Serie TV > Merlin
Segui la storia  |       
Autore: _Pulse_    09/03/2015    3 recensioni
[Dal Capitolo 2]
«Come sta?», gli chiese Alex, rompendo quel silenzio che l’avrebbe fatta diventare matta se sommato all’innocente bellezza degli occhi di Merlino.
«Molto meglio. Ora dorme».
«Bene. Come hai detto che si chiama?».
«Artù».
«E tu e lui… vi conoscete da molto?».
«Da sempre».
Alex sollevò di scatto gli occhi e trovò i suoi luminosi, anche se velati di lacrime. Si chiese se fosse il caso di continuare con quell’interrogatorio o se fosse più opportuno aspettare che fosse Merlino a parlarle di lui. Dopotutto l’aveva soccorso – se non salvato – e l’aveva ospitato a casa sua: qualche informazione in più era un suo diritto, se la meritava.
Ma forse l’unica vera ricompensa che desiderava era proprio quella che Merlino le offrì, prendendole inaspettatamente una mano e stringendola forte tra le sue, facendo sì che i loro occhi si incatenassero.
«Ti sei tuffata nel lago per aiutarlo, vero?».
Genere: Fantasy, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Merlino, Nuovo personaggio, Principe Artù
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Nel futuro
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Buonasera a tutti! :)
Ecco qui la seconda parte del lungo capitolo iniziato la settimana scorsa. Spero vi piaccia e che il passato di Alex sia ancora credibile, come alcune di voi mi hanno gentilmente scritto (thank you soooo much).
Non sono di molte parole questa sera - ho un mal di testa lancinante e del sonno arretrato (il che mi ricorda che dovrei fare gli auguri a tutte le donne qui presenti. Auguriiiii! ^-^) - perciò vi lascio direttamente alla lettura.
Un grazie infinito a chi ha messo la storia tra le preferite, le seguite e le ricordate, a chi ha recensito e a chi legge soltanto. 
Ricordo inoltre che sulla mia pagina Facebook potete trovare tante belle foto trovate qua e là con i personaggi, le ambientazioni e soprattutto le citazioni originali della serie a cui mi sono ispirata per diverse battute. Enjoy ;)

Alla prossima settimana, un bacio!


Vostra,

_Pulse_

 

 

________________________________________________________________

 

 

 

8. …And the fires of the present

 

Merlino sarebbe dovuto tornare al lavoro lunedì, secondo il certificato di malattia che il “suo medico” gli aveva firmato, ma Artù aveva fatto fuoco e fiamme perché tornasse quello stesso sabato, dicendogli che se la sarebbe cavata egregiamente anche da solo. Il mago non ne era così convinto, ma aveva dovuto cedere di fronte alla sua regale insistenza e quella mattina si era presentato alla caffetteria della signora Begum, sorprendendola non poco. Le aveva detto che a furia di aspirine il raffreddore era del tutto scemato e che si era sentito abbastanza in forma da tornare, aggiungendo anche che il lavoro gli era sinceramente mancato. La signora Begum aveva bellamente fatto finta di crederci e senza troppi giri di parole l’aveva spedito a mettersi il grembiule.
Non avrebbe mai nemmeno osato immaginare un migliore “bentornato”.
La signora Begum, infatti, si era dimostrata subito pronta – anche più del solito – a sgridarlo per qualsiasi sua mancanza e a cacciarlo in cucina a lavare i piatti ogni volta che lo sorprendeva con le mani in mano dietro il bancone. Ma Merlino era stato raramente con le mani in mano, in realtà: ogni cinque secondi aveva controllato il cellulare, chiedendosi per mezzo di quale innovazione del Ventunesimo secolo il solo ed unico re sarebbe perito per la seconda volta, e fino a quel momento aveva già immaginato tredici, no, quattordici tragici scenari tra cui il peggiore in assoluto, nonché il più splatter, aveva implicato il minipimer.
Verso mezzogiorno aveva implorato la signora Begum perché gli concedesse un quarto d’ora di pausa e questa non aveva trovato un motivo abbastanza valido per non dargli il proprio consenso, visto che di clienti non se ne vedeva nemmeno l’ombra e si prospettava il solito pomeriggio tranquillo. Merlino per ringraziarla l’avrebbe persino baciata – se solo ne avesse avuto il coraggio – e ormai ad un passo da un crollo nervoso era corso sul retro della caffetteria a chiamare Artù.
«Perché diavolo non rispondi, asino!», gridò a mezza voce, picchiando un piede a terra. Quindi, inoltrando una nuova chiamata, iniziò a sussurrare fra sé: «Quando Albione avrà più bisogno, Artù risorgerà… per morire miseramente a causa dell’uso improprio di un elettrodomestico da cucina».
«Che hai detto?».
Merlino sgranò gli occhi sentendo la voce del re dall’altro capo del telefono. «Artù! Artù, grazie a Dio siete vivo!».
«Certo che lo sono! E non urlare, non sono sordo!».
«Ah!». Rise sornione, mentre sentiva la rabbia iniziare a bollirgli nelle vene. «La fate facile voi! Dopotutto non siete voi che avete appena rischiato un infarto! Devo per caso ricordarvi che ho più anni di quelli che dimostro?! Perché non avete risposto subito?».
«Devo aver attivato il silenziatore per sbaglio e non ho idea di come si tolga».
Merlino si prese il setto nasale tra le dita, cercando di mantenere la calma concentrandosi sul perché l’avesse aspettato per più di millequattrocento anni. «Le istruzioni. Dove le avete messe le istruzioni? Lì c’è sicuramente scritto come…».
«Intendi quel libretto scritto in tante lingue?».
«Esatto,  proprio quello».
«L’ho buttato via ieri».
«Che cosa?! Per quale motivo?».
«Perché perdere tempo a leggere se posso chiedere a te o a Lady Alex?».
Il mago iniziava seriamente a pensare che avrebbero dovuto farlo santo per aver sopportato e aver creduto in quella testa di legno non solo per una vita, ma addirittura per due.
«A proposito di Lady Alex, hai cambiato idea o sarò costretto a fartela cambiare con la forza?».
«No. Non le riveleremo il nostro segreto, è fuori discussione».
«Ma perché no?!», domandò lagnosamente il re, per poi sbuffare irritato. «Hai detto che ti fidi di lei, che è l’unica a cui affideresti il nostro segreto… perché non glielo riveli subito e la facciamo finita?».
«Perché non ce n’è bisogno».
«No, fino a quando non ti urlerà contro come l’altra sera, stanca delle tue bugie. E lo sono anche io, Merlino. Non hai fatto altro che mentirmi, da quando ti conosco, e proprio perché so come ci si sente non mentirò ancora a Lady Alex. Se non glielo dirai tu, glielo dirò io».
«No, voi non capite! Non potete –!».
La porta sul retro si aprì di colpo, mostrando una signora Begum con gli occhi fuori dalle orbite e i capelli così scompigliati da far pensare che avesse appena messo due dita nella presa della corrente. Con voce lontana, quasi spiritata, disse: «Il pullman di una scolaresca diretta a Caerleon ha avuto un guasto, la tua pausa è finita».
Merlino sospirò massaggiandosi la fronte con una mano e rivolto ad Artù disse: «Devo tornare al lavoro. Ne riparliamo a casa con calma, d’accordo? A più tardi».
Terminò la chiamata senza nemmeno aspettare di sentire la risposta del re di Camelot, sperando ardentemente che quella giornata finisse presto.
«Tira fuori anche i piatti nuovi, ne avremo bisogno», disse ancora la signora Begum, indicando una scatola di cartone vicino alla piccola lavastoviglie.
Merlino prese il taglierino ed iniziò ad aprire la scatola, quando corrugò la fronte esclamando: «Avete sempre detto che non potevamo permetterci delle nuove stoviglie, come –?». Si interruppe, indovinando la risposta semplicemente dall’espressione eloquente della signora Begum; quindi sospirò mestamente: «Mi scalerà dallo stipendio il costo dei piatti che ho rotto l’ultima volta, chiaro».
Quella giornata non sarebbe affatto finita presto, poco ma sicuro.

