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Autore: Ryuketsu no Kurea    14/03/2015    1 recensioni
"L'ombra che mi segue è diventata solida e adornata di quegli occhi rossi. Mi ritrovo davanti a un vicolo cieco, è la fine, sono in gabbia. Il cuore batte all'impazzata e la paura mi ghiaccia il sangue nelle vene. Sento di nuovo quella voce nella mia testa, che, chissà come, riesce a superare l'assordante battito del mio cuore, pur senza gridare. È come se facesse parte di me, è come se parlasse direttamente alla mia anima. "Sei mia, non vedo l'ora di conoscerti, Clarissa"
Clarissa potrebbe essere una ragazza come le altre (pessimismo a parte), ma ovviamente la sua vita verrà messa sottosopra e si ritroverà catapultata negli anfratti più oscuri del nostro mondo, in una società guidata dall'odio e dall'avarizia con l'unica speranza di non essere risucchiata in quel vortice oscuro.
Genere: Dark, Malinconico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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My past
 
"Bound at every limb by my shackles of fear
Sealed with lies through so many tears
Lost from within, persuing the end
I fight for the chance to be lied to again"
[Lies, Evanescence]


Fuoco. Sangue. Urla. Morte.
Questo il panorama intorno a me, immagini sfocate si succedono una dietro l'altra nella mia mente. Un albero con un impiccato. Una bestia con le zanne grondanti di sangue. Una donna con la gola sgozzata, che continua a cantare, incurante del sangue che fuoriesce dalla ferita. La canzone che mi rimbomba nelle orecchie ripetitiva come fosse un carillon.
Poi tutto ricomincia da capo, accompagnato da quella canzone così dolce e familiare che stona con le scene aumentando l'inquietudine che trasmettono. La sensazione di essere incatenata, una presa brusca e ferrea mi impedisce di muovermi, impotente mentre intorno a me tutto muore.
Un dito che mi picchietta sulla guancia mi fa riemergere da quell'inferno, i cui stralci mi rimangono attaccati impedendomi di aprire gli occhi. Mi agito cercando di liberarmi, inconsciamente scaccio via quel dito con la mano, mentre mi giro da una parte il mio naso va a sbattere contro qualcosa. Di nuovo quel dito sulla mia guancia, ma questa volta per raccogliere una lacrima che non mi ero accorta di aver versato.
Finalmente riesco ad aprire gli occhi e sono due iridi calde e cremisi a rispecchiarsi nelle mie.
Mi ci vuole un attimo di troppo ad analizzare la situazione e quella mano, che mi aveva dolcemente svegliata, si appoggia per intero sulla mia guancia, con il pollice che sfiora la cicatrice della battaglia alla cupola. La mano è tiepida contro la mia pelle, così gentile e nostalgica, che mi spinge a chiedermi se appartenga veramente a lui.
Siamo sempre nella limousine, ma è ferma e siamo soli. Lui è sempre seduto al solito posto, ma io sono sdraiata sul sedile, con la testa poggiata nell'incavo del suo gomito e il suo braccio a cingermi le spalle una stretta gentile che mi fa dimenticare la brutalità di quella del sogno.
Nel momento in cui mi rendo conto dove sono mi alzo di scatto, col solo risultato di strozzarmi con la sua mano ancora china su di me, nella sua stretta tanto dolce quanto ferrea.
-Finalmente ci siamo svegliate-
Tutta la dolcezza è sparita dal suo volto, per lasciare il posto al suo solito ghigno. Sono bloccata, non riesco ad alzarmi.
-Lasciami-
Continuo a dimenarmi, ma non riesco a smuoverlo nemmeno di un millimetro.
-Lasciami!-
Tutte le orribili sensazioni del sogno tornano, così intense da soffocarmi, il suo ghigno diventa ancora più divertito mentre mi guarda dimenarmi inutilmente.
-LASCIAMI!-
Finalmente riesco ad alzarmi, quando lui lascia improvvisamente la presa. Nella paura non mi sono nemmeno accorta di aver urlato. Mi giro e vedo il suo sguardo interrogativo su di me.
-Smettila di entrare nei miei sogni!-
Gli dico non appena riesco a trovare il fiato.
-Prego?-
Irritante, la sua voce è così dannatamente irritante.
-Smettila di fare il finto tonto, l'ultimo sogno era orribile, tu sei orribile!-
Mentre parlo cominciò a tremare, non riesco a impedirlo, sono ancora troppo condizionata.
