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Autore: Fabi96    16/03/2015    3 recensioni
La saga di divergent, vista dalla prospettiva di una coppia ancora più coinvolta nella guerra tra le fazioni, una ragazza e un ragazzo uniti nel loro sentimento, separati dai loro valori e dalle loro scelte.
Parlo di Eric, racconto della sua visione di questa rivoluzione, delle due battaglie e delle sue rinunce. Perché anche lui ha rinunciato a qualcosa.
Parlo di una ragazza che cercherà di riportare la pace nella città disastrata di Chicago, mentre Tris e Quattro saranno al di fuori della barriera.
Racconto quella parte di storia che la Roth ci ha mostrato attraverso le telecamere del dipartimento.
Parlo di un amore non compreso, dai suoi stessi protagonisti, di una società distrutta dalla guerra e una generazione perduta.
Io racconterò del fiore di loto, che quando inizia a germogliare è sommerso dall'acqua putrida e impura, ferito da insetti e infastidito dai pesci; infine rinasce, e rimane il lottatore più forte, in una natura ostile.
Genere: Azione, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Eric, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Missing Moments, Movieverse, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ci siamo!! Ragazzi vi scrivo da Vienna! Gita scolastica... Dopo aver cercato disperatamente un Wi-Fi sono riuscita a postare il nuovo capitolo. 
La storia sta arrivando al giro di boa decisivo, penso che ci vorranno ancora cinque capitoli per vedere l'epilogo finale! 
Avete già in mente qualcosa?
La mia speranza è che vi abbia portato completamente fuoristrada tanto da non permettervi di capire cosa possa succedere adesso! Che cattiva!
Ditemi cosa ne pensate
Mi scuso con Kaimy11 se non ho risposto. Ti ringrazio tantissimo per la recensione. Siete sempre presenti!! E grazie anche a Kathline24!!
Buona lettura 
 
 
 
 
 
 
 
Datti una mossa. 
Devi muoverti, devi muovere quel cavolo di dito.
Respira! Cerca di respirare! 
Sputa l'acqua, non ingoiarne più! 
Tra poco sarà tutto finito, tutto. Non farai più casini. Tra poco potrai finalmente riposare.
Puoi sentire di essere arrivato alla fine, ma allo stesso tempo sei tentato da quella sensazione di salvezza, da quella minima possibilità. La senti, e ne sei attratto: il dolore della vita sulla terra è troppo intenso da decidere di non viverlo mai più. 
Cerchi di muovere quel maledetto dito, di respirare, alzare l'addome contro la pesantezza del sonno, di aprire quei dannatissimi occhi, di uscire da quel bianco che ti sta accecando.
Eric, apri quei cazzo di occhi, adesso!
 
Spalancò gli occhi, e si tirò su con uno scatto felino, iniziando ad analizzare il luogo intorno a lui.
Era una stanza piccola, con pareti di legno. Era notte, lo vedeva dalle immense vetrate davanti a lui che davano su un campo buio, ma comunque era visibile il bianco della neve che lo ricopriva. Le mani erano puntellate indietro, per aiutarlo a sostenersi. Il suo respiro era veloce, e ogni boccata di ossigeno che prendeva gli dava una fitta fastidiosa al torace.
Abbassò lo sguardo sulle sue gambe, vedendo finalmente dove si trovava: in un letto, bianco, aveva una coperta che lo copriva fino ai fianchi e indossava una tuta altrettanto candida, una t-shirt esattamente uguale e sentiva il petto stretto.
Afferrò con la mano destra la maglietta e se la tirò su: una fasciatura fatta di bende altrettanto candide gli circondava buona parte del torace dove si ricordava aver sentito la pallottola penetrargli il cuore durante la discesa nelle fogne. Per fortuna non era andata così.
Per fortuna... 
Non ne era sicuro fino in fondo. 
