Storie originali > Soprannaturale
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Autore: BebaTaylor    07/03/2015    0 recensioni
Noi non potevamo essere troppo tristi, o troppo felici, o arrabbiati, o impauriti, terrorizzati o qualsiasi emozione che vi venga in mente. Noi dovevamo essere quasi... apatici, privi di qualsiasi emozione che non fosse appena accennata.
Noi cinque eravamo i guardiani degli elementi. Acqua, Fuoco, Terra, Vento, Spirito. Era nostro compito mantenere l'equilibrio sulla Terra ed evitare qualsiasi catastrofe naturale. Niente alluvioni, niente esondazioni, niente terremoti, frane, slavine, valanghe, niente incendi indomabili, niente vulcani che eruttavano lava come un rubinetto aperto alla massima potenza. Niente tornado, uragani, venti che sradicavano alberi e scoperchiavano case e facevano ribaltare le navi nell'acqua, niente tsunami.
Io ero la più piccola del gruppo, avevo venticinque anni e da cinque anni, e per altri trenta stavo immolando e sacrificando la mia vita per la mia missione.
Solo che era un sacrificio troppo grande
Genere: Fantasy, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Un paio di noticine prima di lasciarvi alla seconda parte: ad un certo punto troverete nel testo alcune parole che sembrano scritte in maiuscolo ma non è vero. È maiuscoletto che è ben DIVERSO dal maiuscolo. Giusto per informarvi.
Grazie a chi legge questa storia!

Elements

Parte II



Sognai campi di grano, enormi distese di grano, e un sole alto nel cielo, che brillava e riscaldava ogni cosa.
Un piccolo venticello che mi scompigliava i capelli.
E poi... il boato. La terra che si spaccava e si apriva, inghiottendo ogni cosa mano a mano che la crepa avanzava velocemente e allargandosi sempre di più. E poi il grande muro d'acqua, alto come un palazzo di sei piani, che correva, veloce, distruggendo ogni cosa al suo passaggio.
Dalla parte opposta il fuoco avanzava terribile, bruciando ogni cosa. Il vento, che si era trasformato in un tornado, gridava e ululava, strappando alberi centenari, sollevando palazzi come se fossero piume... nord, sud, est, ovest.
E io in mezzo, al centro. E quando il fuoco, l'acqua, l'aria e la terra arrivarono, mi attraversarono, mi bagnarono, mi bruciarono... io rimasi incolume, ancora lì al centro del campo di grano, con il sole alto nel cielo.
Mi svegliai, ansimando, inghiottendo bocconi d'aria. Mi sedetti sul letto, domandandomi il significato del mio sogno.
Era Ottobre, dieci settimane da quando avevo salutato gli altri.
Scostai le coperte e fissai la sveglia: le otto meno cinque. Sospirai e disattivai l'allarme che sarebbe suonato cinque minuti dopo.
Feci quello che facevo ogni giorno: mi lavai, mi vestii e bevvi un caffè mentre guardavo il telegiornale del mattino.
Alle nove e un quarto ero davanti alla mia scrivania, pronta per un'altra noiosissima giornata di lavoro nel campo delle assicurazioni.
Mentre aspettavo che il sistema operativo si caricasse guardai fuori dalla finestra, le macchine che sfrecciavano, gli alberi immobili. Non tirava un filo di vento.
Non c'era vento da diversi giorni, ormai, nemmeno una piccola brezza che alzava solo polvere e sabbia. Niente. L'aria era... immobile. Poi lo sfondo dello schermo — cavallucci marini — apparve e io mi concentrai sul mio lavoro.

Alle undici meno un quarto ero tornata dalla pausa. Afferrai la matita, un foglio con scritto le cose da fare e tirai una linea sulle cose che avevo fatto fino a quel momento.
Tirai una linea storta sopra l'ultimo punto, così, con uno sbuffo, afferrai la gomma, che mi sfuggì dalle mani e rotolò sotto la scrivania. Tirai indietro la sedia e mi chinai ma, quando alle mie dita mancavano pochi centimetri per raggiungere la gomma, la sentii chiaramente.
Avvertii la scossa prima che avvenisse. Forte, intensa. Rimasi ferma, chiedendomi cosa stesse succedendo a Samuel. Poi la mia sedia tremò e io mi gettai sotto la scrivania, mentre attorno a me la gente e i clienti urlavano e gridavano spaventati.
Strinsi la testa fra le mani, cercando di calmare quel frastuono, pregando che Samuel stesse bene, domandandomi perché stesse accadendo...
Dopo cento secondi esatti — lo avrei saputo dopo, al TG — la scossa finì e il nostro capo ci urlò di uscire.
Afferrai la mia borsa e la giacca, uscii all'aria aperta e mi diressi verso la mia auto, miracolosamente incolume: quelle attorno erano buone solo per lo sfasciacarrozze. Sulla mia non c'era neppure l'ombra di un granello di sabbia. Non c'erano macerie, dal lato del guidatore, non c'erano detriti sulla traiettoria che feci quando uscii in retromarcia. Niente crepe, sulla strada per uscire dal parcheggio.
Niente di niente sulla strada per casa.
Solo quando fui sul sedile mi accorsi di stringere la gomma nella mano destra, la lasciai cadere nel porta oggetti. Non badai al paramedico che mi chiedeva se stessi bene e partii. Venti minuti dopo ero davanti a casa mia, attorniata da vigili del fuoco e uomini della protezione civile.
«Qual è casa sua?» mi domandò un pompiere.
«Quella al centro.» risposi e accennai la minuscola casa — un bilocale — e la osservai. Era in piedi, solo i vetri erano esplosi. Mentre le altre... bhe le altre non c'erano più. O se c'erano erano solo muri che minacciavano di cadere da un momento all'altro.
Entrai, anche se il pompiere cercò di fermarmi. Mi diressi in camera, aprii l'armadio e afferrai le valige, che spalancai sul letto, iniziai a riempirle di roba e presi anche la scatola con dentro la mia nuova tv da trenta pollici e il lettore dvd. Dopotutto li avevo pagati una fortuna. Svuotai ogni singolo armadio, ogni mobiletto e cassetto di casa mia. Poi presi il mio carrellino da sotto il letto e ci sistemai sopra le valige, assicurandole con le cinghie elastiche, anche se avrei dovuto solo arrivare al mio SUV. Mentre camminavo per casa mia mi resi conto di quanto fosse brutta. L'avevo affittata ammobiliata e la mia padrona di casa non aveva un gran gusto in fatto di arredamento. O il guasto di scegliere una carta da parati che non fosse pacchiana all'ennesima potenza. O la capacità di scegliere un piastrellista capace di sistemare le piastrelle in modo da creare delle fughe uguali. Me ne resi conto allora, recuperando elastico per i capelli dal pavimento, che le fughe erano disomogenee.
“Cosa te ne importa?” pensai, “Tanto non ci tornerai, in questo buco.” pensai. Come se lo intuissi, quello che sarebbe successo.
Come se sapessi quello che sarebbe successo. Feci aventi e indietro tre volte, per sistemare le mie sei valige, quattro borsoni, tre zaini e svariate borse nella mia auto. Sul sedile posteriore sistemai le scatole con la tv e il lettore DVD, bloccandole con la trapunta che mi ero portata dietro da Chicago. Ritornai in casa, svuotai il frigo e il frizeer, infilando tutto nella borsa frigo. Prima di uscire, avevo solo due pensieri fissi in testa: andare a vedere come stavano Samuel, Damon, Leo e Adam. E farlo il più in fretta possibile.
Uscii di casa e la vidi, alla mia sinistra.
Lei era lì, che mi osservava, truce. Sapeva quello che volevo fare.
La fissai, mentre mi avvicinavo e più la fissavo più mi chiedevo come un essere del genere potesse essere Lei.
Era grassa, obesa, circa sessant'anni, con i capelli striati di grigio e unti come se avesse usato la testa per pulire una pentola deve si era fritto qualcosa. I suoi occhi, così glaciali e freddi, erano piccoli e infossati e pensai che fossero sul punto di scomparire, inghiottiti dal grasso che li circondava. Lei non aveva mento, non aveva neppure il doppio mento se era per quello. Il suo collo sembrava inghiottire ogni cosa. Dire che era brutta era farle un complimento.
«Non puoi.» ringhiò quando fui a due metri scarsi da lei.
«Oh, sì che posso.» replicai.
«Non è previsto il vostro incontro.» disse lei.
«Tu non puoi saperlo.» dissi stringendo la cinghia della borsa frigo, pronta ad usarla come arma.
«Io sono vostra Madre!» strillò lei, la voce acuta.
«Bhe... come Madre sei pessima, fattelo dire.» ribattei, acida, «Come Madre Natura sei pure peggio.» aggiunsi, «Stronza.» sputai e mi voltai.
Signori e signore, chi mi dava gli ordini, chi mi aveva infilato a forza in quella vita era Madre Natura.
«Non puoi!» gridò lei, «Non puoi!»
Io la ignorai e tornai verso il mio SUV, chiedendomi come potesse essere una persona del genere Madre Natura. Quando entrai in auto vidi il pompiere che si avvicinò, spostandosi dall'albero dove lo avevo lasciato quando ero arrivata dall'ufficio e mi chiesi perché se ne fosse stato lì, invece di seguirmi e trascinarmi fuori da casa, urlando che poteva esserci un'altra scossa. Era rimasto lì, accanto all'albero, bloccato, come se si fosse fermato il tempo nell'esatto istante in cui ero entrata in casa e avesse ripreso a scorrere quando avevo aperto la portiera.
«Sta bene, signorina?» mi domandò.
«Sì, grazie.»
«Può andare al complesso sportivo, stanno allestendo una tendopoli per gli sfollati.»
«Non serve.» replicai mettendo in moto. «Vado da amici.» dissi ingranando la marcia, «Su, al nord.» mentii, perché venti minuti dopo, alle dodici e due minuti, stavo imboccando la rampa dall'autostrada verso sud.
Stavo andando a Miami.