-Non so di cosa parli, l'ultima volta che sono entrato nella tua mente eravamo a Berlino. Qualunque sogno tu abbia fatto ora era solo tuo-
Le sue parole dure sono come una sferzata di consapevolezza. Mio? Si può sapere da dove è venuto fuori dell'inferno? Tremo, non ho più il controllo sul mio corpo è la paura ad averlo.
Vedendo la paura nei miei occhi il suo tono si addolcisce un poco, nulla di eccezionale ovviamente, rimane comunque il solito rompiscatole pieno di sé.
-Forza, siamo arrivati. È ora di scendere-
Mi dice mentre esce lui per primo dalla limousine.
Mentre apre lo sportello dell'auto vedo uno stralcio del paesaggio fuori, siamo nel garage di casa mia, in Italia. Lui è ancora lì ad aspettarmi per aiutarmi a scendere, scaccio via quella dannata mano, prigione e amorevole carceriera contemporaneamente. La limousine è stata parcheggiata in retromarcia facendo in modo che la parte passeggeri fosse completamente all'ombra, mentre l'altra fa capolino fuori dal garage.
Lo supero e mi dirigo automaticamente verso la porta interna, che permette l'accesso alla casa; per una volta è bello essere in vantaggio rispetto a lui, dopotutto questo è il mio territorio.
Appena entro in casa mi accoglie subito lo spettacolo familiare di mia madre che corre su e giù in cucina per preparare la colazione, la tavola è apparecchiata per cinque, Babbo e Sergei sono già seduti con davanti una ciotola piena di latte e cereali. Appena mi vede mi saluta.
-'giorno-
La voce ovattata per la bocca piena mi strappa un sorriso vero e proprio.
- Buongiorno Seresa-
Il suo sguardo si fissa attontito su di me.
-Non va bene se ti chiamo così?-
So che il diminutivo del nome russo Sergei è Seresa, mi dispiace di averlo messo in imbarazzo ad essere stata così diretta. È che lui mi ispira tranquillità quindi mi è sembrato naturale chiamarlo in quel modo.
-No, no, va benissimo-
Mi dice dopo aver inghiottito in modo decisamente comico. Il sorriso che mi rivolge è così luminoso da far invidia al sole che bagna dolcemente i suoi capelli, quasi a riconoscerli come parte di sé.
"Non credo che a me vada bene, com'è che a me non mi chiami col diminutivo?" la sua voce sardonica nella mia testa mi coglie alla sprovvista e non riesco a fermarmi dall'insultarlo mentalmente e avere il desiderio di avere qualcosa di appuntito, solo per levarmi lo sfizio di tirarglielo in faccia, ricordandomi che sono in cucina e che ci sono molti utensili pronti ad offrirsi per la nobile causa mi viene da ridere. Posso fare a meno di girarmi, so benissimo che è esattamente dietro di me, sento il suo fiato sul collo come una preda col predatore.
-Avanti forza a fare colazione-
Il tono spiccio di mia madre mi salva dalla sgradevole situazione. Ci sediamo entrambi, mamma mi mette davanti una fumante tazza di cioccolata calda mischiata allo stretto caffè italiano, mentre a lui chiede:
-Gregor. Un po' di the?-
La scena è normale, non diversa da quella di tutte le mattine, eppure è così assurda che non so se mettermi a ridere o infilarmi sotto le coperte per non riuscirne mai più, come a nascondermi da un incubo.
-Si grazie, lo prendo volentieri-
Risponde con voce tranquilla e pacata, a quanto pare sono io l'unica a cui fa l'immenso dono del suo essere insopportabile. Non so se sentirmi onorata o versargli addosso il thè bollente.
La tavola è decisamente troppo silenziosa, la sua sola presenza sembra aver ucciso pure la luce del sole, momentaneamente offuscata da una nuvola passeggera, che a quanto pare nonostante il vento non ne vuole sapere di passare.
Lo vedo con la coda dell'occhio, è lì seduto accanto a me a sorseggiare il suo thè da le spalle alla finestra, che, mi accorgo solo ora, ha la sottile tenda tirata. Non spreco tempo a pensare che si sia tirata da sola, so che è stato lui. Ricordare che l'essere seduto accanto a me non è umano e che molto probabilmente nemmeno io lo sono, fa perdere tutte le attrattive alla tazza ancora piena per metà di cioccolata.
Ora basta voglio delle risposte.
-Cosa sono?-
Mi rendo conto a malapena di aver posto la domanda ad alta voce. Tutti smettono di mangiare il silenzio si fa ancora più greve
   
 
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