Portò una mano a stropicciarsi gli occhi, distrutto e disperato allo stesso tempo, più che altro sconvolto: il destino l'aveva salvato un altra volta. Possibile che non potesse morire e basta? 
E dove si trovava? Chi si era preso la scocciatura di salvare un fuggitivo moribondo e mezzo affogato? Chi cavolo lo aveva curato? Un pazzo, non c'erano dubbi... Dalle stelle alle stalle, di male in peggio: passate da una stronza, a un pazzo. Qualcuno si stava decisamente divertendo con la sua vita.
Sentì un rumore di chiavistello, girò la testa a destra, verso una porta che non aveva visto perché mimetizzata con le pareti in legno scuro. L'entrata fu appena aperta per far passare un individuo che Eric avrebbe riconosciuto in capo al mondo: il suo incubo.
Non l'aveva mai incontrata nel suo scenario della paura, per fortuna il siero glie lo aveva risparmiato, perché lei poteva benissimo essere al primo posto tra le persone che lo terrorizzavano.
"Non dirmi che sei stata tu?" 
Johanna chiuse la porta alle sue spalle, ci si appoggiò contro, prese un lungo respiro, e percorse la camera, fino ad arrivare a una sedia accanto al letto del ragazzo, la afferrò e si sedette, girata verso Eric. 
Il ragazzo era stupito, ma non lo dava di certo a vedere. Abbandonò la mano che si trovava a mezz'aria sul materasso, cercando invece con l'altra di allentare le fasciature che non gli permettevano di respirare fino in fondo.
Johanna si rialzò dal posto che aveva occupato, e con uno schiaffo allontanò la mano del ragazzo, ammonendolo con lo sguardo.
Si spostò i capelli ribelli e rossi dietro le orecchie, si chinò all'altezza del busto di Eric, e rimise a posto le bende, stringendole con forza.
Ad Eric scappò un lamento di dolore per la fitta ricevuta. Si zitti subito, soffocandola in un grugnito, storse le labbra in una smorfia di fastidio e chiuse gli occhi per sopportarla. 
Si appoggiò all'indietro contro un muro di cuscini.
Johanna tornò al suo posto.
"Se fosse stato per me ti avrei lasciato in quel canale a marcire: sei molto più utile sotto forma di letame."
"La gentilezza fatta persona. Ma?"
Johanna alzò le spalle "Respiravi." 
Colpito e affondato, Eric capì che era meglio non disturbare il can che dorme. Stuzzicarla di più non avrebbe portato a nulla. Doveva essere diretto ma discreto.
Aprì la bocca per parlare, ma la donna lo scavalcò.
"Avevi due costole incrinate per il colpo di pistola, una gamba fuori uso a causa di una ferita da arma da fuoco molto profonda, un polmone collassato, e un proiettile che ci sono volute tre ore per tirare fuori. Ora..." 
Si spostò avanti sulla sedia, avvicinandosi al letto, quasi cercasse di farsi sentire meglio da Eric.
"Come cavolo fai a essere vivo?" 
Eric la fissò e ricambio lo sguardo intenso, ma meno aggressivo rispetto a quello della donna.
"L'erba cattiva non muore mai." Disse. 
"Come è vero."
Tornò seduta dritta sulla sedia, si risistemò il ciuffo di capelli che era sfuggito all'acconciatura di nuovo dietro l'orecchio.
"Sei nella fazione dei pacifici, se non fosse abbastanza chiaro. Sei stato addormentato per un giorno intero, ma noi ti abbiamo trovato solo questa mattina. Sei uscito dalla sala operatoria solo due ore fa, e sei già sveglio." 
A Eric non sfuggì il tono di stupore della donna. 
"Hai perso molto sangue, ma il tuo colorito è normale e il tuo battito è regolare. Dovrai comunque restare qui da noi finché non ti sarai rimesso completamente. Ci vorrano delle settimane ragazzo, quindi calma i bollenti spiriti e mettiti comodo."
