The bothering life of a forced writer
Contro ogni mia più rosea previsione, contro tutto, contro tutti... Sono qui. Con una nuova storia.
Sinceramente, non so da dov'è nata: ero sul motorino, pensando ai libri appena acquistati, quando qualcosa mi ha letteralmente folgorata. Un'idea totalmente assurda, certo, ma è pur sempre un'idea.
L'ho postata. Dopo averla fatta leggere ad Elisa - cui è dedicato il capitolo! *.* - e a Hime, ho detto: massì, postiamo! ù.ù Spero vi piaccia!
A dopo per le spiegazioni. */*
Prologo
Non
mi piaceva il mio lavoro.
Ok,
non mi lamentavo – guadagnavo decentemente ed ero
discretamente famoso –, ma
non mi piaceva. Lo trovavo monotono.
Ero
uno scrittore. Uno importante.
Lo
ero diventato qualche anno prima, dopo aver pubblicato miracolosamente
un manoscritto autobiografico, abbastanza ironico,
piuttosto intelligente. Non che io avessi mai sognato di scrivere, sia
chiaro:
semplicemente, mi ero ritrovato per mano un’idea decente, ed
ero in condizioni
economiche ristrette. Non era stata una mia scelta, quindi –
mi ci ero
ritrovato costretto. Se non avessi
intrapreso quella carriera, probabilmente mi sarei ritrovato senza
soldi,
magari costretto a dormire sotto ad un ponte, nella periferia della
città, in
compagnia di un topo denutrito e di qualche vecchio barbone.
“Ehi?”.
Alzai
distrattamente lo sguardo, come uniche compagne una lampada al neon ed
il
ritmico ticchettio delle mie dita sulla tastiera. Non mi piaceva lavorare sino a quell’ora.
“Hai
del lavoro da fare, sai?”.
Kagome
Higurashi, diciotto anni, figlia del mio capo, irritante.
Si era fatta assumere per scherzo – e per arrotondare
una già cospicua paghetta – e, per qualche strano
scherzo del caso, sembrava
divertirsi a prendermi di mira. Carina, certo, ma nulla di speciale.
Sollevai
un sopracciglio. “Sto lavorando”,
dichiarai, mostrando con fastidio il monitor. Avevo scritto tantissimo,
quella
sera. “Semmai, Higurashi,
non
dovresti disturbarmi. Dai fastidio”.
Sospirò,
osservando critica il mio lavoro. “Fa schifo”,
borbottò. “Sul serio, Inu-Yasha,
mi aspettavo di meglio. Non sarò una scrittrice, ma almeno
so scrivere cannuccia per bene. Ci
vogliono due n”.
Arrossii,
notando che sì, una
striscia rossa
sottolineava malamente il mio grossolano errore, frutto di una
disattenzione
duratura. “Distrazione”.
“Beh,
non devi distrarti”, ridacchiò. Concentrata,
iniziò ad attorcigliarsi una
ciocca di capelli corvini intorno alle lunghe dita, mostrando una
manicure
curatissima e dei capelli perfetti. Odoravano di menta.
“Dopotutto, sei o non
sei importante?”.
“Non
lo sono”, grugnii. Mi infastidiva essere considerato bravo.
“Non ho scelto
questo lavoro…”.
“…
è
stato lui a scegliere te”. Mi sorrise, alzandosi e battendomi
una mano sulla
schiena, come per incoraggiarmi. “Suvvia, hanyou,
concentrati: sono sicura che puoi fare di meglio”.
Hanyou.
Ecco,
questo soprannome mi irritava.
Sì,
sono un mezzo demone. No, trovo irritante – nonché
superflua – questa precisazione.
Ringhiai
sommessamente, strappandole una divertita risata, e poi riportai gli
occhi
sullo schermo, tentando di ritrovare l’ispirazione.
Pensa, Inu-Yasha, mi dissi,
cosa doveva avvenire alla sacerdotessa? Doveva essere fatta a
pezzettini?
“Oh”.
Alzai
lo sguardo. “Cosa?”.
“Non
mi avevi detto di aver cominciato un nuovo manoscritto”.
Inarcai
un sopracciglio, tentando di fare mente locale, e di ricordare se, in
un
passato non troppo remoto, avevo iniziato un qualcosa di vagamente
somigliante
ad un libro – liste della spesa, scarabocchi, frasi
insensate, aforismi… No.
Nulla di decente. A meno che…
“Higurashi?”.
