversazione gli stava mettendo particolarmente sete. Sophia invece aveva ordinato un bicchierone che svuotava molto lentamente:
« mi daresti un po’ della tua Coca? » tentò il biondo.
« sei pure taccagno! Vai a prendertela! » reagì d’impulso lei.
« e tu egoista » asserì Nathaniel, senza scomporsi « potresti anche darmene un goccio visto che non riuscirai nemmeno a finirla »
« vuoi scommettere? »
Non sapeva perché era stata così sgarbata, proprio lei che non esitava un attimo a sottrarsi dal fare favori agli altri. Nathaniel riusciva a tirare fuori il peggio di lei o, usando un’espressione che lui stesso aveva pronunciato poco prima, le faceva esasperare dei difetti che non aveva.
Per nulla interdetto da quella mancanza di generosità, il ragazzo si era alzato, per andare a rimediare un altro bicchiere di Coca-Cola. Prima di allontanarsi, si sistemò il portafoglio sulla tasca posteriore dei jeans, gesto che attirò l’attenzione di Sophia sul suo sedere, specie poiché lui le dava le spalle. La rossa allora notò che quanto a fisico, il ragazzo era decisamente attraente in quanto alto e ben proporzionato. Anche se i biondi non erano mai stati il suo genere, si ritrovò a pensare di aver di fronte uno dei ragazzi più affascinanti che avesse mai visto.
« allora? » incalzò lui.
Sophia scosse la testa, come per scacciare via quelle inquietanti considerazioni che avevano sovraffollato la sua mente, impedendole di ascoltare le parole del biondo.
« che c’è? » gli chiese, in preda all’imbarazzo. Quei pensieri poco casti l’avevano messa in evidente disagio e non riusciva a spiegarsi come mai fossero affiorati improvvisamente:
« visto che vado a prendere la Coca » ripetè Nathaniel, scandendo le parole « vuoi che ti prenda qualcosa? »
Quell’offerta la spiazzò. Lei si era appena rifiutata di condividere la sua bibita e lui si premurava per lei.
« s-sono a posto… grazie » farfugliò, in preda alla vergogna più totale. Il ragazzo allora, ignaro della natura dei pensieri della rossa si allontanò, lasciandola sola.
Sophia ne approfittò per fare ordine nella sua testa e sopire quella, a suo avviso sinistra, piega, che aveva preso la sua mente.
Era solo il fratello di Ambra, lo stesso ragazzo che aveva giurato di odiare per non essere riuscito a restare accanto alla sorella nel momento di difficoltà più estremo.
Era quel ragazzo che sarebbe riuscito a perdersi anche dentro un centro commerciale.
Eppure…era anche lo stesso ragazzo che aveva detto di compatire per la sorte capitatagli nel veder naufragare il proprio sogno.   
Era lo stesso ragazzo che l’aveva salvata dall’affogamento.
Era il primo ragazzo che la mandava così in confusione.
« Terra-chiama-Sophia » scandì Nathaniel.
La rossa alzò il capo e lo vide, con il mento appoggiato contro il palmo, intento a fissarla.
« sei strana? Che hai? » indagò, dissetandosi della sua Coca-Cola.
« ah, io sarei strana? » scattò lei sulla difensiva, articolando quella frase insensata. Il ragazzo non replicò, finchè non fu Sophia la prima a sbottare:
« comunque non è vero che non so fare discorsi seri » puntualizzò lei con serietà « ti stavo ascoltando con interesse »
Il biondo socchiuse le palpebre e la scrutò con circospezione:
« che ti prende? Sembri mia nonna quando non riesce a leggere l’oroscopo » commentò Sophia sarcastica.
« stavo cercando di cogliere l’ironia »
« idiota… Sto parlando seriamente. Ti stai rivelando molto più contorto dell’atteso, quindi la cosa è interessante »
« non sono sicuro che questa sia un’offesa » obiettò allora il ragazzo.
« nemmeno io » replicò prontamente lei, sorridendo. Quella smorfia allegra contagiò anche Nathaniel e valse come tacita dichiarazione di pace.
« domani mattina vado in spiaggia, ti va di fare un salto? » gli propose la ragazza. Quella proposta le era venuta spontanea, sorprendendosi lei stessa per quell’intraprendenza. Le era uscita prima ancora di cogliere il senso di quanto stava dicendo. Anche il biondo era rimasto sorpreso da quell’invito, ma cercò di mascherare la sua perplessità, lasciando proseguire la conversazione.
« a che ora? »
« alle sei e mezza »
Il liquido freddo della Coca risalì verso l’alto della cavità nasale, facendo rabbrividire il biondo, che cercò di non inciuccarsi con la bevanda, tale era il suo stupore.
« alle sei e mezza?! » ripetè sconvolto « ma che orario è? »
« a quell’ora non c’è nessuno… e poi non puoi neanche immaginare quanto sia bello vedere il sole sorgere sull’oceano »
« tu sei matta » dichiarò Nathaniel, scuotendo il capo con decisione « ti svegli alle cinque e mezza per vedere l’alba? »
« perché tu vedi il sole sorgere di pomeriggio? Questo spiegherebbe tante cose, Dora » lo rimbeccò piccata la ragazza. Nathaniel sogghignò sprezzante, mentre Sophia ridacchiava per la propria battuta.
Mentre il ragazzo teneva il capo chino, ingurgitando anche le ultime patatine rimaste, la rossa vide una figura leggiadra giungere nella loro direzione: era una ragazza dai lunghi capelli argentei e gli occhi vispi e felini di una tigre, che si spostavano freneticamente da un punto all’altro del ristorante. Appena si posarono su di loro, un sorriso radioso le riempì le gote; avanzava con la leggiadria che la portava quasi a sfiorare il pavimento appiccicoso del locale. Intercettò lo sguardo trasognante di Sophia e si portò l’indice davanti alle labbra rosee, socchiudendole leggermente. Un sorriso birichino le sfuggì, mentre le iridi dorate scintillavano di vivacità e complicità.
Cogliendo l’espressione basita della ragazza davanti a lui, Nathaniel fece per voltarsi, ma prima che potesse farlo, avvertì il contatto freddo di dita sconosciute che si appoggiavano sulle sue palpebre.
« indovina chi sono? »
La voce di Rosalya le uscì suadente e lenta, mentre il ragazzo sentì il proprio battito accelerare incontrollato.
« R-Rose » balbettò sconvolto e girandosi repentino. Se la trovò di fronte, che gli sorrideva trepidante di emozione. Ancora più bella di quando l’aveva vista l’ultima volta, settimane fa.
« come sono contenta di rivederti! » squittì eccitata, stampandogli un bacio sulla guancia e abbandonando il timbro caldo. Sophia fissava ammirata la nuova arrivata: aveva raccolto i lunghi capelli in una coda di cavallo che le slanciava ulteriormente la figura longilinea, allungandole il collo sottile avvolto dalla sciarpa di lana. Le iridi sfavillavano d’oro, sotto l’effetto della gioia provata nel rivedere il ragazzo di cui era innamorata.
Rachel aveva ragione: come Nathaniel guardava Rosalya, non guardava nessun’altra ragazza. D’altronde, quest’ultima era di una bellezza indescrivibile. Nemmeno le foto che le aveva mostrato Erin rendevano giustizia di quanto fosse splendida.
« tu devi essere la sorella di Erin » s’intromise allegra la stilista, allungandole cordialmente la mano. Persino le unghie erano impeccabili, come se fosse appena uscita da un trattamento di manicure. Quelle di Sophia non potevano dirsi altrettanto curate, dal momento che aveva il vizio di mangiucchiarsele. L’artista annuì, ingoiando un grumo di saliva.
« io sono una sua amica, Rosalya » continuò l’altra, senza accennare la minima esitazione. La rossa le strinse la mano, studiandola di sottecchi.
« che sorpresa Rosa…. non ti aspettavo » riuscì finalmente a dire Nathaniel, cercando di capacitarsi di quella piacevole e inattesa irruzione.
« altrimenti non sarebbe stata una sorpresa » obiettò l’altra divertita, occupando uno dei due posti lasciati liberi « non c’era occasione migliore di questa per venire a trovarti » spiegò, e sistemò il trolley accanto a lei.
Nathaniel la scrutò interrogativo, ma prima che Rosalya sciogliesse il suo dubbio, fu Sophia a completare:
« oggi è San Valentino »
Quell’osservazione le era uscita con tono apatico, quasi spettrale. Odiava quella festa, dal momento che coincideva con il giorno in cui si era lasciata con il suo primo e unico ragazzo l’anno prima.
« esatto » le sorrise Rosalya con complicità.
« hai avuto un’ottima idea » si risolse infine Nathaniel.
« come sempre, del resto » replicò la ragazza, facendogli l’occhiolino.
Lui le sorrise, deliziato dal suo atteggiamento malizioso e cercò il contatto con la sua mano; lei rispose a quella stretta, specchiandosi l’una negli occhi dell’altro: entrambi avevano un’espressione carica di dolcezza e affetto. Era uno sguardo ricco di complicità e di pensieri sottintesi che acuivano in Sophia la percezione di essere di troppo:
« sarà meglio che vi lasci soli » mormorò, alzandosi goffamente dal suo posto. Urtò l’orlo sporgente del vassoio, facendo cadere il bicchiere di Coca-Cola che, come aveva previsto il biondo, non era riuscita a finire. Il liquido scuro sparse qualche sorsata sulla plastica della guantiera, prima che lei riuscisse a intercettare la perdita di equilibrio del bicchiere. Si inumidì le mani di quella bevanda che di lì a pochi secondi avrebbe avvertito come una fastidiosa sostanza appiccicosa sulla pelle.
Il tono di voce con cui aveva dichiarato la sua uscita di scena, era risuonato molto più piatto di quanto avrebbe voluto. Del resto, in quel momento le dispiaceva rinunciare alla compagnia del biondo. Nathaniel stava per replicare, ma Rosalya lo anticipò:
« grazie, però mi farebbe davvero piacere parlare anche un po’ con te Sophia »
Le sorrideva gentile, con un’espressione che avrebbe convinto chiunque ad assecondare ogni sua richiesta. Ma non Sophia e non quel giorno.
« magari domani, oggi è la vostra giornata » le concesse la rossa, sforzandosi di ricambiare la sua cordialità. Sapeva quanto la sorella adorasse quella ragazza, eppure sentiva di non essere spontanea in sua presenza. Sfilò la tracolla dallo schienale della sedia, sistemandosi poi frettolosamente la borsa sulla spalla. Si curvò nel raccogliere il proprio vassoio, sul quale ormai gli incarti avevano assorbito parte del liquido accidentalmente versato e, dopo aver rivolto un saluto sbrigativo alla coppia, si congedò.
 