"Perché fai tutto questo?" Non era abituato a ricevere nulla senza qualcosa in cambio.
"Perché hai messo incinta mia figlia, traditore. E perché in questo momento la speranza che ho di riabbracciarla e soffocata dalla situazione di terrore che c'è in città, e tu... Tu potresti rappresentare la nostra merce di scambio con la capo fazione degli intrepidi. Non sei tenuto a sapere, ma ormai non sei più una minaccia per nessuno." 
Prese un lungo respiro, come se fosse combattuta se rivelargli la verità.
Eric si zittì, in attesa.
"La città è sotto il potere degli esclusi. Eveline non permette a nessuno di entrare e uscire dalla barriera, men che meno comunicare. Un ora fa è arrivato un gruppo dei nostri dalla città, tra cui un bambino sottoshock: le hanno uccisa la madre davanti agli occhi con un colpo di pistola, così la stessa cosa è capitata nella piazza dei candidi. Jack Kang è stato arrestato, io allontanata..." La voce le si spezzò, ma senza farla sembrare fragile. 
Era questo che aveva sempre terrorizzato Eric: la donna che era Johanna, una donna senza lacrime, senza emozioni spontanee, tutt'altro che pacifica, come se avesse vissuto una vita nel terrore e adesso non potesse far a meno di quella barriera di apatia. Elise l'aveva sempre detto, sua madre era un pilastro per lei, ma nulla di più. Non una madre piena di affetto: rigida, severa, assente. Ma Liz non glie lo aveva mai fatto pesare. Chissà cosa aveva dovuto vivere Johanna per chiudersi in quel modo dai sentimenti. Chissà cosa le aveva fatto passare il padre di Elise. La ragazza non parlava mai ad Eric di quell'uomo, una volta si era osato chiedergli il perché non lo nominasse mai e lei le aveva risposto che non era abituata a parlarne, né a immaginarselo o a ritenere importante una figura paterna nella sua vita. C'era sua madre, e quello bastava. Per Elise c'era lui, e lei si era sempre considerata troppo fortunata, era stata sempre convinta di non meritarlo. 
Ripensando a quello, Eric non poté non sentirsi invadere da un profondo malessere che gli stava annebbiando la mente, il cuore, Gli occhi. 
Evelina riprese a parlare. 
"E di Elise non so nulla! Alcune voci dicono che abbia ucciso lei stessa dei traditori, ma non posso crederci fino in fondo. Lei non si sarebbe comportata così. Non ho idea di dove sia, non so se è... Se è ancora..."  
Eric, leggendo il dolore negli occhi di quella donna, si allungò oltre il bordo del letto e le afferrò la mano, stringendola per rassicurarla: un vero gesta da rigido, complementi Eric! 
"C'è un modo per vedere dove, ma devi portarmi qui uno schermo, un computer, un televisore, qualsiasi cosa che sia collegabile alla rete della sede." Scandì.
"Tu mi hai salvato, ripagherò il debito. Salverò lei." 
 
 
 
Non sentiva le mani, le dita che si muovevano. Quando afferrò la maniglia della porta dell'appartamento non senti il contatto con il metallo freddo. 
Quella missione l'aveva stravolta: tre giorni al gelo della Chicago abbandonata. Lei e Lynn erano state molto brave, venir fuori da quella situazione non era stato per nulla facile.
Tre giorni di gelo, non riusciva a toglierselo di dosso nemmeno premendo il proprio corpo contro il riscaldamento della stanza. Aveva bisogno di una doccia.
Si fiondò in bagno e iniziò a spogliarsi.
Gettò a terra la cintura delle armi, slacciando anche la cintura dei pantaloni e svuotando le tasche dall'auricolare, il gps che depositò sul bordo del lavandino.
Continuava a non sentire il contatto con gli oggetti. 
Si sfilò la giacca pesante, che non aveva impedito comunque di soffrire il freddo.