 

***

 

«Ehi».
Alex sollevò gli occhi dalle tazze che stava sistemando nel lavello e sorrise quando incrociò quelli azzurri di Merlino, appoggiato allo stipite della porta della cucina.
«Ehi, ciao. Siamo crollati ieri notte, eh?».
Merlino annuì, avvicinandosi a lei per prendere una tazza pulita dalla credenza. Si chinò sul suo orecchio e a bassa voce, indicando con un cenno del capo Artù, seduto sulla veranda che dava sul giardino sul retro, disse: «Grazie per…».
«Ma figurati», lo interruppe sorridendo. «Caffè?».
«Sì, grazie. Un momento… l’ha fatto Artù?».
Alex arricciò le labbra, trattenendo una risata. «No, l’ho fatto io. È il classico tipo che non ammetterebbe mai di essere in difficoltà, non è così?».
«Oh sì, Artù è proprio così: orgoglioso, testardo, presuntuoso… ma ti posso
assicurare che si getterebbe nel fuoco pur di salvare le persone a cui tiene, senza pensarci su due volte. Vi assomigliate molto, lo sai?».
«Non so se prenderlo come un complimento o un’offesa».
Merlino rise e lasciò che Alex gli versasse un po’ di caffè nella tazza, poi se la portò alle labbra.
«Che cos’avete in programma per oggi?», gli chiese, appoggiandosi con la schiena al ripiano della cucina, al suo fianco.
Il moro si strinse il collo tra le spalle, scuotendo il capo. «Non ne ho idea. Tu, invece?».
«Devo fare i mestieri e ho una caterva di roba da stirare… Farò la serva», borbottò e con la coda dell’occhio scoprì Merlino intento a mordersi un sorriso divertito. «Vuoi fare cambio? Sto io qui a badare ad Artù, se preferisci».
«Ah, peggioreresti soltanto la tua situazione, credimi. Piuttosto…».
Alex lo guardò, in attesa che finisse la frase. «Cosa?», lo incalzò, iniziando a sentirsi sulle spine.
«Penso che dovresti parlare con tuo padre… perdonarlo». Merlino fissò gli occhi nei suoi, increduli e leggermente intimoriti, e le posò una mano sulla spalla. «Sono passati sei anni, Alex. Sei anni in cui non avrà fatto altro che pentirsi del suo errore e sentire la tua mancanza».
«È più complicato di così…», mormorò sfuggendo al suo sguardo, ma il moro le prese il mento tra le dita per recuperare il contatto visivo. Sorrideva, ma era il sorriso più malinconico che Alex gli avesse mai visto dipinto sulle labbra.
«No, invece. Tu non sei più una ragazzina, saresti in grado di stargli accanto questa volta, di aiutarlo, e lui è pur sempre tuo padre, ti vuole bene».
«Se mi avesse voluto bene non mi avrebbe usata in quel modo».
Merlino sospirò e socchiuse gli occhi, come a voler spazzare via ricordi troppo lontani e troppo dolorosi. Quando li riaprì sembravano di ghiaccio, freddi e taglienti.
«Qualsiasi errore abbia commesso, qualsiasi sofferenza ti abbia causato… devi trovare la forza nel tuo cuore di perdonarlo, altrimenti te ne pentirai per tutta la vita. Io avrei dato di tutto, darei ancora di tutto, per avere un giorno in più, uno solo, da poter spendere con mio padre. Tu invece hai già buttato via sei anni».
Alex aprì la bocca per ribattere, anche se non aveva la minima idea di che cosa dire di fronte a quegli occhi intrisi di antica rabbia e dolore, ma Artù fece scorrere la porta finestra alle loro spalle, interrompendoli. Quando si accorse di avere gli occhi di entrambi puntati addosso si scusò e fece per tornare in giardino, ma Merlino gli sorrise, dicendogli che non c’era problema. Il biondo allora attraversò la cucina e salì le scale di corsa, lasciandoli di nuovo soli.
«Mi dispiace per tuo padre», disse Alex ad un tratto, realizzando che, forse senza nemmeno rendersene conto, le aveva parlato per la prima volta della sua famiglia.
«È morto ancor prima che potessi conoscerlo», le rivelò ancora, sorprendendola. «Ho vissuto tutta la mia vita senza sapere chi fosse e quando finalmente sono riuscito a trovarlo… mi è stato portato via».
«Mi dispiace davvero tanto».
Merlino le rivolse un piccolo sorriso e le massaggiò le braccia. «Promettimi che ci penserai».
Alex annuì e lo abbracciò stretto, col viso immerso nella sua felpa. Lo sentì irrigidirsi, ma solo per un momento.

 
«Alex?».
L’infermiera si voltò verso Abigail, stesa nel suo letto, più pallida e debole del solito.
«È quasi finito, tranquilla», la rassicurò, controllando il liquido trasparente contenuto nella sacca della flebo.
«No, volevo sapere… a cosa stavi pensando. Eri così assorta…».
Alex accennò un sorriso, sedendosi al suo fianco per stringerle una mano fredda tra le sue. «A mio padre. Ha fatto una cosa brutta, sei anni fa, e da allora non ho più voluto vederlo. Mi stavo chiedendo se fosse arrivato il momento di perdonarlo».
«Sei anni sono tanti», mormorò Abigail, con un mezzo sorriso. «Tutti facciamo delle cose brutte, anche se a volte non ce ne rendiamo conto».
«Dici che dovrei metterci una pietra sopra?».
«Non lo so, devi deciderlo tu. Io prima di andarmene vorrei chiudere tutti i miei conti in sospeso».
Alex sorrise e le accarezzò i capelli. «Stai tranquilla, non te ne andrai tanto presto, te l’assicuro».
Anche Abigail sorrise, poi chiuse gli occhi, vinta dalla stanchezza. Alex rimase seduta al suo fianco ancora per un po’, fino a quando non prese la sua decisione.

 

***

 