Il taxi riaccompagnò Ambra a villa Daniels quando l’ora di pranzo era ormai trascorsa da un pezzo. La ragazza sollevò lo sguardo verso l’architettura del palazzo che conosceva a memoria, senza riuscire a trattenere un sospiro di dispiacere; stava così bene in California che c’erano ben pochi motivi per cui valesse la pena tornare a Morristown e tra questi non era contemplata la nostalgia di casa. Tuttavia, tra le poche persone di cui aveva sentito la mancanza, rientrava proprio uno dei pilastri di quell’abitazione, pilastro umano e simbolico: una di quelle figure la cui assenza, le avrebbero impedito di sentirsi davvero a casa:
« Ambra! » esclamò Molly, appena se la trovò davanti “ma che ci fai qui? Perché non hai chiamato? Bill sarebbe venuto a prenderti all’aeroporto” la rimproverò, liberandole il passaggio.
Prima di varcare l’ingresso, la bionda sorrise a quella premura e rispose all’abbraccio che segui subitaneo a quelle parole:
« è bello rivederti Molly »
« anche io sono contenta di rivederti tesoro » le sorrise la donnina e, immancabilmente, le afferrò una guancia tra l’indice e il pollice, per strattonarla un po’:
« avresti potuto chiamare a casa un po’ più spesso » la recriminò bonariamente « tua madre si è offesa »
« le passerà » liquidò la questione Ambra, massaggiandosi la guancia indolenzita. Mentre trascinava il trolley lungo il corridoio principale, precisò « a me bastava sentire te, di tutto il resto non mi interessa »
La governante sospirò pazientemente e si apprestò a seguire la ragazza:
« comunque tesoro, hai mangiato? »
Quella domanda era forse una delle rappresentazioni più indicative di amore.
« sì tranquilla. Pensavo di andarmi a stendere un paio d’ore, visto che poi questa sera… »
« … hai la serata di gala al St. Regis » recitò la donna « certo, infatti tua madre ha già predisposto tutto: in camera troverai il vestito da indossare »
Ambra annuì con disinteresse mentre Molly proseguiva:
« ah, quasi me ne dimenticavo! Non l’ho ancora detto alla signora, ma preferisco parlarne prima con te: ha chiamato due ore fa Armin »
« Armin? » scattò Ambra, inciampando su un gradino.
« sì, l’amico di tuo fratello
 » spiegò la governante, sorpresa dallo stupore della ragazza.
« so chi è » borbottò in imbarazzo l’altra « e che voleva? »
Mentre attendeva la risposta di Molly, Ambra considerò che lei e il ragazzo non si era mai scambiati i numeri di cellulare e che, se voleva evitare che lui si imbattesse in futuro in una conversazione telefonica con la madre, doveva rimediare a quella mancanza.
« mi ha chiesto se può venirti a prendere lui stasera »
Ambra rimase senza parole, valutando scrupolosamente quella proposta. Di certo sua madre avrebbe avuto qualcosa da ridire, ma dell’opinione di quella donna non le importava nulla da ormai molto tempo:
« tu che gli hai risposto? »
« e che dovevo rispondergli tesoro? Come faccio a saperlo? Gli ho detto che avrei chiesto a te » obiettò Molly.
Ambra annuì in silenzio:
« allora lo chiamo »
« gli dirai di accompagnarti, vero? »
Gli occhi quasi supplicanti di Molly erano l’ennesima testimonianza di quanto adorasse quel ragazzo. Sin dai tempi dell’amicizia con Nathaniel, i gemelli Evans erano assolutamente i preferiti della governante, per l’allegria e la rumorosità che riuscivano a diffondere in quella villa fredda e asettica.
La bionda si limitò ad un sorriso malizioso e replicò:
« puoi venirmi a svegliare tra un paio d’ore? »
 
Rosalya e Nathaniel camminavano a fianco a fianco, per le vie di San Francisco.
Dopo aver lasciato il Mc Donald, tra di loro si era creata una strana atmosfera, intrisa di una sconosciuta intimità e imbarazzante silenzio. Lui guardava le mani di lei, indugiando sul suo desiderio di afferrargliele.
La stilista, dal canto suo, cercava di dare un contegno alle emozioni che tempestavano in lei: la sorpresa era riuscita, in quel momento si stavano dirigendo verso l’hotel, anche se sapeva perfettamente che non poteva affidarsi al biondo quanto a indicazioni e orientamento.
Percepì un tocco leggero sfiorarle il dorso nudo della mano lasciata libera dal cellulare usato come navigatore, seguito da una stretta salda. Incrociò lo sguardo del compagno, che si era finalmente deciso ad instaurare un contatto fisico tra di loro.
« te l’ho già detto che sono felice di vederti? » le chiese lui con dolcezza.
« sentirselo ripetere non mi dispiace » sorrise lei, con le iridi che zampillavano di tenerezza. Aveva passato così tanto tempo a sognare quel momento che stentava a credere che fosse tutto reale.
Lui si bloccò, costringendola ad assecondare il suo movimento.
Erano circondati dal verde di uno dei parchi più importanti della città, che quel giorno era particolarmente popolato da coppiette.
« è strano… no? » sussurrò lei, avvicinando il suo corpo a quello del ragazzo.
« che cosa? »
A dispetto della domanda, Nathaniel sapeva perfettamente cosa intendesse la ragazza, ma voleva sentire che la pensavano allo stesso modo:
« io e te… essere qui… insieme. Dopo che sei partito, mi chiedevo se mi ero immaginata tutto. Per mail non abbiamo mai parlato di… noi » mormorò con dolcezza.
Il biondo le portò una mano sulla guancia e Rosalya inclinò la testa di lato, approfondendo quella carezza.
« abbiamo tutto il tempo per recuperare ora » e, chinandosi verso il suo viso, cercò le labbra di lei, pronte a ricevere quel bacio che aspettava da ormai due mesi.
 
Quella telefonata stava durando da più di mezz’ora ma il grado di sopportazione di Iris si era abbassato da molto prima. Alzò il volume della TV, incurante delle lamentele che sarebbero soggiunte da parte della madre. Aveva un’espressione scocciata e accigliata, fintamente concentrata sulle immagini che scorrevano davanti allo schermo. Non le interessava minimamente seguire i consigli per prevenire l’invecchiamento cutaneo, ma era un modo indiretto per protestare contro la prolungata conversazione telefonica che si stava svolgendo a casa sua:
« IRIS! Abbassa! Non riesco a sentire tuo padre! » la rimproverò subito dopo la madre con rabbia.
« pensa che perdita » borbottò sarcastica la rossa, tra sé e sé. Adam, il fratellino di dieci anni, strattonava il lembo inferiore della gonna di tweed della mamma, nella speranza di riuscire a strapparle l’ennesima occasione per parlare con il padre:
« aspetta un altro minutino Adam » lo rassicurò Olivia « dico una cosa a papà e poi è tutto tuo. Intanto, vai a dire a tua sorella che venga a salutarlo »
Investito di quella mansione, il bambino sfrecciò in salotto, dove sostò per pochi secondi, tornando poi dalla madre:
« dice che glielo saluto io » asserì, portando le mani dietro la schiena. Gli occhietti vispi e allegri, brillavano dello stesso colore di quelli della madre, un’acquamarina che anche la sorella aveva avuto la fortuna di ereditare. Olivia inspirò profondamente e, dopo essersi congedata dal marito, mollò la cornetta in mano al figlioletto. A grandi passi, arrivò in salotto dove trovò la primogenita distesa sul divano:
« Iris! Sono tre mesi che non senti tuo padre e non ti degni nemmeno di alzarti da quel divano! » s’infuriò, additandola.
« devo guardare questo servizio » mormorò apatica la ragazza, alzando ulteriormente il volume del televisore « mi serve per scienze »
Olivia, sentendosi presa in giro, si irritò ancora di più e, avvicinandosi minacciosa allo schermo, lo spense:
« ehi! » protestò la rossa.
« sei un’insensibile » la accusò la madre, sorda a quella lamentela « hai idea di quanto sia difficile per tuo padre stare lontano da noi? »
« e tu hai idea di quanto sia difficile per me? » strillò Iris, balzando in piedi. Avvertì gli occhi inumidirsi di rabbia e, prima che la sua frustrazione prendesse il sopravvento, abbandonò la stanza a grandi passi.
« dove vai adesso? » le urlò la madre, rincorrendola:
« fuori di qui! » e, sbattendo la porta, Iris lasciò casa Levine.
 
Alla maleducazione di certi clienti, un impiegato non può far altro che rispondere con l’indifferenza e la rassegnazione. Ripiegare per l’ennesima volta magliette che erano state messe alla rinfusa sullo scaffale, sistemare articoli nella loro posizione originale erano alcune tra le attività che rappresentavano la routine di Dake, impiegato alla Pentathlon. Tuttavia non erano quelle sciocchezze di poco conto a fargli trovare sempre più insopportabile il suo lavoro: alle sue spalle, dietro la cassa, erano appesi poster magnifici di mari esotici e montagne innevate, luoghi che un esploratore come lui sognava di visitare. Passava le sue giornate rinchiuso in quel negozio, immaginandosi a condurre una vita diversa, piena di avventure.
Quel giorno non c’erano molti clienti e il personale di cui faceva parte era più che sufficiente per gestirli. Mentre era intento a rialzare uno dei cartelli dei prezzi caduti in vetrina, riconobbe una chioma rosso fuoco passare a pochi centimetri da lui: se non fosse stato per il vetro, barriera impenetrabile, avrebbe anche potuto toccarla. Istintivamente portò il palmo contro la superficie trasparente, lasciando l’impronta delle impronte digitali, mentre Iris si allontanava da lui:
« Eddy! » chiamò, voltandosi verso l’interno del locale « devo uscire. Mi copri tu? »
Un ragazzo con una maglia azzurra, sollevò l’indice e senza però staccare gli occhi da un noioso registro di nomi che stava consultando. Dake afferrò il cappotto e si precipitò fuori del locale, svoltando a destra, nella stessa direzione che aveva visto sfrecciare l’amica.
« Iris! » la chiamò da lontano. La ragazza si voltò e lo vide avanzare verso di lei.
« Dake…» mormorò sorpresa. Aveva le guance arrossate dalla corsa e il fiato corto per lo stesso motivo. Gli occhi erano inumiditi dal rancore verso il generale Levine, suo padre e il freddo pungente di metà febbraio contribuiva a renderli ancora più lucidi.
« ti ho appena vista passare davanti al negozio » spiegò il biondo, indicando la vetrina a pochi metri di distanza dietro di loro.
La rossa si guardò attorno disorientata: si era allontanata da casa, talmente sovrappensiero, da perdere la cognizione di dove si trovasse o stesse andando. A pochi passi si trovava la piazza con la fontana e i portici con i negozi più chic della città: era in centro.
« ah » commentò « non mi ero resa conto di essere arrivata fino a qui »
Degluitì leggermente, schiarendo una voce che era uscita leggermente roca.
« qualcosa non va? » si preoccupò il ragazzo, incurvandosi verso di lei. Iris scosse il capo, sorridendo leggermente:
« non è niente » sviò.
« quando voi donne dite non è niente, si cela un tutto lì dietro » scherzò Dake, per stemperare l’atmosfera.
La ragazza sollevò le spalle, lasciandosi sfuggire un sorriso triste. Vedere l’amico l’aveva messa di buon umore al punto da proporgli:
« ce li hai due minuti per una cioccolata calda? »
«per te anche tre »
 