Era risultato veramente difficile solo ascoltare e osservare quel gruppo di esclusi in quella parte di città dove non c'era nulla, se non macerie e ratti; per un intero giorno erano riuscite a non farsi notare, ma non erano comunque riuscite a ricavare nessuna informazione da passare al centro di controllo. Max le aveva chiesto di essere discrete, di tenere il profilo basso, non dovevano attaccare o mostrare la loro presenza perché quel gruppo di esclusi era troppo importante e non potevano perdere la loro posizione dopo mesi di ricerche. E molto pericoloso.
Liz si sbottonò con grande difficoltà la chiusura dei pantaloni. Soffiava tra i denti per cercare di trattenere i brividi che le percorrevano la pelle e le labbra viola.
Avevano preso troppo freddo, dormito tra pareti gelate. Avrebbe preferito essere colpita da cento proiettili, avrebbe fatto altrettanto male.
Quando si fu liberata dei vestiti, rivolse il proprio sguardo allo specchio: un livido enorme aveva preso forma sul fianco destro del costato: il calcio di quell'imbecille! 
Si accarezzò la parte destra del viso, avvicinandosi al riflesso. Aveva un ematoma all'altezza dell'occhio, ma sarebbe passato in pochi giorni.
L'ultimo giorno era uscita allo scoperto alla ricerca di qualcosa per accendere un fuoco, Lynn era rimasta all'interno di quelle quattro pareti che avevano preso come base in quella zona disastrata; l'avevano trovata, presa per i capelli e malmenata, cercando di cavarle il perché lei era lì, il perché li stesse osservando da giorni, scovando poi Lynn e legandole. 
Le avevano portate al di sotto di quella zona, bendandole, ma loro non erano alle prime armi: avevano memorizzato il tragitto è appena si fossero liberate lo avrebbero comunicato al centro di controllo.
Le avevano divise e interrogate separatamente, Elise non si ricordava molto bene quel frangente, perché prima di farla entrare in quella stanza le avevano tappato la bocca con uno straccio intinto di cloroformio, e l'unico suono chiaro di cui era sicura esseri successo davvero era stato l'urlo di Lynn che pronunciava la parola d'ordine per chiedere aiuto al centro di controllo.
Si era svegliata distesa nel retro di un camion degli intrepidi, con Zeke seduto all'altro capo di esso, Lynn seduta al posto del conducente. 
"Hai fatto incazzare molte persone Elise. Non era una missione per te. Lynn passerà dei guai per averti portata con se, pur avendola ingannata tu stessa." Aveva detto Zeke. Era seduto e appoggiava i gomiti sulle ginocchia, tenendosi le mani tra i capelli corti. 
"Molte persone, o una soltanto?" Aveva risposto. 
Eric glie l'aveva vietato, ma lei non aveva dato retta. Era una missione molto importante, le avrebbe dato punti agli occhi di Max, e lei ne aveva bisogno. Si sentiva inutile: lei non era un allenatrice, ne un informatica che doveva rimanere chiusa dentro le mura della sede. Lei era un soldato, che ad Eric andasse giù o meno. 
Quando erano arrivati nessuno le venne incontro. Lei è Lynn si mossero verso gli uffici di Max, ricevendo da lui una lavata di capo è un ringraziamento per le informazioni che avevamo passato alla sede in quei due giorni. Di Eric nemmeno l'ombra. 
Si buttò sotto l'acqua bollente, segno che nessuno si faceva una doccia da almeno un giorno intero, non era facile il discorso doccia calda alla sede degli intrepidi, nemmeno nelle stanze dei capifazione.
Si lavò, sfregò ogni parte del corpo per riscaldarsi. Le mani stavano riprendendo il senso del tatto e il viso riprendeva il colore sempre pallido, ma meglio di quel blu causato dalla mancata assiderazione. 