Quando Alex se n’era andata, la mattina precedente, Artù gli aveva detto chiaro e tondo che aveva sentito quello che lei gli aveva urlato contro in giardino e che lui non si sarebbe opposto se avesse deciso di rivelarle il loro segreto; anzi, lo aveva addirittura invogliato a farlo, facendogli capire che aveva quantomeno intuito la natura del legame che c’era tra loro.
Merlino però era stato irremovibile, anche se non era sceso troppo nei dettagli quando aveva dovuto motivare la sua scelta. Per quanto ne fosse impaurito, forse era arrivato il momento di essere chiaro e dirgli come stavano le cose veramente.
Spinto anche dalla rabbia, accesa all’improvviso dalle parole che gli aveva detto per telefono, quando entrò in casa affrontò subito l’argomento, urlando: «Se dovete levarvi qualche peso dallo stomaco, questo è il momento opportuno!».
Artù, spaparanzato tranquillamente sul divano con una lattina di Coca-Cola in una mano e un pacchetto di patatine al formaggio sulle gambe, lo fissò confuso prima di capire a che cosa si riferisse. Quindi sospirò, stringendo le labbra tra loro. «No, Merlino».
«Strano, ho proprio avuto l’impressione che fosse così!».
«Non avrei dovuto dirti quelle cose, non intendevo riaprire l’argomento».
«Ma l’avete fatto! Significa che avete qualcosa da dire, no?».
Artù lascò giù la Coca-Cola e il sacchetto di patatine per potersi sbattere le mani sulle ginocchia, gli occhi leggermente sgranati. «Vuoi la verità? La verità è che non riesco ancora a capire il motivo per cui tu non mi abbia rivelato prima di essere uno stregone! Pensavo di essermi guadagnato la tua fiducia, come tu ti sei ampliamente guadagnato la mia!».
«Ed è così! Non ho mai smesso di credere in voi, di avere fiducia in voi!».
«E allora…?!».
Merlino gettò la borsa a tracolla accanto al divano, trattenendo a stento un verso frustrato. «Non ci arrivate, vero? Ciò che mi ha impedito di rivelarvi la mia vera natura è stata la paura di non essere più lo stesso Merlino ai vostri occhi; la paura di non essere più accettato da voi, di essere addirittura cacciato. Non volevo che tutto ciò che avevamo costruito andasse perduto. Non avrei mai sopportato di perdere…».
L’ultima parola della frase gli rimase incastrata in gola, a metà strada tra il cuore e l’aria, quando il campanello trillò. Voltò le spalle ad Artù, immobile come una statua, e con due rapide falcate fu di nuovo di fronte alla porta; l’aprì senza nemmeno chiedere chi fosse e boccheggiò incrociando gli occhi verdissimi di Alex, la quale, dondolandosi sui talloni e stringendo la fibbia della borsa a tracolla che aveva sulla spalla, sembrava un po’ nervosa.
Merlino respirò profondamente e si girò verso il re di Camelot, furioso. «Non spettava a te decidere, non questa volta. Ma ovviamente non hai saputo resistere, dico bene?». Artù aprì la bocca per ribattere, ma il mago non gliene diede la possibilità, concentrandosi di nuovo sulla ragazza di fronte a lui, ora confusa oltre che nervosa. «Mi dispiace, Artù ha esagerato. Qualsiasi cosa ti abbia detto, io non devo dirti…».
Alex agitò frettolosamente le mani di fronte al petto, costringendolo a tacere. «Artù non mi ha detto niente, sono venuta qui per conto mio. Ho bisogno di parlarti».
«Ah». Merlino gettò un’occhiata alle sue spalle e vide Artù con le braccia incrociate al petto e le sopracciglia inarcate, in quel modo che ai vecchi tempi preannunciava sempre una bella punizione. «Scusa, pensavo…».
«Pensi troppo, Merlino. Finirai col farti male», rispose, accennando un sorriso obliquo. Lo stregone riconobbe quella frase come un proprio cavallo di battaglia, ma per quella volta gliela concesse volentieri.
Artù salutò Alex con un cenno del capo e disse ancora: «Se avete bisogno di me, mi trovate in camera mia».
«Assicurati di chiudere la finestra, questa volta!», gli gridò dietro Merlino, sotto lo sguardo sempre più disorientato di Alex, alla quale sorrise, invitandola ad entrare.
«Di che si tratta?», le chiese quando fu seduta sul divano, con la borsa stretta tra le braccia.
Alex si mordicchiò il labbro inferiore, deviando il suo sguardo fino a quando Merlino non riuscì a catturarlo prendendole il mento tra due dita.
«Alex, che cosa succede?».
«Ci ho pensato», disse con tono di voce pacato, cercando di controllare il ritmo dei battiti del suo cuore. «Ho deciso di parlare con mio padre».
«Questa è… è la notizia migliore della giornata!», esclamò, davvero contento e anche un po’ soddisfatto del proprio operato. Arricciò il naso, accorgendosi della sua espressione ancora incerta. «Perché non mi sembri contenta?».
«Non so come sto. L’unica cosa che so è che non voglio andare da lui da sola. Ti sto chiedendo molto e forse non dovrei, ma sei l’unica persona che potrebbe… Insomma, mi accompagneresti?».
Merlino sorrise, accarezzandole una ciocca di capelli. «Se ti farà stare più tranquilla, ti accompagnerò volentieri».
Alex alzò di scatto gli occhi nei suoi e il suo volto si illuminò alla comparsa di un piccolo sorriso, carico di commozione. Gli strinse le braccia intorno al collo, ringraziandolo sottovoce, e solo in quel momento il mago si rese conto che Alex non avrebbe avuto solo lui a tenerle compagnia.
Come se gli avesse appena letto nel pensiero l’infermiera gli chiese: «Tu e Artù avete altri programmi per il pomeriggio?».
«No, non credo. Ma se preferisci posso lasciare qui Artù…».
Era un’ipotesi che lo terrorizzava – come lo aveva terrorizzato per tutto il giorno – perciò fu felice quando Alex, dopo essersi gettata un’occhiata intorno, rispose ridacchiando: «E lasciare che diventi esattamente come ogni ragazzo disoccupato del Paese? Non se ne parla».
Merlino lasciò correre lo sguardo sul tappeto sporco di briciole di patatine, sulle lattine vuote di Coca-Cola lasciate sul tavolino accanto al divano, sulla televisione ancora accesa su una partita di calcio, e per un attimo – un attimo soltanto – fu orgoglioso del modo in cui Artù si stava ambientando.
«Adesso mi sente», borbottò, nonostante sapesse perfettamente che alla fin della fiera avrebbe dovuto pulire e sistemare lui tutto quanto: era il suo destino, servire in ogni aspetto, anche quello più umile, quell’imbecille reale.
Alex sorrise e per dimostrare il proprio sostegno gli massaggiò la schiena. Quindi si alzò e si diresse verso la cucina per preparare un po’ di te.
«Merlino?», lo chiamò dalla soglia, leggermente preoccupata.
«Uhm?».
«Puoi venire qui un attimo?».
Il mago la raggiunse e rimase senza fiato di fronte alla sua povera cucina ridotta come quella della signora Begum dopo ore ed ore di lavoro ininterrotto.
«Troppo tardi», mormorò Alex, grattandosi la testa.
«Non lo è per rigettarlo nel lago e guardarlo mentre affoga», rispose Merlino prima di correre verso le scale per salirne i gradini due a due.

 
«Un goblin! È come se un goblin fosse stato liberato nella mia cucina! Come diavolo –?».
Merlino, entrato come una scheggia nella stanza del re di Camelot, si interruppe bruscamente nel bel mezzo della propria sfuriata quando vide Artù di fronte alla finestra, con la fronte solcata da rughe di apprensione e una mano sopra il cuore.
«State male? Sta succedendo di nuovo?».
Il biondo si voltò e dopo un attimo di esitazione espirò ed accennò un sorriso, scrollando il capo. «È passato».
«Siete sicuro? Artù…».
Il re non gli permise di terminare la frase, parlandogli sopra: «Cosa stavi dicendo a proposito di quel goblin?».
«La mia cucina è un completo disastro!», esclamò quando si fu calmato, sospirando esasperato. «Come ci siete riuscito?».
«Non volevo mangiare gli avanzi di ieri sera. Non sarò più il re, ma resto comunque di sangue reale!».
«E così avete provato a cucinare, fallendo miseramente».
«Sono sempre stato negato. Ginevra…». I suoi occhi si velarono all’improvviso della malinconia legata ai ricordi e Merlino pensò a qualcosa da dire per tirarlo su di morale, ma non gli venne in mente nulla di appropriato. In fondo sapeva bene quanto il passato facesse male e quanto fosse difficile porre rimedio alle sue ferite. 
Allora lo distrasse, dicendo: «Alex mi ha chiesto di accompagnarla da suo padre. Venite anche voi».
Più che una domanda era stata posta come un’affermazione, perciò Artù si voltò con un sopracciglio inarcato e chiese: «E se non ne avessi voglia?».
Merlino sogghignò sotto lo sguardo ora indagatore del re di Camelot. «Vedrete, vi piacerà».

 

***

 

