Buonasera a tutti! :)
Ecco qui la seconda parte del lungo capitolo iniziato la settimana
scorsa. Spero vi piaccia e che il passato di Alex sia ancora credibile,
come alcune di voi mi hanno gentilmente scritto (thank you soooo much).
Non sono di molte parole questa sera - ho un mal di testa lancinante e
del sonno arretrato (il che mi ricorda che dovrei fare gli auguri a
tutte le donne qui presenti. Auguriiiii! ^-^) - perciò vi
lascio direttamente alla lettura.
Un grazie infinito a chi ha messo la storia tra le preferite, le
seguite e le ricordate, a chi ha recensito e a chi legge
soltanto.
Ricordo inoltre che sulla mia
pagina Facebook potete trovare tante belle foto trovate qua e
là con i personaggi, le ambientazioni e soprattutto le
citazioni originali della serie a cui mi sono ispirata per diverse
battute. Enjoy ;)
Alla prossima settimana, un bacio!
Vostra,
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8. …And the fires of the present
Merlino
sarebbe dovuto tornare al lavoro lunedì, secondo il
certificato di malattia che il “suo medico” gli
aveva firmato, ma Artù aveva fatto fuoco e fiamme
perché tornasse quello stesso sabato, dicendogli che se la
sarebbe cavata egregiamente anche da solo. Il mago non ne era
così convinto, ma aveva dovuto cedere di fronte alla sua regale
insistenza e quella mattina si era presentato alla caffetteria della
signora Begum, sorprendendola non poco. Le aveva detto che a furia di
aspirine il raffreddore era del tutto scemato e che si era sentito
abbastanza in forma da tornare, aggiungendo anche che il lavoro gli era
sinceramente mancato. La signora Begum aveva bellamente fatto finta di
crederci e senza troppi giri di parole l’aveva spedito a
mettersi il grembiule.
Non avrebbe mai nemmeno osato immaginare un migliore
“bentornato”.
La signora Begum, infatti, si era dimostrata subito pronta –
anche più del solito – a sgridarlo per qualsiasi
sua mancanza e a cacciarlo in cucina a lavare i piatti ogni volta che
lo sorprendeva con le mani in mano dietro il bancone. Ma Merlino era
stato raramente con le mani in mano, in realtà: ogni cinque
secondi aveva controllato il cellulare, chiedendosi per mezzo di quale
innovazione del Ventunesimo secolo il solo ed unico re sarebbe perito
per la seconda volta, e fino a quel momento aveva già
immaginato tredici, no, quattordici tragici scenari tra cui il peggiore
in assoluto, nonché il più splatter, aveva
implicato il minipimer.
Verso mezzogiorno aveva implorato la signora Begum perché
gli concedesse un quarto d’ora di pausa e questa non aveva
trovato un motivo abbastanza valido per non dargli il proprio consenso,
visto che di clienti non se ne vedeva nemmeno l’ombra e si
prospettava il solito pomeriggio tranquillo. Merlino per ringraziarla
l’avrebbe persino baciata – se solo ne avesse avuto
il coraggio – e ormai ad un passo da un crollo nervoso era
corso sul retro della caffetteria a chiamare Artù.
«Perché diavolo non rispondi, asino!»,
gridò a mezza voce, picchiando un piede a terra. Quindi,
inoltrando una nuova chiamata, iniziò a sussurrare fra
sé: «Quando Albione avrà
più bisogno, Artù risorgerà…
per morire miseramente a causa dell’uso improprio di un
elettrodomestico da cucina».
«Che hai detto?».
Merlino sgranò gli occhi sentendo la voce del re
dall’altro capo del telefono. «Artù!
Artù, grazie a Dio siete vivo!».
«Certo che lo sono! E non urlare, non sono sordo!».
«Ah!». Rise sornione, mentre sentiva la rabbia
iniziare a bollirgli nelle vene. «La fate facile voi!
Dopotutto non siete voi che avete appena rischiato un infarto! Devo per
caso ricordarvi che ho più anni di quelli che dimostro?!
Perché non avete risposto subito?».
«Devo aver attivato il silenziatore per sbaglio e non ho idea
di come si tolga».
Merlino si prese il setto nasale tra le dita, cercando di mantenere la
calma concentrandosi sul perché l’avesse aspettato
per più di millequattrocento anni. «Le istruzioni.
Dove le avete messe le istruzioni? Lì
c’è sicuramente scritto
come…».
«Intendi quel libretto scritto in tante lingue?».
«Esatto, proprio
quello».
«L’ho buttato via ieri».
«Che cosa?! Per quale motivo?».
«Perché perdere tempo a leggere se posso chiedere
a te o a Lady Alex?».
Il mago iniziava seriamente a pensare che avrebbero dovuto farlo santo
per aver sopportato e aver creduto in quella testa di legno non solo
per una vita, ma addirittura per due.
«A proposito di Lady Alex, hai cambiato idea o
sarò costretto a fartela cambiare con la forza?».
«No. Non le riveleremo il nostro segreto, è fuori
discussione».
«Ma perché no?!», domandò
lagnosamente il re, per poi sbuffare irritato. «Hai detto che
ti fidi di lei, che è l’unica a cui affideresti il
nostro segreto… perché non glielo riveli subito e
la facciamo finita?».
«Perché non ce n’è
bisogno».
«No, fino a quando non ti urlerà contro come
l’altra sera, stanca delle tue bugie. E lo sono anche io,
Merlino. Non hai fatto altro che mentirmi, da quando ti conosco, e
proprio perché so come ci si sente non mentirò
ancora a Lady Alex. Se non glielo dirai tu, glielo dirò
io».
«No, voi non capite! Non potete –!».
La porta sul retro si aprì di colpo, mostrando una signora
Begum con gli occhi fuori dalle orbite e i capelli così
scompigliati da far pensare che avesse appena messo due dita nella
presa della corrente. Con voce lontana, quasi spiritata, disse:
«Il pullman di una scolaresca diretta a Caerleon ha avuto un
guasto, la tua pausa è finita».
Merlino sospirò massaggiandosi la fronte con una mano e
rivolto ad Artù disse: «Devo tornare al lavoro. Ne
riparliamo a casa con calma, d’accordo? A più
tardi».
Terminò la chiamata senza nemmeno aspettare di sentire la
risposta del re di Camelot, sperando ardentemente che quella giornata
finisse presto.
«Tira fuori anche i piatti nuovi, ne avremo
bisogno», disse ancora la signora Begum, indicando una
scatola di cartone vicino alla piccola lavastoviglie.
Merlino prese il taglierino ed iniziò ad aprire la scatola,
quando corrugò la fronte esclamando: «Avete sempre
detto che non potevamo permetterci delle nuove stoviglie, come
–?». Si interruppe, indovinando la risposta
semplicemente dall’espressione eloquente della signora Begum;
quindi sospirò mestamente: «Mi scalerà
dallo stipendio il costo dei piatti che ho rotto l’ultima
volta, chiaro».
Quella giornata non sarebbe affatto finita presto, poco ma sicuro.
***
«Ehi».
Alex sollevò gli occhi dalle tazze che stava sistemando nel
lavello e sorrise quando incrociò quelli azzurri di Merlino,
appoggiato allo stipite della porta della cucina.
«Ehi, ciao. Siamo crollati ieri notte, eh?».
Merlino annuì, avvicinandosi a lei per prendere una tazza
pulita dalla credenza. Si chinò sul suo orecchio e a bassa
voce, indicando con un cenno del capo Artù, seduto sulla
veranda che dava sul giardino sul retro, disse: «Grazie
per…».
«Ma figurati», lo interruppe sorridendo.
«Caffè?».
«Sì, grazie. Un momento… l’ha
fatto Artù?».
Alex arricciò le labbra, trattenendo una risata.
«No, l’ho fatto io. È il classico tipo
che non ammetterebbe mai di essere in difficoltà, non
è così?».
«Oh sì, Artù è proprio
così: orgoglioso, testardo, presuntuoso… ma ti
posso assicurare che si
getterebbe nel fuoco pur di salvare le persone a cui tiene, senza
pensarci su due volte. Vi assomigliate molto, lo sai?».
«Non so se prenderlo come un complimento
o un’offesa».
Merlino rise e lasciò che Alex gli versasse un po’
di caffè nella tazza, poi se la portò alle labbra.
«Che cos’avete in programma per oggi?»,
gli chiese, appoggiandosi con la schiena al ripiano della cucina, al
suo fianco.
