The
Last Journey
Correva
l’anno 1502 per gli Hobbit della Contea, ma
nel regno di Gondor il calendario segnava il 3102 della Quarta
Età.
Le
mattine del mese di aprile di quell’anno furono
imbiancate di una luce risplendente. Non ci fu un solo giorno di
pioggia nel
Reame di Gondor, ma c’era abbastanza umidità per
non far seccare le colture. Le
sere erano fresche, e talvolta qualche nube sorvolava la volta celeste
lentamente, leggere come piume. Ma non passava una sola notte in cui si
attardassero abbastanza da oscurare le stelle.
Meriadoc
era ancora una volta accanto a Legolas
sulla sommità della maestosa bianca Torre di Ecthelion, con
un taccuino nuovo
in una mano e una penna già intinta nel calamaio
nell’altra come sua
consuetudine, e tutto ciò che osservò quella sera
del diciannove aprile lo
ricondusse a tutti
coloro che aveva
conosciuto e che avevano fatto parte integrante della sua esistenza.
Non
sapeva il motivo di quelle elucubrazioni, però era
certo che non le avrebbe scacciate quella volta. Gli apparivano
così remote,
ora, che per niente al mondo lo avrebbe fatto. Anzi, cercò
di afferrarle quanto
più gli fu possibile.
D’improvviso
avvertì un forte giramento di testa.
Posò con fatica la penna sul foglio davanti a sé,
e prima che il mondo gli
vorticasse ancora davanti agli occhi, li coprì con la mano
libera. Solo allora
si avvide del tremore che gli tormentava la mano.
“Merry,
non ti senti bene?”
La
soave voce incrinata dalla preoccupazione
dell’Elfo era come miele per le orecchie, ma per lo Hobbit
era come una
martellata scagliata ferocemente su un pezzo di metallo ardente.
“Per
oggi basta così, Legolas. Non ti dispiace,
vero?”
“No
affatto,” lo rassicurò l’amico
“la tua salute è
ben più importante delle stelle! Hai bisogno di dormire ora.
Domani ci attende
una giornata lunga!” terminò con un sorriso.
Gli
tolse tutto di mano, lasciandolo sul tavolino
messo apposta per i loro strumenti di lavoro.
Poi
lo Hobbit si fece accompagnare nella camera che
condivideva con suo cugino e si raccomandò di non dire
niente a nessuno di
quella brusca interruzione. L’ultima cosa che voleva erano
inutili allarmismi.
Pipino
già dormiva della grossa da un po’,
perciò
non si accorse di nulla.
***
Da
quando erano finalmente insieme, Meriadoc,
Peregrino, Aragorn, Legolas e Gimli avevano preso con il passare del
tempo una
piacevolissima abitudine, divenuta poi quasi come un sacro rito a cui
adempievano almeno una volta ogni mese, salvo impegni del Re: sellare i
loro
cavalli e pony, e sfrecciare nelle vaste piantagioni di Gondor che si
estendevano al di sotto delle mura di Minas Tirith.
Erano
cavalcate, quelle, che gli ultimi membri della
Compagnia presenti sulla Terra di Mezzo si concedevano come unici, veri
momenti
per stare soli come ai vecchi tempi, per quanto l’assenza
degli altri si
facesse sentire.
Arrivavano
sempre ad un punto, solitamente a Est, in
cui Minas Tirith diventava poco più di una bianca visione
grande quanto una
falange. Poi si fermavano a riposare, mangiando e fumando erba-pipa e
discutendo
del più e del meno.
Legolas,
però, quel giorno era all’erta: non aveva detto
niente a nessuno del malessere di Merry della sera prima, ma la
consapevolezza
inquietò la sua dormiveglia.
Contrariamente,
Meriadoc non dava segni
preoccupanti, e se mai li aveva non li diede a vedere.
Fino
alla fine della giornata.
Merry
avvertì un lancinante dolore al petto, un
allarmante sentore che qualcosa non andasse, ma subito tentò
di cancellare la
smorfia che assunse. Si guardò intorno, e nessuno pareva si
fosse accorto di
nulla. Salvo Legolas. Incrociò i suoi occhi con quelli
dell’amico, appurando
che l’avesse adocchiato già da molto tempo.