Aveva ancora freddo, sin nelle ossa. Sentendo che la doccia non stava migliorando nulla si asciugò, e nuda, tornò in camera. 
Si avviò verso la parte di stanza dove si trovava il suo armadio e armeggiò per trovare un intimo pulito, una canottiera pulita e un pantalone da allenamento. Aveva bisogno di scaldarsi, e l'unica maniera era tirare di box.
Entrò in palestra, non c'era nessuno, era troppo tardi perché ci fosse qualcuno ancora in piedi.
Si posizionò davanti al sacco da box e iniziò con i colpi di base, ma poi si fece prendere dal l'euforia del momento e dalla sensazione di calore che la stava aggredendo. Finalmente! 
Non era solo il caldo, anche la frustrazione: Eric non si era fatto vedere! Se voleva essere arrabbiato con lei, che la affrontasse. Vigliacco! Cosa serviva ignorarla?!
Accelerò i passaggi da un colpo all'altro, respirando tra un movimento e l'altro.
Quando raggiunse il suo limite di sopportazione, si fermò, riprendendo fiato e allentando la presa introno ai pugni.
Si avvicinò agli armadietti al fondo della palestra, riponendo i guantoni e afferrando un asciugamano pulito e profumato di fresco. 
Tornò indietro, per mettere a posto il sacco da box, passando di fianco al muro davanti alle piattaforme del lancio con i coltelli. 
Si accorse dello spostamento, ma era troppo tardi, il coltello era andato a segno, non aveva avuto nemmeno il tempo di irrigidirsi o voltarsi per vedere dove provenisse. 
Vide una ciocca dei suoi capelli arancioni svolazzarle davanti agli occhi e cadere a terra. 
Alzò lo sguardo da terra e lo vide. 
Stava soppesando un altro coltello, guardandola fissa negli occhi. 
"Eric, cosa credi di fare?" Gli urlò, furiosa. Le aveva lanciato un coltello, tagliato i capelli! Ma era impazzito del tutto? 
Portò il braccio teso all'indietro e diede lo slancio per il lancio. Sta volta il coltello si conficcò vicino al fianco di Elise, intrappolando un lembo della sua canottiera contro il pannello di legno. 
Elise afferrò il manico della lama, cercando di tirarlo via e liberarsi, ma le mani non erano abbastanza forti, ancora doloranti dal freddo e dallo sforzo della box. 
"Dami un buon motivo per fermarmi."
Disse, rimanendo posizionato dietro la linea di lancio. 
Fissava la lama che si stava rigirando tra le mani. 
A Elise mancarono le parole, o meglio ancora una scusa  
"Perché non ho fatto nulla di male." 
Lanciò il coltello in aria per afferrarlo poi dalla punta, soppesandolo. 
"Motivo sbagliato."
Tirò il coltello, questa volta più forte di prima. Si conficcò nel pannello al disotto del viso di Elise, accanto al collo, ferendola. 
Liz si fece scappare un gridolino di sorpresa più che di dolore. Un rivolo di sangue percorse il solco del collo. 
"Dammi un buon motivo per fermarmi, Elise." Scandì a denti stretti, ormai con le mani sfornite di coltelli. Serrava i pugni con molta forza, le dita era sbiancate e i muscoli erano in tensione. 
Ora basta! Si era stufata! Era sfuggita a un 'ibernazione, era stata strapazzata da tre omoni esclusi e aveva appena ricevuto una lavata di capo da Max. Eric non sarebbe stato un punto di quella lista. Non comandava lui e non poteva punirla! 
"Perché la colpa è di quello stronzo del mio fidanzato che crede di comandare il mondo e di poter pretendere che io me ne stia nella sede a tenere d'occhio dei bambini!" Gli urlò contro. 
Eric serrò la mascella, chiuse gli occhi prendendo un profondo respiro. 