Il moro si strinse il collo tra le spalle, scuotendo il capo.
«Non ne ho idea. Tu, invece?».
«Devo fare i mestieri e ho una caterva di roba da
stirare… Farò la serva»,
borbottò e con la coda dell’occhio
scoprì Merlino intento a mordersi un sorriso divertito.
«Vuoi fare cambio? Sto io qui a badare ad Artù, se
preferisci».
«Ah, peggioreresti soltanto la tua situazione, credimi.
Piuttosto…».
Alex lo guardò, in attesa che finisse la frase.
«Cosa?», lo incalzò, iniziando a
sentirsi sulle spine.
«Penso che dovresti parlare con tuo padre…
perdonarlo». Merlino fissò gli occhi nei suoi,
increduli e leggermente intimoriti, e le posò una mano sulla
spalla. «Sono passati sei anni, Alex. Sei anni in cui non
avrà fatto altro che pentirsi del suo errore e sentire la
tua mancanza».
«È più complicato di
così…», mormorò sfuggendo al
suo sguardo, ma il moro le prese il mento tra le dita per recuperare il
contatto visivo. Sorrideva, ma era il sorriso più
malinconico che Alex gli avesse mai visto dipinto sulle labbra.
«No, invece. Tu non sei più una ragazzina, saresti
in grado di stargli accanto questa volta, di aiutarlo, e lui
è pur sempre tuo padre, ti vuole bene».
«Se mi avesse voluto bene non mi avrebbe usata in quel
modo».
Merlino sospirò e socchiuse gli occhi, come a voler spazzare
via ricordi troppo lontani e troppo dolorosi. Quando li
riaprì sembravano di ghiaccio, freddi e taglienti.
«Qualsiasi errore abbia commesso, qualsiasi sofferenza ti
abbia causato… devi trovare la forza nel tuo cuore di
perdonarlo, altrimenti te ne pentirai per tutta la vita. Io avrei dato
di tutto, darei ancora di tutto, per avere un giorno in più,
uno solo, da poter spendere con mio padre. Tu invece hai già
buttato via sei anni».
Alex aprì la bocca per ribattere, anche se non aveva la
minima idea di che cosa dire di fronte a quegli occhi intrisi di antica
rabbia e dolore, ma Artù fece scorrere la porta finestra
alle loro spalle, interrompendoli. Quando si accorse di avere gli occhi
di entrambi puntati addosso si scusò e fece per tornare in
giardino, ma Merlino gli sorrise, dicendogli che non c’era
problema. Il biondo allora attraversò la cucina e
salì le scale di corsa, lasciandoli di nuovo soli.
«Mi dispiace per tuo padre», disse Alex ad un
tratto, realizzando che, forse senza nemmeno rendersene conto, le aveva
parlato per la prima volta della sua famiglia.
«È morto ancor prima che potessi
conoscerlo», le rivelò ancora, sorprendendola.
«Ho vissuto tutta la mia vita senza sapere chi fosse e quando
finalmente sono riuscito a trovarlo… mi è stato
portato via».
«Mi dispiace davvero tanto».
Merlino le rivolse un piccolo sorriso e le massaggiò le
braccia. «Promettimi che ci penserai».
Alex annuì e lo abbracciò stretto, col viso
immerso nella sua felpa. Lo sentì irrigidirsi, ma solo per
un momento.
«Alex?».
L’infermiera si voltò verso Abigail, stesa nel suo
letto, più pallida e debole del solito.
«È quasi finito, tranquilla», la
rassicurò, controllando il liquido trasparente contenuto
nella sacca della flebo.
«No, volevo sapere… a cosa stavi pensando. Eri
così assorta…».
Alex accennò un sorriso, sedendosi al suo fianco per
stringerle una mano fredda tra le sue. «A mio padre. Ha fatto
una cosa brutta, sei anni fa, e da allora non ho più voluto
vederlo. Mi stavo chiedendo se fosse arrivato il momento di
perdonarlo».
«Sei anni sono tanti», mormorò Abigail,
con un mezzo sorriso. «Tutti facciamo delle cose brutte,
anche se a volte non ce ne rendiamo conto».
«Dici che dovrei metterci una pietra sopra?».
«Non lo so, devi deciderlo tu. Io prima di andarmene vorrei
chiudere tutti i miei conti in sospeso».
Alex sorrise e le accarezzò i capelli. «Stai
tranquilla, non te ne andrai tanto presto, te
l’assicuro».
Anche Abigail sorrise, poi chiuse gli occhi, vinta dalla stanchezza.
Alex rimase seduta al suo fianco ancora per un po’, fino a
quando non prese la sua decisione.
***
Quando
Alex se n’era andata, la mattina precedente, Artù
gli aveva detto chiaro e tondo che aveva sentito quello che lei gli
aveva urlato contro in giardino e che lui non si sarebbe opposto se
avesse deciso di rivelarle il loro segreto; anzi, lo aveva addirittura
invogliato a farlo, facendogli capire che aveva quantomeno intuito la
natura del legame che c’era tra loro.
Merlino però era stato irremovibile, anche se non era sceso
troppo nei dettagli quando aveva dovuto motivare la sua scelta. Per
quanto ne fosse impaurito, forse era arrivato il momento di essere
chiaro e dirgli come stavano le cose veramente.
Spinto anche dalla rabbia, accesa all’improvviso dalle parole
che gli aveva detto per telefono, quando entrò in casa
affrontò subito l’argomento, urlando:
«Se dovete levarvi qualche peso dallo stomaco, questo
è il momento opportuno!».
Artù, spaparanzato tranquillamente sul divano con una
lattina di Coca-Cola in una mano e un pacchetto di patatine al
formaggio sulle gambe, lo fissò confuso prima di capire a
che cosa si riferisse. Quindi sospirò, stringendo le labbra
tra loro. «No, Merlino».
«Strano, ho proprio avuto l’impressione che fosse
così!».
«Non avrei dovuto dirti quelle cose, non intendevo riaprire
l’argomento».
«Ma l’avete fatto! Significa che avete qualcosa da
dire, no?».
Artù lascò giù la Coca-Cola e il
sacchetto di patatine per potersi sbattere le mani sulle ginocchia, gli
occhi leggermente sgranati. «Vuoi la verità? La
verità è che non riesco ancora a capire il motivo
per cui tu non mi abbia rivelato prima di essere uno stregone! Pensavo
di essermi guadagnato la tua fiducia, come tu ti sei ampliamente
guadagnato la mia!».
«Ed è così! Non ho mai smesso di
credere in voi, di avere fiducia in voi!».
«E allora…?!».
Merlino gettò la borsa a tracolla accanto al divano,
trattenendo a stento un verso frustrato. «Non ci arrivate,
vero? Ciò che mi ha impedito di rivelarvi la mia vera natura
è stata la paura di non essere più lo stesso
Merlino ai vostri occhi; la paura di non essere più
accettato da voi, di essere addirittura cacciato. Non volevo che tutto
ciò che avevamo costruito andasse perduto. Non avrei mai
sopportato di perdere…».
L’ultima parola della frase gli rimase incastrata in gola, a
metà strada tra il cuore e l’aria, quando il
campanello trillò. Voltò le spalle ad
Artù, immobile come una statua, e con due rapide falcate fu
di nuovo di fronte alla porta; l’aprì senza
nemmeno chiedere chi fosse e boccheggiò incrociando gli
occhi verdissimi di Alex, la quale, dondolandosi sui talloni e
stringendo la fibbia della borsa a tracolla che aveva sulla spalla,
sembrava un po’ nervosa.
Merlino respirò profondamente e si girò verso il
re di Camelot, furioso. «Non spettava a te decidere, non
questa volta. Ma ovviamente non hai saputo resistere, dico
bene?». Artù aprì la bocca per
ribattere, ma il mago non gliene diede la possibilità,
concentrandosi di nuovo sulla ragazza di fronte a lui, ora confusa
oltre che nervosa. «Mi dispiace, Artù ha
esagerato. Qualsiasi cosa ti abbia detto, io non devo
dirti…».
Alex agitò frettolosamente le mani di fronte al petto,
costringendolo a tacere. «Artù non mi ha detto
niente, sono venuta qui per conto mio. Ho bisogno di
parlarti».