Alex aveva cercato di pensare ad altro mentre guidava verso l’agriturismo in cui lavorava e viveva suo padre, nel bel mezzo del nulla a metà strada tra il loro minuscolo paesino e Caerleon.
Aveva seguito pezzi della conversazione tra Artù e Merlino, la quale ben presto si era trasformata in una discussione vera e propria: il moro aveva provato a spiegare al biondo che al più presto avrebbe dovuto trovarsi un lavoro, ma quest’ultimo si era fermamente opposto sin dall’inizio, affermando semplicemente che non era lì per costruirsi una vita.
Alex non aveva colto il senso di quella frase e aveva guardato Merlino con la coda dell’occhio, trovandolo pallido e con il labbro inferiore stretto tra i denti, mentre i suoi occhi venivano attraversati da un bagliore di rabbia. In ogni caso la sua mente non le aveva permesso di rimuginarci sopra a lungo, costringendola invece ad immaginarsi i mille e più scenari che avrebbero potuto verificarsi una volta di fronte a suo padre.
Più attraversavano la campagna gallese, sotto quel cielo ricoperto di nuvole grigiastre dietro le quali il sole era solamente una sfera di pallida luce bianca, più il nervosismo le attanagliava lo stomaco, facendole maledire il momento in cui aveva preso quella folle decisione.
Le parole di Merlino avevano di certo sortito il loro effetto, tanto da convincerla che parlare con suo padre era la cosa migliore da fare, ma forse non ci aveva ragionato su abbastanza: il padre di Merlino era sicuramente una persona migliore rispetto al suo – o forse no, visto che da quello che le aveva raccontato non aveva avuto l’opportunità di conoscerlo a fondo – e lei non poteva rompere quel silenzio che durava da ormai sei anni solo perché lui non aveva avuto abbastanza tempo da spendere con il suo genitore. A dire il vero Alex in quel momento avrebbe fatto carte false per trovarsi al suo posto: avrebbe preferito essere orfana di padre, piuttosto che trovarsi in quella situazione.
Forse Merlino però ci aveva preso giusto, quando aveva detto che lei e Artù si assomigliavano: il suo orgoglio le impediva di fare inversione ad U e tornare indietro, ammettendo pubblicamente di non avere il coraggio di affrontare suo padre.
«Manca ancora molto?», domandò ad un tratto Artù, rompendo il silenzio.
«No, l’agriturismo è laggiù», rispose Alex, indicando, ad ormai pochi chilometri di distanza, un grande edificio di mattoni a vista, circondato da campi coltivati e vigneti.
Merlino si voltò verso i sedili posteriori e anche Alex gettò uno sguardo al biondo attraverso lo specchietto retrovisore: sembrava avere la luna storta, come la maggior parte del tempo, ma il pallore del suo viso e la sofferenza nei suoi occhi raccontavano anche qualcos’altro.
Alex aprì un po’ il finestrino e non appena l’aria fresca ed impregnata dell’odore della campagna lo colpì, arruffandogli i capelli sulla fronte, Artù parve rianimarsi, ricambiando il suo sguardo e rimanendo impassibile nonostante avesse notato il leggero sorriso che le aleggiava sulle labbra.
Dieci minuti dopo avevano già lasciato l’auto nel parcheggio – se così si poteva chiamare quello spiazzo quadrangolare pieno di buche da cui, a causa del forte vento che si era alzato nelle ultime ore, si sollevava così tanta polvere che le loro scarpe ne assunsero ben presto il colore chiaro – e si dirigevano verso l’entrata dell’agriturismo.
Avevano quasi raggiunto le scale in pietra che portavano alla piccola veranda riparata da un tetto spiovente, massicce travi di legno e tre spigolosi pilastri in mattoni, quando Artù l’affiancò e senza farsi sentire da Merlino, qualche passo davanti a loro, le disse: «Perché non hai detto niente? Avresti potuto…».
«Prenderti in giro perché soffri il mal d’auto?». Alex si strinse le braccia al petto, arricciando le labbra in un sorriso divertito. «Il tuo orgoglio ne avrebbe sicuramente risentito, ma so come ci si sente – anche io da piccola stavo male durante i lunghi tragitti – perciò non ho infierito».
«Beh… me ne ricorderò».
L’infermiera osservò quegli occhi blu seri e pieni di rispetto, come se avessero appena colto qualcosa di importante e di onorevole in lei, e si sentì sia lusingata che imbarazzata. Gli diede una pacca sul braccio per stemperare la tensione e sempre a bassa voce, poco prima che Merlino si voltasse per chiedere loro di che cosa stessero confabulando, disse: «Al ritorno farò in modo che tu sieda davanti».
Quindi sorrise e con una corsetta raggiunse Merlino sotto la veranda per entrare per prima nella piccola e semplicissima, ma accogliente, reception: un angolo con un alto bancone di legno scuro su cui spiccavano due stupendi vasi di fiori freschi e diverse brochure, un appendiabiti, un portaombrelli e alle pareti diverse fotografie d’epoca che immortalavano la campagna, degli animali da fattoria, soprattutto cavalli, e dei contadini. Alla sinistra del bancone iniziava la scalinata che portava al piano superiore, quello delle camere e dei bagni; seguendo il corridoio, invece, si arrivava all’area comune che altro non era che un ampio salotto ben arredato in stile rustico, con un grande camino dalle fiamme già scoppiettanti, diverse poltrone posizionate intorno ai tavolini bassi, una televisione e una biblioteca ben fornita che occupava praticamente tutta la parete est.
«Buonasera, posso esservi utile?».
Alex sorrise alla giovane ragazza dietro il bancone e non senza un po’ di nervosismo si presentò: «Mi chiamo Alexandra Greenwood, sono la figlia di Edwin».
La ragazza, dagli occhi scuri e i capelli castani, non fece in tempo ad aprire bocca che la voce roca di un uomo li raggiunse ancor prima della sua figura, nascosta alla loro vista grazie all’alto schienale della poltrona posta proprio davanti al camino: «Lo sapevo che questo giorno prima o poi sarebbe arrivato».
Alex, Merlino e Artù fecero un passo verso il salotto e l’uomo si alzò, lasciando il quotidiano spiegazzato sulla poltrona e sistemandosi gli occhiali sul naso. Sulla cinquantina, con corti capelli brizzolati e un accenno di barba sulle guance, Alex era sicura di non averlo mai visto in vita sua.
«Ci conosciamo?», gli chiese.
L’uomo sorrise bonario, porgendole la mano. «Il mio nome è Abraham Morris, sono il proprietario di questo agriturismo. Avete già conosciuto mia figlia, Rebecca», indicò la ragazza dietro il bancone della reception e lei accennò un timido sorriso, molto diverso da quello del padre, anche se di suo aveva preso sicuramente il colore degli occhi.
«Io e tuo padre siamo amici di vecchia data, abbiamo frequentato persino lo stesso college da giovani. Ora come ora, penso di essere l’unico amico che gli è rimasto».
«Quindi lei sa perché sono qui», disse atona, lo sguardo fisso sul suo viso rubicondo.
Il signor Morris nascose il collo tra le spalle, scrollando un poco il capo. «Edwin dice di essersi messo il cuore in pace, ma io lo so che l’unica cosa che lo fa andare avanti è il pensiero che un giorno riuscirai a perdonarlo. Se non sei venuta qui per questo, allora faresti meglio a tornare a casa».
Alex, presa in contropiede da quel suggerimento e dall’espressione ora tutt’altro che amichevole sul volto di Abraham, non riuscì a trovare le parole adatte con cui rispondere. Fu Merlino a correre in suo aiuto, anticipando solo di qualche istante Artù, il quale si era messo un passo davanti a lei come a volerla proteggere.
«Alex è qui per vedere suo padre, non può negarglielo, né minacciarla come ha appena fatto», esclamò il moro, coi pugni stretti lungo i fianchi e gli occhi che lanciavano saette.
L’uomo scoppiò in una grassa risata, per poi rispondere: «La mia non era una minaccia, solo un consiglio». Quindi tornò a fissare gli occhi in quelli di Alex, così severi che le fu impossibile non rimanerne impressionata, e aggiunse: «Penso solo che una figlia che rinnega il proprio padre per sei anni e che poi chiede il suo aiuto, solo perché non ha nessun altro, sia una bella ipocrita».
L’infermiera sentì il sangue andarle al cervello e ancor prima di poter realizzare le conseguenze delle proprie azioni lo schiaffeggiò.
«Lei non sa niente!», gridò, fuori di sé. «Non può parlare, non può giudicarmi!».
Abraham la guardò sbalordito mentre Merlino, piazzato di fronte a lei, tentava di farla smettere di urlare. Ad un tratto, scesa dal piano di sopra a causa del baccano che stavano facendo, anche la signora Morris si unì alla mischia. Gridò ai tre ragazzi di andarsene, senza voler sentire ragione alcuna, e a quel punto fu Artù a prendere in mano la situazione: si caricò semplicemente Alex sulla spalla, convergendo su di sé tutti gli improperi che altrimenti avrebbe gettato addosso al proprietario dell’agriturismo, e nonostante si divincolasse con tutte le sue forze riuscì a portarla fuori. La lasciò andare solo quando furono di nuovo nel parcheggio e la prima cosa che fece quando i suoi piedi toccarono di nuovo terra fu tempestarlo di pugni sul petto, o almeno ci provò, trovandosi nuovamente bloccata nella sua stretta d’acciaio, il viso ad un palmo dal suo.
«Toglimi le mani di dosso, imbecille», gli sibilò in faccia, trucidandolo con lo sguardo.
«Solo quando avrai finito di dare spettacolo e ti comporterai come una persona matura».
«Senti da che pulpito arriva la predica!».
Sconvolta dalla rabbia e dal grande dolore che sentiva bucarle il petto come una voragine, Alex avrebbe sicuramente detto qualcosa di cui poi sarebbe pentita, perciò fu grata della presenza di Merlino, il quale costrinse Artù a lasciarla andare e la prese per le spalle per guardarla dritta negli occhi.
«Alex, respira. Respira».
Fece come le aveva chiesto e non appena l’aria entrò nei suoi polmoni un singhiozzo le uscì incontrollato dalla gola, tanto forte che fu impossibile nasconderlo, come i suoi occhi che si erano velocemente riempiti di lacrime ardenti.
«Va tutto bene», le sussurrò ed alzò una mano per accarezzarle i capelli, ma Alex si scostò bruscamente, stringendosi le braccia al petto e dandogli le spalle.
«Non sarei mai dovuta venire».
«Ti sbagli».
«No, tu ti sbagli!», urlò, girandosi di scatto per puntargli un dito contro.
Le era perfettamente chiaro ora: tutto il rancore che aveva covato per suo padre in quegli anni… era sempre stato rivolto a se stessa, in modo così deleterio da renderla cieca di fronte all’evidenza.
«Come posso tornare da mio padre dopo sei anni e fare finta che non sia successo nulla? Il signor Morris ci ha visto giusto: sono un’ipocrita. Lui avrà anche sbagliato, più e più volte, ma sono io quella che ha commesso l’errore più grande, rifiutandomi di perdonarlo; il mio orgoglio me l’ha impedito». Tirò su col naso ed accennò un sorriso, ricordando la storia che aveva letto qualche tempo prima ai bambini dell’ospedale. «Non sono pura di cuore come credi tu, Merlino. Nessun unicorno si mostrerebbe ai miei occhi».
Merlino abbassò lo sguardo con le labbra strette in una linea sottile, Artù invece boccheggiò vistosamente, come se avesse appena detto qualcosa di cui non avrebbe dovuto essere a conoscenza. Ancora una volta non poté chiedere spiegazioni, distratta dalla signora Morris.
«Ragazzi!», li chiamò, correndo giù dalle scale in pietra con così tanta foga che l’infermiera temette per un attimo di doverla accompagnare al pronto soccorso. Quando fu sana e salva sul sentiero che portava al parcheggio Alex se ne dimenticò completamente e gettò la borsa a terra, sollevando una nuvola di polvere, per accovacciarcisi sopra e cercare le chiavi dell’auto, borbottando ad alta voce: «Sì, sì, ce ne stiamo andando!».
«No, non dovete!», esclamò, chinandosi davanti ad Alex per prenderle delicatamente le mani ed invitarla ad alzarsi. «Mia figlia mi ha raccontato quello che è successo e mi dispiace davvero tanto. Abraham a volte esagera, specialmente quando si parla di Edwin: è il suo migliore amico e si è angosciato molto quando ha saputo che vi siete visti».
Alex sentì un brivido correrle lungo la schiena. «Angosciato? E per quale motivo?».
La donna sospirò e gettando uno sguardo anche a Merlino e ad Artù disse pacatamente: «Venite, vi offro una tazza di tè».