Miami da quella casa dista tre ore e un quarto di treno, oppure quasi quattro con l'auto, andando a velocità media di ottanta chilometri l'ora. Io ce ne impiegai due mezza, di ore, quel giorno, superando di gran lunga i limiti di velocità, ma prima, prima che arrivassi a in quel palazzo successe un'altra cosa.
Lei si ripalesò, in auto, apparendo sul sedile del passeggero. «Non puoi andare, non è previsto.» disse.
«Non me ne fotte un cazzo se è previsto oppure no.» replicai, «Io faccio quel cazzo che voglio, e tu, brutta stronza, non puoi impedirmelo.» aggiunsi, abbandonando le buone maniere che mia madre mi aveva insegnato. «Io andrò da loro.» dissi.
«Non è previsto!» gridò lei e io infilai la mano sinistra nella tasca della portiera, stringendo la bomboletta di peperoncino spray. Sistemai l'erogatore e posai l'indice sul pulsante.
«Non è prevista una cosa del genere!» replicò Lei, «Non è mai successa una cosa del genere... un incontro prima che sia scaduto il tempo!» strillò, come se invece di andare a vedere cos'era successo le avessi confessato che avevo intenzione di fare sesso con cinque uomini contemporaneamente.
«Tu dici?» feci, tranquilla, «Vediamo se lo prevedi, questo.» dissi e la guardai, anche lei lo fece
«Cosa?» mormorò e io alzai il braccio sinistro, strinsi con forza il volante e spruzzai. Lei urlò e gridò, portandosi le mani al viso, io puntai gli occhi sulla strada, poi le urla smisero e io rimasi sola. Gettai la bomboletta dov'era prima e continuai a guidare.
Un paio di minuti dopo la rividi, in mezzo alla mia corsia, un centinaio di metri più avanti. Lei mi fissava con le mani sui fianchi.
Se pensava di spaventarmi o intimorirmi si sbagliava di grosso. Pigiai il piede sull'acceleratore e in un battito di ciglia fui davanti a lei, sopra di lei. Proseguii la mia corsa senza guardarmi indietro.

Posteggiai il mio SUV sul marciapiede davanti al palazzo e sentii il rumore di plastica rotta, dovevo aver schiacciato un secchiello o qualcosa del genere.
Afferrai la mia borsa e mi precipitai all'interno, salii i gradini due a due a arrivai all'ultimo piano.
Spalancai la porta.
«Tabitha!» esclamò Adam.
«Cos'è successo?» domandai entrando in casa. Fissai Samuel, semi-sdraiato sul divano, il viso inondato di lacrime, «Come sta?» chiesi e feci un passo avanti, trovandomi fra le braccia di Damon. Lo strinsi, forte, inspirando il suo profumo, sentendo la sua pelle sotto le dita.
«Cos'è successo?» ripetei.
Adam sospirò e si alzò dal divano. «Ti ricordi Evelyn?» chiese. Ci pensai per due secondi, poi annuii. Era la bella vicina. «L'altra sera non è rientrata a casa.» continuò, «Ieri pomeriggio l'hanno trovata... dietro un cassonetto, nel vicolo dietro il locale dove lavorava.» disse, «È stata uccisa e...»
«Oh.» commentai andando a sedermi, «Oh.» feci, rendendomi conto di cosa volessero dire quelle parole. La ragazza che piaceva a Samuel era morta, uccisa e violentata.
Capii perché si fosse scatenato il terremoto. Anche a me sarebbe capitata la stessa cosa se fosse accaduto qualcosa a Damon.
Leo mi porse un bicchiere d'acqua. «Grazie.» sorrisi.
«L'ho vista.» esclamai dopo un paio di sorsi.
«Lei?» domandò Adam mentre Damon mi stringeva la mano libera.
«Sì, Lei.» confermai. «Era fuori da casa mia, quando sono partita.» dissi, «Non voleva che venissi qui.» sospirai, «Poi è apparsa nella mia auto e allora le ho spruzzato lo spray al peperoncino negli occhi, così si è levata delle palle... ma poi era in mezzo alla strada così l'ho investita.»
«L'hai investita?» domandò Leo.
Annuii, «Sì, l'ho fatto.» confermai. «Volevo solo venire qui e vedere come stavate.»
«Noi stiamo... insomma.» mormorò Leo guardando Samuel.
Mi limitai ad annuire, troppo sconvolta. Mi limitai a fissare la mano di Damon che stringeva la mia. «Cosa facciamo?» chiese lui dopo un po'.
«Ormai Lei è incazzata.» dissi, «L'ho fatta incazzare.» sospirai, «Ma mai quanto ha fatto incazzare me.»
Rimanemmo in silenzio per diverso tempo, osservando Samuel che dormiva.
«Hai solo questo?» mi chiese Adam indicando la mia borsa
«No.» risposi. «Ho tutta la mia roba in auto.»
«Ti aiuto.»
Facemmo due viaggi per portare lì tutta la mia roba. Nonostante la scossa il palazzo era integro.
«Avrei fatto anche io lo stesso.» mi disse mentre portavamo di sopra la mia tv, la coperta e gli ultimi borsoni. «Anzi, avrei fatto pure marcia indietro.»
«Ero in autostrada.» esclamai, «Un po' difficile fare marcia indietro.»
Ritornammo da Samuel e gli altri. Leo stava accendendo il forno. «Sono lasagne.» disse.
«Devo andare in bagno.» commentai, rendendomi conto che era dalle undici di quella mattina — ormai erano le sei e mezza passate — che non andavo in bagno e mi resi conto che dovevo andarci urgentemente.
Quando aprii la porta per uscire mi trovai davanti Damon. «Stai bene?» mi chiese.
Annuii in risposta.
«Non ti ha fatto del male?»
Lo guardai e fissai i suoi occhi azzurri. «No.» risposi. Non fisicamente, almeno. Psicologicamente... a valanghe.
Tornammo in salotto, Samuel si stava risvegliando. «Sei qui.» fece, guardandomi, «Lei...»
«L'ho tirata sotto con la macchina, per quanto m'importi di lei.» dissi, «M'importava più di te.» aggiunsi, «Di voi.»
«La odio.» sussurrò lui rannicchiandosi e coprendosi il volto con le mani. «La detesto. È cattiva.» mormorò, «Perché?»
Rimanemmo in silenzio, mentre Leo apparecchiava, lo vidi indeciso se aggiungere il piatto anche per Samuel oppure no. Alla fine posò anche il piatto per lui.
«Dobbiamo fermarla.» esclamò Adam e guardò brevemente fuori dalla finestra, «È stata sfidata, non ce la farà passare liscia.» disse, «Tutti l'abbiamo sfidata, pensando o desiderando altro che non fosse il nostro compito.» sospirò. «E altro che investirla, io le avrei ficcato una pistola in quel culo flaccido che si ritrova.»
«E poi?» chiese Damon, non togliendomi gli occhi di dosso mentre mi sedevo accanto a Samuel.
«La uccideremo.»
Guardai Leo, sorpresa da quelle due parole.
«Io non ce la faccio più.» continuò il mio bignè, «Voglio finirla.»
Rabbrividii nel sentirlo perché intuii che non si riferisse a fermare Lei, ma a finire... la sua vita. Mi si strinse il cuore in una morsa, nel guardare Leo così triste...
La mano di Damon strinse la mia e io lo lasciai fare. Non m'importava se Lei non sarebbe stata d'accordo, non volevo che finisse come per Samuel, un amore non nato. Se non ci fossero state quelle regole magari lui ed Evelyn avrebbero potuto essere una coppia, lui sarebbe andato a prenderla al lavoro, invece di farla tornare a casa da sola...
Sospirai e mi dissi che non era giusto, tutto ciò. Non era giusto che rinunciassimo alla nostra vita, alle nostre passioni, alla nostra anima per un compito troppo grande per chiunque. Se fosse stato diverso, se avessimo potuto vivere, vivere sul serio, forse il nostro fardello non sarebbe stato così pesante.