«Ah». Merlino gettò
un’occhiata alle sue spalle e vide Artù con le
braccia incrociate al petto e le sopracciglia inarcate, in quel modo
che ai vecchi tempi preannunciava sempre una bella punizione.
«Scusa, pensavo…».
«Pensi troppo, Merlino. Finirai col farti male»,
rispose, accennando un sorriso obliquo. Lo stregone riconobbe quella
frase come un proprio cavallo di battaglia, ma per quella volta gliela
concesse volentieri.
Artù salutò Alex con un cenno del capo e disse
ancora: «Se avete bisogno di me, mi trovate in camera
mia».
«Assicurati di chiudere la finestra, questa
volta!», gli gridò dietro Merlino, sotto lo
sguardo sempre più disorientato di Alex, alla quale sorrise,
invitandola ad entrare.
«Di che si tratta?», le chiese quando fu seduta sul
divano, con la borsa stretta tra le braccia.
Alex si mordicchiò il labbro inferiore, deviando il suo
sguardo fino a quando Merlino non riuscì a catturarlo
prendendole il mento tra due dita.
«Alex, che cosa succede?».
«Ci ho pensato», disse con tono di voce pacato,
cercando di controllare il ritmo dei battiti del suo cuore.
«Ho deciso di parlare con mio padre».
«Questa è… è la notizia
migliore della giornata!», esclamò, davvero
contento e anche un po’ soddisfatto del proprio operato.
Arricciò il naso, accorgendosi della sua espressione ancora
incerta. «Perché non mi sembri
contenta?».
«Non so come sto. L’unica cosa che so è
che non voglio andare da lui da sola. Ti sto chiedendo molto e forse
non dovrei, ma sei l’unica persona che potrebbe…
Insomma, mi accompagneresti?».
Merlino sorrise, accarezzandole una ciocca di capelli. «Se ti
farà stare più tranquilla, ti
accompagnerò volentieri».
Alex alzò di scatto gli occhi nei suoi e il suo volto si
illuminò alla comparsa di un piccolo sorriso, carico di
commozione. Gli strinse le braccia intorno al collo, ringraziandolo
sottovoce, e solo in quel momento il mago si rese conto che Alex non
avrebbe avuto solo lui a tenerle compagnia.
Come se gli avesse appena letto nel pensiero l’infermiera gli
chiese: «Tu e Artù avete altri programmi per il
pomeriggio?».
«No, non credo. Ma se preferisci posso lasciare qui
Artù…».
Era un’ipotesi che lo terrorizzava – come lo aveva
terrorizzato per tutto il giorno – perciò fu
felice quando Alex, dopo essersi gettata un’occhiata intorno,
rispose ridacchiando: «E lasciare che diventi esattamente
come ogni ragazzo disoccupato del Paese? Non se ne parla».
Merlino lasciò correre lo sguardo sul tappeto sporco di
briciole di patatine, sulle lattine vuote di Coca-Cola lasciate sul
tavolino accanto al divano, sulla televisione ancora accesa su una
partita di calcio, e per un attimo – un attimo soltanto
– fu orgoglioso del modo in cui Artù si stava
ambientando.
«Adesso mi sente», borbottò, nonostante
sapesse perfettamente che alla fin della fiera avrebbe dovuto pulire e
sistemare lui tutto quanto: era il suo destino, servire in ogni
aspetto, anche quello più umile, quell’imbecille
reale.
Alex sorrise e per dimostrare il proprio sostegno gli
massaggiò la schiena. Quindi si alzò e si diresse
verso la cucina per preparare un po’ di te.
«Merlino?», lo chiamò dalla soglia,
leggermente preoccupata.
«Uhm?».
«Puoi venire qui un attimo?».
Il mago la raggiunse e rimase senza fiato di fronte alla sua povera
cucina ridotta come quella della signora Begum dopo ore ed ore di
lavoro ininterrotto.
«Troppo tardi», mormorò Alex,
grattandosi la testa.
«Non lo è per rigettarlo nel lago e guardarlo
mentre affoga», rispose Merlino prima di correre verso le
scale per salirne i gradini due a due.
«Un goblin! È come se un goblin fosse stato
liberato nella mia cucina! Come diavolo –?».
Merlino, entrato come una scheggia nella stanza del re di Camelot, si
interruppe bruscamente nel bel mezzo della propria sfuriata quando vide
Artù di fronte alla finestra, con la fronte solcata da rughe
di apprensione e una mano sopra il cuore.
«State male? Sta succedendo di nuovo?».
Il biondo si voltò e dopo un attimo di esitazione
espirò ed accennò un sorriso, scrollando il capo.
«È passato».
«Siete sicuro? Artù…».
Il re non gli permise di terminare la frase, parlandogli sopra:
«Cosa stavi dicendo a proposito di quel goblin?».
«La mia cucina è un completo disastro!»,
esclamò quando si fu calmato, sospirando esasperato.
«Come ci siete riuscito?».
«Non volevo mangiare gli avanzi di ieri sera. Non
sarò più il re, ma resto comunque di sangue
reale!».
«E così avete provato a cucinare, fallendo
miseramente».
«Sono sempre stato negato. Ginevra…». I
suoi occhi si velarono all’improvviso della malinconia legata
ai ricordi e Merlino pensò a qualcosa da dire per tirarlo su
di morale, ma non gli venne in mente nulla di appropriato. In fondo
sapeva bene quanto il passato facesse male e quanto fosse difficile
porre rimedio alle sue ferite.
Allora lo distrasse, dicendo: «Alex mi ha chiesto di
accompagnarla da suo padre. Venite anche voi».
Più che una domanda era stata posta come
un’affermazione, perciò Artù si
voltò con un sopracciglio inarcato e chiese: «E se
non ne avessi voglia?».
Merlino sogghignò sotto lo sguardo ora indagatore del re di
Camelot. «Vedrete, vi piacerà».
***
Alex
aveva cercato di pensare ad altro mentre guidava verso
l’agriturismo in cui lavorava e viveva suo padre, nel bel
mezzo del nulla a metà strada tra il loro minuscolo paesino
e Caerleon.
Aveva seguito pezzi della conversazione tra Artù e Merlino,
la quale ben presto si era trasformata in una discussione vera e
propria: il moro aveva provato a spiegare al biondo che al
più presto avrebbe dovuto trovarsi un lavoro, ma
quest’ultimo si era fermamente opposto sin
dall’inizio, affermando semplicemente che non era
lì per costruirsi una vita.
Alex non aveva colto il senso di quella frase e aveva guardato Merlino
con la coda dell’occhio, trovandolo pallido e con il labbro
inferiore stretto tra i denti, mentre i suoi occhi venivano
attraversati da un bagliore di rabbia. In ogni caso la sua mente non le
aveva permesso di rimuginarci sopra a lungo, costringendola invece ad
immaginarsi i mille e più scenari che avrebbero potuto
verificarsi una volta di fronte a suo padre.
Più attraversavano la campagna gallese, sotto quel cielo
ricoperto di nuvole grigiastre dietro le quali il sole era solamente
una sfera di pallida luce bianca, più il nervosismo le
attanagliava lo stomaco, facendole maledire il momento in cui aveva
preso quella folle decisione.
Le parole di Merlino avevano di certo sortito il loro effetto, tanto da
convincerla che parlare con suo padre era la cosa migliore da fare, ma
forse non ci aveva ragionato su abbastanza: il padre di Merlino era
sicuramente una persona migliore rispetto al suo – o forse
no, visto che da quello che le aveva raccontato non aveva avuto
l’opportunità di conoscerlo a fondo – e
lei non poteva rompere quel silenzio che durava da ormai sei anni solo
perché lui non aveva avuto abbastanza tempo da spendere con
il suo genitore. A dire il vero Alex in quel momento avrebbe fatto
carte false per trovarsi al suo posto: avrebbe preferito essere orfana
di padre, piuttosto che trovarsi in quella situazione.
Forse Merlino però ci aveva preso giusto, quando aveva detto
che lei e Artù si assomigliavano: il suo orgoglio le
impediva di fare inversione ad U e tornare indietro, ammettendo
pubblicamente di non avere il coraggio di affrontare suo padre.
«Manca ancora molto?», domandò ad un
tratto Artù, rompendo il silenzio.
«No, l’agriturismo è
laggiù», rispose Alex, indicando, ad ormai pochi
chilometri di distanza, un grande edificio di mattoni a vista,
circondato da campi coltivati e vigneti.