 
«All’epoca tuo padre abitava già nella piccola dependance dietro le stalle, pranzava e cenava con noi, proprio come uno di famiglia, perciò abbiamo potuto constatare di persona quanto fosse stato distrutto dalla morte di tua madre. Ricordo come se fosse ieri che quella sera, dopo il funerale, tornò a casa ubriaco, piangendo e ripetendo il tuo nome e quello della tua povera mamma».
La signora Morris si fece un rapido segno della croce, guardando il soffitto, ma Alex continuò a fissare il tavolo, immersa nei ricordi: anche lei quella sera si era data all’alcool, ma al contrario di suo padre aveva trovato delle braccia pronte a sostenerla, quelle di Keith, il quale si era preso cura di lei come se davvero gli fosse importato qualcosa, sussurrandole parole di conforto e sostenendole la fronte quando si era ritrovata in ginocchio di fronte al water, con le collant nere strappate e il trucco che le colava sulle guance a causa delle lacrime.
«Abraham ed io abbiamo fatto tutto quello che potevamo per lui, cercando di non fargli mancare nulla e dimostrandogli ogni giorno il nostro sostegno, il nostro affetto. Quando sembrava che si stesse riprendendo – era tornato a lavorare, sorrideva ai bambini come aveva sempre fatto – fu allora che crollò definitivamente. Fu Abraham a trovarlo, insospettito dal fatto che quella mattina non avesse iniziato presto a prendersi cura dei cavalli. Aveva ingerito una dose massiccia di sonniferi, ma fortunatamente i soccorsi sono arrivati in tempo e i medici sono riusciti a salvarlo. Aveva anche lasciato un biglietto, ma Abraham non mi ha mai voluto dire che cosa ci fosse scritto: l’ha bruciato proprio là, nel camino».
Solo allora Alex alzò il capo, rivolgendolo verso la porta aperta da cui si intravedeva uno scorcio del salotto. E solo allora si rese conto di essere rimasta sola con la signora Morris nella grande cucina che faceva da sala colazione per gli ospiti dell’agriturismo, con una tazza di tè ormai tiepido, intoccato, e un piatto di biscotti fatti in casa davanti al naso.
«Dove sono Merlino e Artù?», chiese con voce lontana, così spiritata che stentò a riconoscerla come la propria.
La signora Morris le posò le mani solcate di rughe sulle sue, accarezzandole delicatamente con il pollice, e le rivolse uno sguardo carico di apprensione. «Li hai mandati via circa dieci minuti fa, tesoro».
Alex annuì con un breve cenno del capo, fingendo di ricordarselo.
Per quanto disperato fosse il bisogno di stringere forte la mano di Merlino, di trovare conforto e tranquillità nei suoi dolci occhi azzurri, pensò che nello sconvolgimento avesse fatto qualcosa di positivo: non avrebbe mai sopportato di vedersi così debole e fragile riflessa nel suo sguardo, né avrebbe mai voluto lasciargli capire che in fondo aveva e aveva sempre avuto bisogno di protezione e di qualcuno a cui aggrapparsi.

 

***

 