« spiegatemi perché abbiamo giocato oggi proprio oggi! Mettere una partita il giorno di San Valentino! Non hanno pensato a tutti quei poveri ragazzi che aspettano questo giorno per tromb-… per stare insieme alla propria ragazza » si corresse all’ultimo, intercettando l’occhiataccia di Boris.
« un po’ di finezza Trevor » lo redarguì il coach « e comunque arriveremo a Morristown nel primo pomeriggio, hai tutto il tempo per stare con Brigitte »
« non sono l’unico che si lamenta. Sai come sono le donne no? Si aspettano sempre qualcosa per San Valentino e l’unica cosa che potrei regalarle oggi è la palla della partita »
« la vuoi smettere di rubare i palloni? » ridacchiò Steve « una volta o l’altra questa storia ci si ritorcerà contro… e poi si può sapere che cosa te ne fai di tutte queste palle? »
« ma se ne avrò prese solo tre o quattro in questi ultimi anni »
« non contare balle! » ridacchiò Wes, sporgendosi verso l’ala grande della squadra, seduta dietro di lui « te ne sarai portati a casa almeno una decina »
« li colleziono » dichiarò il ragazzo.
« non è che li ricicli come regali di compleanno? » s’intromise Liam « quello che mi hai regalato l’anno scorso mi era familiare… »
Nel pullman calò il silenzio seguito da una risata fragorosa.
« ma sei un coglione Trev! » finse di indignarsi Liam, circondato dalle risate generali; Boris aveva rinunciato a seguire il resto del discorso, scuotendo la testa divertito.
« dovremo risarcire le palestre a cui sono stati sottratti quei palloni? » s’innervosì il professore Faraize. Boris rispose con un gesto sbrigativo della mano, indicandogli che non era necessario preoccuparsene; ora che era venuto al corrente di quella strana e discutibile abitudine di Trevor, si sarebbe assicurato che in futuro non si ripetesse.
« quindi non hai preso niente per Brigitte? » riepilogò Steve, rivolgendosi verso il compagno di squadra.
« macché, sono stato talmente preso dagli allenamenti che non ci ho neanche pensato. Merda… si incazzerà di sicuro »
« passerai San Valentino in bianco » lo schernì Wes.
« tu sta’ zitto che non ce l’hai ancora la tipa »
« perché sto aspettando di conoscere la nipote di Boris » sussurrò il ragazzo.
Sulle labbra di Trevor affiorò un sorriso sardonico: conosceva perfettamente quella parentela, ma rivelare a Wes che la bionda nipote di Boris era in realtà un ragazzo, era una rivelazione che doveva rimanere ancora nascosta. Tornò a pensare a Brigitte e all’inevitabile litigio che l’avrebbe aspettato, se si fosse fatto trovare a mani vuote. Non aveva tempo per trovare un altro regalo, anche perché la ragazza gli aveva anticipato che l’avrebbe aspettato davanti al liceo, dove il pullman avrebbe finito la sua corsa.
Erano due settimane che non si vedevano e i suoi bisogni fisiologici cominciavano a farsi pressanti. Non poteva giocarsi così male il giorno più romantico dell’anno. Data l’impellente necessità della situzione, un pensiero gli balenò in mente, facendolo sorridere con astuzia: si voltò verso il sedile dietro al suo, appoggiando il mento contro il poggia testa: incrociò lo sguardo di Dajan che lo fissò di sottecchi, mentre il cestista aveva un’espressione inquietante:
« Dajanino… » sibilò, pur sapendo quanto quel nomignolo irritasse il capitano. Quest’ultimo, rimasto estraneo ai discorsi dei compagni a causa della musica che stava ascoltando, si levò le cuffie e domandò:
« che hai detto? »
« non è che potresti darmi il regalo che hai preso per Kim? »
« come? Come? » urlò Wes, due posti più indietro rispetto a Dajan « al capitano piace Kim? »
« ma sta’ zitto cretino! » avvampò Dajan. Si sporse in avanti con circospezione: le due ragazze della squadra erano sedute nei posti più avanti e sembravano non aver sentito quella battuta.
« ti piace davvero! » insistette Liam « perché non ce l’hai mai detto? »
« mica sono cazzi vostri! » si arrabbiò Dajan, sempre più in difficoltà.
« e io che pensavo che ti piacesse Erin» commentò Benjamin sorpreso:
« semmai quello era Castiel, anche se ho dei dubbi visto che a mala pena le scrive » riconobbe Steve, uno dei cestisti con cui Erin era entrata più in confidenza.
« ah ma quello non conta » lo liquidò Trevor « Castiel è sempre stato strambo. Le cose che fa, hanno senso solo per lui… però non è questo il punto » puntualizzò il ragazzo e, tornando a rivolgersi al suo migliore amico, insistette « dammi il tuo regalo Daja, tanto non avrai nemmeno le palle per darlo a Kim oggi » lo provocò.
« vuoi scommettere? » reagì d’impulso il capitano, pentendosene all’istante. Aveva scelto un peluche a forma di coniglietto con una divisa da velocista. Appena l’aveva visto, aveva pensato subito a Kim, anche se non era sicuro che lei avrebbe apprezzato quel genere di pensierini.
« scommettiamo! » esultò Trevor, allungandogli il braccio e volgendo il palmo verso l’alto « se lo fai, rapisco Kiki e lo restituisco alla preside rapato con la cresta. Se vinco mi cedi il titolo di capitano »
Dajan esitò prima di schiacciare il suo contro quello del compagno. Seguì poi uno scambio di pugni chiusi, nocche contro nocche e il patto venne sigillato. Teneva troppo al titolo di capitano della squadra e, mettendolo in palio, vincolava sé stesso a smetterla di tergiversare e dichiararsi a Kim.
« possibile che le tue scommesse prevedano sempre dei piani criminali? » sbuffò Steve che, in un contesto simile, si era visto costretto a presentarsi in classe con il kilt. Erano anni che Trevor usava il cane della preside nelle sue scommesse e il desiderio di vedere quella bestiola con una cresta ribelle, era tale da spingere tutti ad accettare le eccentrice scommesse del ragazzo. In due anni però, nessuno era mai riuscito a spuntarla: sembrava che Kiki avesse una sorta di angelo custode e di riflesso, Trevor vinceva sempre. Quella volta però, aveva messo in palio un titolo talmente importante che, forse, poteva togliere a tutti la curiosità di vedere Kiki in un outfit più trasgressivo.
Dajan sprofondò nella poltrona e si rimise le cuffiette al loro posto. Sentiva crescere l’ansia e la tensione per il momento in cui sarebbe sceso dal pullman e avrebbe affrontato quella ragazza che nelle ultime settimane era diventata il suo chiodo fisso.
 
« è una vita che sento mia madre dire che manchiamo a nostro padre e menate varie, ma mi dà fastidio che non sia vero! Certo, il suo lavoro gli impone di starsene lontano per la maggior parte del tempo, ma quando è a casa, si comporta come se fosse un estraneo. Da piccola piangevo un sacco ogni volta che se ne andava, perché per me lui era il mio papà, doveva stare a casa con noi… e invece crescendo ho capito che siamo solo un peso »
Da quando si erano seduti nel locale, Iris aveva rimosso la valvola che frenava le sue angosce e, con l’impetuosità di un fiume ingrossato da una tempesta, lasciava che fluissero verso Dake. Il ragazzo la ascoltava in silenzio, senza osare interromperla, ma pronto a sorreggerla qualora quell’onda di emozioni la inondasse al punto da farla affogare. Aveva condotto Iris in un’accogliente cioccolateria, con una scenografica cupola di vetri colorati i cui riflessi si proiettavano nel locale interno, grazie ai fiochi raggi solari.
« mia madre si ostina a far finta di nulla, a inculcare ad Adam l’idea che papà ami la sua famiglia, ma così lo sta solo illudendo, esattamente come ha illuso me » concluse la rossa, sospirando gravemente. La panna che aveva decorato la superficie cioccolato si era ormai liquefatta ed era fuoriuscita dalla tazza, lasciando delle strisce marroncine.
Dake ancora non parlava così la rossa mormorò mortificata:
« scusami Dake, ti ho vomitato addosso tutte le mie lagne. Sono proprio pesante, scusami »
Il biondo sorrise comprensivo e cercò il contatto con la mano della ragazza, che rabbrividì leggermente.
« ehi » la consolò con dolcezza « è a questo che servono gli amici no? »
Lei arrossì, ringraziandolo con lo sguardo:
« tuo padre non ha ancora capito cosa si perde restando lontano da voi… però non è mai troppo tardi per recuperare un rapporto no? »
« non ne sono convinta. Crescendo ho capito che stiamo meglio senza di lui »
Dake allungò la schiena all’indietro e si massaggiò il collo:
« anche io non vado granchè d’accordo con i miei. In realtà la mia famiglia mi sta abbastanza sulle scatole, tranne mio zio Boris »
« Boris è in gamba. Erin me ne parla sempre bene » convenne la rossa, decidendosi finalmente ad assaporare la cioccolata calda.
« già… e se non fosse stato per lui, io e mio padre saremo ancora ai ferri corti. A volte bisogna metter da parte l’orgoglio e trovarsi a metà strada »
« la mia non è solo una questione di orgoglio. È che non sopporto di voler bene ad una persona che non me ne vuole »
« sono sicuro che non sia così per lui »
« lo dici solo per consolarmi » commentò amaramente Iris.
Dake fece spallucce e proseguì:
« direi che non sta funzionando eh? »
Vide il viso di Iris addolcirsi e guardarlo con tenerezza:
« invece mi sento meglio dopo aver parlato con te… grazie »
Lui si limitò a restituirle quello sguardo e, distrattamente, gettò l’occhio sull’orologio appeso alla parete:
« sarà meglio che ti lasci andare » ragionò Iris, leggendogli nel pensiero « ti ho fatto perdere anche troppo tempo »
« figurati, non è stato tempo perso. Comunque Iris, non lasciarti sopraffare dal rancore verso tuo padre, altrimenti non riuscirai mai ad essere felice. Ciò che più conta è che tu hai ancora la possibilità di costruire qualcosa… altre persone non sono così fortunate » e prima che Iris potesse obiettare qualcosa, Dake proseguì « Rosalya ad esempio. Suo padre non l’ha mai conosciuto, ma pagherebbe qualsiasi cosa per conoscerlo »
La ragazza non aggiunse altro: sapeva della situazione familiare dei fratelli White, orfani di entrambi i genitori e costretti a vivere con i nonni. Eppure, non aveva mai sentito né Lysandre né Rosalya lamentarsi per quella mancanza. Cominciò così a rivedere le cose da un’altra prospettiva e riuscì a intuire un barlume di speranza nel nero rancore in cui era sprofondata. Si alzò in piedi, frugando nella borsa alla ricerca del portafoglio e borbottò:
« questa volta pago io. Grazie ancora Dake »
Il ragazzo però assecondò quella richiesta:
« sta buona, faccio io »
« ma- »
« la cioccolata la offro io e poi… oggi è San Valentino » maliziò con un sorriso complice « consideralo un pensierino da parte mia »
Iris lo replicò, rimanendo disorientata da quella frase, mentre il ragazzo si limitò a farle l’occhiolino.
 