Merlino si voltò verso i sedili posteriori e anche Alex
gettò uno sguardo al biondo attraverso lo specchietto
retrovisore: sembrava avere la luna storta, come la maggior parte del
tempo, ma il pallore del suo viso e la sofferenza nei suoi occhi
raccontavano anche qualcos’altro.
Alex aprì un po’ il finestrino e non appena
l’aria fresca ed impregnata dell’odore della
campagna lo colpì, arruffandogli i capelli sulla fronte,
Artù parve rianimarsi, ricambiando il suo sguardo e
rimanendo impassibile nonostante avesse notato il leggero sorriso che
le aleggiava sulle labbra.
Dieci minuti dopo avevano già lasciato l’auto nel
parcheggio – se così si poteva chiamare quello
spiazzo quadrangolare pieno di buche da cui, a causa del forte vento
che si era alzato nelle ultime ore, si sollevava così tanta
polvere che le loro scarpe ne assunsero ben presto il colore chiaro
– e si dirigevano verso l’entrata
dell’agriturismo.
Avevano quasi raggiunto le scale in pietra che portavano alla piccola
veranda riparata da un tetto spiovente, massicce travi di legno e tre
spigolosi pilastri in mattoni, quando Artù
l’affiancò e senza farsi sentire da Merlino,
qualche passo davanti a loro, le disse: «Perché
non hai detto niente? Avresti potuto…».
«Prenderti in giro perché soffri il mal
d’auto?». Alex si strinse le braccia al petto,
arricciando le labbra in un sorriso divertito. «Il tuo
orgoglio ne avrebbe sicuramente risentito, ma so come ci si sente
– anche io da piccola stavo male durante i lunghi tragitti
– perciò non ho infierito».
«Beh… me ne ricorderò».
L’infermiera osservò quegli occhi blu seri e pieni
di rispetto, come se avessero appena colto qualcosa di importante e di
onorevole in lei, e si sentì sia lusingata che imbarazzata.
Gli diede una pacca sul braccio per stemperare la tensione e sempre a
bassa voce, poco prima che Merlino si voltasse per chiedere loro di che
cosa stessero confabulando, disse: «Al ritorno
farò in modo che tu sieda davanti».
Quindi sorrise e con una corsetta raggiunse Merlino sotto la veranda
per entrare per prima nella piccola e semplicissima, ma accogliente,
reception: un angolo con un alto bancone di legno scuro su cui
spiccavano due stupendi vasi di fiori freschi e diverse brochure, un
appendiabiti, un portaombrelli e alle pareti diverse fotografie
d’epoca che immortalavano la campagna, degli animali da
fattoria, soprattutto cavalli, e dei contadini. Alla sinistra del
bancone iniziava la scalinata che portava al piano superiore, quello
delle camere e dei bagni; seguendo il corridoio, invece, si arrivava
all’area comune che altro non era che un ampio salotto ben
arredato in stile rustico, con un grande camino dalle fiamme
già scoppiettanti, diverse poltrone posizionate intorno ai
tavolini bassi, una televisione e una biblioteca ben fornita che
occupava praticamente tutta la parete est.
«Buonasera, posso esservi utile?».
Alex sorrise alla giovane ragazza dietro il bancone e non senza un
po’ di nervosismo si presentò: «Mi
chiamo Alexandra Greenwood, sono la figlia di Edwin».
La ragazza, dagli occhi scuri e i capelli castani, non fece in tempo ad
aprire bocca che la voce roca di un uomo li raggiunse ancor prima della
sua figura, nascosta alla loro vista grazie all’alto
schienale della poltrona posta proprio davanti al camino: «Lo
sapevo che questo giorno prima o poi sarebbe arrivato».
Alex, Merlino e Artù fecero un passo verso il salotto e
l’uomo si alzò, lasciando il quotidiano
spiegazzato sulla poltrona e sistemandosi gli occhiali sul naso. Sulla
cinquantina, con corti capelli brizzolati e un accenno di barba sulle
guance, Alex era sicura di non averlo mai visto in vita sua.
«Ci conosciamo?», gli chiese.
L’uomo sorrise bonario, porgendole la mano. «Il mio
nome è Abraham Morris, sono il proprietario di questo
agriturismo. Avete già conosciuto mia figlia,
Rebecca», indicò la ragazza dietro il bancone
della reception e lei accennò un timido sorriso, molto
diverso da quello del padre, anche se di suo aveva preso sicuramente il
colore degli occhi.
«Io e tuo padre siamo amici di vecchia data, abbiamo
frequentato persino lo stesso college da giovani. Ora come ora, penso
di essere l’unico amico che gli è
rimasto».
«Quindi lei sa perché sono qui», disse
atona, lo sguardo fisso sul suo viso rubicondo.
Il signor Morris nascose il collo tra le spalle, scrollando un poco il
capo. «Edwin dice di essersi messo il cuore in pace, ma io lo
so che l’unica cosa che lo fa andare avanti è il
pensiero che un giorno riuscirai a perdonarlo. Se non sei venuta qui
per questo, allora faresti meglio a tornare a casa».
Alex, presa in contropiede da quel suggerimento e
dall’espressione ora tutt’altro che amichevole sul
volto di Abraham, non riuscì a trovare le parole adatte con
cui rispondere. Fu Merlino a correre in suo aiuto, anticipando solo di
qualche istante Artù, il quale si era messo un passo davanti
a lei come a volerla proteggere.
«Alex è qui per vedere suo padre, non
può negarglielo, né minacciarla come ha appena
fatto», esclamò il moro, coi pugni stretti lungo i
fianchi e gli occhi che lanciavano saette.
L’uomo scoppiò in una grassa risata, per poi
rispondere: «La mia non era una minaccia, solo un
consiglio». Quindi tornò a fissare gli occhi in
quelli di Alex, così severi che le fu impossibile non
rimanerne impressionata, e aggiunse: «Penso solo che una
figlia che rinnega il proprio padre per sei anni e che poi chiede il
suo aiuto, solo perché non ha nessun altro, sia una bella
ipocrita».
L’infermiera sentì il sangue andarle al cervello e
ancor prima di poter realizzare le conseguenze delle proprie azioni lo
schiaffeggiò.
«Lei non sa niente!», gridò, fuori di
sé. «Non può parlare, non
può giudicarmi!».
Abraham la guardò sbalordito mentre Merlino, piazzato di
fronte a lei, tentava di farla smettere di urlare. Ad un tratto, scesa
dal piano di sopra a causa del baccano che stavano facendo, anche la
signora Morris si unì alla mischia. Gridò ai tre
ragazzi di andarsene, senza voler sentire ragione alcuna, e a quel
punto fu Artù a prendere in mano la situazione: si
caricò semplicemente Alex sulla spalla, convergendo su di
sé tutti gli improperi che altrimenti avrebbe gettato
addosso al proprietario dell’agriturismo, e nonostante si
divincolasse con tutte le sue forze riuscì a portarla fuori.
La lasciò andare solo quando furono di nuovo nel parcheggio
e la prima cosa che fece quando i suoi piedi toccarono di nuovo terra
fu tempestarlo di pugni sul petto, o almeno ci provò,
trovandosi nuovamente bloccata nella sua stretta d’acciaio,
il viso ad un palmo dal suo.
«Toglimi le mani di dosso, imbecille», gli
sibilò in faccia, trucidandolo con lo sguardo.
«Solo quando avrai finito di dare spettacolo e ti comporterai
come una persona matura».
«Senti da che pulpito arriva la predica!».
Sconvolta dalla rabbia e dal grande dolore che sentiva bucarle il petto
come una voragine, Alex avrebbe sicuramente detto qualcosa di cui poi
sarebbe pentita, perciò fu grata della presenza di Merlino,
il quale costrinse Artù a lasciarla andare e la prese per le
spalle per guardarla dritta negli occhi.
«Alex, respira. Respira».
Fece come le aveva chiesto e non appena l’aria
entrò nei suoi polmoni un singhiozzo le uscì
incontrollato dalla gola, tanto forte che fu impossibile nasconderlo,
come i suoi occhi che si erano velocemente riempiti di lacrime ardenti.
«Va tutto bene», le sussurrò ed
alzò una mano per accarezzarle i capelli, ma Alex si
scostò bruscamente, stringendosi le braccia al petto e
dandogli le spalle.
«Non sarei mai dovuta venire».
«Ti sbagli».
«No, tu ti sbagli!»,
urlò, girandosi di scatto per puntargli un dito contro.