«Non dovremmo allontanarci troppo, Alex potrebbe…».
Artù si voltò e senza smettere di camminare, diretto verso le stalle, gli rivolse un’occhiata obliqua. «Alex è più forte di quello che sembra, sa cavarsela da sola. E poi credo che abbia bisogno di un po’ di tempo per poter perdonare se stessa».
«Perdonare… se stessa?». Merlino si fermò qualche passo dietro di lui, profondamente colpito da quanto a volte le loro menti fossero in sintonia.
Da quando Alex si era concessa quello sfogo il mago non aveva fatto altro che pensare a quanto le loro situazioni fossero simili, per quanto diverse. Tutto quello che aveva detto ad Artù quella mattina, sul fatto che non fosse riuscito a confessargli prima di possedere la magia perché aveva paura di non essere più visto lo stesso Merlino di sempre e di perdere la sua amicizia era vero, ma c’era anche un altro motivo, qualcosa di così profondo che il solo pensiero gli faceva tremare le ginocchia ma che lo avrebbe dilaniato, se avesse continuato a tenerselo dentro.
«Ma come faceva a sapere dell’unicorno?», chiese Artù ad un tratto, fermandosi nel bel mezzo del sentiero.
Merlino sbatté più volte le palpebre e quando capì a che cosa si riferiva si portò una mano sulla nuca, imbarazzato. «Io, ecco… Nel corso degli anni ho fatto di tutto per non dimenticare e una cosa che mi ha aiutato molto è stato scrivere».
«Tu hai scritto… di me? Di noi?».
La sua espressione innervosita, perfetta per celare l’imbarazzo, gli fece abbassare lo sguardo e calciare un paio di sassolini con le sue All Star rosse ora sporche di polvere. «Di voi, dei Cavalieri della Tavola Rotonda, di Gaius… Ho scritto tutto quanto. È stata l’unica cosa che ha saputo darmi un po’ d’ossigeno quando pensavo di soffocare».
«E Alex sa…?».
«No! Ho adattato alcune nostre avventure per poterle raccontare come favole ai bambini dell’ospedale e lei pensa che siano solo questo, favole; non sa che sono vere. Almeno credo».
Artù lo scrutò e, sapendo fin troppo bene che si era già tuffato in quel mare di dubbi ed ipotesi, lasciò perdere e non gli chiese altro.
Entrarono insieme nella grande scuderia e rimasero senza parole quando si trovarono nel bel mezzo del largo corridoio da cui sia a destra che a sinistra si aprivano i box di cinque bellissimi esemplari di cavalli adulti e di un paio di pony. Lo stregone non poté evitare di sciogliersi in un sorriso scorgendo gli occhi luminosi e allo stesso tempo malinconici del suo re di fronte ad una parte, seppur piccola, del mondo che conosceva.
Si avvicinò ad uno stallone dal lucido manto brunito e gli accarezzò il muso, provando le stesse identiche emozioni di Artù. E fu quella vicinanza, quell’atmosfera intrisa di ricordi, che lo invogliò a parlare.
«Alex non è la sola ad aver bisogno di perdono».
«Uhm?». Artù posò gli occhi nei suoi e il cavallo a cui aveva prestato tutta la propria attenzione fino a quel momento non ne fu felice e per dimostrarlo sollevò fieramente il capo nitrendo. Il re lo calmò con poche parole, sorridendo, e disse ancora: «Che cos’hai detto?».
Merlino abbassò gli occhi, appoggiandosi all’entrata del box con una mano. «È uno dei motivi, se non il motivo principale, per cui non sono mai riuscito a dirvi la verità».
«Cos’è, ora che il tuo amico drago non c’è più hai deciso di prendere il suo posto? Parla chiaro, per favore!».
«Io non sono mai riuscito a perdonare me stesso, Artù. Ho commesso tanti e tanti errori usando la magia, complicando le cose anziché migliorarle, costringendovi a correre mille e più pericoli inutili. Se solo voi vi rendeste conto di tutto il dolore che vi ho causato…».
«Ti riferisci a Morgana? A mio padre?».
Merlino trattenne il respiro e si azzardò ad alzare lo sguardo, trovando quegli occhi blu come il mare calmi, sereni, come se la tempesta fosse finita ormai da un pezzo e quasi dimenticata.
Il re di Camelot scrollò le spalle. «Millequattrocento anni sul fondo di un lago hanno avuto la loro utilità, dopotutto. Sono consapevole di tutto ciò che hai fatto e ti posso assicurare che i tuoi errori non sono nemmeno paragonabili a tutto l’aiuto che hai saputo darmi. Mi hai salvato la vita così tante volte che mi è impossibile tenere il conto, Merlino».
«Sì, ma…».
Gli posò entrambe le mani sulle spalle, immergendo gli occhi nei suoi. «Mio padre non è morto per colpa tua; tu hai fatto tutto quello che hai potuto per salvarlo, lo so. Era destino che perisse. E per quanto riguarda Morgana…». Sospirò, socchiudendo gli occhi. «Non so quanto avresti potuto aiutarla, ha scelto da sé quale uso fare dei suoi poteri».
Il mago aprì la bocca per ribattere, ma Artù lo fermò con un gesto imperioso della mano. «Davvero, Merlino, non hai nulla di cui essere perdonato. E non osare farmi ripetere che ti sono grato per tutto ciò che hai fatto per me a mia insaputa».
Merlino sollevò un angolo della bocca. «Così è come se l’aveste fatto».
Artù ricambiò il sorriso e provò a stringergli il collo in una morsa d’acciaio per sfregargli le nocche tra i capelli, ma non ci riuscì, preso alla sprovvista da una voce maschile che chiese loro: «Vi siete persi?».
I due si allontanarono in fretta l’uno dall’altro e guardarono spaesati l’uomo sbucato dal nulla, magro nei suoi consumati abiti da lavoro e negli stivali alti fino al ginocchio, con un cappellino da baseball blu impallidito dal sole che gli ombreggiava il volto scarno.
Merlino lo guardò meglio, assottigliando gli occhi, ma solo quando avanzò di qualche passo e si espose alla luce al neon della scuderia riuscì a riconoscerlo, nonostante la barba di due o tre giorni, ispida ed argentata. I suoi occhi, spenti e velati di un’antica tristezza dietro gli occhiali da vista, non potevano mentire.
«Lei è il padre di Alex, vero?».
L’uomo lasciò a terra il secchio che teneva in una mano e si fece ancora più vicino, guardandoli attentamente. Il suo sguardo finì inevitabilmente su Artù e si tolse il cappellino, rivelando una specie di caschetto spettinato di capelli argentati, prima di esclamare: «Tu sei quel ragazzo che Alex ha soccorso al lago, quello con tutta quella ferraglia addosso».
Il re strinse le labbra ed annuì, sollevando le mani come in segno di resa.
«Il suo nome è Artù», disse il mago. «Io invece mi chiamo Merlino».
Edwin li guardò e nonostante ci avesse provato il sorriso divertito che gli piegò le labbra non fu altro che una smorfia. «Mi prendete in giro?».
«No», sospirò Merlino, ricordando il momento in cui Alex gli aveva detto, ridendo, che quella era proprio una bella coincidenza. «Signor Greenwood, siamo venuti qui con sua figlia e prima che possa…».
«Alex è qui?», gli chiese interrompendolo, iniziando a sudare nonostante il suo viso si fosse fatto all’improvviso più pallido.
Lo stregone annuì solennemente, senza interrompere il contatto visivo. «Quando l’abbiamo lasciata, era ancora con la signora Morris».
A quelle parole l’uomo sobbalzò e lasciò cadere il cappellino da baseball a terra. Sia Artù che Merlino si chinarono a raccoglierlo e quando si risollevarono scoprirono che Edwin era corso fuori dalla scuderia. Non poterono far altro che seguirlo.

 

***

 

Una famiglia formata da mamma, papà e due bambini, ospite dell’agriturismo, si era trovata costretta a passare per il salotto già due volte e in entrambe le occasioni i genitori avevano rimproverato i figlioletti quando li avevano sorpresi ad osservare troppo a lungo Alex, rannicchiata sulla poltrona proprio di fronte al fuoco scoppiettante del camino e con gli occhi colmi di lacrime che stava tentando in ogni modo di sopprimere.
Continuava a guardare le fiamme, come se le parole che suo padre aveva scritto prima di tentare di togliersi la vita potessero apparire tra le scintille. Non sarebbe successo, no, ma Alex aveva la sensazione di conoscerle, di averle lette più e più volte nei suoi occhi stanchi e tristi, e facevano così male da toglierle il fiato.
Come poteva essere stata tanto crudele, tanto egoista? Come aveva potuto ignorare la sua sofferenza per così tanto tempo?
«Wanda!».
Alex sobbalzò e sentì le gambe cederle quando si alzò dalla poltrona, dando le spalle al fuoco.
La signora Morris uscì dalla cucina e dopo averle gettato una rapida occhiata si diresse velocemente verso l’ingresso sul retro, dove si imbatté in Edwin, seguito dagli ansimanti Merlino e Artù.
«Dov’è mia figlia? Perché non mi hai mandato subito a chiamare?», ruggì ancora, come un animale ferito.
La donna indicò il salotto con un braccio e sospirò stancamente, facendogli capire che era arrivato troppo tardi. «Aveva il diritto di saperlo».
«Non così! Lei…».
«Non è più una bambina», lo interruppe docilmente, posandogli una mano sul braccio.
Dalla sua posizione Alex poteva vederli, ma loro non potevano vedere lei. Poteva vedere la disperazione e lo smarrimento sul volto di suo padre, la confusione e il timore in quegli occhi che sua madre aveva amato tanto e che lei era sempre andata fiera di aver ereditato.
«Papà», lo chiamò, cercando inutilmente di mandare giù il magone che le faceva tremare la voce.
Edwin si girò verso di lei e lentamente la raggiunse, non riuscendo però a sostenere il suo sguardo, umido di lacrime e ciononostante bellissimo, la luce della sua vita, ancora più ardente del fuoco scoppiettante nel camino; l’unica ragione che inconsapevolmente gli aveva impedito di scegliere una morte più sicura ed istantanea.
«Non saresti dovuta venire qui», mormorò, ancora a capo chino sui suoi stivali sporchi di fango.
«Hai ragione», rispose Alex, accennando un sorriso mesto. «Perché non avrei mai dovuto lasciarti».
Suo padre alzò di scatto gli occhi e rimase senza parole quando Alex gli gettò le braccia al collo e lo strinse forte, passandosi una mano sotto gli occhi per cancellare i segni di quelle lacrime che alla fine l’avevano avuta vinta.
«Mi dispiace tanto, io…», singhiozzò, facendo i pugni sulla sua schiena e tra i suoi capelli.
«Shhh. Va tutto bene, amore mio. Va tutto bene».
Alex capì che per la prima volta da anni era davvero così e che c’era una sola persona che doveva ringraziare per averla spinta a dare quell’enorme calcio al sedere del suo orgoglio.
Incrociò lo sguardo di Merlino e gli rivolse un sorriso intriso di gratitudine, al quale lui rispose un tantino imbarazzato, guardandola solo di sottecchi. Al contrario Artù, al suo fianco, si appoggiò allo stipite della porta con una spalla e sorrise soddisfatto, come se il merito di quel lieto fine fosse suo.
Alex soffocò una lieve risata contro la spalla di suo padre e, circondata dalle sue braccia e dal suo infinito amore, chiuse gli occhi pregando perché quel momento non finisse mai.

