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Autore: _Leviathan    12/03/2015    0 recensioni
Balthazar Salk è uno psichiatra, il più giovane e promettente di tutta la Gran Bretagna. Un genio, secondo molti.
Hannah Woolf è una semplice ragazzina, accusata di omicidio colposo e trasportata nell’ospedale psichiatrico di Bradford. La sua cartella clinica recita: “Forte instabilità mentale e attacchi isterici manifestati solo in seguito al trasporto a Bradford. Disturbo non ancora specificato.”
Sarà compito del Dottor Salk seguire il caso Woolf.
Ma se Hannah non soffrisse di alcun disturbo mentale? E se non fosse stata lei a commettere l’omicidio?
E’ vero ciò che la ragazza sostiene, oppure è tutto frutto della sua alienazione psicologica?
Balthazar Salk si vedrà costretto a scegliere tra ciò che è giusto e ciò che ci si aspetta da lui, in una storia che narra la lotta per la vita e la denuncia di ingiustizie ai diritti fondamentali dell’uomo.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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CAPITOLO QUATTRO


 
 
 
Diario del dottor Salk – Memorie. 1963


 
 
 
La risata di mio padre era forte e limpida, mentre in quel pomeriggio di Gennaio di molti anni fa mi sollevava da terra per mettermi sulle sue spalle. Quando ero piccolo mi sentivo sempre bene lassù, dalle spalle di mio padre potevo dominare il mondo. Il mondo di un bambino particolare, che era fatto di escursioni in campagna e partite a nascondino, ma anche delle prime nozioni riguardanti psichiatria e disturbi mentali. Ero io che spronavo mio padre a insegnarmi quella materia così affascinante, era stata una mia iniziativa. Poi lui, una volta appurato che ne ero davvero interessato, aveva cominciato a regalarmi nuove nozioni ogni qual volta ne avesse avuto la possibilità, il che equivaleva a quasi tutti i momenti che passavamo insieme.
Mi trovavo proprio sulle spalle di mio padre, il giorno in cui gli posi la fatidica domanda: “Pà, che cos’è la schizofremia?”
All’epoca non sapevo neppure pronunciarla nel modo corretto.
Ricordo senza alcuno sforzo quella giornata passata al parco, una delle più belle della mia infanzia.
Mia madre ci aveva salutati dalla veranda di casa. Erano le undici del mattino, io e mio padre ci eravamo appena avviati verso il parco. Lei, invece, aveva cominciato a cucinare il pranzo, che sarebbe stato pronto per quando saremmo tornati, pieni di chiazze d’erba all’altezza delle ginocchia e con le guance arrossate per le troppe corse.
Quel giorno, però, non tornammo né con le chiazze né con le guance arrossate.
Dopo la mia domanda, mio padre mi aveva posto delicatamente a terra. Poi ci eravamo avviati verso la panchina più vicina, ci eravamo seduti, e lui aveva cominciato a spiegarmi. Certo, aveva utilizzato il linguaggio che più si confà ad un ragazzino di poco più di sei anni, ma ero comunque riuscito a capire il punto focale del discorso. Mio padre curava le persone. Aiutava coloro che soffrivano, coloro che erano stati isolati dalla società, gli sconfitti, i dannati. Fu quello il giorno in cui cominciai a vedere mio padre non solo per ciò che era, ma anche come un maestro, il più grande di tutti e, senza alcun dubbio, come un eroe. 
E io volevo a tutti i costi essere come lui.
 
Molta gente immagina che avere uno psichiatra per padre sia una condanna.
Chiaro, non nego che mio padre fosse in grado di incutere un certo timore con la sua figura possente, gli abiti sempre impeccabili e quegli occhi azzurri, puri ma severi, che tramite uno sguardo erano capaci di trafiggerti l’anima. Tutti i miei amici erano terrorizzati da lui.
Ma, dal mio punto di vista, egli non fu altro che una benedizione.
Possedeva la severità necessaria a crescere un figlio, ma anche una sensibilità tale da far in modo che questo figlio si innamorasse di lui. Tutti i miei ricordi più belli sono con lui.
Che uomo equilibrato. Che uomo straordinario.
Quando il pensiero di averlo rimpiazzato sfugge per un attimo al mio subconscio così da diventare a me accessibile, vengo assalito dall’angoscia.
Non sono sicuro di essere in grado di seguire correttamente la strada che lui mi ha lasciato, la strada sulla quale lui mi ha posto in attesa che io diventassi ciò che sono ora. La sua presenza aleggia non solo in casa, ma anche nell’ospedale, e questo mi turba. Lo sento sempre di fianco a me, e per quanto possa essere confortante, da una parte mi rende meno sicuro di me stesso.
Riuscire a somigliare anche solo un minimo a mio padre è l’obiettivo della mia esistenza.
   
 
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