Dajan scese dal pullman con un’espressione tetra. Il conto alla rovescia era terminato. Osservava da lontano Kim, intenta a chiacchierare con Wes ed Erin. Quest’ultima intercettò l’occhiata furtiva del capitano e, cominciò a gesticolare, facendogli segno di avvicinarsi.
« facciamo la strada insieme? » lo invitò, riferendosi a lei e gli altri due. Il ragazzo la ringraziò mentalmente, per quell’occasione che gli veniva offerta su un piatto d’argento.
« ricordati la scommessa » gli rammendò una voce inquietante alle spalle. Dajan si voltò, per fulminare Trevor che, alla vista di Brigitte, trotterellò via, scodinzolando allegro.
I due si allontanarono in fretta, cosicchè nessuno dei suoi compagni potè assistere alla reazione della ragazza, rimasta senza regalo di San Valentino. Ben presto, anche il resto della squadra si dileguò, ciascun membro diretto verso la propria casa.
Il quartetto composto da Erin, Kim, Dajan e Wes perdette ben presto quest’ultimo, che aveva la fortuna di abitare a pochi metri di distanza dal liceo. I tre rimasti, proseguirono a parlare del torneo e dei futuri avversari, a detta di Dajan, probabilmente i più forti che avesse mai incontrato.
Da lontano Erin vide la pubblicità del negozio di cd di Madison Street, strada che conosceva fin troppo bene dal momento che nelle ultime settimane, ogni weekend, la percorreva.
« ragazzi, io taglio per di qui. Casa mia non è lontana »
Sperava che nessuno dei due compagni di squadra obiettasse che quella indicata, non era affatto una scorciatoia per arrivare in via Kennedy, ma per sua fortuna, ciò non accadde: Kim aveva sì contratto la fronte ma prima di esternare la sua contrarietà, Dajan si era intromesso:
« d’accordo. Allora ci vediamo agli allenamenti. Buona serata »
La liquidò con una tale fretta, che in Erin si insinuò il sospetto che avrebbe dovuto lasciarli soli molto prima. Tuttavia, per nulla risentita per la poca grazia con cui veniva congedata, svoltò a destra, mentre i due cestisti prendevano la direzione opposta.
Se con loro ci fosse stato Castiel, avrebbe protestato all’idea di lasciarla andare in giro da sola ma in fondo, il sole non era ancora scomparso all’orizzonte e per le strade c’era molto movimento. Per quante arie da duro volesse associare alla sua immagine, Erin sapeva quanto quel ragazzo sapesse essere protettivo nei suoi confronti.
Più di mezz’ora prima, le aveva telefonato Iris, raccontandole del suo incontro fortuito con Dake. Avevano consumato una cioccolata calda insieme, in uno dei locali più in della città. Quando Erin aveva sostenuto che tra di loro ci fosse del tenero, l’amica aveva negato con decisione, ma del resto, lei stessa, quando in passato le sue amiche insinuavano che fosse interessata a Castiel, non riusciva ad accorgersene.
Era così che Iris aveva passato il pomeriggio di San Valentino in dolce compagnia, mentre lei si era rinchiusa in palestra, sforzandosi di non pensare a l’unico ragazzo che riusciva a occupare i suoi pensieri almeno tre volte al giorno. Fosse stata la sua ragazza, poteva sperare in una qualche sorpresa da parte sua, ma lei era solo sua amica. Una banale e, per certi versi quasi insignificante, amica.
Erano più di due mesi che non lo vedeva accanto a lei, eppure le sembravano molti di più. Portare a spasso Demon una volta alla settimana era un pretesto per passare davanti a casa sua, attenuando in qualche modo quella logorante nostalgia. Con Mauro era entrata in confidenza e, in alcune occasioni, l’uomo l’aveva addirittura invitata a bere un caffè insieme, italiano, come sottolineava orgogliosamente l’uomo, esibendo una miscela con la scritta Lavazza.
Durante le loro chiacchierate, Erin aveva scoperto alcuni aneddoti della vita di Castiel dopo il suo trasferimento in quella casa, che risaliva ormai quasi tre anni prima. All’inizio non salutava nemmeno Mauro, nonostante i modi affabili dell’italiano, ma con il tempo, l’uomo era riuscito a penetrare nel carattere chiuso del ragazzo, che finì per considerarlo una sorta di zio attempato.
Erin cercò nel borsone il mazzo di chiavi, da cui isolò quella del cancello di Castiel: Mauro si fidava di lei al punto da lasciarle quella via di accesso, in modo la ragazza fosse libera di portare a spasso Demon ogni volta che lo desiderava.
Appena il cane sentì dei rumori dietro la siepe, drizzò le orecchie, sull’attenti. La mora nel frattempo borbottava tra sé e sé parole sconnesse che bastarono a Demon per riconoscere l’autrice della voce: cominciò a saltellare euforico verso di lei, che lo accolse con un sorriso a trentadue denti:
« anche io sono contenta di vederti Demmy » lo salutò, riuscendo a sbloccare la serratura. Appena mise piede nel giardino, il cane si mise su due zampe, slinguazzandola di saliva:
« che slancio di affetto! Tu sì che sai tirare su il morale di una donna!” si congratulò divertita la ragazza, cercando di sedare l’entusiasmo del cagnone « altro che quello scemo del tuo padrone. Dovresti dargli ripetizioni Demmy… »
Il cane guaì eccitato e corse verso la veranda della casa, dove la ragazza riponeva il guinzaglio. Trepidava all’idea di essere portato a spasso ma, purtroppo per lui, non rientrava nei piani della ragazza:
« che poi dico io… una telefonata… non è difficile da fare no? » continuò il suo monologo appena Demon tornò da lei per la seconda dose di carezze. Si lasciò grattare dietro l’orecchio destro, punto che Erin aveva scoperto essere uno dei suoi preferiti.
« posso capire tutto, ma perché diavolo sparire così? »
Demon abbaiò rumorosamente ed Erin annuì convinta:
« hai ragione… però rimane il fatto che sia uno scemo »
L’animale ripetè il verso con maggior vigore, e la ragazza si indispettì:
« non provare a difenderlo Dem! Siamo alleati ora io e te! »
Una risata elegante la fece sobbalzare; da quando aveva incrociato lo sguardo del cane, si era completamente isolata da quanto la circondava, senza curarsi di abbassare un tono di voce tendenzialmente alto. Si voltò di scatto verso la strada e, tenuto a distanza dalla siepe frondosa, vide la figura longilinea di Lysandre:
« d-da quando sei lì Lys? » balbettò Erin in preda all’imbarazzo.
« da quando Demon ha qualcosa da ridire sul fatto che il suo padrone sia scemo »
« non bisognerebbe origliare » lo rimbeccò la mora, cercando di sbollire la vergogna e incrociando le braccia al petto.
« è inevitabile sentire quando il volume di una conversazione è troppo elevato »
La ragazza schioccò le labbra e scrollò le spalle:
« però potresti evitare di dirlo agli altri? Non ci faccio una bella figura a fare la parte di quella che parla con i cani »
« non c’è niente di male. Se ti capitasse di sentire Castiel poi... una volta io e Nathaniel ci siamo ascoltati dieci minuti buoni di conversazione tra lui e Demon. Se solo non avessi starnutito, Castiel non se ne sarebbe accorto e avrebbe continuato per altri dieci » considerò con rammarico.
Erin scoppiò a ridere e si incuriosì:
« e di cosa parlava? »
« non essere impicciona Erin » la punzecchiò Lysandre. Preferiva non dirle che in quell’occasione il ragazzo era perso a parlare di Debrah e di cosa avesse provato la prima volta che l’aveva vista.
« detto da uno che se ne va in giro ad origliare i dialoghi altrui…  » obiettò Erin.
« tuscè » replicò semplicemente il poeta, alzando le braccia in segno di resa. La mora sorrise e volse un ultimo saluto a Demon:
« sono passata solo a salutarmi Demmy… adesso è tardi per portarti a spasso »
Il cane guaì; anche se non parlava la sua lingua, dallo sguardo stanco di Erin sembrò capire che non avrebbe lasciato il giardino per quel giorno.
Facendo attenzione a non lasciare uscire il cane, Erin si richiuse il cancello alle spalle, tornando sul marciapiedi dove sostava Lysandre.
« Rosalya mi ha detto che vi siete qualificati per la semifinale »
L’amica annuì con orgoglio e aggiunse:
« e ci qualificheremo anche per la finale »
Lysandre sorrise e si sistemò la sciarpa fino alla punta del naso:
« vai a casa ora? »
« sì, mia zia mi sta aspettando »
« allora ti accompagno. Si sta facendo buio »
« non scomodarti Lys… e poi c’è ancora un po’ di luce »
Il poeta sorrise e mormorò sibillino:
« che c’è? Solo Castiel si può arrogare il diritto di proteggerti fino a casa? »
« ma non dire sciocchezze! » lo zittì Erin arrossendo imbarazzata.
« allora andiamo » tagliò corto l’amico, con un sorrisetto beffardo stampato in volto.
 
Erano rimasti in silenzio da ormai due minuti da quando si erano separati da Erin, e quel silenzio gravava enormemente su Dajan, contribuendo ad incrementare il suo nervosismo.
Era arrivato il momento di smetterla con i tentennamenti e le indecisioni. Aveva già rischiato di perderla l'anno prima, quando la prudenza e l'insicurezza avevano preso il sopravvento.
« Dajan... » lo chiamò Kim.
Il ragazzo sussultò, come se per un attimo avesse temuto che lei potesse leggergli nella mente.
« devo dirti una cosa » proseguì.
Lui cacciò dentro un grumo di saliva, avvertendo la pressione che aumentava. Forse stavano pensando la stessa cosa, con la differenza che Kim era molto più coraggiosa di lui, cosa di cui per altro era convinto in ogni caso.
« si tratta di cosa succederà dopo il torneo... »
« ah » fu l'unico commento che gli uscì,  strozzato dalla gola che ormai era arsa dalla tensione.
« sì... vedi... il basket è... una figata. Davvero. Non pensavo che mi sarei divertita tanto a giocare per una squadra ma... » indugiò Kim.
« ti manca correre » completò lui. Il tono di voce gli era uscito piatto e inespressivo, al punto da preoccuparla. I loro sguardi si incrociarono, incontrando da un lato il sorriso rassegnato del ragazzo e dall'altro quello ansioso di lei.
« lo capisco Kim. È da quando ti conosco che ti brillano gli occhi quando parli della pista. Del resto, per me è lo stesso quando si tratta del basket »
« già » rifletté la ragazza tra sé e sé con un'espressione trasognante. La passione che metteva Dajan in quello sport l'aveva conquistata e rientrava tra le tante caratteristiche di lui che più amava.
« quindi, finito il torneo, sentiti pure libera di tornare nel club di atletica, sono sicuro che ti riaccoglieranno a braccia aperte; ci saranno i campionati in primavera e tu sei la velocista di punta del liceo »
Dajan aveva proseguito il suo discorso con un sorriso incoraggiante, smorfia che in Kim riusciva sempre a scaldarle il cuore. Il ragazzo nel frattempo, cercava di far proseguire la conversazione senza che lei notasse che in realtà erano ben altri i sentimenti che animavano la sua coscienza. Una volta conclusosi il torneo, non aveva più pretesti per incontrarla tutti i giorni, trascorrere i weekend insieme; doveva decidersi e, anche se settimane prima si era ripromesso di rimandare quel discorso a dopo quell’importante evento, l'attesa era sempre più insostenibile. Trevor era convinto che per la mora, Dajan non le fosse indifferente e il dubbio che l’amico avesse ragione, lo torturava. Doveva saperlo, a costo di giocare la semifinale con il morale a terra e l'orgoglio annientato.
« senti Kim, io... »
« tesoro finalmente! »
La voce stridula di Lois, madre di Kim, li fece sobbalzare. La videro percorrere tutta eccitata il vialetto di casa Phoenix, avvicinandosi a loro.
« cominciavo a preoccuparmi! Non dovevate arrivare mezz'ora fa? »
« mi scusi » si colpevolizzò il capitano della Atlantic « colpa mia che ho fatto allungare la strada a Kim »
Appena realizzò che la figlia aveva trascorso parte del suo tempo libero in compagnia del ragazzo, Lois si sciolse in un sorriso malizioso:
« oh, ma se avessi saputo che era con te, non mi sarei nemmeno preoccupata! » ridacchiò civettuola. Kim sollevò gli occhi al cielo, irritata dal comportamento di una madre così diversa da lei, alla quale comunque voleva un sacco di bene.
« complimenti per la qualificazione. Sarete molto orgogliosi ed eccitati » proseguì la donna, fermamente intenzionata a trattenere il più possibile il ragazzo. Quest'ultimo le sorrise e, diversamente dalla cestista accanto a lui, non sembrava infastidito da quella presenza ciarliera ed allegra.
«beh sì, i nostri prossimi avversari poi sono degli ossi duri. Boris ha detto che il vero torneo comincia con quella partita » dichiarò il moro.
« a quelli ci penserete la settimana prossima. Quello che conta ora come ora è l’opportunità e la visibilità che vi ha offerto questo evento no? Siamo molto orgogliosi di Kim e della sua borsa di studio per la NC Tar Heels »
Quella frase ebbe un impatto completamente diverso sui visi dei due giovani: la cestista sgranò gli occhi, incentrando successivamente lo sguardo infuocato verso la madre, mentre Dajan era spiazzato.
« che significa? » chiese, guardando la ragazza accanto a lui.
« oh, perché non gliel’hai detto Kim? » si arrabbiò Lois,
« mamma » mormorò la figlia a denti stretti « puoi tornartene dentro casa? »
La donna stava per protestare ma l’ennesima occhiataccia silenziò ogni discussione. Inoltre, vedendo lo sguardo sconvolto di Dajan, realizzò a malincuore di aver appena sganciato inconsapevolmente una bomba a orologeria. Liberò il campo, con la coda tra le gambe, volgendo un saluto al ragazzo che rispose quasi assente:
« il North Carolina Tar Heels? » ripetè sempre più incredulo « che significa? Hai già presentato domanda? Ma non dovevamo andare insieme al college nel Kentucky? E poi tu non puoi presentare la domanda, ti diplomi l’anno prossimo! » protestò.
« infatti non ho presentato un bel niente » chiarì Kim « solo che la settimana scorsa mi ha chiamato un talent scout. Dice di avermi vista al torneo e che lavora per i Tar Heels. Sostiene che il college è disposto ad offrirmi una borsa di studio se accetto di entrare nella squadra femminile di basket »
« perché cazzo non me l’hai detto prima? »
Il nervosismo crescente di Dajan gli fece accantonare le buone maniere, mettendo ancora più in difficoltà Kim.
« te l’avrei detto dopo il torneo »
« perché aspettare così tanto? » tuonò. Non l’aveva mai visto così arrabbiato e non riusciva a darsi una spiegazione diversa da quella che rappresentava il motivo del suo silenzio: Dajan la odiava perché le era stata offerta un’opportunità che a lui era stata negata.
« non volevo che mi odiassi… » mormorò mogia mogia.
« o-odiarti? » ripetè, sempre più sbigottito e furente:
« sì perché a me hanno concesso quell’occasione che tu stai aspettando da un sacco e-»
« mi credi davvero così meschino? » la attaccò il ragazzo, senza lasciarle il tempo per completare la frase. Kim aveva un’aria sempre più sperduta e confusa: non riusciva a riconoscerlo e inoltre, stava reagendo peggio di quanto avesse immaginato.
« non ti incazzare » disse con scarsa convinzione.
« mi incazzo eccome Kim! Prima mi vieni a dire che vuoi pensare solo a correre, mi danno a cercare un college in cui offrano borse di studio sia per l’atletica leggera e per il basket e poi non ti degni nemmeno di avvertirmi che hai cambiato idea! »
« ehi, nessuno te l’aveva chiesto! » scattò la ragazza sulla difensiva. Quelle parole erano state più veloci di lei ad uscire dalle sue labbra e, il fatto di tornare a serrarle, non bastò a ricacciare dentro il male che avevano inferto al ragazzo: Dajan non riuscì a replicare, sentendosi umiliato; lo riconosceva, non era stata Kim a chiedergli di trovare un college che andasse bene ad entrambi, era stato lui a fare tutto, con la speranza che un giorno l’avrebbero frequentato insieme. Si era reso ridicolo e patetico, convincendosi che anche la ragazza condividesse davvero quel progetto, invece aveva fatto solo finta di assecondarlo, per non ferirlo.
« scusami, non era quello che intendevo… » sussurrò Kim.
« sei stata molto chiara invece… me ne vado, mi sento già abbastanza idiota da non voler proseguire questo discorso »
Kim cominciò a tremare, ma non sapeva se fosse per il freddo o per la paura di aver appena dato un calcio alla sua possibilità di essere felice. Dajan le dava le spalle e si era incamminato lungo il marciapiede. Non sapeva cosa dirgli, perché qualunque parola sarebbe risuonata come una patetica consolazione e temeva di peggiorare la situazione. Questa volta aveva davvero rovinato tutto, per sempre.
Finito il torneo, sarebbero tornati ad essere due estranei.
 