 

***

 

«Siete sicuri di non voler restare per la notte? O almeno per cena?».
Alex sorrise gentilmente e chinò un po’ il capo, a mo’ di ringraziamento. «Abbiamo creato fin troppo scompiglio oggi. Sarà per la prossima volta, signora Morris». Quindi si voltò verso suo padre e il suo sorriso si ampliò quando stese le braccia verso di lui per poterlo abbracciare ancora. «Ti chiamo domani, promesso».
Edwin sospirò rilassato, massaggiandole la schiena, poi sollevò una mano per salutare anche Merlino ed Artù, quei due ragazzi strani senza i quali non avrebbe mai riavuto indietro la sua bambina.
Stavano per lasciarsi l’agriturismo alle spalle, quando il signor Morris si schiarì la gola dietro sua moglie e il padre di Alex, facendoli voltare sorpresi.
«Volevo scusarmi per… lo sapete, per come mi sono comportato. Non avrei dovuto dirti quelle cose, Alexandra».
Merlino avrebbe potuto indovinare i pensieri che aleggiavano nella mente della ragazza e seppe che avrebbe avuto ragione quando la vide offrirgli una mano in segno di pace ed esclamare: «Mi chiami pure Alex».
Abraham ricambiò il sorriso e le diede una stretta vigorosa, facendole promettere di tornare presto.
«Ci conti!», esclamò Artù al posto suo, con così tanto entusiasmo che sia Alex che Merlino si scambiarono uno sguardo accigliato.
Una volta nel parcheggio, il mago affiancò il re di Camelot e gli chiese che cosa avesse voluto dire con quella risposta.
«Niente, solo che ci torneremo!».
«Ah, ti conosco troppo bene ormai: dimmi che cosa ti frulla nella testa».
«Beh… Stavo pensando che se è davvero necessario che io mi trovi un lavoro, mi piacerebbe fare ciò che fa il padre di Lady Alex».
Alex si bloccò con una mano sulla maniglia della portiera e dopo un attimo di esitazione scoppiò a ridere accorgendosi dell’espressione sconvolta di Merlino.
«Mi stai prendendo in giro, vero?», gli chiese quest’ultimo, quando fu in grado di articolare una frase di senso compiuto, mentre Artù si era già impadronito del sedile accanto a quello del guidatore.
«No, perché dovrei?».
«Perché non puoi dire sul serio, è fuori da ogni logica!».
Alex sbuffò trattenendo una risata ed esclamò: «Falla finita e salta in macchina, è un lavoro come un altro».
«No che non lo è!», rispose, con gli occhi sgranati. 
Il re di Camelot che si abbassava a prendersi cura dei cavalli, a tenere puliti i loro box e in generale la scuderia? Non sarebbe mai successo, nemmeno in un universo alternativo.
Alex posò le braccia sul tettuccio dell’auto e gli rivolse un’occhiata esasperata. «Preferisci tornare a piedi?».
Merlino scosse il capo e sospirò, dicendosi che una volta da soli, a casa, avrebbe riaperto la questione. Entrò in auto e solo in quel momento si rese conto di essere seduto sui sedili posteriori.
«Perché hai lasciato che Artù sedesse davanti?», chiese ad Alex, insospettito. E lo fu ancora di più quando l’infermiera e Artù si scambiarono un sorrisino prima che lei rispondesse: «Perché no? Non c’è mica scritto il tuo nome su quel sedile».
Artù si allacciò la cintura e mentre Alex faceva manovra per girarsi ed uscire dal parcheggio si voltò verso di lui con un sogghigno per nulla rassicurante stampato sul viso. Infatti, con un luccichio perverso negli occhi, esclamò: «Hai qualcosa in contrario, forse? Non dirmi che sei geloso, Merlino!».
Il mago sobbalzò e sentì le orecchie andargli a fuoco, ma non fu l’unico a soffrire dei sintomi dell’imbarazzo: anche Alex, alle parole di Artù, aveva stretto più forte le mani sul volante, mordendosi nervosamente il labbro inferiore. E fu lei a sopprimerli per prima, rispondendo con l’ironia con cui era solita difendersi nelle situazioni critiche.
«E di chi dovrebbe essere geloso, di te? Mi dispiace dare questo colpo al tuo ego, Artù, ma ho visto ragazzi di gran lunga più belli di te».
Merlino si passò una mano sulla fronte, consapevole che se c’era un tasto che non doveva essere assolutamente toccato con Artù era proprio il suo aspetto fisico. D’altronde ne aveva più volte subito le conseguenze…
«Ah sì? Lasciami dire che invece io me ne intendo di bellezza femminile e sai, tu non sei nemmeno lontanamente paragonabile a nessuna donna abbia avuto l’onore di…».
Sospirò abbattuto e lasciò cadere indietro la testa.
Si prospettava un lungo, lunghissimo viaggio.

 
«Perché non ti fermi a cena?».
Merlino, il quale si era finto addormentato per la maggior parte del viaggio per non dover scegliere da che parte stare durante i loro continui battibecchi, rischiò di mandare a monte la sua favolosa copertura udendo la voce di Artù pronunciare quelle parole.
Si schiarì un po’ la gola e deglutì per poi schioccare le labbra come faceva durante il sonno – un motivo per cui veniva sempre picchiato da Artù nel caso gli capitasse di sentirlo. Il re di Camelot si voltò, appena infastidito, ma ben presto la sua attenzione fu di nuovo tutta su Alex, la quale sospirò e rispose: «Ti ringrazio per l’invito, ma è meglio di no».
«Non ti preoccupare, quando mi stuferò di starti a sentire mi porterò la cena in camera».
«Ah-ah, molto divertente», borbottò, lasciandosi andare ad una breve risata. Quindi il suo tono di voce tornò serioso, quasi dispiaciuto: «Vi ho già rubato fin troppo tempo oggi. A proposito, volevo scusarmi di avervi lasciati a voi stessi per tutto quel tempo…».
«Non devi scusarti. Avevi bisogno di stare da sola con tuo padre, per chiarirvi».
«Grazie, Artù. Ma la mia risposta è sempre no».
«Scommetto che c’è un altro motivo per cui non vuoi fermarti. Ho ragione?».
«Può darsi», biascicò.
Il biondo smorzò una risata per esclamare: «È così difficile ammettere che ho ragione? E sentiamo, quale sarebbe questo motivo?».
«Perché dovrei dirtelo?».
«Perché non dovresti?».
«Lo sai che sei proprio una seccatura? Non avrei dovuto coprire il tuo mal d’auto: a quest’ora saresti stato uno straccetto verdognolo sul sedile e avrei avuto un po’ di silenzio!».
Merlino dovette sforzarsi per non scoppiare a ridere e il suo silenzio venne ricompensato, perché vedere Artù così imbarazzato era un’occasione più unica che rara.
«Prometto che se mi dici qual è questo misterioso motivo starò in silenzio».
Alex sospirò e dopo qualche istante di esitazione confessò: «A volte mi sento di troppo, tra voi due. Sembrate così completi insieme e poi Merlino ti guarda in un modo…».
«Aspetta, aspetta, stai cercando di dire che sembriamo… Che io e lui…?», continuò a balbettare, sconclusionato, fino a quando Alex non lo interruppe dicendo: «Non c’è nulla di male, davvero. Siamo nel 2014, non nel Medioevo! E per quanto mi riguarda, se c’è l’amore…».
«Basta così! Non voglio più sentire una parola! Queste sono tutte assurdità! Tra me e Merlino non c’è quello che credi tu e mai niente del genere ci sarà, hai capito?».
Alex ridacchiò. «Ah già, dimenticavo… Il tuo cuore apparterrà a Ginevra per l’eternità».
Merlino riuscì quasi a sentire il dolore sordo che scavò una voragine nel petto del re di Camelot, come se il suo corpo e il proprio fossero collegati da un filo invisibile, e si sentì ancora peggio quando capì che non avrebbe potuto fare niente per alleviarlo.
Il silenzio calò nell’abitacolo, così pesante e carico di tensione da poterlo tagliare a fette, e il mago decise di svegliarsi. Aprì gli occhi e vide Alex che si mordeva nervosamente il labbro inferiore, il suo sguardo mortificato che si posava alternativamente sulla strada e su Artù, girato quasi di spalle e con la testa contro il finestrino.
«Era solo uno scherzo… uno scherzo stupido. Scusami, Artù».
Il re di Camelot non rispose e Alex incrociò quasi per caso gli occhi di Merlino attraverso lo specchietto retrovisore. Lanciò delle scuse silenziose anche a lui, il quale rispose con l’accenno di un sorriso incoraggiante e una scrollata di capo.