Il
Mezzuomo abbassò lo sguardo, sentendosi
stranamente colpevole. Stava cercando di coprirsi quando molto
probabilmente
non avrebbe dovuto farlo, e stava trascinando Legolas a mantenere il
silenzio
con lui quando era ben evidente l’intenzione di avvertire
almeno Aragorn.
Passarono
altri minuti, e una nuova fitta gli sembrò
strappare in due il cuore. Emise un gemito soffocato, ma questa volta
l’Elfo
non fu il solo che lo notò.
Aragorn
osservò Meriadoc di sottecchi, e colse
l’espressione dolente dello Hobbit.
“Merry!”
“Sto
bene!” lo anticipò il vecchio Brandibuck,
temendo che Peregrino si impensierisse per lui. “Non
è niente, davvero.”
Ma
nessuno gli diede corda. Gimli e uno
spaventatissimo Pipino l’aiutarono ad alzarsi, e Aragorn lo
fece montare
assieme a lui sul suo cavallo.
E
ritornarono di gran carriera a Minas Tirith.
***
Dopo
molti tentativi di Aragorn di alleviare le
sofferenze di Merry mediante uso di athelas,
dovette arrendersi all’abilità ben più
avanzata dei guaritori del Reame. Ma in
quel frangente, sembrava che nessuna medicamento riuscisse a curare il
piccolo
Mezzuomo. Anzi, tutti i sintomi sembravano farsi beffe dei loro sforzi.
Re
Elessar ne ebbe sentore quasi fin da subito, ma la speranza degli altri
e
nutrita da lui stesso non era mai abbastanza.
“Non
gli resta molto tempo. Anzi, è molto debole, e
la debolezza aumenta. Centovent’anni sono molti anche per uno
Hobbit. Temo che
ne avrà ancora per qualche ora, se non meno.”
Il
guaritore, che si chiamava Ostoher, era
sinceramente dispiaciuto per Meriadoc. Aveva imparato a conoscerlo
quando si
era offerto di insegnarli alcune cognizioni su delle erbe curative
insieme a
Legolas, ed aveva intrecciato un legame fatto di affetto fraterno e
cordialità.
Spesso
aveva definito Merry gentilhobbit
proprio come era d’usanza fra i Mezzuomini, e non si
era mai dimostrato altero o indisponente con lui. E il piccolo della
Contea
aveva fatto altrettanto.
“Non
avrò mai il cuore di dirlo a Pipino...”
“Questo
è vero, ma penso l’abbia già capito da
sé.
Anche se non lo ammetterà mai.”
“Merry
lo sa?”
“Sì,
non ho voluto nasconderglielo. È una personcina
molto giudiziosa, saprà come affrontare la
situazione.”
Sebbene
parlassero a bassa voce, Pipino udì tutta la
conversazione.
E
provò la paura più intensa della sua vita.
Per
molti anni aveva sofferto per le perdite della
sua famiglia, ma ora che era arrivato a quella che spesso temeva,
già da un po’
di anni a quella parte, non sapeva come comportarsi. C’era un
grande vuoto che
lo attendeva ad un passo un po’ più in
là. Le gambe non volevano saperne di
avanzare; sembrava si fosse immobilizzato a causa di un incantesimo.
Ma
voleva comunque vederlo. Lo avevano tenuto sotto
stretta osservazione per ore, e ora più che mai voleva
stargli vicino.
Fu
questa volontà che lo spinse ad eludere i due
uomini entrando furtivamente nella stanza dov’era Merry,
sfuggendo dalle solide
braccia del Nano che nel frattempo ascoltava il guaritore, che
continuava a
discorrere con Aragorn.
Pallido
come un cencio, Meriadoc era steso sul suo
lettino, le coperte tirate fino alle spalle. Aveva il respiro corto ma
da quel
che poteva vedere Peregrino riusciva a dominarlo bene. E questo gli
fece
accendere una luce, per quanto illusoria.
“Merry,
come stai?”