Le era perfettamente chiaro ora: tutto il rancore che aveva covato per
suo padre in quegli anni… era sempre stato rivolto a se
stessa, in modo così deleterio da renderla cieca di fronte
all’evidenza.
«Come posso tornare da mio padre dopo sei anni e fare finta
che non sia successo nulla? Il signor Morris ci ha visto giusto: sono
un’ipocrita. Lui avrà anche sbagliato,
più e più volte, ma sono io quella che ha
commesso l’errore più grande, rifiutandomi di
perdonarlo; il mio orgoglio me l’ha impedito».
Tirò su col naso ed accennò un sorriso,
ricordando la storia che aveva letto qualche tempo prima ai bambini
dell’ospedale. «Non sono pura di cuore come credi
tu, Merlino. Nessun unicorno si mostrerebbe ai miei occhi».
Merlino abbassò lo sguardo con le labbra strette in una
linea sottile, Artù invece boccheggiò
vistosamente, come se avesse appena detto qualcosa di cui non avrebbe
dovuto essere a conoscenza. Ancora una volta non poté
chiedere spiegazioni, distratta dalla signora Morris.
«Ragazzi!», li chiamò, correndo
giù dalle scale in pietra con così tanta foga che
l’infermiera temette per un attimo di doverla accompagnare al
pronto soccorso. Quando fu sana e salva sul sentiero che portava al
parcheggio Alex se ne dimenticò completamente e
gettò la borsa a terra, sollevando una nuvola di polvere,
per accovacciarcisi sopra e cercare le chiavi dell’auto,
borbottando ad alta voce: «Sì, sì, ce
ne stiamo andando!».
«No, non dovete!», esclamò, chinandosi
davanti ad Alex per prenderle delicatamente le mani ed invitarla ad
alzarsi. «Mia figlia mi ha raccontato quello che è
successo e mi dispiace davvero tanto. Abraham a volte esagera,
specialmente quando si parla di Edwin: è il suo migliore
amico e si è angosciato molto quando ha saputo che vi siete
visti».
Alex sentì un brivido correrle lungo la schiena. «Angosciato?
E per quale motivo?».
La donna sospirò e gettando uno sguardo anche a Merlino e ad
Artù disse pacatamente: «Venite, vi offro una
tazza di tè».
«All’epoca tuo padre abitava già nella
piccola dependance dietro le stalle, pranzava e cenava con noi, proprio
come uno di famiglia, perciò abbiamo potuto constatare di
persona quanto fosse stato distrutto dalla morte di tua madre. Ricordo
come se fosse ieri che quella sera, dopo il funerale, tornò
a casa ubriaco, piangendo e ripetendo il tuo nome e quello della tua
povera mamma».
La signora Morris si fece un rapido segno della croce, guardando il
soffitto, ma Alex continuò a fissare il tavolo, immersa nei
ricordi: anche lei quella sera si era data all’alcool, ma al
contrario di suo padre aveva trovato delle braccia pronte a sostenerla,
quelle di Keith, il quale si era preso cura di lei come se davvero gli
fosse importato qualcosa, sussurrandole parole di conforto e
sostenendole la fronte quando si era ritrovata in ginocchio di fronte
al water, con le collant nere strappate e il trucco che le colava sulle
guance a causa delle lacrime.
«Abraham ed io abbiamo fatto tutto quello che potevamo per
lui, cercando di non fargli mancare nulla e dimostrandogli ogni giorno
il nostro sostegno, il nostro affetto. Quando sembrava che si stesse
riprendendo – era tornato a lavorare, sorrideva ai bambini
come aveva sempre fatto – fu allora che crollò
definitivamente. Fu Abraham a trovarlo, insospettito dal fatto che
quella mattina non avesse iniziato presto a prendersi cura dei cavalli.
Aveva ingerito una dose massiccia di sonniferi, ma fortunatamente i
soccorsi sono arrivati in tempo e i medici sono riusciti a salvarlo.
Aveva anche lasciato un biglietto, ma Abraham non mi ha mai voluto dire
che cosa ci fosse scritto: l’ha bruciato proprio
là, nel camino».
Solo allora Alex alzò il capo, rivolgendolo verso la porta
aperta da cui si intravedeva uno scorcio del salotto. E solo allora si
rese conto di essere rimasta sola con la signora Morris nella grande
cucina che faceva da sala colazione per gli ospiti
dell’agriturismo, con una tazza di tè ormai
tiepido, intoccato, e un piatto di biscotti fatti in casa davanti al
naso.
«Dove sono Merlino e Artù?», chiese con
voce lontana, così spiritata che stentò a
riconoscerla come la propria.
La signora Morris le posò le mani solcate di rughe sulle
sue, accarezzandole delicatamente con il pollice, e le rivolse uno
sguardo carico di apprensione. «Li hai mandati via circa
dieci minuti fa, tesoro».
Alex annuì con un breve cenno del capo, fingendo di
ricordarselo.
Per quanto disperato fosse il bisogno di stringere forte la mano di
Merlino, di trovare conforto e tranquillità nei suoi dolci
occhi azzurri, pensò che nello sconvolgimento avesse fatto
qualcosa di positivo: non avrebbe mai sopportato di vedersi
così debole e fragile riflessa nel suo sguardo,
né avrebbe mai voluto lasciargli capire che in fondo aveva e
aveva sempre avuto bisogno di protezione e di qualcuno a cui
aggrapparsi.
***
«Non
dovremmo allontanarci troppo, Alex potrebbe…».
Artù si voltò e senza smettere di camminare,
diretto verso le stalle, gli rivolse un’occhiata obliqua.
«Alex è più forte di quello che sembra,
sa cavarsela da sola. E poi credo che abbia bisogno di un po’
di tempo per poter perdonare se stessa».
«Perdonare… se stessa?». Merlino si
fermò qualche passo dietro di lui, profondamente colpito da
quanto a volte le loro menti fossero in sintonia.
Da quando Alex si era concessa quello sfogo il mago non aveva fatto
altro che pensare a quanto le loro situazioni fossero simili, per
quanto diverse. Tutto quello che aveva detto ad Artù quella
mattina, sul fatto che non fosse riuscito a confessargli prima di
possedere la magia perché aveva paura di non essere
più visto lo stesso Merlino di sempre e di perdere la sua
amicizia era vero, ma c’era anche un altro motivo, qualcosa
di così profondo che il solo pensiero gli faceva tremare le
ginocchia ma che lo avrebbe dilaniato, se avesse continuato a tenerselo
dentro.
«Ma come faceva a sapere
dell’unicorno?», chiese Artù ad
un tratto, fermandosi nel bel mezzo del sentiero.
Merlino sbatté più volte le palpebre e quando
capì a che cosa si riferiva si portò una mano
sulla nuca, imbarazzato. «Io, ecco… Nel corso
degli anni ho fatto di tutto per non dimenticare e una cosa che mi ha
aiutato molto è stato scrivere».
«Tu hai scritto… di me? Di noi?».
La sua espressione innervosita, perfetta per celare
l’imbarazzo, gli fece abbassare lo sguardo e calciare un paio
di sassolini con le sue All Star rosse ora sporche di polvere.
«Di voi, dei Cavalieri della Tavola Rotonda, di
Gaius… Ho scritto tutto quanto. È stata
l’unica cosa che ha saputo darmi un po’
d’ossigeno quando pensavo di soffocare».
«E Alex sa…?».
«No! Ho adattato alcune nostre avventure per poterle
raccontare come favole ai bambini dell’ospedale e lei pensa
che siano solo questo, favole; non sa che sono
vere. Almeno credo».
Artù lo scrutò e, sapendo fin troppo bene che si
era già tuffato in quel mare di dubbi ed ipotesi,
lasciò perdere e non gli chiese altro.
Entrarono insieme nella grande scuderia e rimasero senza parole quando
si trovarono nel bel mezzo del largo corridoio da cui sia a destra che
a sinistra si aprivano i box di cinque bellissimi esemplari di cavalli
adulti e di un paio di pony. Lo stregone non poté evitare di
sciogliersi in un sorriso scorgendo gli occhi luminosi e allo stesso
tempo malinconici del suo re di fronte ad una parte, seppur piccola,
del mondo che conosceva.
Si avvicinò ad uno stallone dal lucido manto brunito e gli
accarezzò il muso, provando le stesse identiche emozioni di
Artù. E fu quella vicinanza, quell’atmosfera
intrisa di ricordi, che lo invogliò a parlare.