 
Alex aveva appena parcheggiato sul ciglio della strada sterrata di fronte alla casa di Merlino quando Artù si voltò con una mano stesa verso lo stregone. Quest’ultimo lo guardò spaesato e solo allora il biondo si decise a parlare, in tono brusco: «Le chiavi».
«Che senso ha avertene data una copia, se poi non te le porti dietro?», gli chiese, sollevandosi per infilare una mano nella tasca dei jeans.
Il re di Camelot non rispose e una volta ottenute le chiavi scese dall’auto rivolgendo uno scarno saluto ad Alex.
L’infermiera scese dall’auto contemporaneamente a Merlino, quando Artù era ormai sotto al porticato, e sospirando si appoggiò al cofano caldo.
«Gli passerà presto», la rassicurò il mago, mettendosi al suo fianco.
«Non è solo lui… È stata una giornata impegnativa», mormorò, passandosi stancamente le mani sul viso.
«Ma ne è valsa la pena, no?».
Riuscì a strapparle un sorriso. «Eccome. Grazie, Merlino».
«E di che cosa? Non ho fatto niente».
Alex scosse il capo e gli tirò un pugnetto sulla spalla. «Hai fatto tanto, invece. Mi hai fatto capire che non potevo più andare avanti così, che dovevo recuperare il rapporto con mio padre, cercare di capire, e poi mi sei stato accanto… Non ce l’avrei mai fatta, senza il tuo aiuto».
«Mi piace pensare che tu avresti fatto lo stesso per me».
«Pensi bene».
Merlino si perse nei suoi occhi verdi e una folata di vento gli riempì i polmoni del suo profumo, mentre una ciocca di capelli le scivolava sulla fronte. Sorrise quando la vide in difficoltà nel sistemarsela dietro l’orecchio e senza nemmeno rifletterci fu lui ad afferrarla tra due dita e a metterla a posto, sfiorandole la guancia, così calda per l’imbarazzo che si sentì bruciare a sua volta e ritrasse la mano di scatto, abbassando lo sguardo.
«Scusa, non volevo…».
«Non stavi dormendo prima, vero?».
Il mago inchiodò di nuovo gli occhi nei suoi e, preso in contropiede, boccheggiò per qualche istante, dando il tempo ad Alex di rispondersi alla prima domanda e di porne una seconda.
«Tu provi qualcosa per lui?».
Merlino la guardò intensamente, poi sogghignò. «Sì, provo per lui un affetto incommensurabile e una fede cieca. È solo il mio migliore amico, Alex, credimi. Ma non sei la prima a pensare che ci sia di più. Ho sentito dire molte volte che io e lui siamo due lati della stessa medaglia, ma questo non vuol dire che ci debba essere un coinvolgimento amoroso».
L’infermiera ricambiò il suo sguardo e nonostante avesse tentato di nascondere tutto ciò che quelle parole le avevano scatenato dentro, Merlino la vide rilassare le spalle, come sollevata, ed accennare un sorriso mentre alzava il viso verso il cielo punteggiato di stelle.
«Sarà meglio che vada».
Lo stregone annuì, allontanandosi dall’auto. Quando si accorse dell’espressione offesa di Alex corrugò la fronte, chiedendole silenziosamente di esprimersi.
«Non mi chiedi di restare?».
«Come? Beh, se vuoi…».
Alex sollevò un angolo della bocca in un sorrisino perfido e facendo il giro dell’auto per sedersi al volante esclamò: «E poi non dovrei pensare che tra di voi ci sia – come l’hai chiamato? – del coinvolgimento amoroso!».
Merlino lasciò cadere le braccia lungo i fianchi e sbuffò, facendo ridere ancora di più Alex, la quale mise in moto ed illuminò con i fari la strada che già dopo pochi metri veniva nuovamente inghiottita dal buio.
Il mago restò a fissare le luci posteriori, due occhi color del sangue, fino a quando non sparirono, poi si infilò le mani nelle tasche dei jeans ed entrò in casa.
Con Alex non si era reso conto del freddo che era sceso con l’arrivo della notte, ma ora si sentiva intirizzito e la prima cosa che fece fu accendere il camino in salotto. O almeno l’avrebbe fatto, se non avesse sentito un clangore metallico e poi un tonfo provenire dal piano superiore.
Artù fu il suo primo pensiero e senza perdere tempo corse su per le scale. Si diresse verso il fracasso che stava aumentando d’intensità e con sgomento intuì che il re di Camelot era entrato nel suo studio, quello che lui chiamava la Stanza dei Ricordi.
Lentamente entrò nel riquadro della porta e scorse Artù inginocchiato a terra, accanto al manichino riverso su cui aveva sistemato la sua armatura, pulita e lucidata a dovere, rotoli e rotoli di pergamena e pile di libri spazzati via dal loro posto sulle mensole e ad un grosso baule chiuso con un lucchetto che Artù stava cercando di forzare con una delle spade che aveva trovato appese al muro, insieme a diverse altre armi che Merlino aveva recuperato e gelosamente custodito nel tempo.
«Sono qui, non è vero?», gli chiese con impazienza e una luce folle di dolore negli occhi. «Dimmi dove sono i libri che hai scritto, Merlino!».
«Siete sconvolto abbastanza, Artù, è inutile farvi altro male aggrappandovi ai ricordi».
«Io non voglio dimenticare!», ruggì e le lacrime iniziarono ad inumidirgli lo sguardo. «Da quando sono uscito dal lago, tutte le volte che ci ho provato è stato come ricordare un’eco, una proiezione distorta di quello che è realmente stato. Quei ricordi sono tutto quello che ho, non posso permettermi di –!», la sua voce graffiata dalla sofferenza si trasformò in un rantolo e fu costretto ad accasciarsi tra i libri, una mano stretta a pugno sul cuore.
Merlino corse al suo capezzale e gli tenne sollevata la testa, posando la mano sulla sua. Artù respirava a fatica, come se stesse per affogare, e lo guardava negli occhi con espressione implorante.
«Per favore, Merlino».
Ma il mago negò con la testa, socchiudendo gli occhi per richiamare la magia e concentrandosi al massimo per riuscire poi a contenerla e a rinchiuderla di nuovo.
I suoi occhi diventarono d’oro liquido e fu uno shock tremendo sentire quella terribile potenza scorrergli nel sangue, vibrargli nelle ossa e friggere nel suo cervello, ma in qualche modo riuscì a ricacciarla indietro quando vide il volto di Artù distendersi e sentì il suo respiro farsi più regolare. Le conseguenze però furono peggiori anche della prima volta: scosso dalle convulsioni crollò accanto ad Artù e non vomitò solo perché era da quella mattina che non metteva nulla nello stomaco, quindi svenne.
Dormì fino alla mattina successiva, ma al suo risveglio avrebbe ricordato chiaramente di aver ripreso conoscenza almeno una volta, quando Artù, nonostante la debolezza, lo aveva portato nella sua camera da letto e gli aveva rimboccato le coperte.
Avrebbe ricordato di avergli preso il polso, di averlo stretto più forte che poteva e di aver sussurrato: «Avete anche me. Sempre».
Avrebbe ricordato di aver visto l’ombra di un sorriso sul volto del solo ed unico re e di averlo sentito rispondere: «Temo proprio che tu abbia ragione».

 

   
 
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Merlin / Vai alla pagina dell'autore: _Pulse_