Erin non aveva più nominato Castiel da quando avevano lasciato la casa dell’amico. Temeva che Lysandre ne approfittasse per prendersi gioco di lei, probabilmente perché aveva intuito cosa provasse per il ragazzo.  
Da un lato avrebbe voluto accertarsene direttamente, ma dall’altro temeva che esponendosi troppo con uno dei migliori amici di Castiel sarebbe stato controproducente. In fondo, Lysandre le avrebbe solo confermato una verità di cui lei era a conoscenza da mesi: nel cuore dell’amico, c’era solo Debrah.
Ripensò alle amiche, a Rosalya, in compagnia del suo Nathaniel, ed a Iris, a cui Dake aveva rallegrato la giornata. Avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di passare quella giornata in compagnia dell’amico lontano, le sarebbero bastate anche un paio d’ore insieme, a chiacchierare portando a spasso Demon.
« a che pensi? »
La domanda di Lysandre la riportò alla realtà; sul suo viso si leggeva la tristezza più acuta e, consapevole che non sarebbe riuscita a celarla all’amico, ammise:
« pensavo che questo San Valentino è stato parecchio deprimente »
« è solo una ricorrenza creata allo scopo di incrementare le vendite » asserì Lysandre.
« lo so, ma ciò non toglie il fatto che diventi un pretesto per guardarsi attorno e accorgersi di quanto possa essere bello stare con la persona che ami »
Il ragazzo non rispose, limitandosi ad aspettare che Erin aggiungesse qualcos’altro:
« a te Lys non manca mai Emma? »
Era la prima volta che affrontava un tema così personale con il poeta, ma le era venuta spontanea la domanda sull’ex dell’amico.
« non particolarmente. Con il senno di poi, vedo in lei cose di cui prima non mi accorgevo e per le quali non la rimpiango »
« quindi ora tu stai bene così, da solo? »
« sì… tu no? » indagò, fingendosi sorpreso. Ingenuamente Erin non colse il fatto che Lysandre riuscisse a leggere tutta la sua nostalgia per la lontananza da Castiel.
« non lo so più. Una volta era così. Non mi è mai importato di avere un ragazzo, anzi, pensavo che fosse un impiccio »
« un impiccio? » obiettò Lysandre, temendo di non aver capito.
« massì, dover rinunciare a una parte della propria libertà per vincolarla a quella di un’altra persona… privilegiare sempre lei, anteponendola a tutto e a tutti… pensavo fosse una cosa pesante, che alla lunga stanca »
« parla così chi non si è mai innamorato Erin » sentenziò il suo ascoltatore.
Erano arrivati davanti alla palazzina della ragazza che era quasi ora di cena.  La ragazza ripensò alle ultime parole che aveva sentito e precisò:
« già, infatti ora capisco quanto vero il contrario. Però non serve a niente innamorarsi se poi vieni lasciato solo »
Nessuno dei due aggiunse altro: lei aveva un’espressione malinconica ma che si sforzava di sembrare serena, mentre Lysandre sembrava pensare ad altro. L’amica lo salutò, mentre apriva il cancello, ringraziandolo per la cortesia di averla accompagnata. Prima che si richiudesse il portoncino alle spalle, il ragazzo la richiamò:
« Erin »
La mora fu costretta a girarsi mentre lui continuava, guardandola con dolcezza:
« sei una ragazza troppo speciale per essere lasciata da sola »
Lei sorrise, arrossendo timidamente e in un sussurro che solo il labiale permetteva di interpretare pronunciò un:
« grazie »
 
« niente rutti. Non urtare la gente dietro di me. Non parlare di videogiochi, anime, manga o affini… » erano dieci minuti che Armin, rinchiuso nell’isolamento della sua macchina, ripeteva sommessamente le raccomandazioni del gemello. Era un fascio di nervi in vista dell’evento a cui avrebbe partecipato assieme a lei, Ambra. Lo smoking, comprato apposta per l’occasione, lo faceva sentire a disagio, anche se sua madre, appena l’aveva visto si era commossa mentre il padre aveva ringraziato il cielo che, almeno all’apparenza, suo figlio potesse sembrare una persona seria.
« grazie al cazzo papà » gli aveva risposto « prima mi trasmetti i geni del nerd e poi te la prendi se seguo le tue orme? » lo aveva rimbeccato offeso il figlio, mentre la madre li lisciava l’abito.
Sospirò profondamente, cercando di calmarsi. Il tentativo però non gli riuscì e premette con maggior insistenza sull’acceleratore, mancando anche un semaforo rosso.
Si allentò la stretta della cravatta blu attorno al collo, ma le sembrò che non si fosse mossa di un millimetro. Quella sensazione, unita al ritmo frenetico del suo battito cardiaco, accentuarono in lui la consapevolezza che quella sera sarebbe morto di insufficienza respiratoria.
 
« oh Ambra, sei meravigliosa » si commosse Molly, sistemando la gonna dell’abito della ragazza. era abituata a vederla con i vestiti più belli, portati con eleganza e sicurezza, ma mai come quella sera, era stata più bella. Il vestito era stretto sui fianchi, accentuando il ventre piatto della bionda, scendeva poi largo, ma senza eccedere, verso il basso. La stoffa, color verde petrolio, s’intonava perfettamente ai capelli dorati, raccolti da un elegante chignon. Il corpetto decorato sul seno da una tempesta di diamanti, attirava l’attenzione sul decolté, riflettendo la luce dell’ambiente:
« lo dici tutte le volte Molly, e io farò finta di esserne lusingata, come sempre » scherzò.
Sentirono il campanello suonare e le due donne si guardarono all’istante:
« Armin » mormorarono in coro.
Molly uscì immediatamente dalla stanza, ma percorrendo l’ampia scalinata, vide la signora Daniels avvicinarsi alla porta.
Appena Ingrid si trovò di fronte Armin, celò in modo molto superficiale il suo disprezzo:
« b-buona sera signora Daniels » si presentò il ragazzo.
« buona sera a te Armin. Immagino che mia figlia arriverà a momenti » tagliò corto.
La cafonaggine della signora Daniels era direttamente proporzionale alla sua bellezza, che i figli avevano ereditato quasi in toto.
« Armin! » lo accolse Molly, con uno spirito ben diverso da quello che aveva ricevuto dall’altra donna.
« ciao Molly. Come stai? » esclamò il ragazzo sollevato, sentendo il sangue tornargli al cervello.
« benissimo, ma dovresti venire a trovarmi più spesso, mascalzone! » lo rimproverò, schiaffeggiandogli il viso.
Il ragazzo ridacchiò nervosamente, sentendosi addosso lo sguardo sprezzante di Ingrid; quest’ultima si decise infine di abbandonare la sala, lasciando l’ospite in compagnia della governante. Mentre risaliva le scale, soggiunse Ambra, in direzione opposta.
Appena la ragazza comparve nel suo campo visivo, Armin dimenticò Molly e Ingrid: vide solo lei, vestita come una star di Hollywood e con una grazia e bellezza di un’attrice europea. Lei era impeccabilmente bella e perfetta, non ad uno, ma a dieci livelli al di sopra della sua portata. Proprio come la posizione sopraelevata da cui aveva fatto il suo ingresso. Mentre scendeva le scale, intercettò la madre che, passandole accanto, le bisbigliò:
« abbiate l’accortezza di parcheggiare lontano. Arrivare a bordo di un’utilitaria va bene solo peri poveracci, cerca di avere almeno un po’ di rispetto per il nome della tua famiglia »
Nonostante l’acidità di quelle parole, Ambra le ignorò in pieno: guardava Armin, deliziata da quell’immagine così seria ed elegante alla quale non era abituata. Era sempre stata convinta che il ragazzo non fosse l’idiota che voleva far credere a tutti e vederlo quella sera, in smoking, ne ebbe la conferma.
« giuro che se ti avessi visto per strada non ti avrei riconosciuto Evans » scherzò, appena si avvicinò ai due che la stavano ammirando dall’ingresso.
« in realtà perfino io non mi sono riconosciuto quando mi sono visto »
« ragazzi andate, altrimenti farete tardi » li esortò Molly, eccitata dall’elettricità nell’aria.
Sospinse entrambi fuori dalla villa e, senza dare loro il tempo di salutarla, chiuse la porta.
 