«Alex non è la sola ad aver bisogno di
perdono».
«Uhm?». Artù posò gli occhi
nei suoi e il cavallo a cui aveva prestato tutta la propria attenzione
fino a quel momento non ne fu felice e per dimostrarlo
sollevò fieramente il capo nitrendo. Il re lo
calmò con poche parole, sorridendo, e disse ancora:
«Che cos’hai detto?».
Merlino abbassò gli occhi, appoggiandosi
all’entrata del box con una mano. «È uno
dei motivi, se non il motivo principale, per cui non sono mai riuscito
a dirvi la verità».
«Cos’è, ora che il tuo amico drago non
c’è più hai deciso di prendere il suo
posto? Parla chiaro, per favore!».
«Io non sono mai riuscito a perdonare me stesso,
Artù. Ho commesso tanti e tanti errori usando la magia,
complicando le cose anziché migliorarle, costringendovi a
correre mille e più pericoli inutili. Se solo voi vi
rendeste conto di tutto il dolore che vi ho
causato…».
«Ti riferisci a Morgana? A mio padre?».
Merlino trattenne il respiro e si azzardò ad alzare lo
sguardo, trovando quegli occhi blu come il mare calmi, sereni, come se
la tempesta fosse finita ormai da un pezzo e quasi dimenticata.
Il re di Camelot scrollò le spalle.
«Millequattrocento anni sul fondo di un lago hanno avuto la
loro utilità, dopotutto. Sono consapevole di tutto
ciò che hai fatto e ti posso assicurare che i tuoi errori
non sono nemmeno paragonabili a tutto l’aiuto che hai saputo
darmi. Mi hai salvato la vita così tante volte che mi
è impossibile tenere il conto, Merlino».
«Sì, ma…».
Gli posò entrambe le mani sulle spalle, immergendo gli occhi
nei suoi. «Mio padre non è morto per colpa tua; tu
hai fatto tutto quello che hai potuto per salvarlo, lo so. Era destino
che perisse. E per quanto riguarda Morgana…».
Sospirò, socchiudendo gli occhi. «Non so quanto
avresti potuto aiutarla, ha scelto da sé quale uso fare dei
suoi poteri».
Il mago aprì la bocca per ribattere, ma Artù lo
fermò con un gesto imperioso della mano.
Merlino sollevò un angolo della bocca.
«Così è come se l’aveste
fatto».
Artù ricambiò il sorriso e provò a
stringergli il collo in una morsa d’acciaio per sfregargli le
nocche tra i capelli, ma non ci riuscì, preso alla
sprovvista da una voce maschile che chiese loro: «Vi siete
persi?».
I due si allontanarono in fretta l’uno dall’altro e
guardarono spaesati l’uomo sbucato dal nulla, magro nei suoi
consumati abiti da lavoro e negli stivali alti fino al ginocchio, con
un cappellino da baseball blu impallidito dal sole che gli ombreggiava
il volto scarno.
Merlino lo guardò meglio, assottigliando gli occhi, ma solo
quando avanzò di qualche passo e si espose alla luce al neon
della scuderia riuscì a riconoscerlo, nonostante la barba di
due o tre giorni, ispida ed argentata. I suoi occhi, spenti e velati di
un’antica tristezza dietro gli occhiali da vista, non
potevano mentire.
«Lei è il padre di Alex, vero?».
L’uomo lasciò a terra il secchio che teneva in una
mano e si fece ancora più vicino, guardandoli attentamente.
Il suo sguardo finì inevitabilmente su Artù e si
tolse il cappellino, rivelando una specie di caschetto spettinato di
capelli argentati, prima di esclamare: «Tu sei quel ragazzo
che Alex ha soccorso al lago, quello con tutta quella ferraglia
addosso».
Il re strinse le labbra ed annuì, sollevando le mani come in
segno di resa.
«Il suo nome è Artù», disse
il mago. «Io invece mi chiamo Merlino».
Edwin li guardò e nonostante ci avesse provato il sorriso
divertito che gli piegò le labbra non fu altro che una
smorfia. «Mi prendete in giro?».
«No», sospirò Merlino, ricordando il
momento in cui Alex gli aveva detto, ridendo, che quella era proprio
una bella coincidenza. «Signor Greenwood, siamo venuti qui
con sua figlia e prima che possa…».
«Alex è qui?», gli chiese
interrompendolo, iniziando a sudare nonostante il suo viso si fosse
fatto all’improvviso più pallido.
Lo stregone annuì solennemente, senza interrompere il
contatto visivo. «Quando l’abbiamo lasciata, era
ancora con la signora Morris».
A quelle parole l’uomo sobbalzò e
lasciò cadere il cappellino da baseball a terra. Sia
Artù che Merlino si chinarono a raccoglierlo e quando si
risollevarono scoprirono che Edwin era corso fuori dalla scuderia. Non
poterono far altro che seguirlo.
***
Una
famiglia formata da mamma, papà e due bambini, ospite
dell’agriturismo, si era trovata costretta a passare per il
salotto già due volte e in entrambe le occasioni i genitori
avevano rimproverato i figlioletti quando li avevano sorpresi ad
osservare troppo a lungo Alex, rannicchiata sulla poltrona proprio di
fronte al fuoco scoppiettante del camino e con gli occhi colmi di
lacrime che stava tentando in ogni modo di sopprimere.
Continuava a guardare le fiamme, come se le parole che suo padre aveva
scritto prima di tentare di togliersi la vita potessero apparire tra le
scintille. Non sarebbe successo, no, ma Alex aveva la sensazione di
conoscerle, di averle lette più e più volte nei
suoi occhi stanchi e tristi, e facevano così male da
toglierle il fiato.
Come poteva essere stata tanto crudele, tanto egoista? Come aveva
potuto ignorare la sua sofferenza per così tanto tempo?
«Wanda!».
Alex sobbalzò e sentì le gambe cederle quando si
alzò dalla poltrona, dando le spalle al fuoco.
La signora Morris uscì dalla cucina e dopo averle gettato
una rapida occhiata si diresse velocemente verso l’ingresso
sul retro, dove si imbatté in Edwin, seguito dagli ansimanti
Merlino e Artù.
«Dov’è mia figlia? Perché non
mi hai mandato subito a chiamare?», ruggì ancora,
come un animale ferito.
La donna indicò il salotto con un braccio e
sospirò stancamente, facendogli capire che era arrivato
troppo tardi. «Aveva il diritto di saperlo».
«Non così! Lei…».
«Non è più una bambina», lo
interruppe docilmente, posandogli una mano sul braccio.
Dalla sua posizione Alex poteva vederli, ma loro non potevano vedere
lei. Poteva vedere la disperazione e lo smarrimento sul volto di suo
padre, la confusione e il timore in quegli occhi che sua madre aveva
amato tanto e che lei era sempre andata fiera di aver ereditato.
«Papà», lo chiamò, cercando
inutilmente di mandare giù il magone che le faceva tremare
la voce.
Edwin si girò verso di lei e lentamente la raggiunse, non
riuscendo però a sostenere il suo sguardo, umido di lacrime
e ciononostante bellissimo, la luce della sua vita, ancora
più ardente del fuoco scoppiettante nel camino;
l’unica ragione che inconsapevolmente gli aveva impedito di
scegliere una morte più sicura ed istantanea.
«Non saresti dovuta venire qui»,
mormorò, ancora a capo chino sui suoi stivali sporchi di
fango.
«Hai ragione», rispose Alex, accennando un sorriso
mesto. «Perché non avrei mai dovuto
lasciarti».
Suo padre alzò di scatto gli occhi e rimase senza parole
quando Alex gli gettò le braccia al collo e lo strinse
forte, passandosi una mano sotto gli occhi per cancellare i segni di
quelle lacrime che alla fine l’avevano avuta vinta.
«Mi dispiace tanto, io…»,
singhiozzò, facendo i pugni sulla sua schiena e tra i suoi
capelli.
«Shhh. Va tutto bene, amore mio. Va tutto bene».
Alex capì che per la prima volta da anni era davvero
così e che c’era una sola persona che doveva
ringraziare per averla spinta a dare quell’enorme calcio al
sedere del suo orgoglio.