Si
voltò, sorridendomi, e sventolando un cd che – me
lo sarei ricordato per sempre
– avevo avuto la malsana idea di portare in ufficio. E di etichettare “Note personali
– nuovo libro”. Ahi-ahi, Inu-Yasha.
Fregato.
“Posalo”,
ordinai, facendo del mio meglio per non usare la violenza. Il capo mi
avrebbe
ucciso, se avessi sfiorato la sua principessina. “Non sto
scherzando, posa
quel dischetto e tutto andrà bene”.
Mi
sorrise, passandoselo tra le mani, carezzando la superficie lucente e
la
scritta scarlatta. “Perché?”,
domandò. “Dopotutto, tu lavori per me,
giusto?”.
Scossi
il capo, infastidito. “Per tuo padre, Higurashi.
Io lavoro per tuo padre”, precisai, notando che sorrideva
soddisfatta. Ecco,
questo era uno dei principali motivi per cui i nostri caratteri erano
incompatibili: lei si divertiva a prendermi in giro, io detestavo le
donne con
il senso dello humour.
L’unica
fidanzata che era durata più di un mese – quando
avevo quindici anni, e tutto
mi sembrava sfolgorante – era fredda e distaccata. Non fece
una piega neppure
quando mi trasferii a Tokyo.
Mi
amava, ma non era ossessiva.
Adoro
quel genere di donna – mi fa sentire libero, anche se so
perfettamente di non
esserlo.
“Posalo”,
ripetei, passandomi una mano tra i capelli argentati, regalo di pessimo
gusto
della mia natura demoniaca. “Non è interessante.
Sono appunti”, garantii.
In
parte era vero.
Erano
appunti. Per un libro, certo, ma pur sempre appunti.
Idee
idiote partorite in una notte di follia, durante la quale avevo bevuto
diversi
drink ad alto tasso alcolico ed avevo gozzovigliato sino a mattina con
Miroku,
l’unico persona che sembrava divertirsi quando usciva con me.
“Dai”.
Mi sorrise, mettendolo in tasca ed alzandosi. Sembrava contenta. Schifosamente, contenta. “Dai, Inu, non lo farò leggere a
nessuno!”.
Giunse le mani, osservandomi con gli occhi di un cucciolo bastonato
– tutt’a un
tratto, mi sentii un verme.
Dannata.
“Ok”,
grugnii, senza entusiasmo. La luce della lampada iniziava ad
infastidirmi, e
non sopportavo più il click
dei
tasti. “Leggilo. Divertiti. Fai come vuoi, Higurashi”.
Rise.
“Grazie”, biascicò. Era leggermente
arrossita, e giocava nervosamente con un
lembo del suo giubbotto. Sembrava quasi una mocciosa
normale. “Ti prometto che non lo farò leggere a
nessuno”, aggiunse, sorridendo.
Sbuffai,
alzandomi – la sedia da scrivania fece un fastidioso rumore,
scivolando sul
parquet, e sospirai, affranto. Mi era già successo di dover
ripagare danni allo
studio. “Sì, d’accordo”.
“Ah”.
Sbiancai,
quando le sue mani – quelle perfettamente curate –
mi sfiorarono il capo,
stringendo piano le orecchie. Le mie
orecchie da cane. Quelle che mi marchiavano
come hanyou.
“Ci
vediamo, cucciolotto”,
ridacchiò,
facendomi ciao-ciao con la mano e
uscendo dal mio studio.
Stupida.
Stupida
mocciosa.
Stupida,
dannatissima mocciosa.
Sbuffai.
Non era assolutamente la mia giornata fortunata.
Higurashi
mi aveva nuovamente preso in giro. Non avevo concluso quello schifo di
capitolo. Non avevo nulla da fare.
“Meglio tornare a casa, vah”.
*\* E' un prologo breve. Molto breve.
Ma i prologhi, solitamente, sono brevi, quindi penso sia ok. Anche perché il primo capitolo è già in cantiere.
Kagome - non preoccupatevi - è irritante. Dopotutto, è pur sempre la visuale di Inu-Yasha, ed è logico che lui la consideri antipatica. ù.ù Ovviamente, con il tempo la situazione cambierà... Eccome, se cambierà!
Ma non anticipo nulla - non ho molte idee su cui basarmi, per ora.
Spero che il prologo vi abbia incuriosito: se così è stato, mi impegnerò a farvi ottenere il seguito. ^^ In caso contrario... Ditemelo! XD
Baci, spero di leggere molti commenti! Alla prossima! */*