Gli
prese la mano, ma era così fredda che la coprì
con l’altra per fargli calore. Merry la strinse forte
accarezzandola piano. Non
voleva altro.
“Non
molto bene, ma presumo non mi possa
lamentare... Centovent’anni, Pip! Non ho superato il vecchio
Bilbo ma meglio di
niente.”
Rise
debolmente, come se avesse detto qualcosa di
divertente. Ma Pipino era sconvolto, e proprio non era in vena di
scherzi.
“Non...
non dirle certe cose. Ho una paura, Merry!”
balbettò tremante.
“Non
ne hai motivo, Pip. Sei forte, e riuscirai a
vivere anche senza di me. Hai imparato tanto, e hai insegnato molto
anche a me.
Hai consolato la Regina del Mark, ricordalo.”
“Ma
che stai dicendo?” esclamò l’altro,
riprendendosi. Si sentiva così inutile. “Ti
rimetterai, ne sono sicuro! Studierai ancora le stelle, e
faremo altre gite come quella di oggi.”
La
sua voce però si ridusse ad un sussurro
strozzato, e Merry lo vide distogliere lo sguardo carico di lacrime
represse.
Tutto ciò era troppo struggente per Pipino. In fondo, lui
non doveva neanche
essere lì a parlargli. Merry non sapeva se gli potesse fare
bene o male al suo
piccolo cugino, ma sembrava che uscire da quella stanza fosse
l’ultima delle
sue intenzioni. Si rese conto persino che si era acquattato al bordo
del suo
letto per stargli più appresso. E di mandarlo via non se ne
parlava.
“La
tua stessa voce ti tradisce, vecchio mio. Non
sono uno stupido. Sto morendo e voglio prenderla con
tranquillità e filosofia,
tutto qui. Hai presente quando ti raccontai del Dono di Eru, quando
ancora
eravamo giovani e sapevamo poco del mondo esterno? Cosa ti dissi, lo
ricordi?”
“Dicesti
che la morte in fin dei conti è un bene,”
singhiozzò lui “perché non ci rende
stanchi del mondo, e perché ci fa
apprezzare ogni singolo minuto dell’esistenza.”
sentenziò come se fosse una
lezione imparata a memoria. Una lezione che però ora non era
disposto ad
accettare. Una lezione che accostata a Merry non aveva la
benché minima applicazione.
“Sì,
questa era la mia conclusione. L’hai adottata
anche tu, vedo.”
Sorrise
debolmente, e se non fosse stato così
fragile Pipino gli avrebbe tirato una manica per portarlo dove lui
voleva. Come
da bambini.
“Cosa
farai ora, Pip? Hai intenzione di ritornare
nella Contea?”
“No,
resterò qui.” assicurò il vecchio Tuc.
“Resterò
insieme a te, come abbiamo sempre fatto.”
“Resta
con Aragorn e gli altri, e spendi il tuo
tempo con loro più che puoi. Davvero, la loro compagnia
è più di
quanto noi potessimo mai aspirare.”
“E
con te?” chiese ancora.
“No,
io... sarò nel tuo cuore e basta.”
Pipino
non riusciva più a parlare o a fare domande.
Si accucciò contro il fianco di Merry, piangendo in
silenzio. Merry gli
accarezzò i capelli, ricordando tutti coloro che avevano
fatto parte della sua
vita, uno per uno.
Si
chiese se avesse mai fatto qualcosa di male o qualcosa
di cui non ne valesse la pena. Di dispetti ne aveva fatti eccome, e si
era
portato dietro i guai con Pipino che lo seguiva ovunque.
Poi
si era caricato sulle spalle il titolo di
Signore della Terra di Buck, e da lì il suo matrimonio, e la
nascita dei suoi
figli. Vide Pipino condividere con lui tutto questo, e
avvertì perfettamente ciò
che l’altro stava provando in quel momento.
Pipino
aveva un modo tutto suo di concepire
situazioni ardue come quella, e chissà se avrebbe fatto quel
che gli era stato
detto. Probabilmente non aveva sentito una sola parola, preso
com’era dal solo
pensiero di voler stare con lui.