Incrociò lo sguardo di Merlino e gli rivolse un sorriso
intriso di gratitudine, al quale lui rispose un tantino imbarazzato,
guardandola solo di sottecchi. Al contrario Artù, al suo
fianco, si appoggiò allo stipite della porta con una spalla
e sorrise soddisfatto, come se il merito di quel lieto fine fosse suo.
Alex soffocò una lieve risata contro la spalla di suo padre
e, circondata dalle sue braccia e dal suo infinito amore, chiuse gli
occhi pregando perché quel momento non finisse mai.
***
«Siete
sicuri di non voler restare per la notte? O almeno per cena?».
Alex sorrise gentilmente e chinò un po’ il capo, a
mo’ di ringraziamento. «Abbiamo creato fin troppo
scompiglio oggi. Sarà per la prossima volta, signora
Morris». Quindi si voltò verso suo padre e il suo
sorriso si ampliò quando stese le braccia verso di lui per
poterlo abbracciare ancora. «Ti chiamo domani,
promesso».
Edwin sospirò rilassato, massaggiandole la schiena, poi
sollevò una mano per salutare anche Merlino ed
Artù, quei due ragazzi strani senza i quali non avrebbe mai
riavuto indietro la sua bambina.
Stavano per lasciarsi l’agriturismo alle spalle, quando il
signor Morris si schiarì la gola dietro sua moglie e il
padre di Alex, facendoli voltare sorpresi.
«Volevo scusarmi per… lo sapete, per come mi sono
comportato. Non avrei dovuto dirti quelle cose, Alexandra».
Merlino avrebbe potuto indovinare i pensieri che aleggiavano nella
mente della ragazza e seppe che avrebbe avuto ragione quando la vide
offrirgli una mano in segno di pace ed esclamare: «Mi chiami
pure Alex».
Abraham ricambiò il sorriso e le diede una stretta vigorosa,
facendole promettere di tornare presto.
«Ci conti!», esclamò Artù al
posto suo, con così tanto entusiasmo che sia Alex che
Merlino si scambiarono uno sguardo accigliato.
Una volta nel parcheggio, il mago affiancò il re di Camelot
e gli chiese che cosa avesse voluto dire con quella risposta.
«Niente, solo che ci torneremo!».
«Ah, ti conosco troppo bene ormai: dimmi che cosa ti
frulla nella testa».
«Beh… Stavo pensando che se è davvero
necessario che io mi trovi un lavoro, mi piacerebbe fare ciò
che fa il padre di Lady Alex».
Alex si bloccò con una mano sulla maniglia della portiera e
dopo un attimo di esitazione scoppiò a ridere accorgendosi
dell’espressione sconvolta di Merlino.
«Mi stai prendendo in giro, vero?», gli chiese
quest’ultimo, quando fu in grado di articolare una frase di
senso compiuto, mentre Artù si era già
impadronito del sedile accanto a quello del guidatore.
«No, perché dovrei?».
«Perché non puoi dire sul serio, è
fuori da ogni logica!».
Alex sbuffò trattenendo una risata ed esclamò:
«Falla finita e salta in macchina, è un lavoro
come un altro».
«No che non lo è!», rispose, con gli
occhi sgranati.
Il re di Camelot che si abbassava a prendersi cura dei cavalli, a
tenere puliti i loro box e in generale la scuderia? Non sarebbe mai
successo, nemmeno in un universo alternativo.
Alex posò le braccia sul tettuccio dell’auto e gli
rivolse un’occhiata esasperata. «Preferisci tornare
a piedi?».
Merlino scosse il capo e sospirò, dicendosi che una volta da
soli, a casa, avrebbe riaperto la questione. Entrò in auto e
solo in quel momento si rese conto di essere seduto sui sedili
posteriori.
«Perché hai lasciato che Artù sedesse
davanti?», chiese ad Alex, insospettito. E lo fu ancora di
più quando l’infermiera e Artù si
scambiarono un sorrisino prima che lei rispondesse:
«Perché no? Non c’è mica
scritto il tuo nome su quel sedile».
Artù si allacciò la cintura e mentre Alex faceva
manovra per girarsi ed uscire dal parcheggio si voltò verso
di lui con un sogghigno per nulla rassicurante stampato sul viso.
Infatti, con un luccichio perverso negli occhi, esclamò:
«Hai qualcosa in contrario, forse? Non dirmi che sei geloso,
Merlino!».
Il mago sobbalzò e sentì le orecchie andargli a
fuoco, ma non fu l’unico a soffrire dei sintomi
dell’imbarazzo: anche Alex, alle parole di Artù,
aveva stretto più forte le mani sul volante, mordendosi
nervosamente il labbro inferiore. E fu lei a sopprimerli per prima,
rispondendo con l’ironia con cui era solita difendersi nelle
situazioni critiche.
«E di chi dovrebbe essere geloso, di te?
Mi dispiace dare questo colpo al tuo ego, Artù, ma ho visto
ragazzi di gran lunga più belli di te».
Merlino si passò una mano sulla fronte, consapevole che se
c’era un tasto che non doveva essere assolutamente toccato
con Artù era proprio il suo aspetto fisico.
D’altronde ne aveva più volte subito le
conseguenze…
«Ah sì? Lasciami dire che invece io me ne intendo
di bellezza femminile e sai, tu non sei nemmeno lontanamente
paragonabile a nessuna donna abbia avuto l’onore
di…».
Sospirò abbattuto e lasciò cadere indietro la
testa.
Si prospettava un lungo, lunghissimo viaggio.
«Perché non ti fermi a cena?».
Merlino, il quale si era finto addormentato per la maggior parte del
viaggio per non dover scegliere da che parte stare durante i loro
continui battibecchi, rischiò di mandare a monte la sua
favolosa copertura udendo la voce di Artù pronunciare quelle
parole.
Si schiarì un po’ la gola e deglutì per
poi schioccare le labbra come faceva durante il sonno – un
motivo per cui veniva sempre picchiato da Artù nel caso gli
capitasse di sentirlo. Il re di Camelot si voltò, appena
infastidito, ma ben presto la sua attenzione fu di nuovo tutta su Alex,
la quale sospirò e rispose: «Ti ringrazio per
l’invito, ma è meglio di no».
«Non ti preoccupare, quando mi stuferò di starti a
sentire mi porterò la cena in camera».
«Ah-ah, molto divertente», borbottò,
lasciandosi andare ad una breve risata. Quindi il suo tono di voce
tornò serioso, quasi dispiaciuto: «Vi ho
già rubato fin troppo tempo oggi. A proposito, volevo
scusarmi di avervi lasciati a voi stessi per tutto quel
tempo…».
«Non devi scusarti. Avevi bisogno di stare da sola con tuo
padre, per chiarirvi».
«Grazie, Artù. Ma la mia risposta è
sempre no».
«Scommetto che c’è un altro motivo per
cui non vuoi fermarti. Ho ragione?».
«Può darsi», biascicò.
Il biondo smorzò una risata per esclamare:
«È così difficile ammettere che ho
ragione? E sentiamo, quale sarebbe questo motivo?».
«Perché dovrei dirtelo?».
«Perché non
dovresti?».
«Lo sai che sei proprio una seccatura? Non avrei dovuto
coprire il tuo mal d’auto: a quest’ora saresti
stato uno straccetto verdognolo sul sedile e avrei avuto un
po’ di silenzio!».
Merlino dovette sforzarsi per non scoppiare a ridere e il suo
silenzio venne ricompensato, perché vedere Artù così
imbarazzato era un’occasione più unica che rara.
«Prometto che se mi dici qual è questo misterioso
motivo starò in silenzio».
Alex sospirò e dopo qualche istante di esitazione
confessò: «A volte mi sento di troppo, tra voi
due. Sembrate così completi insieme e
poi Merlino ti guarda in un modo…».
«Aspetta, aspetta, stai cercando di dire che
sembriamo… Che io e lui…?»,
continuò a balbettare, sconclusionato, fino a quando Alex
non lo interruppe dicendo: «Non c’è
nulla di male, davvero. Siamo nel 2014, non nel Medioevo! E per quanto
mi riguarda, se c’è
l’amore…».
«Basta così! Non voglio più sentire una
parola! Queste sono tutte assurdità! Tra me e Merlino non
c’è quello che credi tu e mai niente del genere ci
sarà, hai capito?».
Alex ridacchiò. «Ah già,
dimenticavo… Il tuo cuore apparterrà a Ginevra
per l’eternità».