Rimanemmo tranquilli per ore, ed ebbi il tempo di pensare che quella sembrava la prima cena fra amici che facevamo da quando ci eravamo conosciuti, una cena fra amici per consolare uno di noi che stava male.
Guardammo di sfuggita il TG, perché parlavano tutti del terremoto, della morte di Evelyn, di gente che, fuori di testa per quella “calma meteorologica”, dove non pioveva più, dove non c'era più vento, dove tutti i vulcani, anche quelli che di solito sputacchiavano lava ogni giorno, erano calmi. Gente fuori di testa che pensava che stesse arrivando l'armageddon, perché quel terremoto era stato improvviso e violento e strano. Aveva colpito diverse zone, lasciandone alcune completamente intatte.
Come la mia auto.
Come il mio stupido bilocale.

E nessuno sapeva dare una spiegazione logica a tutto ciò.
Quello che non sapeva nessuno, era che l'armageddon sarebbe arrivato prima di quanto immaginassero.
Quella stessa sera, alle ventidue e trenta, sarebbe scoppiato l'inferno.
Eravamo in salotto, Samuel seduto all'estremità destra, rannicchiato, il viso nascosto dalle mani. Accanto a lui Leo, lo sguardo perso nel vuoto, che non fissava né la tv né il muro dietro di essa. Io ero incastrata fra Adam e Damon. Il primo stringeva forte le mani, il secondo stringeva la mia mano sinistra fra le sue.
Fissai le mani di Adam e lo rividi. Rividi il fuoco che le avvolgeva, danzando sulla sua pelle senza bruciare lui o quello che c'era attorno.
Eravamo tranquilli, quando Lei arrivò. Apparve in mezzo al salotto, con lo stesso vestito — orribile, con lo sfondo viola e grandi fiori gialli e rossi — di quando l'avevo vista io. Sul suo corpo erano visibili i segni dell'investimento: dalle ginocchia allo sterno si vedevano chiaramente le impronte della maschera del parafango e del cofano della mia auto.
«Non dovete riunirvi!» strillò, «Non dovete stare insieme!» continuò con la sua voce stridula; poi il suo sguardo si posò sulla mia mano stretta fra quelle di Damon. «Cosa state facendo?» gridò e si mosse verse di noi, minacciosa, pronta a farci del male.
Leo si gettò sui di noi, travolgendo Adam e buttandosi su di me e Damon, coprendo le nostre mani ancora unite.
Il mio Pasticcino urlò, quando Lei lo colpì. Gridò così forte che temetti che mi stessero strappando anche l'anima, in quel momento.
Lo strinsi, aggrappandomi alla sua maglietta, mentre lui continuava a urlare. Poi smise, di colpo, come se qualcuno avesse premuto un interruttore. E rotolò via da noi, cadendo sul pavimento.
Lo guardammo per un paio di secondi, immobili e in silenzio, prima di urlare vedendo il corpo di Leo squassato dalle crisi epilettiche.
«Leonard!» gridai, chiamandolo con il suo nome vero, e mi precipitai al suo fianco, cercando di ricordarmi quello che avevo imparato al corso di primo soccorso che avevo fatto durante il primo anno di università.
“La lingua, devo impedire che si morsichi la lingua.” ricordai, e poi gli infilai due dita in bocca, bloccando la lingua e tenendo ferma la testa con l'altra mano.
Anche Adam scese dal divano e si mise al mio fianco, poi, quando la crisi finì, si girò verso di Lei.
Uno sguardo di puro odio.
«Non aiutatelo!» strillò quella, «Non dovete stare insieme!»
Non capii se si riferisse a noi cinque o a me e Damon. In quel momento non mi importava, pensavo solo al mio Pasticcino. Leo respirava regolarmente, anche se era ancora di un pallore spettrale.
Sentii le braccia di Damon stringermi e chiusi gli occhi per un istante, quando li aprii vidi Adam volare oltre il divano. Samuel si sporse, gridando il suo nome.
Il ragazzo si alzò, aggrappandosi al divano. «Puttana...» sibilò, «Io t'ammazzo.» sputò e scavalcò il divano con un gemito, scivolando al fianco di Samuel che aveva il viso stravolto dalla paura. Un attimo dopo i due erano accanto a noi. Io strinsi Leo sotto le ascelle e lo sollevai, premendo il suo corpo contro il mio. Damon mi aiutò a sistemarlo meglio. Adam strinse una mano del ragazzo svenuto, mentre Samuel rimaneva aggrappato a lui come un cucciolo spaventato.
Damon mi strinse più forte con il braccio sinistro, mentre con il destro stringeva Leo.
Eravamo tutti aggrappati gli uni gli altri, come se lo sapessimo, quello che sarebbe successo da lì a poco.
Infatti Lei, Madre Natura, ci scagliò contro una folata di vento, così forte, così fredda che tremai e battei i denti.
Faceva freddo, troppo freddo per essere ancora in Florida, un freddo glaciale, che entrava nelle ossa con l'intenzione di non andarsene mai più.
Sentii il respiro freddo di Damon contro il mio collo e per poco non urlai. Era come se qualcuno mi avesse premuto contro la pelle un cubetto di ghiaccio con mille schegge appuntite.
Poi, il vento e il freddo cessarono. Respirai piano, temendo che si congelassero i polmoni; aprii gli occhi e guardai gli altri. Vidi la mano di Damon stringere la mia e stringere Leo, vidi Adam, piegato su Samuel, che si stringeva a Leo.
Vidi il mio Pasticcino tenere la mano sul polso di Samuel. «Stronza.» biascicò Leo, fu poco più che un sussurro, ma Lei lo sentì.
Lo strinsi e gridai quando il pavimento sotto di noi tremò. “Sei morta, Tabitha.” mi dissi, “E non hai fatto neppure un quarto delle cose che volevi fare prima di compiere venticinque anni.”
Qualcosa dentro di me si ribellò, a quel pensiero. E mi sentii ribollire, mentre il pavimento si apriva sotto di noi. Damon mi strinse più forte, percepii la mano di Samuel aggrapparsi alla mia maglietta e a quella di Leo, Adam si strinse a me, proteggendo Leo, ancora non del tutto cosciente.
Precipitammo per quelli che mi sembrarono metri, chilometri. Al centro della Terra e poi dall'altra parte.
Non avevo il coraggio di aprire gli occhi, avevo paura di quello che avrei potuto vedere.
Poi il rumore cessò, così improvvisamente che mi spaventai.
«Ma che...»
Aprii gli occhi sentendo la voce di Damon. Osservai quello che mi circondava, «Cazzo.» mormorai.
Non eravamo precipitati.
Eravamo ancora lì, nel salotto di Samuel e Leo, al quinto piano di quel palazzo nella periferia sud di Miami.
Guardai il pavimento e il tappeto sul quale eravamo ammassati, e la striscia di calcestruzzo che ci teneva attaccati al resto della casa. Quella striscia larga forse cinquanta centimetri e lunga un metro e venti. Se si fosse sbriciolata saremmo precipitati nel vuoto.
Sotto di noi non c'era nulla. Solo il vuoto e macerie su macerie. Pensai alla mia valigia nella stanza di Damon, quella valigia dove avevo messo la copertina di lana che aveva fatto mia madre quando ero partita per New York per l'università. Quella copertina che mi ero portata a Miami. La mia copertina di Linus, dove, lì sotto, non poteva accedermi nulla di brutto.
Ma Lei era ancora lì, purtroppo, sospesa nel vuoto, i capelli unti che fluttuavano, la gonna dell'abito che si alzava, mostrando le gambe brutte e grasse, con le vene in evidenza. Pensai che avrebbe avuto bisogno urgentemente di scontrarsi con un calderone di cera per estirpare tutti quei peli neri.
«Dobbiamo spostarci.» mormorò Adam mettendosi in ginocchio.
Guardai quel pezzo che ci teneva ancorati: metà era proprio davanti al bagno e la porta di esso era scardinata e dondolava cigolando appesa a un solo cardine.
Adam — il fuoco avvolgeva le sue mani — aiutò Samuel ad alzarsi, poi afferrò Leo e lo tirò su. Damon mi spinse in piedi e si alzò anche lui.
«Piano.» disse Adam.
Un passo alla volta, camminando lentamente, ci spostammo da lì, mentre Lei ci osservava, come un gatto che guarda il topolino, dandogli una via di fuga, facendogli credere di avere una via di fuga. In bagno trovai la mia borsa, mezza dentro e mezza fuori da un armadietto, e la strinsi a me come se la mia vita dipendesse da quello. Mi sedetti fra il lavabo e il gabinetto, la testa di Leo sulle mi ginocchia, gli altri davanti a me. Aprii la cerniera della mia borsa e trassi la cinghia per tenerla a tracolla. Non l'avevo mai usato prima e non l'avevo mai tolta, dicendomi che, prima o poi, sarebbe tornata utile. Agganciai i moschettoni oro agli anelli, pensando che la mia vita dipendesse da quello. Nella taschina interna trovai il mio cellulare e il caricabatterie. Frugai e trovai il portafogli, la tessera di un parcheggio multi-piano, quella del multisala, quella della profumeria e della beauty-farm. E poi quella del supermercato e del negozio di abbigliamento e quella del fast-food. Trovai anche il porta tessere, ovviamente vuoto, e il porta monete, aperto per metà. “Devo mettere in ordine.” pensai. Aprii l'altra parte della borsa, e sgranai gli occhi nel vederla rigonfia di cibo e bottigliette d'acqua, di tè e Gatorade. Avevo una strana mania, a quel tempo: quando mi trovavo davanti a un distributore automatico dovevo prendere qualcosa da ogni fila. Il che risultava bizzarro, strano e costoso dato che nel mio ufficio c'erano ben sei distributori: due per il caffè, due per l'acqua e bibite e le ultime con dolciumi e robe salate. Per questo era così pesante, quella borsa. Velocemente contai: sei bottiglie; un paio di decine di barrette energetiche o ai cereali e cioccolato; patatine, salatini da aperitivo, crackers al rosmarino, brioche, e caramelle.
La mia scorta per l'inverno, come se fossi stata uno scoiattolo, come se avessi sempre saputo quello che sarebbe accaduto.
«Non ti pare di esagerare?»
Guardai Leo e sorrisi, misi la borsa a tracolla e infilai le dita nella pelle. Poi ricordai che era pelle di vitello, che la borsa era di Chanel e che l'avevo pagata ottocento dollari. No, in realtà l'avevo pagata centosessanta dollari perché la comprai con uno sconto dell'ottanta per cento, ma la sostanza non cambiava.
«No.» risposi e sentii il corpo di Damon contro il mio, le sue lacrime sulla mia pelle, le sue labbra sul mio collo... chiusi gli occhi e mi aggrappai a lui.
«Cosa state facendo?» gridò Lei, davanti a noi.
Adam e Samuel si strinsero a noi, e io circondai con un braccio Leo, con l'altra mano mi strinsi forte la maglia di Damon.
Le sue labbra sul mio collo.
Il suo respiro nel mio orecchio: «Ti amo, Tabitha.»