« chi era? »
Gustave aveva rivolto quella domanda alla moglie che era appena rientrata nel suo studio. Era intento a controllare il rendiconto dell’ultimo mese, anche se quello non era il momento più opportuno per dedicarsi ad una simile attività.
« solo l’amico di Ambra. Ancora stento a capire cosa ci trovi in lui: interessarsi ad una persona così… » e dopo aver esitato cinque secondi per trovare il termine più appropriato, Ingrid sentenziò: «… insulsa »
« deve essere un vizio di famiglia » commentò sarcastico il marito, sapendo che la moglie mai avrebbe colto l’implicita offesa che le era rivolta. La donna infatti lo scrutò confusa e squittì:
« che intendi caro? » ma, senza aspettare una risposta, proseguì « oh, non mi interessa. Sbrigati che dobbiamo andare. Cinque minuti e ci vediamo giù »
 
Appena entrò nel salone del ricevimento, il lusso di quell’ambiente fece annegare Armin in un mare di disagio e senso di disadattamento. Ogni dettaglio della stanza era riccamente curato e decorato, vi erano affreschi alle pareti e, cosa non meno ammirevole, un buffet ben nutrito, adornato dei cibi più sofisticati, la maggior parte dei quali totalmente nuovi per il ragazzo. Da ogni angolo, frammisti agli ospiti, si muovevano dei camerieri dall’avvenente presenza reggendo in mano vassoi con drink o stuzzichini vari.
« non fare quella faccia » ridacchiò Ambra, notando la bocca spalancata del ragazzo che in quel momento ricordò le raccomandazioni di Rosalya:
« … e per l’amor del cielo Armin, quando entrerai nel salone, non fare la sua solita faccia da ebete quando rimani senza parole »
Il ragazzo si ricompose e seguì Ambra verso il centro della sala:
« se siamo fortunati, in mezzo a tutta questa gente, eviteremo di incrociare i miei più del necessario »
Lui però la ascoltava a fatica: la stoffa verde petrolio del suo abito si muoveva al ritmo dei suoi passi e, per l’ennesima volta nell’arco di poco tempo, il ragazzo ammirò la figura snella e raffinata della sua accompagnatrice. Lei gli dava le spalle, camminando con portamento fiero e sicuro, così lui ne approfittò per lasciare che i suoi occhi indugiassero ancora un po’ sul suo corpo. Il vestito la valorizzava al massimo: il colore metteva in risalto i capelli color oro e la pelle candida mentre il taglio aderente sui fianchi ne sottolineava il fisico modellato, a cui i suoi impulsi maschili non potevano restare indifferenti. Ambra era davvero la ragazza più bella che avesse mai visto e, proprio per questo, la più irraggiungibile.
« ehi, mi stai ascoltando? » ripetè la bionda, girandosi di scatto. La sua mossa fu talmente repentina che lui, troppo assorto nei suoi pensieri, non riuscì ad anticiparne le intenzioni, e finì con lo sbatterle contro.
« scusa! » borbottò imbarazzato. Lei lo fissò con curiosità e se ne uscì con un:
« tutto bene? Sei strano… »
« più del solito intendi? » scherzò il moro, cercando di recuperare la sua allegria e alleviare un po’ di stress che lo stava logorando. Ambra si lasciò strappare un sorriso e ripeté per la seconda volta l’affermazione che il ragazzo non aveva udito:
« lo vedi quell’uomo laggiù? »
La ragazza, in rispetto all’etichetta, non indicò nessuno ma inclinò il capo verso destra e proseguì con la descrizione « quello con la cravatta viola? Quello è Ian Stewart, il proprietario della »
« Pear » completò il ragazzo, sgranando gli occhi appena realizzò di trovarsi nella stessa stanza di un colosso dell’informatica.
« esatto. È un pesce grosso del settore, a confronto, quella di mio padre è un’azienda modesta »
« stiamo parlando di uno che fattura più di cento miliardi di dollari l’anno, chiunque impallidisce al suo confronto » considerò Armin, spostandosi per lasciar passare un cameriere.
« non è solo una questione economica » precisò Ambra « le idee che ha sfornato la sua impresa sono all’avanguardia e si vocifera che entro il 2021 lancerà »
« un dispositivo ultra tecnologico per l’analisi del DNA associato all’elaborazione di immagini »
Ambra rimase per un attimo in silenzio, fissando Armin con interesse. Era rimasta visibilmente perplessa da quell’uscita così esternò:
« e tu come fai a saperlo? Non hanno ancora diffuso anticipazioni in merito. A me l’ha detto mio padre, in via confidenziale »
Armin  deviò lo sguardo e, ridacchiando nervosamente, balbettò:
« b-beh, diciamo che i computer sono il mio mondo »
La bionda non si lasciò sfuggire quell’affermazione e obiettò:
« ma se prima di Natale mi hai detto l’esatto opposto! »
« quando? »
« alla vigilia… quando mi hai accompagnato a casa, dopo che avevamo lavorato al ristorante di Lin. Quella volta ti ho parlato di Nuvola Rossa e tu te ne sei uscito dicendo che il tuo mondo sono i videogame, non i computer »
Armin si grattò la nuca a disagio e mormorò ammirato:
« caspita Ambra, hai una memoria di ferro… »
« non hai risposto alla mia domanda » puntualizzò risoluta « perché quella volta non mi hai detto che sei un appassionato di pc? » insistette la ragazza, guardandolo sospettosa.
Armin incurvò le spalle, alzando le mani in segno di rassegnazione. Stava per replicare, quando i due sentirono una voce alle loro spalle:
« Ambra »
L’espressione della ragazza mutò improvvisamente nel più freddo distacco e guardò oltre la spalla sinistra di Armin:
« mamma » disse, quasi facendole il verso. Ingrid non approvò quel freddo saluto e storse le labbra tinte dal rossetto di Chanel. Gustave, accanto a lei, aveva un’espressione apatica, come se nulla di quanto lo circondasse, moglie compresa, fosse degno della sua attenzione.
« che ci fai qui isolata? » la aggredì velatamente la madre, insultando implicitamente l’inconsistente presenza del moro « dovresti occuparti di coltivare le pubbliche relazioni »
« pensavo che il mio intervento fosse superfluo, vista la foga che ci metti a ingraziarti questi ricconi » malignò la figlia, senza staccare lo sguardo per un secondo.
Gli occhi di Ingrid diventarono due fessure ma, di fronte ad un estraneo come lo era Armin, non poteva permettersi di perdere le staffe:
« te la rubo per un po’ » gli disse infine, brandendo il braccio della figlia « tu tesoro » esclamò, rivolgendosi a Gustave « cerca di non annoiarti in mia assenza » e se ne andò, trascinando Ambra con sé.
La bionda non oppose resistenza solo per non dare spettacolo: si sarebbe liberata il prima possibile dalle grinfie della donna e avrebbe cercato poi di sfuggire al suo radar per tutta la serata:
« non capisco perché perdi il tuo tempo con certi falliti » ringhiò sottovoce la madre, quando erano ormai lontani. Quella frase incendiò una tale rabbia nella bionda che non potè fare a meno di mollare la presa di scatto:
« non ti permettere certi termini » la redarguì con disprezzo. Ingrid la fissò dritta negli occhi, incrociando lo stesso sguardo in cui riconobbe quello del marito; quella sorta di silenziosa ma letale accusa nei suoi confronti, per la sua inadeguatezza come persona; come sempre, quel disprezzo la ferì, ma non si lasciò soverchiare dall’insicurezza e rispose con freddezza:
« d’accordo » si arrese « mi asterrò dal dire ciò che penso su di lui, ma rimane il fatto che non è adatto ad una ragazza nella tua posizione. C’è Dylan Rood in quel gruppo accanto alla statua di Venere, lo vedi? » le suggerì, senza guardare il suo obiettivo.
« e allora? » sbottò Ambra che aveva intuito le intenzioni della madre « ti aspetti che vada lì a fargli gli occhi dolci? » replicò con sarcasmo.
« sarebbe fantastico » assunse Ingrid, senza cogliere la nota di disprezzo su cui aveva puntato la figlia e, brandendole il braccio per la seconda volta, la trascinò con sé.
« mamma smettila! » le sibilò la bionda « ci stai mettendo in ridicolo! »
La donna però la ignorò e, con l’abilità di una che è abituata a quel genere di ambiente, venne introdotta nella conversazione tra il gruppo di uomini. Oltre a Dylan, figlio di un magnate dell’industria automobilistica, c’erano altri signori di un certo livello economico, ma era solo sul più giovane del gruppo che si concentrava l’interesse di Ingrid. La donna cominciò a ridere ad ogni battuta del ragazzo, anche delle più banali o addirittura squallide, mentre Ambra si torturava all’idea di cosa suo padre avrebbe detto ad Armin.
 