Merlino riuscì quasi a sentire il dolore sordo che
scavò una voragine nel petto del re di Camelot, come se il
suo corpo e il proprio fossero collegati da un filo invisibile, e si
sentì ancora peggio quando capì che non avrebbe
potuto fare niente per alleviarlo.
Il silenzio calò nell’abitacolo, così
pesante e carico di tensione da poterlo tagliare a fette, e il mago
decise di svegliarsi. Aprì gli occhi e vide Alex che si
mordeva nervosamente il labbro inferiore, il suo sguardo mortificato
che si posava alternativamente sulla strada e su Artù,
girato quasi di spalle e con la testa contro il finestrino.
«Era solo uno scherzo… uno scherzo stupido.
Scusami, Artù».
Il re di Camelot non rispose e Alex incrociò quasi per caso
gli occhi di Merlino attraverso lo specchietto retrovisore.
Lanciò delle scuse silenziose anche a lui, il quale rispose
con l’accenno di un sorriso incoraggiante e una scrollata di
capo.
Alex aveva appena parcheggiato sul ciglio della strada sterrata di
fronte alla casa di Merlino quando Artù si voltò
con una mano stesa verso lo stregone. Quest’ultimo lo
guardò spaesato e solo allora il biondo si decise a parlare,
in tono brusco: «Le chiavi».
«Che senso ha avertene data una copia, se poi non te le porti
dietro?», gli chiese, sollevandosi per infilare una mano
nella tasca dei jeans.
Il re di Camelot non rispose e una volta ottenute le chiavi scese
dall’auto rivolgendo uno scarno saluto ad Alex.
L’infermiera scese dall’auto contemporaneamente a
Merlino, quando Artù era ormai sotto al porticato, e
sospirando si appoggiò al cofano caldo.
«Gli passerà presto», la
rassicurò il mago, mettendosi al suo fianco.
«Non è solo lui… È stata una
giornata impegnativa», mormorò, passandosi
stancamente le mani sul viso.
«Ma ne è valsa la pena, no?».
Riuscì a strapparle un sorriso. «Eccome. Grazie,
Merlino».
«E di che cosa? Non ho fatto niente».
Alex scosse il capo e gli tirò un pugnetto sulla spalla.
«Hai fatto tanto, invece. Mi hai fatto capire che non potevo
più andare avanti così, che dovevo recuperare il
rapporto con mio padre, cercare di capire, e poi mi sei stato
accanto… Non ce l’avrei mai fatta, senza il tuo
aiuto».
«Mi piace pensare che tu avresti fatto lo stesso per
me».
«Pensi bene».
Merlino si perse nei suoi occhi verdi e una folata di vento gli
riempì i polmoni del suo profumo, mentre una ciocca di
capelli le scivolava sulla fronte. Sorrise quando la vide in
difficoltà nel sistemarsela dietro l’orecchio e
senza nemmeno rifletterci fu lui ad afferrarla tra due dita e a
metterla a posto, sfiorandole la guancia, così calda per
l’imbarazzo che si sentì bruciare a sua volta e
ritrasse la mano di scatto, abbassando lo sguardo.
«Scusa, non volevo…».
«Non stavi dormendo prima, vero?».
Il mago inchiodò di nuovo gli occhi nei suoi e, preso in
contropiede, boccheggiò per qualche istante, dando il tempo
ad Alex di rispondersi alla prima domanda e di porne una seconda.
«Tu provi qualcosa per lui?».
Merlino la guardò intensamente, poi sogghignò.
«Sì, provo per lui un affetto incommensurabile e
una fede cieca. È solo il mio migliore amico, Alex, credimi.
Ma non sei la prima a pensare che ci sia di più. Ho sentito
dire molte volte che io e lui siamo due lati della stessa medaglia, ma
questo non vuol dire che ci debba essere un coinvolgimento
amoroso».
L’infermiera ricambiò il suo sguardo e nonostante
avesse tentato di nascondere tutto ciò che quelle parole le
avevano scatenato dentro, Merlino la vide rilassare le spalle, come
sollevata, ed accennare un sorriso mentre alzava il viso verso il cielo
punteggiato di stelle.
«Sarà meglio che vada».
Lo stregone annuì, allontanandosi dall’auto.
Quando si accorse dell’espressione offesa di Alex
corrugò la fronte, chiedendole silenziosamente di esprimersi.
«Non mi chiedi di restare?».
«Come? Beh, se vuoi…».
Alex sollevò un angolo della bocca in un sorrisino perfido e
facendo il giro dell’auto per sedersi al volante
esclamò: «E poi non dovrei pensare che tra di voi
ci sia – come l’hai chiamato? – del coinvolgimento
amoroso!».
Merlino lasciò cadere le braccia lungo i fianchi e
sbuffò, facendo ridere ancora di più Alex, la
quale mise in moto ed illuminò con i fari la strada che
già dopo pochi metri veniva nuovamente inghiottita dal buio.
Il mago restò a fissare le luci posteriori, due occhi color
del sangue, fino a quando non sparirono, poi si infilò le
mani nelle tasche dei jeans ed entrò in casa.
Con Alex non si era reso conto del freddo che era sceso con
l’arrivo della notte, ma ora si sentiva intirizzito e la
prima cosa che fece fu accendere il camino in salotto. O almeno
l’avrebbe fatto, se non avesse sentito un clangore metallico
e poi un tonfo provenire dal piano superiore.
Artù fu il suo primo pensiero e senza perdere tempo corse su
per le scale. Si diresse verso il fracasso che stava aumentando
d’intensità e con sgomento intuì che il
re di Camelot era entrato nel suo studio, quello che lui chiamava la
Stanza dei Ricordi.
Lentamente entrò nel riquadro della porta e scorse
Artù inginocchiato a terra, accanto al manichino riverso su
cui aveva sistemato la sua armatura, pulita e lucidata a dovere, rotoli
e rotoli di pergamena e pile di libri spazzati via dal loro posto sulle
mensole e ad un grosso baule chiuso con un lucchetto che
Artù stava cercando di forzare con una delle spade che aveva
trovato appese al muro, insieme a diverse altre armi che Merlino aveva
recuperato e gelosamente custodito nel tempo.
«Sono qui, non è vero?», gli chiese con
impazienza e una luce folle di dolore negli occhi. «Dimmi
dove sono i libri che hai scritto, Merlino!».
«Siete sconvolto abbastanza, Artù, è
inutile farvi altro male aggrappandovi ai ricordi».
«Io non voglio dimenticare!», ruggì e le
lacrime iniziarono ad inumidirgli lo sguardo. «Da quando sono
uscito dal lago, tutte le volte che ci ho provato è stato
come ricordare un’eco, una proiezione distorta di quello che
è realmente stato. Quei ricordi sono tutto quello che ho,
non posso permettermi di –!», la sua voce graffiata
dalla sofferenza si trasformò in un rantolo e fu costretto
ad accasciarsi tra i libri, una mano stretta a pugno sul cuore.
Merlino corse al suo capezzale e gli tenne sollevata la testa, posando
la mano sulla sua. Artù respirava a fatica, come se stesse
per affogare, e lo guardava negli occhi con espressione implorante.
«Per favore, Merlino».
Ma il mago negò con la testa, socchiudendo gli occhi per
richiamare la magia e concentrandosi al massimo per riuscire poi a
contenerla e a rinchiuderla di nuovo.
I suoi occhi diventarono d’oro liquido e fu uno shock
tremendo sentire quella terribile potenza scorrergli nel sangue,
vibrargli nelle ossa e friggere nel suo cervello, ma in qualche modo
riuscì a ricacciarla indietro quando vide il volto di
Artù distendersi e sentì il suo respiro farsi
più regolare. Le conseguenze però furono peggiori
anche della prima volta: scosso dalle convulsioni crollò
accanto ad Artù e non vomitò solo
perché era da quella mattina che non metteva nulla nello
stomaco, quindi svenne.
Dormì fino alla mattina successiva, ma al suo risveglio
avrebbe ricordato chiaramente di aver ripreso conoscenza almeno una
volta, quando Artù, nonostante la debolezza, lo aveva
portato nella sua camera da letto e gli aveva rimboccato le coperte.
Avrebbe ricordato di avergli preso il polso, di averlo stretto
più forte che poteva e di aver sussurrato: «Avete
anche me. Sempre».
Avrebbe ricordato di aver visto l’ombra di un sorriso sul
volto del solo ed unico re e di averlo sentito rispondere:
«Temo proprio che tu abbia ragione».