Il pavimento e le pareti tremarono ancora, ancora e ancora.
«Voi state distruggendo ogni cosa!»
La sua voce sovrastò ogni rumore, ogni suono, e mi arrivò al cervello come un bisbiglio dopo una notte di bagordi.
Damon mi strinse più forte, mentre precipitavamo, questa volta sul serio. Lo vidi, vidi le pareti scorrere davanti ai miei occhi, un piano dopo l'altro, il piano terra, il parcheggio sotteraneo, le fondamenta e ancora più giù...
«Damon... ti amo.» sussurrai al suo orecchio, all'orecchio dell'uomo che amavo. Dell'uomo che, forse, non avrei più rivisto.
Poi divenne tutto nero.

✫✫✫

Aprire gli occhi fu la cosa più dolorosa che avessi mai fatto in vita mia. Sentii un peso premere su di me e scoprii che era Damon, sdraiato su di me. La borsa era scivolata al mio fianco. Mi puntellai sui gomiti e riuscii ad alzare il busto.
«Stai bene?»
Guardai Samuel, «Pesa.» borbottai, riferendomi a Damon. Fissai il ragazzo e avvampai quando mi accorsi che la sua bocca era vicino al mio seno sinistro.
«Ti aiuto.» disse Samuel e gattonò fino a me, sollevò piano Damon. Io fissai il suo volto, la bocca aperta, gli occhi chiusi e il respiro regolare. Samuel lo fece sdraiare al mio fianco.
Adam riprese i sensi con una bestemmia e si girò sul fianco sinistro, «Io le spacco quella faccia da cazzo che si ritrova.» sputò e poi tossì.
«Io direi quella faccia orrenda e da cazzo che si ritrova.» sbottò Samuel.
Leo gemette e aprì gli occhi, «Io... Dio, che mal di testa.» biascicò.
«Devi vomitare?» gli chiese e lui scosse piano la testa.
«Ce l'hai l'acqua?» soffiò lui.
Annuii e aprii la borsa, prese la bottiglietta d'acqua mentre Adam lo teneva sollevato e aiutai Leo a bere. «Chi la vuole?» domandai e bevemmo tutti un paio di sorsi, richiusi la bottiglia e la infilai di nuovo in borsa.
Guardai Damon, accanto a me e gli strinsi la mano. Tanto, ormai, Lei non avrebbe potuto farci nulla.
Aveva già fatto troppo.