Da quando Ingrid aveva sequestrato Ambra, tra Armin e Gustave era piombato il silenzio. Il moro cerca disperatamente un argomento di conversazione ma gli risultava alquanto difficile. Del resto, anche se il signor Daniels non lo sapeva, aveva di fronte uno dei suoi acerrimi nemici, Nuvola Rossa, coresponsabile di alcuni degli inconvenienti capitati alla sua ditta.
« bella sala » commentò il ragazzo, consapevole della mancanza di originalità.
Gustave rispose con un cenno distratto: aveva ben altri pensieri per la mente che assecondare un ragazzino impacciato. Quella mattina era arrivato il resoconto dettagliato del fatturato che aveva richiesto due mesi prima. La situazione economica dell’azienda stava peggiorando inesorabilmente e, anche l’ultimo prodotto lanciato sul mercato, non era riuscito ad impressionare i clienti. Ad un certo punto, gli sembrò che il moro avesse aggiunto qualcos’altro, ma non se ne curò. Si chiese come mai sua figlia, così in gamba e sveglia, si fosse fatta accompagnare da uno smidollato del genere e, questa considerazione, tramutò la sua indifferenza verso Armin in un celato disprezzo.
« Gustave! » esordì una voce alle sue spalle. Diversamente da quella di Armin, la persona che stava giungendo nella loro direzione meritava la sua attenzione.
« buonasera Ian » lo salutò l’uomo, cercando di risultare cordiale. Nonostante i suoi sforzi però, gli uscì solo un debole sorriso tirato e stanco. Vedendo avvicinarsi una simile personalità, Armin impallidì; il signor Steward era circondato da tre galoppini la cui unica utilità sembrava quella di annuire con convinzione ad ogni affermazione dell’uomo più facoltoso presente quella sera al Saint Regis.
« buona sera Nathaniel » disse Ian, in direzione di Armin. Il moro avvampò e, cercando di chiarire l’equivoco, cominciò a gesticolare impacciato. Prima che potesse esternare la sua identità, Gustave asserì conciso:
« non è lui Nathaniel, mio figlio è in California ora » si affrettò a precisare, prendendo le distanze dal ragazzo.
« me lo ricordavo biondo infatti » ragionò Ian, squadrando Armin. Il ragazzo rimase in silenzio, che dopo qualche secondo divenne imbarazzante ma gli permise di riascoltare gli insegnamenti di Rosalya nella sua testa:
« se ti trovi davanti uno sconosciuto, ricordati di presentarti! »
Dal momento che il padre di Ambra non sembrava intenzionato ad aiutarlo in tal senso, Armin farfugliò:
« ehm, mi chiamo Armin Evans »
« ah » riflettè Ian, cercando di far mente locale su quale potesse essere la facoltosa famiglia a cui apparteneva il moro, ma non riuscendo a ricollegare il nome Evans a nessuna conoscenza, fu costretto ad ammettere « mi scuso per l’ignoranza, ma temo di non aver mai sentito il tuo nome »
« vado a scuola con Ambra Daniels » mormorò ingenuamente il ragazzo, sempre più a disagio.
Per un micro secondo, sul volto di Ian si disegnò un velo di disprezzo ma che corresse all’istante:
« oh certo » convenne, come se ci fosse una logica.
Armin era una persona troppo candida per cogliere l’altezzosità con cui l’aveva squadrato l’uomo, ma non lo era Gustave.
Quell’attimo gli era stato sufficiente per tornare indietro nel tempo, quando da giovane aveva cominciato a lavorare per guadagnarsi uno spazio in quel settore che tanto lo appassionava. Diversamente dalla maggior parte delle persone presenti quella sera, lui veniva da una famiglia umile e il suo successo era frutto di intensi sacrifici. Prima di diventare il Gustave Daniels che tutti rispettavano, era un uomo che veniva trattato con un certo disprezzo da parte dei suoi più facoltosi colleghi, proprio a causa della modestia delle sue origini. Solo con il tempo, lavorando sodo e incrementando la sua fortuna, aveva finito per guadagnare più soldi e con essi, il rispetto della gente. Il ricordo di quella sensazione, gli aveva fatto ripromettere che mai, in vita sua, avrebbe riservato a qualcuno lo stesso trattamento che aveva sopportato lui. Eppure, fino a quel momento, sembrava essersi dimenticato di quella promessa e aveva denigrato il povero ragazzo in un angolo, senza nemmeno provare prima a conoscerlo.
Non era migliore delle persone che lo avevano disprezzato: era diventato esattamente come loro e tale consapevolezza incrementò l’odio che già provava per sé stesso.
« come va la progettazione del nuovo antivirus? » incalzò Ian, volgendo la sua attenzione verso il signor Daniels  « WildCat, se non erro »
« va » replicò sibillino l’uomo.
Insoddisfatto per la scarsa loquacità del collega, Ian non esitò a dare prova della sottile meschinità per cui era famoso:
« quest’anno la Pear ha concluso con un fatturato di 102 miliardi di dollari, per un utile di 23 miliardi »
« buon per te » replicò Gustave, intercettando un drink portato da un cameriere. Sapeva perfettamente che l’uomo era a conoscenza, anche se vagamente, dei guai finanziari in cui navigava la sua azienda, ma non poteva garantirgli la soddisfazione di umiliarlo:
« ieri abbiamo lanciato un nuovo antivirus, ma immagino tu lo sappia già » commentò Ian, cercando di fare breccia nell’imperscrutabilità del signor Daniels.
« certo, del resto lavoriamo nello stesso settore, è inevitabile che ci facciamo concorrenza »
Deluso per gli scarsi risultati ottenuti dal provocare il rivale, Steward optò per una preda più facile:
« e tu… Amed giusto? »
« Armin…» bofonchiò il ragazzo, in imbarazzo.
« Amid » ripetè erroneamente Ian « ci capisci un po’ di computer? »
« un pochetto » si ridimensionò il moro, sollevando le spalle e affondando le mani nelle tasche.
« quale antivirus usi? » indagò malefico il signor Steward.
Negli ultimi mesi, il numero di utenti che installavano o acquistavano gli antivirus Daniels era drammaticamente calato, a favore dei numeri registrati per la Pear. Inoltre, dall’alto della sua presunzione, Ian era convinto che pur di non contrariare il più grande magnate infomatico, Armin avrebbe confessato di avere nel proprio pc l’antivirus della Pear.
« beh, diciamo che è sconosciuto » tergiversò, cercando invano Ambra con lo sguardo. Aveva bisogno di qualcuno che lo sotraesse da quella camuffata zuffa.
Irritato per la risposta che aveva ricevuto, Steward insistette:
« siamo degli esperti di informatica noi, ti pare che non conosciamo tutte le opzioni disponibili sul mercato? » brontolò. Il moro allora, grattandosi nervosamente la guancia, ammise:
« il fatto è che me lo sono creato io… »
A quelle parole, Gustave puntò finalmente la sua attenzione verso il ragazzo accanto a lui. Lo fissò come se lo stesse guardando per la prima volta; il ragazzino insignificante, o insulso, come lo aveva classificato la moglie un’ora prima, era appena diventato la personalità più interessante della serata.
 
Dopo l’ennesima battuta di pessimo gusto, Ambra sbuffò infastidita. Dylan aveva sei anni più di lei ma nonostante questo, ragionava come un dodicenne. Non era un mistero che la sua stessa famiglia avesse delle perplessità all’idea di metterlo a capo dell’azienda, ma proprio per questo, Ambra era convinta che, al momento opportuno, avrebbero ridimensionato il suo ruolo ad una mansione di scarsa rilevanza. Ingrid, che non poteva contare sulla lungimiranza della figlia, pianificava invece un futuro roseo tra i due, puntando su quel ragazzo come fonte del riscatto economico della propria famiglia. Erano più di cinque anni che cercava di instillare in Ambra la convinzione che Dylan fosse il ragazzo giusto per lei, ma la bionda era rimasta sorda alle sue motivazioni. Con l’aggravarsi del bilancio economico della Daniels Corporation, le pretese di Ingrid erano diventate ancora più insistenti e insopportabili. Con una scusa palesemente banale, Ingrid riuscì a lasciare soli i due giovani, portando con sé gli altri due membri del gruppo.
« tua madre è sempre bellissima » commentò Dylan allontanandosi.
« se compensasse tutta quella bellezza con il cervello non sarebbe male » borbottò Ambra, che per tutta la conversazione aveva tenuto le braccia incrociate al petto.
« come dici? » le chiese Dylan, temendo di non aver capito.
Ambra in tutta risposta, gli sorrise ironica e sospirò:
« con Carmen come va? »
La ragazza era la misteriosa fidanzata segreta di Dylan, di cui Ambra, con evidente sollievo, era venuta a conoscenza l’anno prima. Anche il ragazzo era al corrente dei tentativi della signora Daniels di accoppiarlo con la figlia e, nell’arco di una serata analoga a quella che stavano trascorrendo in quel momento, aveva rivelato ad Ambra l’esistenza di Carmen:
« bene, anche se mi ha imposto di parlarne alla mia famiglia »
« ha ragione Dylan, non puoi tenerla nascosta come se fosse l’Unico Anello »
« il che? » obiettò l’altro, con voce stridula.
« lascia perdere » lo liquidò la bionda, che cominciò a sentire la nostalgia per Armin e per le loro chiacchierate.
Sbirciò con la coda dell’occhio l’ambiente attorno a loro, ma tra la folla e le dimensioni della sala, le era impossibile vederlo.
« ti dispiace se torno da un mio amico? »
 
« come sarebbe a dire che te lo sei creato tu? » domandò Ian, quasi indispettito « che cos’anno gli antivirus prodotti che non ti soddisfano? »
Gustave, seriamente intenzionato a non perdersi una parola di quelle che sarebbero uscite dalla bocca del ragazzo, quasi non sbatteva le palpebre. Sempre più in difficoltà, Armin illustrò la sua opinione:
« beh, parlando in generale, alcuni hanno un tasso di falsi positivi davvero troppo alto. Creano solo falsi allarmismi nell’utente, aggiungiamoci poi certi banner pubblicitari per quanto riguarda le versioni free. Inoltre creando il mio personale antivirus, posso mirarlo contro una determinata minaccia, avendo quindi a disposizione uno strumento molto più specifico… »
Mentre argomentava la sua tesi, Ambra li raggiunse ma, notando l’interesse che l’amico era riuscito a calamitare tra i suoi ascoltatori, suo padre compreso, non osò interromperlo:
« … inoltre, rinunciando ad una grafica e ad un’interfaccia accattivante, risparmio sulla memori » concluse frettolosamente il ragazzo, intercettando l’occhiata sospettosa di Ambra.
« notevole » commentò Ian « quindi sostieni che il tuo antivirus sia migliore di tutti gli altri » riepilogò con una nota di spiccato sarcasmo.
« migliori di tutti quelli che ho testato finora » replicò asciutto Armin, che non aveva colto l’irritazionesottesa dell’uomo.
« si vede allora che non hai mai testato uno della Pear! » esclamò Ian, scoppiando poi in una grassa risata, a cui fecero eco gli altri tre uomini attorno a lui. Gustave invece non si scompose e, notando l’espressione neutra di Armin, s’intromise:
« immagino invece che tu abbia provato anche quelli progettati dal signor Ian »
Udita quell’insinuazione, Ian spense le risa e fissò Armin con aria di sfida; il ragazzo però non colse l’astio crescente nell’uomo, e, con una sincerità disarmante ammise:
« beh, ieri ho provato quello nuovo »
« e? » lo incoraggiò il signor Steward.
« continuo a preferire il mio »
« perché? » sbottò l’altro infastidito.
« appesantisce troppo il sistema, senza però garantire un livello di protezione elevato: un virus come BlueMarine riesce a violare un pc senza alcun problema »
« perché hai installato la versione gratuita » si difese l’uomo.
« no si sbaglia, era quella a pagamento »
« sei tu che ti sbagli » insistette il produttore.
« è quella a pagamento » s’impuntò Armin e per dimostrare la fondatezza delle sue parole, aggiunse « l’icona di quella gratuita è verde, quella a pagamento blu, i seriali per l’installazione cominciano tutti con 743 »
Seguì un silenzio agghiacciante: sotto gli occhi dei presenti, Ian divenne paonazzo e asserì furente:
« ma se quella a pagamento è stata resa operativa solo da cinque ore! Non puoi averla installata ieri! »
Se il capo della Pear era un tutt’uno con il suo papillon viola, Armin sbiancò, diventando candido quanto la sua camicia. Ricordò troppo tardi che, per installare quell’antivirus, aveva fatto affidamento alle sue abilità di hacker, violando i computer della Pear.
« sei riuscito a craccarlo? » intervenne Ambra con un misto di stupore e ammirazione.
« n-no no » ritrasse Armin, la cui consapevolezza del guaio in cui si era cacciato cominciava a diventare sempre più reale « ha ragione il signor Ian, mi sono sbagliato, era quella gratuita »
Ma nessuno dei presenti a quel punto poteva credergli:
« sta attento ragazzo » lo minacciò il signor Steward « quello che hai fatto è un reato federale »
L’hacker era sempre più nel panico ma l’aiuto gli giunse dalla fonte più inaspettata:
« modera le accuse Ian e fermati un attimo a riflettere » lo sedò Gustave « il ragazzo non può averlo craccato se la versione completa non era stata rilasciata sul sito »
« allora deve aver violato i nostri pc! » sbottò l’uomo iracondo. Armin sentì mancare un battito, colto in flagrante.
Gustave però scoppiò a ridere, lasciando sorpresi i presenti, persino la figlia, che non ricordava di averlo mai visto così allegro:
« e se anche fosse? Fossi in te eviterei di farlo sapere in giro: la grande azienda di Ian Steward violata da un liceale… non ci fate una bella figura non ti pare? Prova a stimare il danno d’immagine: se è così facile aggirare la sicurezza dei vostri hardware, figuriamoci quale può essere l’efficienza degli antivirus che producete »
Ambra sorrise orgogliosa: in quell’uscita del padre, nel suo modo di parlare, rivide qualcosa del proprio.
« non fare tanto il presuntuoso Daniels » ringhiò Ian, cogliendo il ragionamento del rivale « ti ricordo che Nuvola Rossa per un certo periodo è entrato e uscito a suo piacimento dai vostri computer »
« anche dai vostri » puntualizzò Gustave asciutto.
« quel maledetto! Se non si fosse dileguato nel nulla, ora potremo acciuffarlo. Quella volta che impallò tutti i nostri computer per mezz’ora… per fare cosa poi, non l’abbiamo mai capito »
Armin si sentì sempre più sotto pressione e cominciò a sudare freddo. Direzionò il suo sguardo a caso, guardandosi attorno, mentre Ambra lo studiava attentamente. Faticava a credere che fosse possibile, ma l’atteggiamento circospetto del ragazzo, unito alle incredibili abilità informatiche di cui sembrava dotato, sembravano urlarle che il tanto odiato Nuvola Rossa era proprio in mezzo a loro.
« questi discorsi mi annoiano » squittì con voce stridula, imitando la madre. Sapeva che i presenti avevano la tendenza a identificarla come una fotocopia di Ingrid e, per una volta, approfittò di quella scomoda associazione, a suo vantaggio:
« Armin, andiamo a prenderci qualcosa da bere? Sto morendo di sete »
Il ragazzo la scrutò interrogativo, riconoscendo a stento in quella voce supplicante, la ragazza che tanto lo affascinava.
Mentre i due si allontanavano, Ian borbottò tra sé e sè:
« Amid Evans »
« Armin » lo corresse Gustave, restituendo un bicchiere vuoto sul vassoio di un cameriere « sarà meglio che impari il suo nome perché lo sentirai nominare anche in futuro… ne sono certo »
 