Quando riaprì gli occhi lo sguardo era cambiato: grigio scuro, quasi nero. A Elise salirono dei brividi lungo la schiena, ma non si scompose. Lei aveva ragione. 
Eric si girò verso il tavolo dove erano posizionati ordinatamente i coltelli, ne afferrò uno e con uno scatto felino si girò e lo lanciò. La lama si conficcò nel pannello, sfiorandole il fianco sinistro. Di nuovo si volse verso il tavolo, ne afferrò un altro e lo tirò: taglio L'aria e colpi il legno, la lama continuava a vibrare vicino alla mano destra di Elise. La ragazza era rimasta ferma, non conveniva muoversi. 
"Ti avevano detto di non andare!" E ne tirò un altro. Le sfiorò la guancia. 
Basta, per favore, basta. Elise non poteva far a meno di avere paura, ma rispose comunque. 
"Tu non puoi ordinare nulla a me!" Gli urlò. 
Eric ne lanciò un altro, che le sfiorò la spalla, procurandole una bruciatura per il contatto durato un millisecondo con la lama. 
"Io sono il tuo capo fazione! Io ti ordino quello che voglio!" Le urlò addosso. 
"No! Sei il mio ragazzo! E non hai seguito il buon senso di un capo, ma l'istinto di un compagno iperprotettivo!" 
Eric si immobilizzò. 
"Stai dicendo che non sarei un buon capo?" Le chiese con tono offeso e furioso, ancora più di prima. 
Elise avvicinò la mano al coltello che le bloccava la canottiera, cercando di sfilarlo. 
Un altra lama si conficcò in quel momento nel punto dove la sua mano stava facendo forza: la tolse appena in tempo prima di vedersela sanguinante. Urlò per la frustrazione. 
"Sei impazzito! Non ho detto quello! È la mia carriera, non puoi intralciarla!"
"E tu non puoi infilarti in situazione da cui non posso tirarti fuori!"
Le urlò di rimando. 
Ecco qual'era il problema. Aveva detto bene: iperprotettivo. Non ne era mai stata sicura al cento per cento, aveva sempre accettato i sentimenti di Eric come lui glie li dava: incerti, rari, intensi e incomprensibili. Non si era mai soffermata sulla possibilità che lui potesse tenerci veramente a lei. O almeno non così tanto. 
"Se ti può interessare, ce la siamo cavata, non si sa come. Non pensavo che saremmo tornate tutte intere. Ho avuto paura Eric."
Era sincera. Il freddo che le percorreva il corpo e le ossa non era per i giorni e le notti al gelo dell'inverno, ma per la paura della morte, scampata non si sa come. Il ricordo del modo in cui quei tre uomini l'avevano picchiata l'avrebbe accompagnata per tutta la vita. 
"E sto provando la stessa paura ancora adesso, e non riesco a farla andare via." Singhiozzò. 
L'ansia delle ultime ore stava venendo fuori nel peggiore dei modi: lacrime. 
Eric mollò i coltelli, facendoli cadere a terra. 
Si lanciò verso i pannelli, afferrando lama per lama, staccandole e facendole tintinnare a terra anche esse. 
Le prese il viso tra le mani ruvide e callose. Calde. Familiari. 
Le asciugò le lacrime, che non era riuscita a trattenere, con i pollici e la strinse a se. 
"Non ti fermerò mai più. Ma quando ti do un ordine devi seguirlo, per il tuo bene. E per la mia sanità mentale." 
La baciò vicino all'occhio, dove si trovava il livido. 
"Glie la farò pagare a quei pezzenti per averti toccata. Quello posso farlo solo io."
Le scappò una risata mista a un singhiozzo, che Eric zittì con un bacio profondo. Le premette una mano sulla nuca, facendole reclinare il volto. 