Dopo un tempo che non saprei dire, anche Damon riprese i sensi e mi strinse forte, baciandomi le guance, la fronte, il naso, il mento... e le labbra.
Io lasciai la mano di Leo e lo strinsi, baciandolo a mia volta, fregandomene se gli altri ci stessero osservando; per quanto ne sapessi, quello poteva essere il mio ultimo bacio.
Per quanto ne sapessi, potevo essere morta, ed essere finita in un limbo o chissà dove. Non credevo in nulla, quindi per me limbo, paradiso e inferno erano solo canti della Divina Commedia.
Smisi di pensare, ad un certo punto, cancellai tutti i pensieri e mi concentrai sollo sulle labbra e sulla lingua di Damon, pensai solo alle mie mani su di lui e le sue mani sul mio corpo.
Quel bacio finì troppo presto, per i miei gusti. Quando ci staccammo e mi voltai, scoprii Leo a guardarmi, la faccia rossa dall'imbarazzo.
Samuel guardava da un'altra parte.
«Andiamocene.» disse Adam alzandosi e, insieme a Samuel, aiutò Leo ad alzarsi.
Damon mi porse la mano e mi aiutò ad alzarmi, «Ma che cazzo...» commentai, rendendomi conto solo allora dove ci trovavamo e mi diedi della stupida per non essermene accorta prima. Era tutto bianco, varie tonalità di bianco, okay, ma pur sempre bianco.
Il pavimento, le pareti, il soffitto... tutto bianco, sfumature che partivano da un bianco candido, quasi accecante e finivano in un grigio chiaro.
«Ma dove siamo?» borbottò Samuel.
«Non ne ho idea e non voglio nemmeno saperlo.» esclamò Adam, «Voglio solo andarmene.» disse mentre le sue mani bruciavano.
«Adam!» gridò Damon e la sua voce rimbalzò sulle pareti, «Le tue mani!»
L'altro abbassò il viso e le guardò, «Lo so.» sospirò dopo qualche secondo. «Mi succede da qualche giorno.»
«No. Ti succede da Agosto, almeno.» dissi e per poco non caddi quando Damon si fermò di scatto.
«Cosa?» domandò Adam, «Agosto?»
Alzai le spalle, «Bhe... sì.» risposi, «All'inizio pensavo di avere le allucinazioni.» confessai, «Nessun altro sembrava accorgersi di quello che succedeva...»
«Sai cosa può essere?» domandò Samuel.
Inspirai e gonfiai le guance, poi espirai con lentezza, «No.» risposi. «Non ne ho idea.» ammisi e sospirai, stringendo forte la mano di Damon, così forte che sentii le unghie scavare la pelle.
«E quindi?» borbottò Leo, «Cosa facciamo?»
«Troviamo un'uscita e torniamo a casa.» esclamò Damon.
Rimanemmo in silenzio e proseguimmo, con le mani di Adam che bruciavano senza toccare altro, senza infiammare nessun altro.
Facemmo forse una ventina di metri, svoltammo a sinistra e ci bloccammo: Lei era di fronte a noi.
«Perché, perché non mi ascoltate?» pigolò, «Voi dovete fare quello che dico, sono vostra Madre!» gridò.
«Io una madre già ce l'ho e mi basta e avanza.» commentò Adam.
Lei emise uno strillo, un urlo da animale ferito e singhiozzò, mentre io la fissavo pensando a quali torture dovessimo farle subire. «Voi siete i miei figli! I miei figli!» gridò e si accartocciò su se stessa, il grosso seno e l'enorme pancia — da alcolizzato bevitore di birra, pensai —, che si muovevano su e giù, ricordandomi quelle gelatine che mi diedero in ospedale quando, durante l'estate dei miei sedici anni, finii in ospedale dopo essere scivolata sul pavimento bagnato del bagno. Mi ruppi le ossa metacarpali dell'anulare e del mignolo della mano sinistra e sbattei la testa. Mia madre mi disse che avevo la testa dura, per questo non me l'ero spaccata.
«I miei figli! I miei figli!» gridò quella, rimanendo accucciata sul pavimento, le spalle scosse dai singhiozzi. Poi, lentamente, si alzò, «Siete i miei figli e mi avete disubbidito... devo punirvi, adesso, riuscite a capirlo?»
«Ci hai già punito abbastanza, non ti pare?» ringhiò Damon, posandomi il braccio destro sulle spalle e stringendomi la mano con l'altra.
Lei spalancò gli occhi e aprì la bocca, «Voi... non potete!» gridò, poi il suo sguardo si posò su Adam, sulle sue mani, sul fuoco sulle sue mani. «Cosa stai facendo?» urlò, «Non puoi! Non potete ribellarvi!»
Feci per ribattere che neppure noi sapevamo cosa stesse succedendo alle mani di Adam ma tacqui anche perché Lei emise un urlo da animale ferito, da animale caduto in trappola che sa che sta per morire.
«Voi mi state facendo soffrire!» uggiolò lei, «Soffrire! I miei figli!» piagnucolò poi, con un gesto rabbioso delle mani, si asciugò le lacrime, «Vi devo punire!» strillò.
E il bianco e il grigio iniziarono a tremare, prima piano, poi sempre più forte, un enorme boato che mi fece contrarre lo stomaco; sentii Damon stringermi forte, Adam aggrapparsi alla mia cintura, una mano mi tirò i capelli... e poi precipitammo. Urlai, urlai così tanto che a un certo punto smisi semplicemente perché non avevo più voce.
Aprii gli occhi dopo quelli che mi parvero secoli e gridai con la voce rauca. Eravamo ancora nel salotto di Samuel e Leo, solo che... la parete davanti a non non c'era più, solo sbarre di ferro che spuntavano minacciose dal pavimento, cavi che ballavano e saettavano e sputavano scintille.
«Oh, merda.» commentò Leo.
Io avrei commentato in un altra maniera... perché, quello che si presentò davanti a noi non era normale, non era possibile. Un grosso tornado si muoveva secondo un percorso conosciuto a lui e vidi tetti, auto — e pensai al mio SUV, posteggiato lì sotto — qualche fuori bordo di qualche riccone volare via, girando attorno al tornado e venire inghiottito da esso. Vidi un grosso incendio, un muro di fuoco, enorme, che muggiva e lanciava zampilli grossi come palloni.
Il fuoco e il tornado si muovevano insieme.
Aria e Fuoco.
Damon e Adam.