« grazie Ambra, un altro po’ e svenivo » si lamentò il moro, non appena si allontanarono.
« molto virile come commento » replicò acida l’altra. Non poteva credere che, in quei mesi di amicizia, il ragazzo non le avesse mai raccontato chi fosse realmente. Che le avesse tenuto nascosta una cosa così importante. Armin si sentì colto nell’orgoglio, rimuginando su tutti i suoi tentativi di apparire più sicuro di sé e forte; si era persino ridotto a frequentare una palestra, nel tentativo di mettere su un po’ di massa muscolare, ma le sessioni di piegamenti gli avevano lasciato solo un addome dolorante.
« mi chiedo come abbia fatto Nuvola Rossa a spegnere tutti i computer della Pear…» indagò, sbagliando volutamente.
« ah, non li ha spenti » la corresse per l’appunto il ragazzo « ha sferrato un attacco DOS: ha inviato un enorme numero di dati per saturare le linee che garantiscono la connessione ad internet »
Appena si accorse dell’espressione accigliata di Ambra, Armin si zittì all’istante: gli occhi della ragazza erano diventati due fessure:
« tu-sei-Nuvola-Rossa » sibilò, a denti stretti.
« m-ma va, cosa dici! » si difese Armin guardando da un’altra parte. Ambra gli si avvicinò ancora più minacciosa, tanto che lui potè sentire il suo profumo al muschio bianco e proseguì:
« perché non me l’hai mai detto? »
« ma non sono io! » insistette il moro.
La ragazza rimase in silenzio, senza staccargli gli occhi di dosso. Lui non fiatava e lei non batteva ciglio. Dopo dieci interminabili secondi, si allontanò, visibilmente offesa:
« quindi pensi che io sia una stupida? »
« eh? » gracchiò Armin.
« tu credi che io sia un’idiota, se pensi di convincermi che ho preso un granchio! La notizia diffusa dai media circa l’attacco ai computer della Pear e delle altre aziende non ha mai parlato di un attacco DOS, era un dettaglio di cui erano a conoscenza solo poche persone e si sono ben guardate da diffondere i particolari. Tu come facevi a saperlo? E poi perché ti sei irrigidito quando hanno cominciato a parlare di Nuvola? »
Martellato da tutte quelle accuse, Armin fu costretto a ritrattare:
« d’accordo, mi hai scoperto… sono io Nuvola Rossa » si arrese.
Ambra annuì lentamente e inspirò, chiudendo gli occhi, nel tentativo di arginare la collera. Ma non era solo rabbia la sua: era principalmente delusione il sentimento che cominciò ad avvelenarle l’animo.
Non aggiunse altro e, spiazzando l’amico, si allontanò inviperita.
“aspetta!” la rincorse Armin.
Ambra però accelerò il passo e si spostò all’esterno della sala, che era in comunicazione con un enorme giardino. Scese un’ampia scalinata di pietra e si trovò a camminare sul suolo erboso; aveva avuto la pessima idea di uscire senza recuperare il cappotto e le sue spalle indifese cominciarono ben presto a protestare per il freddo che le investiva. Dietro di lei, sentì giungere i passi affrettati di Armin e maledì le scarpe che avevano rallentato la sua fuga.
« ti congelerai qui fuori, torniamo dentro »
«tornaci tu, io sto qui »
Il ragazzo sospirò e le si avvicinò, lasciando che solo pochi centimetri distanziassero i loro corpi. Rimase in silenzio, aspettando che, come al solito, fosse lei la prima a sbottare:
« perché non me l’hai detto? Non ti fidavi di me? »
La voce le uscì come un sussurro e, per quanto avesse cercato di infonderle un tono irritato, risultò ferita e incrinata. Quella sfumatura, intenerì il ragazzo che replicò sorridendole dolcemente:
« e come facevo a dirtelo? Tuo padre odia Nuvola »
« ma io no » puntualizzò lei.
« che differenza avrebbe fatto saperlo? »
« sarebbe stata la prova che ti fidi di me »
Il ragazzo era talmente perplesso che non riuscì a proseguire:
« torna dentro Armin: con le capacità che hai, questa è la tua occasione per fare colpo su qualche pezzo grosso. Quella sala pullula di gente come Steward che può aprirti molte porte in futuro » lo esortò.
« non se ne parla, tu vieni dentro con me »
« si vede che non mi conosci abbastanza » replicò la bionda « non è dandomi ordini che mi si costringe a fare qualcosa »
Calò il silenzio e la ragazza pregò che l’amico la lasciasse sola.
« d’accordo » convenne Armin, con tono piatto. Si tolse la giacca e gliela porse sulle spalle. Ambra arrossì, mentre lui se ne andava, per tornare dentro la sala. Quella piccola premura la lusingò ma era rovinata dal fatto che era riuscita ad allontanarlo. Il suo caratteraccio, per quanto si sforzasse di smussarlo, a volte tornava a galla, rendendola antipatica e acida. Eppure Armin era l’ultima persona che avrebbe voluto escludere dalla sua vita.
Era la notte di San Valentino e, pur non considerandosi una ragazza romantica, Ambra aveva sperato di trascorrerla con quell’allegria e spensieratezza che solo la compagnia del ragazzo riusciva ad assicurarle.
La scoperta della sua identità segreta aveva rappresentato un motivo in più per guardarlo con ammirazione, confermandole quanto fosse speciale.
Non poteva permettere che la sua fierezza intaccasse quell’amicizia che si era instaurata tra di loro: per la prima volta nella sua vita, Ambra stabilì che la propria felicità valesse di più dell’orgoglio e cominciò ad avanzare verso la sala.
Aveva appena messo piede sul primo gradino, quando vide comparire Armin tenendo in mano il suo cappotto:
« vuoi tornare dentro? » le chiese sorpreso.
« s-stavo venendo da te » spiegò lei, sbigottita per il suo ritorno.
« ero andato solo a prendere i cappotti, altrimenti ci ritroveremo in modalità frozen » spiegò il moro.
« non ti inventare le parole » ridacchiò nervosamente la bionda, ricevendo il proprio capo dalle braccia di Armin. Si tolse la giacca del ragazzo, ma lui la invitò a tenersela addosso.
« visto che ora siamo equipaggiati, restiamo fuori? »
« l’idea era quella » concordò Armin e insieme tornarono ad appartarsi in un angolo del giardino, sedendosi su una panchina di pietra bianca.
« odio queste feste » esclamò Ambra.
Pian piano tra di loro stava tornando un’atmosfera serena, grazie al carattere spensierato e allegro del moro.
« non vedo perché: sei circondata da gente così simpatica » rispose sarcastico.
« scusami, ti starai annoiando a morte » mugolò la ragazza.
« no » ammise Armin con sincerità « direi che questa serata è tutto tranne che noiosa »
« già, piuttosto snervante no? »
« io avrei detto piacevole »
Ambra assunse un’aria cinica, quando invece il ragazzo era l’incarnazione della sincerità. Era rimasto finalmente solo con la ragazza la notte di San Valentino. Se suo fratello Alexy fosse stato nascosto dietro un cespuglio, a quel punto lo avrebbe esortato a dire qualcosa di romantico, a metterle un braccio attorno alle spalle ma quelle iniziative sembravano troppo affrettate per lui. Il silenzio tra di loro nel frattempo proseguiva ininterrotto e, quando finalmente si decise a dire qualcosa, dalla sala principale si diffuse della musica da ballo:
« hanno dato il via alle danze » commentò Ambra, guardando le luci della sala.
« danze? »
« sì, di solito per una mezz’oretta circa, suonano un po’ di musica così chi vuole può ballare »
« questo è il valzer? »
La ragazza annuì e continuò ad ascoltare la musica sommessa.
Se c’era un’attività fisica che Armin Evans odiava più dello sport, era il ballo: una volta sua madre gli aveva chiesto di farle da compagno mentre si esercitava in casa e il ragazzo si era rivelato talmente goffo da far desistere la donna da ripetere l’esperienza.
Mai e poi mai avrebbe voluto che Ambra lo vedesse in quello stato.
« ehi Armin… » gli sussurrò complice, facendolo trasalire.
Il ragazzo cominciò a sudare freddo: i palmi delle mani si inumidirono all’istante e il respiro cominciava a farsi più corto. Ambra frugò nella borsetta e completò:
«… ti va una partita alla PSP? »
Teneva in mano due Nintendo DS e lo guardava carica d’intesa. Il sorriso furbetto stampato in faccia le irradiava il viso, aspettando la prevedibile risposta del ragazzo.
Anche se non aveva bisogno di altre conferme, quella sera, Armin si convinse di aver accanto la donna della sua vita.
 
« adesso Ambra mi sente! » si inviperì Ingrid « isolarsi in quel modo proprio ora che dovrebbe ballare con Dylan! Per quell’Evans poi! Ah guarda tesoro, devi assolutamente dirle di lasciarlo perdere, si rovinerà la vita con un simile fallito. Dobbiamo pensare noi al suo futuro se lei non è abbastanza lungimirante da farlo. Domani le farai un bel discorsetto! » concluse, sibilando in direzione del marito.
Gustave si decise a guardarla e con indifferenza, domandò:
« hai detto qualcosa cara? Spero non fosse nulla di importante visto che non ti stavo ascoltando. Domani ricordami di chiedere ad Ambra se il suo amico sarebbe disposto a venire nel mio ufficio: ha delle idee interessanti e potrebbe essere un valido aiuto per l’azienda »
 






 

 
NOTE DELL’AUTRICE:
 
Il titolo è beffardo, lo so. Questo San Valentino di Happy ha veramente poco -.-‘’
Nonostante la lunghezza chilometrica del capitolo, che mi consentirebbe di dilungarmi con delle note dell’autrice infine, non vi tedierò ulteriormente con i miei sproloqui. Non solo perché dopo 29 pagine di lettura penso di dovervelo, ma anche perché sono di corsa -.-‘’… questo capitolo è proprio fresco di stampa, l’ho corretto ma se voglio pubblicarlo oggi, rispettando la scadenza che avevo fissato, sono costretta a pubblicarlo senza l’ultima rilettura per controllare gli errori :S
Scusatemi quindi se ne avete trovati… nei prossimi giorni li correggerò! Giuro ;)
Scappo…
 
Alla prossima!!
 

 
  
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