Legolas
e Gimli assistevano a distanza senza dire
una parola. Gimli si asciugava le lacrime con la barba gemendo in modo
incontrollato. Il suo compagno gli cingeva le spalle, spostando gli
occhi ora
su di lui, ora su Merry e Pipino.
Piano
piano Peregrino si rese conto che il respiro
di Meriadoc si faceva sempre più impercettibile.
“Merry,
mi senti?”
Merry
non rispose. Accarezzò il braccio del cugino ancora
una volta ed esalò un respiro strano, che fece tendere le
orecchie del Re.
Riconosceva quando una persona era sul punto di morire,
perciò entrò nella
stanzetta seguito a ruota da suo figlio.
Commise
l’errore di prendere il braccio di Pipino che
tanto amorevolmente Merry aveva toccato, e il vecchio Tuc esplose.
Tutto ciò
era davvero troppo.
“Aragorn,
lasciami con lui!”
A
quella preghiera, sulle guance del Re scese una
lacrima. Quelle di suo figlio Eldarion erano già
completamente bagnate. Il
Principe era in procinto di aiutare il padre a convincere Pipino ad
andarsene
da quella camera; ma si rese conto che sullo stipite della porta di
Merry c’era
sua sorella Lùthien. La giovane osservava
l’interno chissà da quanto tempo,
perché anche lei stava piangendo, gli occhi sgranati
dall’incredulità di quel
che stava accadendo.
Nel
suo deliquio, la mente di Merry la scambiò per
la sua stessa figlia, e ne pronunciò il nome per
l’ultima volta. La sua ultima
parola. Prima di spirare.
“Primula...”
“Merry!”
mormorò la Principessa.
Il
momento era così straziante che Eldarion decise
di accorrere per portar via sua sorella. Le cinse le spalle, e la fece
procedere verso le sue stanze, dove la affidò a sua madre e
a Nerwen, anch’esse
evidentemente afflitte.
“Pipino,
vieni via.”
“Voglio...
voglio stare con lui, ti prego.”
Esaudirlo
significava anche assistere alla sua
inutile, affranta veglia. Per questo Aragorn, cercando di essere il
più
delicato possibile, fu costretto a prenderlo in braccio, costringendolo
a
lasciare la mano del suo amico. Lo Hobbit provò a stento a
dimenarsi: la forza
di Re Elessar era troppo per lui, ma combatté per mantenere
il contatto visivo
con il corpo del suo caro cugino Merry.
Strinse
i lembi delle vesti del Re con forza, tentando
di affacciarsi oltre la grandezza delle sue spalle.
Merry
era lì, solo e pallido. La mano che aveva
tenuto fino a pochi istanti prima era abbandonata appena di fianco al
cuscino. I
riccioli bianchi si confondevano con il candore del suo capezzale. Era
sereno,
ma questa consapevolezza non era di nessun aiuto o conforto.
Non
vide neanche Ostoher che con gli occhi arrossati
gli stendeva un lenzuolo bianco addosso, coprendone anche il volto. Il
suo pianto
avrebbe trovato sfogo dopo, quando Meriadoc si sarebbe trovato nel suo
luogo di
riposo e tutto sarebbe realmente finito.
Le
lacrime di Peregrino invece bagnarono la barba
del Re, che intanto lo abbracciava sussurrando consolazioni che non
erano in
grado neanche di alleviare il suo stesso accoramento.
L’ultima
cosa che vide prima di svenire in preda
alla disperazione fu un buio profondo oltre il baratro, ed un punto
luminoso che
subito si spense.
Tutto
ciò che aveva, lo aveva irrimediabilmente perso.
NDA
In
questo capitolo ho tentato di introdurre per bene
il Fato degli Uomini (come viene chiamato dai mortali del Silmarillion che ne hanno timore) o Dono
di Eru (per quanto le mie capacità potessero permetterlo),
anche perché è Tolkien stesso che lo copre di un
velato
mistero, per quanto sia esplicativo che immortali e non, hanno sorte
differente.
Doveva
essere un capitolo molto più corto e un po’
più d’impatto, ci scusiamo per il disagio! xD