L'incendio e il tornado si muovevano verso di noi. Velocemente, troppo velocemente.
«Gesù...» sussurrò Samuel.
E in quel momento scoppiò a piovere. Una pioggia forte, grosse gocce che cadevano dal cielo nero.
«Dobbiamo andarcene!» gridò Damon, sovrastando il rumore del vento, il suo Elemento, «Prima che ci porti via!»
Eravamo in quel punto in cui il salotto cedeva il passo alla cucina, accanto alle scale interne che collegavano i due appartamenti. Ci fermammo a metà scala, sul gradino dell'angolo e Damon mi spinse contro di esso, sentii la borsa schiacciarsi contro la mia pancia e pregai che non si rompesse nulla, lì dentro , e me ne pentii subito dopo, perché non era una cosa da pensare, in quel momento. Damon mi strinse, abbracciandomi da dietro, spingendo il suo viso nell'incavo del mio collo. Leo, il mio bignè, si accucciò alla mia destra, insieme a Samuel, sentivo le loro mani sulle mie cosce e sulle braccia; Adam si mise a sinistra, incastrando il braccio fra la borsa e la maglia e stringendomi la maglietta.
Il tornado e il fuoco si avvicinavano sempre di più, potevamo sentire il loro frastuono farsi sempre più forte.
«L'incendio!» sentii gridare Adam, «Cazzo, no!» urlò, aprii un occhio e dalla finestrella vidi il fuoco a meno di mezzo miglio da noi. Eravamo in trappola, sentivo il caldo del fuoco.
Non volevo morire carbonizzata.
Non volevo morire e basta.
Pensai che non volevo morire senza aver detto a quella stronza di Jessica quanto fosse stronza e che no, non avevo dimenticato la figura di merda che mi fece fare al terzo anno del liceo, e che sì, ero io quella che aveva messo la colla a forte tenuta e presa rapida sotto al bordo della coroncina della Reginetta dell'homecoming all'ultimo anno. E che no, non ero pentita di averlo fatto. E che sì, avevo riso quando era tornata a scuola con la parrucca.
«Fermati!»
L'urlo di Adam arrivò forte e chiaro, come se non stesse urlando, come se stesse parlando normalmente, come se, là fuori, non si stesse scatenando l'inferno.
Guardai di nuovo fuori dalla finestrella e il grido mi morì in gola, mentre osservavo l'incendio fermarsi e abbassarsi sempre di più.
Adam aveva fermato l'incendio.
Adam aveva comandato il fuoco.
Adam aveva il controllo sul suo Elemento.
Rimanemmo immobili per qualche secondo poi gridammo: il fuoco si era estinto, il tornado no!
Sentii il vetro della finestrella esplodere e gridai quando la mia fronte cozzò contro il muro mentre il vento era sempre più forte, sempre più rumoroso...
Udii Damon mormorare qualcosa, sentivo le sue labbra muoversi contro la mia pelle, come se stesse recitando una preghiera.
Aprii l'occhio destro — la parte sinistra del mio viso era schiacciata contro i capelli biondicci di Leo — e osservai il tornado che arrivava, sempre più veloce, sempre più rumoroso, sempre più inquietante. Passò sopra un edificio con le pareti di vetro e lo distrusse mentre correva, veloce, verso di noi. Poi, all'improvviso, svoltò verso destra, andando verso l'oceano.
«Che diavolo...» biascicò Adam, la voce sconvolta.
«Ha cambiato direzione!» esclamò Damon. «Io lo supplicavo di fermarsi....» mormorò.
Guardai incredula la devastazione fuori dalla finestra e quasi non badai a Leo che mi schiacciò un piede quando si alzò.
Damon mi tirò su e arrivammo alla finestrella e quello che vidi era peggio, molto peggio, di quello che pensavo. Moltissime case erano distrutte oppure ne mancava un pezzo, le auto erano rovesciate... tranne la mia, che era ancora lì dove l'avevo lasciata. E il lampione che era caduto non l'aveva neppure sfiorato.
Anche l'ultimo lampione si spense e quasi urlai quando si fece buio.
«Minchia, non si vede un tubo!» sbottò Adam mentre io frugavo nella mia borsa e sperai che la torcia fosse ancora lì.
Trattenni un urletto di gioia quando la trovai, la strinsi e la tirai fuori, richiusi la borsa e l'agitai. «È una torcia a dinamo.» dissi. La lampadina si accese e rischiarò l'ambiente.
«Ehm... dove andiamo?» chiese Leo, una domanda più che lecita, visto che le scale erano interrotte e non si poteva scendere. Risalimmo e rimanemmo in cucina, osservando la grande voragine.
«Siamo in trappola.» sospirò Damon e mi strinse la mano.
«Cosa avete fatto?» Lei riapparve, fluttuando sopra il buco nel pavimento. «Voi non potete farlo, non potete disubbidirmi!» gridò, «Vi punirò!»
E, di nuovo, tutto tremò. Un pensile accanto a me si spalancò e una cascata di bicchieri si frantumò per terra.
Mi sentii spingere e trascinare verso la scala quando la scossa terminò. Respirai velocemente, e mi guardai attorno: eravamo praticamente in trappola, in piedi sopra un pezzo di pavimento che stava su per miracolo.
Adam fece un passo in avanti e strillò quando sotto il suo piede si formò una grossa crepa, che si allargava sempre di più. Ci raggruppammo in un angolo, gridando e urlando mano a mano che il pavimento si frantumava sotto di noi. Precipitammo.

✫✫✫

Mi risvegliai dopo un tempo indefinito, la borsa accanto a me. Mi misi a gattoni e chiusi gli occhi quando la nausea mi travolse.
«Tabitha!» esclamò Damon, «Stai bene?»
«Sì.» risposi e riuscii a mettermi in ginocchio, sedendomi sui talloni, e respirai a fondo. Mi guardai attorno e vidi Adam aiutare Leo a sedersi. Samuel era accanto a Damon.
Eravamo nello stesso posto di prima, circondati da bianco e grigio. Bevemmo ancora e, mentre cercavo qualche caramella alla menta — avevo la gola che bruciava per le troppe urla — le mie dita si strinsero attorno a un oggetto di metallo dalla forma affusolata. Lo tirai fuori e mi accorsi che era il mio coltellino svizzero.«Che ci fai con una roba del genere?» commentò Adam.
Strinsi le labbra e scrollai le spalle sospirando, «Mi difendo dagli aggressori.» rispose, «Credo.» aggiunsi e sistemai il coltellino nella tasca sul davanti della borsa, lasciando fuori l'anello portachiavi, così avrei potuto prenderlo senza fatica.
«Bhe, è sempre utile.» commentò Leo alzandosi in piedi, «Almeno so su chi testerei le lame.»
«Oh, se è per quello anche io.» disse Adam.
«Siamo dove eravamo prima?» domandò Samuel, «A me sembra diverso...»
Guardai l'ambiente attorno a me, Samuel aveva ragione: eravamo nello stesso posto di prima, ma in un punto diverso. Ci alzammo tutti quanti e riprendemmo a camminare, la mia mano stretta in quella di Damon. Avanzammo per una decina di minuti lungo un corridoio bianco, fino a quando non ci fermammo: davanti a noi si trovavano cinque persone, sulla cinquantina, vestiti con abiti degli anni settanta.
Ed erano grigie. Completamente grigie, come se stessimo guardando una vecchia foto un film in bianco e nero.
«E quelli?» sbottò Adam. «Chi cazzo siete?» domandò, avanzando di un passo, le mani che bruciavano.
«Noi siamo i Guardiani.» rispose il più vecchio, lisciandosi i baffi quasi neri. «Anche voi, immagino.»
«Perché siete qui?» domandò Leo. «Come si torna indietro?»
«Voi siete la nuova generazione, vero?» commentò l'unica donna, ignorando le domande del mio amico. «Siete la ventesima, suppongo.» disse, «Sapete, qua dopo un po' si perde la cognizione del tempo...»
«Generazione?» feci io, «Che generazione siete voi? Da quanto siete qui?»
«Siamo la diciottesima generazione.» rispose l'uomo più alto. «Siamo qui dal... 1975.»disse e mi accorsi, con sommo orrore, che i loro toni di voce erano... piatti. Nessuna sfumatura nell'intonazione. Come i loro sguardi: vuoti, vacui. Avevano la stessa espressione di chi è vuoto dentro. Mi spaventai e mi aggrappai al braccio di Damon.
«Siete qui... da quasi quarant'anni?» domandò Samuel e ingoiò il groppo che aveva in gola, «E... non siete cambiati.»
«No.» rispose uno di loro.
«Perché siete qui?» ripeté Leo. «Come si torna indietro?»
«Mio fratello morì un giorno prima dell'inizio della settimana del rito nel settantacinque. Non ho potuto partecipare al funerale.» spiegò l'uomo più basso — era più piccolo della donna di una decina di centimetri — e il suo tono di voce mi mise i brividi: suo fratello era morto e in lui non c'era nessuna traccia d'emozione al ricordo. «La mia famiglia mi odiava, così mi sono suicidato.»
Mi sconvolsi, a quella rivelazione: credevo che noi guardiani non potessimo ucciderci. Era semplicemente impossibile, potevamo tentare qualsiasi cosa ma saremmo sopravvissuti.
«Suicidio?» squittì Leo, «Come...»
«Ho bevuto tanto alcol, ho mandato giù sonniferi con l'antigelo e topicida, mi sono tagliato i polsi, ho riempito le tasche con dei sassi e mi sono buttato in acqua e ho nuotato fino a una nave e mi sono messo sotto le eliche, alla fine ha funzionato.»
Nascosi la faccia contro il petto di Damon e lui mi abbracciò.
«Per questo siamo stati puniti e mandati qui.» disse la donna.
«E non si può tornare indietro se Lei non vuole.» disse l'uomo alto. «Siete bloccati qui, per sempre.»
Mi girò la testa e pensai che non volevo rimanere lì, bloccata in tutto quel bianco, non volevo diventare grigia e priva di sentimenti. Non volevo diventare un guscio vuoto.
Urlai.