"Sono iperprotettivo, ma continuerò comunque a proteggerti sempre. Anche adesso che sei sola, ma non lo sei in realtà. Devi resistere, combattere contro il freddo, contro la febbre. Liz combatti! Devi svegliarti! È un sogno, non avere paura. Ti sto guardando e ti sono vicino. "
 
 
Riaprì gli occhi, prendendo il respiro più lungo e rinvigorente della sua vita. 
"Ha aperto gli occhi! È cosciente!" Urlò Zeke. 
"È una buona notizia. Se è cosciente abbiamo qualche ora in più prima del peggio. Dove sono quegli stracci bagnati?!" Urlò un uomo che Liz non riusciva a inquadrare. Sentiva il ventre contratto, la pelle che andava a fuoco, e il freddo che la divorava. 
"La pancia! Fa male!" Singhiozzò. 
"Dottore! La prego!"
"Non possiamo! Eveline ha impedito ogni accesso a farmaci e medicinali! Bisogna aspettare i rimedi dai pacifici."
Non poteva farcela. Non poteva farcela. Chiuse gli occhi e urlò.
"Non arriverà a domani!" Disse Zeke, preso dal panico. 
"Liz non perdere i sensi, stai con me!"
Gli occhi non reggevano, i crampi erano troppo forti. 
"Il bambino." Sussurrò il dottore. 
Spostò le lenzuola del letto della ragazza e le tasto il ventre. 
"E in atto un aborto spontaneo. Non c'è modo di salvarlo." Disse l'uomo sottovoce a Zeke, ma Elise aveva sentito.
"Toglietemelo! Portatelo via! Fa troppo male!"
Urlò, rimanendo senza fiato. E il buio la reclamò. 
 
 
"Sono riuscito a inserirmi nel server delle telecamere della città. Possiamo vedere dove sono tutti."
Eric era intento a collegare i vari canali su quel televisore di decenni fa, seduto vicino a un tavolino nella stanza dell'infermeria dei pacifici.
Johanna era alle sue spalle, più agitata che mai! 
"Trova lei! Trova lei!"
"L'avranno rinchiusa da qualche parte. Lasciami cercare."
Dopo mezz'ora di schermate vuote o immobili, erano comunque le prime ore del mattino, la trovarono, nella loro vecchia camera della sede, stesa in un letto e circondata da due uomini. Si muoveva tra le lenzuola. 
"Attiva l'audio." Gli ordinò Johanna. 
Io ragazzo si immobilizzò, percependo da quelle immagini la verità. 
"Sinceramente pacifica, non ne ho il coraggio."
Johanna lo scavalcò e alzò il volume del macchinario, distinguendo tra i rumori delle onde di trasmissione le urla della figlia, quelle del dottore e la figura di Zeke piegato su se stesso: sembrava disperato. Era molto chiaro quello che stava succedendo. 
Eric aveva perso colore in faccia, aveva mollato tutto e si era alzato, mettendosi le mani tra i capelli corti. Il respiro era accelerato e faceva fatica a trattenere la frustrazione e le lacrime. E ad ogni urlo che veniva fuori dall'apparecchio il suo torace veniva meno di un battito. 
La porta della stanza fu spalancata da una figura femminile con il fiatone. 
"Johanna ci hanno richiesto erbe e medicinali dalla sede degli intrepidi. Cosa facciamo? Rispondiamo?" 
Johanna la raggiunse "Subito, rispondiamo subito! Accordatevi. Fate attenzione a non essere trovati dagli esclusi. Anzi, vengo con te."
Se ne uscì dalla stanza. 
Un altro urlo "Toglietemelo!" E Eric si spezzò: tirò un pugno contro il vetro davanti a lui, incrinandolo e procurandosi numerose ferite sulle nocche. Lo colpì di nuovo, e di nuovo. Un mugugno di dolore gli uscì dalla bocca. 
Se lo meritava. Colpi di nuovo, e di nuovo. Che il dolore lo mangiasse, non si meritava la salvezza, si meritava solo dolore. 
Solo. Dolore. 
 
 
 
 
  
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