✫✫✫

Eravamo in un angolo, lontani dagli altri e avevamo mangiucchiato qualcosa. Eravamo stanchi, incazzati, con la voglia di tornare a casa e la consapevolezza che non potevamo farlo.
«Darei fuoco a 'sto posto di merda.» esclamò Adam.
«Provaci.» gli disse Leo.
«Eh?» feci io, sorpresa.
«Bhe,» il mio Pasticcino mi guardò, «se le sue mani prendono fuoco magari, se si concentra, riesce a dare fuoco a qualcosa.» spiegò, «E Damon ha fermato il tornado... magari può fare qualcosa anche lui.»
Mi morsi le labbra mentre pensavo freneticamente, stavo per parlare quando Adam si alzò.
«Ci provo.» disse, chiuse gli occhi e in un attimo le sue mani tornarono a bruciare e lui le posò contro il muro. Il fuoco si espanse sul muro, muovendosi come se stesse danzando. Adam fece un passò indietro e il fuoco rimase lì, muovendosi sul muro.
Rimanemmo in attesa, guardando il fuoco che sembrava non creare nessun danno al muro. «Merda!» gridò Adam e colpì il muro con un pugno, con così tanta forza che quello si crepò.
«Adam!» gridò Samuel, «Spostati!» urlò un attimo prima che un buco si formasse nel muro. Il fuoco venne risucchiato e poi ci fu una fiammata che Adam evitò solo perché Samuel e Leo lo afferrarono per le gambe, facendolo cadere all'indietro.
Il muro esplose, mandando pezzi di mattoni — bianchi — in giro.
Quando la polvere si diradò guardammo dall'altra parte.
C'era un prato verde. Ci avvicinammo piano, a piccoli passi.
Era un'enorme distesa di fili verdi, mi chinai e ne toccai un paio, era erba vera.
«Venite?» domandò Samuel all'altro gruppo che si era avvicinato al buco nel muro.
Loro scossero la testa. «Stiamo bene qui.» disse la donna. «Quel colore ci spaventa.» aggiunse e si voltò, allontanandosi, seguita da tutti gli altri.
Noi riprendemmo a camminare, schiacciando l'erba, andando sempre dritti, verso un grosso salice.
Mi chiese come del verde potesse spaventare. Come un semplice colore potesse incutere paura.
Non so per quanto tempo camminammo ma alla fine giungemmo al salice. Ci sedemmo per riposare e io mi accucciai contro il corpo di Damon. Incominciavo ad avere freddo, ero ancora bagnata e mi trattenevo dal tremare. Damon, però, lo capì e mi strinse forte, frizionandomi la schiena per scaldarmi, anche se era inutile. Anche lui era completamente bagnato.
Adam risolse la situazione: mi prese il coltellino e tagliò alcuni rametti, recuperò alcuni sassi e riuscì ad accendere un falò.
In breve riuscimmo a scaldarci, anche perché il fuoco si manteneva senza che dovessimo ravvivarlo con la legna.
«Secondo voi,» esordì Samuel «perché quelli erano grigi?»
«Forse se stai qui quasi quarant'anni ti ingrigisci tutto.» rispose Damon e giocò con i miei capelli, tolse l'elastico dal mio polso, — non mi ricordai neppure di averlo — e mi legò i capelli in una treccia un po' storta.
«L'avete notato che quando quello parlava del suo suicidio sembrava che stesse leggendo la lista della spesa?» fece Adam.
«Sì.» risposi, «Era davvero inquietante.»
«Già.» fece Samuel e il silenzio calò su di noi.
«Cosa facciamo?» domandò dopo un po' Leo. «Non voglio stare qui.» sospirò.
«Ci sarà un modo di tornare indietro.» sospirò Samuel. «Insomma... se Lei può farlo perché noi no?» disse, «Senza di noi lei sarebbe... inutile.»
Non ero molto convinta di quella teoria, così rimasi in silenzio godendomi il calore delle fiamme.
«Possiamo provarci.» annuì Adam. «Se ci concentriamo, tutti insieme... magari torniamo a casa?»
«E dove?» sospirai, «L'appartamento è distrutto.»
«Magari evitiamo di finire in salotto.» ribatte lui, «Magari davanti al palazzo, no?»
«Va bene.» dissi. Qualunque cosa pur di tornare a casa e finire tutta quella storia.
Ci mettemmo in circolo attorno a fuoco. Alla mia sinistra Leo, alla mia destra Damon, poi Samuel e Adam.
Chiusi gli occhi.
«Ho fermato il tempo!» gridai aprendo gli occhi.
«Cosa?» fece Adam.
«Sì, sì.» dissi. «Quando sono tornata a casa dopo il terremoto, la mia macchina era intera e così anche la mia casa, come se la scossa non le avesse toccate...»
«Cosa?» fece Samuel.
«Bhe, sì.» scrollai le spalle e sospirai. «Tutto il resto era a pezzi le mie cose no.» dissi, «Comunque quando sono arrivata a casa c'era un pompiere che mi ha detto di non entrare, ma quando sono entrata lui è rimasto fuori... non avrebbe dovuto prendermi per i capelli?» aggiunsi. «Ho avuto tutto il tempo di svuotare casa e di portare le mie cose in macchina.»
«E avevi tanta roba.» commentò Adam.
«Esatto.» dissi. «Il pompiere era ancora lì, quando sono salita in auto dopo aver visto quella stronza.» aggiunsi, «A quel punto si è avvicinato... perché non lo ha fatto anche prima?»
«E tu pensi di aver fermato il tempo?» mi chiese Damon e mi strinse la mano.
Scrollai le spalle. «Non ne sono sicura.» risposi. «Però, ormai...»
«Sarebbe possibile.» disse Adam. «Su, cominciamo.»
Ci concentrammo, e sentii il calore del fuoco avvolgermi, la brezza sollevarmi i capelli, l'odore della pioggia, il profumo della terra smossa...

✫✫✫

«Oh... Cacchio!»
Aprii gli occhi sentendo la voce di Adam. Eravamo sotto al loro palazzo, a meno di due metri dal mio SUV, incredibilmente incolume, ancora lucido com'era una settimana prima, quando lo avevo fatto lavare.
«Ce l'abbiamo fatta!» esultò Leo balzando in piedi.
«Forse no.» la voce di Samuel tremò, mentre pronunciava quelle parole. Lo fissammo e vedemmo che indicava un punto in lontananza.
Era Lei, che correva minacciosa verso di noi. «Ma non era così alta!» dissi.
«Si sta ingrandendo!» urlò Damon e io frugai nella mia borsa, alla ricerca della chiave dell'auto. le trovai nell'altra tasca esterna, infilate per metà in un pacchetto di fazzoletti. La strinsi e schiacciai il pulsante per sbloccare le portiere.
«Presto!» urlai, mentre le grida di Madre Natura e i suoi passi si avvicinavano sempre di più, «In macchina!» spalancai la portiera e mi sedetti al posto di guida. Damon salì al mio fianco; Adam, Samuel e Leo si strinsero sul sedile posteriore.
Infilai la chiave nell'accensione e girai e la macchina non partì. «Vai, muoviti!» esclamò Adam.
«Ci sto provando!» ribattei e sorrisi quando sentii il rumore familiare del motore.
Leo urlò e guardai nello specchietto retrovisore. Lei era lì.
«Perché mi fate questo?» uggiolò, «Perché?» gridò, «Vi punirò!»
Ingranai la retro e partii. Il SUV fece uno scatto e balzò indietro, travolgendola.
«L'hai investita, di nuovo.» squittì Samuel.
«Se mi ha rovinato l'auto la strozzo.» replicai e misi la prima, poi avanzai, premendo il pedale dell'acceleratore. Vedi, dallo specchietto retrovisore, Leo che si girava sul sedile.
«Sembra morta.» commentò.
«Magari lo fosse.» sospirò Damon e posò la mia borsa sul pavimento dell'auto, tenendo la cinghia della tracolla fra le mani.
«Porca...»
La bestemmia di Leo venne soffocata dal mio urlo. Lei era davanti a noi, e sembrava... più alta, più grossa. Lanciò un urlo animalesco che fece tremare i vetri del SUV.
«Accelera!» gridò Adam, «Spingi giù quel cazzo di pedale!» ordinò e io eseguii: spinsi a fondo il pedali, scalai la marcia, e il motore sembrò ruggire mentre il contachilometri sfiorava le centotrentacinque miglia. In un attimo le arrivammo davanti mentre continuava a urlare e piangere e gridare che doveva punirci, che eravamo degli ingrati, che eravamo i suoi figli...
Spalancò gli occhi quando capì che non mi sarei fermata, la sua bocca si spalancò, quando le fui davanti e lanciò un grido che mi sembrò un latrato quando la investii, di nuovo. Tre volte in un giorno.
Andai avanti e sterzai bruscamente quando sulla strada si presentò una casetta di legno, una di quelle che si usano in giardino per tenerci gli attrezzi.
Con la parte posteriore dell'auto colpii un'altra auto ma non ci badai.
«Dio, Tabitha, ti ha mai detto nessuno che hai una guida pericola?» strillò Samuel quando sterzai di nuovo per evitare un cornicione.
«Se vuoi rispetto i limiti di velocità.» gli dissi.
«Che cazzo...» fece Damon, «Non t'azzardare a rallentare!» gridò guardando nello specchietto laterale. Mi bastò guardare un secondo nello specchietto retrovisore per capire che non avrei rallentato per nessuna ragione.
Lei era ancora dietro di noi.
Andai avanti, diretta verso la rampa dell'autostrada.
«Ma dove cazzo è andata?» esclamò Adam e un attimo dopo Lei apparve in auto, seduta su Damon che urlava e strillava e cercava di spingerla via.
Intravidi Adam allungarsi — era seduto in mezzo agli altri due — e mollarle un ceffone che la fece arrabbiare ancore di più.
Afferrai la bomboletta spray al peperoncino. «Copritevi gli occhi!» esclamai e poi spruzzai verso di lei e andai avanti fino a quando lei non agitò una mano e mi colpì il polso, facendomi perdere la presa sulla bomboletta.
«Tabitha!» strillò Leo e guardai la strada: in mezzo alle due carreggiate c'era una barca. Sterzai bruscamente a destra, passai su un prato, presi in pieno una fontana e tornai sulla strada.
Adam, Leo, Samuel e Damon colpivano Madre Natura con pugni, sberle, pizzicotti ma lei rimase lì, ad urlare che eravamo ingrati e che doveva punirci e non potevamo aver fatto una cosa del genere.
Infilai di nuovo la mano nella tasca della portiera e mi ritrovai a pregare che fosse ancora lì. Le mie dita tastarono un oggetto lungo una decina di centimetri, a forma cilindrica. Sfiorai il legno lucido e il bottoncino. «Leo.» chiamai e tastai il suo braccio — era seduto dietro di me e si teneva aggrappato al mio sedile con il braccio sinistro — con il polso. «Prendi.» gli dissi. «Al mio tre.» aggiunsi. Lui mi sentì, prese il coltello serramanico e mi sussurrò che aveva capito.
«Uno...» svoltai a destra, in maniera brusca, «Due...» mi preparai e scalai la marcia e spostai il piedi sul freno. «Tre!» gridai e franai di colpo. Il SUV inchiodò di colpo e Lei sbatté la testa contro il cruscotto e Leo fece scattare la lama e la colpì sulla pancia, sul seno, sulle braccia. Adam recuperò il coltellino svizzero, fece scattare la lama e la colpì anche lui.
«Vi punirò!» gridò Lei, «Sono vostra madre, non potete farmi questo! Vi punirò, vi ucciderò!»
Mi spaventai e gridai quando sentii una portiera sbattere ma era solo Samuel che era sceso. Aprì la portiera di Damon, «Scendi.» gli disse.
«Sono bloccato.» replicò Damon, «Non riesco a slacciare la cintura.»
Allora scesi io, mentre Adam e Leo continuavano a colpire Madre Natura, allargando le ferite che si rimarginavano in un battito di ciglia. Samuel mi raggiunse, l'afferrammo e iniziammo a tirare, mentre Damon la spingeva verso di noi. Anche Leo venne in nostro aiuto e, finalmente, riuscimmo a farla cadere fuori dal SUV. Mi appoggiai all'auto mentre Samuel e Leo spingevano Lei lontano da noi. Mi sentivo sudata e pronta per una bella broncopolmonite. I miei abiti erano ancora umidi e li sentivo appiccicati alla pelle. Rabbrividii.
«È morta?» domandò Adam mentre rientravo in macchina.
«No.» fece Leo e anche lui e Samuel risalirono.
«Dove andiamo?» domandai.
Rimanemmo in silenzio e guardammo Lei che si rotolava sull'asfalto, piangendo e mormorando parole che non capivamo.
«Muoviamoci.» sospirò Adam, «Leviamoci dalle scatole.» disse e sternutì.
«Guarda lì.» dissi a Damon e gli indicai il portaoggetti del cruscotto, «Dovrebbero esserci dei fazzoletti.»
Lui aprì lo sportello, prese il pacchetto e lo diede ad Adam. «Come mai hai un coltello a serramanico in macchina?» chiese Leo, «Ehm... se non sbaglio è vietato dalla legge.»
«Questo lo so.» ribattei e girai la chiave. Il motore sussultò un paio di volte e si avviò. «C'è stato un periodo, alcuni mesi fa, dove ti aggredivano appena scendevi o salivi dall'auto.» spiegai e voltai a destra, «Insomma, la bomboletta spray al peperoncino a qualcosa può servire... ma mi sentivo più sicura con il coltello.» aggiunsi. «E comunque è servito, no?»
Accelerai e rimanemmo in silenzio per qualche minuto, fino a quando Samuel non parlò, «Non hai qualche coperta, asciugamano o qualcosa del genere?» domandò, «Ho i vestiti ghiacciati.»
«No, mi dispiace.» risposi. «Le mie roba era tutta nelle vostre case.» sospirai, «Ma credo che quello sia molto meglio.» aggiunsi e indicai l'insegna pericolante di un negozio di abiti.
«Credo che sia furto, sai?» ribatté lui.
«Allora tieniti i vestiti bagnati.» fece Leo, «Fermati, Tabitha.»
Mi fermai poco lontano dall'insegna ed entrammo nel negozio: i vestiti erano sparpagliati per terra, i manichini uno sopra l'altro, in un groviglio di braccia e gambe di plastica. Afferrai un paio di jeans, una maglietta a maniche corte e una felpa con la cerniera e il cappuccio. Passai nel reparto intimo e presi la biancheria e anche un paio di calzini di spugna. Mi cambiai in uno dei camerini, infilai gli abiti bagnati in un sacchetto di plastica e aspettai gli altri.
«Lo avete notato anche voi?» domandò Damon uscendo da uno dei camerini e pensai che fosse ancora più bello con quella felpa blu scuro che risaltava i suoi occhi.
«Cosa?» domandò Adam, sistemandosi la cintura.
«Che non c'è in giro nessuno.» rispose Damon, «Niente persone, niente soccorsi e niente morti.» aggiunse.
Sobbalzai pensando che aveva ragione, non avevamo visto nessuno, né vivo né morto.
Samuel e Leo uscirono dai loro camerini e il mio Pasticcino fece per dire qualcosa ma fu preceduto dall'urlo.
Era Lei.
Ci guardammo per mezzo secondo, forse, poi corremmo verso l'auto, entrammo e avviai il motore, partimmo mentre Lei correva dietro di noi, diventando sempre più grande, sempre più alta, sempre più grassa.
Svoltai a destra, seguendo le indicazioni per l'autostrada.
«Non è più dietro di noi.» commentò Samuel.
Esatto. Infatti era davanti a noi.
Sterzai ma lo spazio era poco, così fui costretta a sfiorarla sul lato sinistro. Lei gridò ancora e agitò le mani, colpendo la carrozzeria. Il SUV sbandò e per un paio di metri avanzò solo sulle ruote di destra, per poi ritornare in posizione normale con un tonfo.
«Però le sospensioni funzionano, eh?» feci, strinsi più forte il volante e mi dissi che dovevo stare calma ed evitare di straparlare.
«Accelera!» gridò Adam e io lo feci, poi gridammo quando la terra tremò ancora e il pezzo di asfalto si sollevò, facendoci saltare.
La macchina si cappottò e cadde a terra, rotolò un paio di volte e si fermò su un fianco. Sbattei la testa e divenne tutto nero.

   
 
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